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NON È INCARICATO DI PUBBLICO SERVIZIO L’AMMINISTRATORE DELLA PARTECIPATA CHE OPERA SUL MERCATO
di Michele Nico 9 maggio 2022
Materia: società / amministratori

NON È INCARICATO DI PUBBLICO SERVIZIO L’AMMINISTRATORE DELLA PARTECIPATA CHE OPERA SUL MERCATO

 

Secondo la Cassazione, il riconoscimento della qualifica di pubblico ufficiale e dell’incaricato di pubblico servizio non può prescindere da una concezione oggettivo-funzionale delle rispettive nozioni giuridiche, per cui è indispensabile un’attenta valutazione dell’attività svolta dall’agente interessato

 

Ai fini del riconoscimento della qualifica di pubblico ufficiale, non si deve aver riguardo alla natura dell'ente da cui il soggetto dipende, né alla tipologia del relativo rapporto di impiego, ma deve valutarsi esclusivamente la natura dell'attività effettivamente espletata dall'agente, ancorché lo stesso sia un soggetto privato.

Analogamente, l’incaricato di pubblico servizio è colui il quale, a qualunque titolo, presta un servizio pubblico, a prescindere da un rapporto d’impiego con l’ente pubblico.

Sono questi i punti fermi della sentenza n. 5550/2022, con cui la Cassazione Penale, Sez. VI, ha delineato le nozioni di pubblico ufficiale (art. 357 c.p.) e di incaricato di pubblico servizio (art. 358 c.p.) alla luce della riforma introdotta dalla legge 26 aprile 1990, n. 86, che ha accolto una concezione oggettivo-funzionale delle rispettive nozioni previste dalla legge penale.

Questa rigorosa linea interpretativa adottata dalla Suprema Corte ha capovolto l’esito del giudizio riguardante la condotta di mala gestio posta in essere dall’amministratore unico di una società in mano pubblica, dapprima condannato per delitto di peculato dal Tribunale di Torre Annunziata e dalla Corte d’Appello di Napoli, ma infine assolto dalla Cassazione con la sentenza in commento.

La vicenda

Per inquadrare il caso in esame, si premette che l’amministratore unico di cui sopra era alla guida di una Società immobiliare con capitale interamente detenuto da un Comune campano.

L’amministratore, avendo per ragione del suo incarico un’ampia disponibilità di denaro pubblico, con più azioni criminose si era appropriato di notevoli somme mediante l’utilizzo di una carta di credito aziendale, nonché di alcuni beni di valore della Società, tra cui un navigatore satellitare, due telefoni cellulari e altri strumenti informatici.

La Corte d’Appello di Napoli, con la sentenza del 13 settembre 2018, aveva confermato la condanna per peculato emessa dal Tribunale, concedendo però all’imputato il beneficio della sospensione condizionale della pena e applicando allo stesso l’interdizione temporanea dai pubblici uffici, anziché quella perpetua comminata dal giudice di primo grado.

Al che, l’amministratore ha proposto ricorso in Cassazione avverso la decisione della Corte territoriale, ottenendo una pronuncia liberatoria di annullamento senza rinvio della sentenza impugnata.

La tesi della Cassazione

Si precisa che la Corte d’Appello aveva qualificato l’amministratore unico come incaricato di pubblico servizio – condannando quindi l’imputato per delitto di peculato – sulla base dei seguenti elementi di fatto:

-         la Società condotta dall’amministratore era a totale partecipazione pubblica e aveva lo scopo di gestire complessi immobiliari di tipo termale, alberghiero, ricreativo, industriale e commerciale;

-         un siffatto oggetto sociale, ad avviso dei giudici, induceva a ritenere che il Comune socio unico avesse trasferito alla Società una sua funzione istituzionale, relativa alla gestione del patrimonio immobiliare pubblico di cui l’Ente era titolare;

-         il potere di nomina e di revoca dei vertici della Società era affidato direttamente all’Ente pubblico ex art. 2449 c.c.;

-         il Comune era titolare del controllo preventivo e successivo degli atti societari, a conferma della supposta natura pubblica dell’attività svolta.

Come già si è detto, la Suprema Corte si è discostata da questo orientamento, ritenendo che lo stesso non sia conforme alla disciplina vigente, imperniata sul criterio oggettivo-funzionale delle fattispecie penali relative al caso de quo.

Nella sentenza in esame si legge che, agli effetti della legge penale, “l'esercizio della pubblica funzione o del pubblico servizio da parte dell'agente deve essere escluso quando l'attività svolta dal soggetto sia regolata in forma privatistica, anche se ne è parte una persona giuridica pubblica o una società partecipata quasi totalitariamente da un ente pubblico”. 

Ad avviso della Sezione penale, la Società partecipata in questione non era concessionaria di un pubblico servizio, ma svolgeva la funzione di gestione del patrimonio secondo schemi e modalità integralmente privatistiche, al pari di un qualsiasi altro operatore economico del mercato immobiliare.

Questo aspetto, ritenuto di carattere dirimente, ha reso irrilevanti tutti gli indici evocati dai giudici dell’appello per comprovare la natura pubblica dell’attività sociale, con la conseguente necessità di derubricare gli atti di mala gestio posti in essere dall’imputato dalla fattispecie del delitto di peculato a quella dell’appropriazione indebita ex art. 646 c.p.

Per giunta, in ragione del fatto che quest’ultima fattispecie criminosa è soggetta a un termine di prescrizione più breve rispetto al delitto di peculato, è accaduto che il reato commesso dall’amministratore si è estinto per intervenuta prescrizione prima della conclusione del procedimento giudiziario, con la conseguenza che la Suprema Corte si è limitata a prendere atto di tale circostanza e ad annullare senza rinvio la sentenza impugnata.   

 

 

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