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L’assetto della disciplina SPL di rilevanza economica all’indomani del risultato del referendum abrogativo del 12 e 13 giugno 2011: riflessioni minime.
di Gerardo Guzzo 15 giugno 2011
Materia: servizi pubblici / disciplina

L’assetto della disciplina SPL di rilevanza economica all’indomani del risultato del referendum abrogativo del 12 e 13 giugno 2011: riflessioni minime.

L’abrogazione dell’articolo 23-bis del d.l. n. 112/2008, a seguito del referendum del 12 e 13 giugno  d.l. n. 112/2008, nella sua formulazione introdotta dall’articolo 15 del d.l. n. 135/2009, ha “resettato” l’intera disciplina dei SPL di rilevanza economica faticosamente elaborata nel corso degli ultimi dieci anni. Ma quali saranno realmente gli effetti del  referendum abrogativo? Pare evidente che l’intera materia, nell’assenza di una specifica regolamentazione nazionale, debba mutuare le relative norme dai principi generali posti dal dettato comunitario[1] e dalla giurisprudenza sviluppata nel tempo dalla Corte di Giustizia e dagli organi di giustizia amministrativa interni, non senza qualche ragionevole preoccupazione riguardo alla corretta individuazione dei meccanismi di affidamento della gestione. Contrariamente a quanto auspicato dai promotori del referendum abrogativo, l’espunzione dal sistema ordinamentale dell’articolo 23-bis non determina automaticamente il divieto di utilizzo del sistema di gestione dei SPL di rilevanza economica così come delineato dall’architettura della disciplina abrogata. In altri termini, gli affidamenti in house, coerentemente al dettato comunitario, continueranno a costituire una forma di affidamento del tutto eccezionale, ancorata alla ricorrenza degli specifici presupposti individuati dalla giurisprudenza europea: “controllo analogo” e “prevalenza dell’attività”. Riguardo al ricorso a moduli societari misti, basti ricordare che sia la Comunicazione della Commissione europea al Parlamento e al Consiglio, al Comitato economico e sociale europeo e al Comitato delle regioni, risalente al 15 novembre 2005, che la Risoluzione del Parlamento europeo n. 2006/2043 (INI), del 26 ottobre 2006, concordavano nel ritenere le forme di PPP, soprattutto quelle di tipo “istituzionalizzato”, non costituissero certamente l’anticamera di un processo di privatizzazione delle funzioni pubbliche, quanto, piuttosto, un valido strumento alternativo alla stessa privatizzazione. Ciò comporta che le società miste, contro le quali soprattutto si sono abbattuti gli strali dei referendari, non solo appaiono un meccanismo gestionale legittimo ma addirittura auspicabile in quanto alternativo a pericolosi fenomeni di privatizzazione della funzione pubblica. Del resto, lo stesso Parlamento europeo con la citata Risoluzione n. 2006/2043 (INI) ha mostrato particolare sensibilità nei confronti dello sforzo economico sostenuto dal privato investitore, coinvolto nella gestione di un servizio di interesse economico generale, al punto da ritenere opportuno che la durata dell’apporto partecipativo venisse tarata su un torno di tempo sufficiente a garantire l’ammortamento dei costi, fermo restando che alla scadenza del rapporto fosse bandita una nuova gara per la scelta del partner privato al fine di scongiurare il pericolo di stabilizzazione della posizione del socio “operativo”. Appare evidente, allora, come, nella vigenza dei principi comunitari, l’abrogazione dell’articolo 23-bis non centri l’obiettivo che i referendari si erano proposti. La vacatio iuris che si è venuta a creare per effetto dell’abrogazione della disciplina dei SPL di rilevanza economica trova la sua naturale rete di contenimento legislativa proprio nelle disposizioni contenute nel TCE e più precisamente nell’articolo 86, paragrafo 2, trasfuso nell’articolo 106 del TFUE. La norma in parola stabilisce che Le imprese incaricate della gestione di servizi di interesse economico generale o aventi carattere di monopolio fiscale sono sottoposte alle norme dei trattati, e in particolare alle regole di concorrenza, nei limiti in cui l'applicazione di tali norme non osti all'adempimento, in linea di diritto e di fatto, della specifica missione loro affidata. Il che significa che la costituzione di moduli societari misti o, più in generale, l’affidamento a privati della gestione di servizi pubblici di rilevanza economica rimane sempre possibile e la scelta del gestore privato dovrà avvenire d’ordinario con gara, a meno che non vi sia una compromissione, una vulnerazione, della mission propria del servizio economico generale affidato. Simmetricamente, l’abrogazione dell’articolo 23-bis non determina certo l’utilizzo della gestione in house sotto forma di sistema “ordinario” di erogazione del servizio. Il ricorso al fenomeno dell’autoproduzione continua a risultare pesantemente condizionato da tutti i paletti posti dalla giurisprudenza comunitaria e nazionale in tema di “controllo analogo” e di “prevalenza dell’attività”. Certo, l’abrogazione dei commi 4 e 4-bis dell’articolo 23-bis del d.l. n. 112/2008 pone seriamente il problema della verifica dell’opportunità o meno della scelta operata dall’ente affidante che, a questo punto, sarà libero di determinarsi senza alcun controllo anche riguardo ai servizi di valore superiore ai 200.000 euro in ragione dell’abrogazione del d.P.R. n. 168/2010, recante la disciplina di dettaglio dell’articolo 23-bis. Tuttavia, questo non significa che gli enti locali non saranno tenuti a motivare congruamente le proprie scelte di politica gestionale. Al contrario, in una situazione di diritto così strutturata, l’esigenza di una motivazione massimamente articolata e convincente costituisce una necessità insopprimibile. Semmai, il problema che dovrà essere affrontato da subito riguarda la sorte di tutti quei moduli societari misti che nel corso della vigenza dell’articolo 23-bis sono stati costituiti e per i quali, oggi, si pone un problema di coerenza con il dato di diritto positivo sopravvenuto. La questione non è di poco conto, dal momento che in molti casi si tratta di moduli societari che hanno avviato notevoli investimenti che rischiano di essere vanificati dall’esito del referendum. Il problema riguarda soprattutto quelle società municipalizzate quotate in borsa che rischiano un vero e proprio tracollo finanziario con evidenti ricadute anche in termini occupazionali. Altro problema aperto è, indubbiamente, quello della extraterritorialità delle società miste affidatarie di un SPL di rilevanza economica. Posto che, nonostante l’abrogazione dell’articolo 23-bis, il ricorso a tale modello organizzativo-gestionale rimane sempre possibile, resta da capire se, nel silenzio del legislatore, sia consentito o meno l’esercizio dell’attività d’impresa al di fuori dell’ambito territoriale dell’ente costituente o partecipante. La giurisprudenza amministrativa, proprio recentemente, ha interpretato estensivamente l’abrogato comma 9 dell’articolo 23-bis riconoscendo alle società miste una natura sostanzialmente privatistica tale, cioè, da autorizzarne la partecipazione a gare indette da soggetti pubblici diversi da quello costituente[2]. Particolarmente esaustiva e convincente è parsa la ricostruzione ermeneutica operata dai giudici del T.a.r. Calabria, Sezione di Reggio Calabria, che, partendo dalla Comunicazione interpretativa della Commissione europea, n. 2008/C91/02, sull’applicazione del diritto comunitario degli appalti pubblici e delle concessioni ai partenariati pubblico-privati istituzionalizzati, sono giunti ad affermare il principio che il divieto di extraterritorialità si applica “(…) solamente alle società che già gestiscono servizi pubblici locali a seguito di affidamento diretto o comunque a seguito di procedura non ad evidenza pubblica, con la precisazione che rientrano nel concetto di evidenza pubblica (“ovvero”) anche le forme previste dal comma 2, lett. b), dell’art. 23- bis., cit. (…)”[3]. Il che significa l’espresso riconoscimento alle società miste della possibilità di poter operare anche extra moenia. Applicando i principi codificati dalla giurisprudenza amministrativa, peraltro mutuati dal diritto comunitario,  si può concludere che l’ambito di operatività delle società miste non dovrebbe essere inciso dal risultato referendario. In conclusione, gli effetti prodotti dall’abrogazione dell’articolo 23-bis, lungi dall’introdurre nel circuito ordinamentale il principio generale dell’affidamento in house della gestione del servizio pubblico, si limiterebbero a rendere applicabile in subiecta materia la disciplina comunitaria[4]. Com’è noto, la giurisprudenza della Corte di Giustizia ha codificato dei meccanismi di costituzione dei moduli societari misti molto più flessibili di quelli elaborati dalla disciplina abrogata, soprattutto in materia di determinazione delle quote di partecipazione del privato al capitale sociale[5]. In generale, è possibile affermare che resta del tutto immutata la libertà dell’ente pubblico di scegliere tra le diverse opzioni gestionali: ricorso al privato (in forma singola o associata), a moduli societari misti o all’autoproduzione. In ogni caso, la scelta dovrà essere coerente con i principi comunitari. Nell’affidamento della gestione ad un privato o a un modulo societario misto di un  servizio pubblico locale di interesse economico collettivo, allora, sarà doveroso costruire lo svolgimento della gara nel rispetto dei principi di libertà di stabilimento, di reciprocità, di libera concorrenza, di parità di trattamento e di divieto di discriminazione. Diversamente, qualora si opti per un affidamento in house, l’amministrazione sarà tenuta a motivare congruamente le proprie scelte, anche in ragione dell’abrogazione dei commi 4 e 4 bis dell’articolo 23-bis che prevedono la formulazione di un parere da parte dell’AGCM.  Un’ultima annotazione riguarda il comma 2 dell’articolo 4 del d.P.R. n. 168/2010, anch’esso travolto dall’esito della consultazione referendaria. Nello specifico, la norma in parola stabilisce che Nella richiesta del parere di cui al comma 1, esclusivamente per i servizi relativi al settore idrico, l'ente  affidante  può rappresentare specifiche condizioni di efficienza che rendono la gestione «in house» non distorsiva  della  concorrenza,  ossia comparativamente non svantaggiosa per i cittadini rispetto a una modalita' alternativa di gestione dei servizi pubblici locali, con particolare riferimento: a) alla chiusura dei bilanci in utile, escludendosi a tal fine qualsiasi trasferimento non riferito a spese per investimenti da parte dell'ente affidante o altro ente pubblico; b) al reinvestimento nel servizio almeno dell'80 per cento degli utili per l'intera durata dell'affidamento; c) all'applicazione di una tariffa media inferiore alla media di settore. Al riguardo, si tratterà di capire quali parametri verranno utilizzati per giustificare l’affidamento in house della gestione del servizio idrico dal momento che quelli, piuttosto restrittivi, indicati dal regolamento di attuazione dell’articolo 23-bis verranno espunti dal sistema ordinamentale. Il rischio che si annida in una situazione connotata da una completa deregulation del settore è che si alimentino dinamiche societarie che, lungi dal costituire una risposta gestionale adeguata in termini di efficienza, economicità e trasparenza, finiranno per penalizzare proprio i cittadini/consumatori, assecondando delle logiche che poco o nulla hanno in comune con il prevalente interesse generale.

       

 



*Gerardo Guzzo Professore di Diritto Pubblico dell’Economia presso l’Università degli Studi della Calabria.

[1] In questo senso si è espressa anche la sentenza della Corte costituzionale n. 24/2011. Nello specifico i giudici della Consulta hanno stabilito che “(…) Nel caso in esame, all’abrogazione dell’art. 23-bis, da un lato, non conseguirebbe alcuna reviviscenza delle norme abrogate da tale articolo (reviviscenza, del resto, costantemente esclusa in simili ipotesi sia dalla giurisprudenza di questa Corte - sentenze n. 31 del 2000 e n. 40 del 1997 –, sia da quella della Corte di cassazione e del Consiglio di Stato); dall’altro, conseguirebbe l’applicazione immediata nell’ordinamento italiano della normativa comunitaria (come si è visto, meno restrittiva rispetto a quella oggetto di referendum) relativa alle regole concorrenziali minime in tema di gara ad evidenza pubblica per l’affidamento della gestione di servizi pubblici di rilevanza economica (…)”. Per una consultazione integrale del testo si rinvia a www.dirittodeiservizipubblici.it del 26 gennaio 2011.

[2]In questo senso, T.a.r. Calabria, Reggio Calabria, sentenza n. 561 del 16 giugno 2010; Consiglio di Stato, Sezione V, sentenza n. 77/2011. Riguardo a tale ultimo arresto si rinvia per un più incisivo commento a G. GUZZO, Il “nuovo corso” della disciplina dei SPL: Corte Costituzionale e Consiglio di Stato ancora alla ricerca di una strada comune, in www.dirittodeiservizipubblici.it.it; 22 febbraio 2011.

[3] Per un commento sulla sentenza n. 561/2010 si rinvia a G. GUZZO, Le nuove regole dei SPL alla luce della disciplina attuativa introdotta dal d.P.R. n. 168/2010, in www.dirittodeiservizipubblici.it;  22 ottobre 2010.

[4] In terminis: Corte costituzionale, sentenza n. 24/2011; cit.

[5] L’abrogato articolo 23-bis, a differenza della disciplina comunitaria, prevedeva al comma 2, lett. b) che al partner privato venisse attribuita una partecipazione non inferiore al 40% del capitale sociale.

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