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LA RIDUZIONE DELLE SOCIETA’ PARTECIPATE DA ENTI LOCALI
di Costantino Tessarolo 24 marzo 2015
Materia: società / disciplina

LA RIDUZIONE DELLE SOCIETA’ PARTECIPATE DA ENTI LOCALI

 

1.         L’abrogazione delle disposizioni limitatrici della possibilità per gli enti locali di costituire o di partecipare a società.

 

            Numerosi sono stati negli ultimi anni gli interventi del legislatore diretti a contenere il fenomeno della proliferazione delle società partecipate dalle amministrazioni locali.

            La “tecnica” utilizzata dal legislatore per perseguire la predetta finalità è stata, in un primo momento, quella di introdurre divieti (di costituzione di società) o obblighi (di dismissione delle partecipazioni o di privatizzazione) per limitare, appunto, la possibilità per le amministrazioni locali di avvalersi dello strumento societario per svolgere servizi ed attività di loro competenza.

            Tale tecnica è stata abbandonata dalla legge di stabilità 2014 (l. 27 dicembre 2013, n. 147), che, infatti, ha abrogato gran parte delle disposizioni volte, in qualche modo, a impedire la costituzione e/o la partecipazione degli enti locali a società.

 

            In particolare:

 

a)         con il comma 561 dell’art. 1 della l. 147/2013 è stato abrogato il comma 32 dell’art. 14 del d.l. 78/2010 conv. da l. 122/2010.

            A seguito di tale abrogazione sono venute meno le disposizioni che vietavano ai comuni fino a 30 mila abitanti la costituzione di nuove società e il mantenimento, salvo alcune espresse deroghe, delle partecipazioni in società già costituite, nonché la possibilità per i comuni con popolazione tra i 30 mila e i 50 mila abitanti di mantenere più di una partecipazione;

 

b)         con il comma 562 dell’art. 1, l. cit. sono stati abrogati i commi 1,2,3,3-sexies dell’art. 4 del d.l. 95/2012 conv. dalla l. 135/2012.

            A seguito di tale abrogazione sono venute meno le disposizioni  che imponevano lo scioglimento o la privatizzazione delle società strumentali (che avevano realizzato nel 2011 un fatturato superiore al 90% per i servizi forniti agli enti controllanti) e che escludevano dallo scioglimento o dalla privatizzazione le predette società solamente se ricorrevano le “particolari caratteristiche” indicate nel comma 3-bis o se venivano predisposti appositi piani di ristrutturazione e razionalizzazione ai sensi del comma 3-sexies, in entrambi i casi previo parere vincolante, rispettivamente, dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato e del Commissario straordinario per la razionalizzazione della spesa per l’acquisto di beni e servizi;

 

c)         con il medesimo comma 562 sono stati, inoltre, abrogati i commi da 1 a 7 dell’art. 9 del citato d.l. 95/2012 conv. dalla l. 135/2012 (1)

A seguito di tale abrogazione sono venute meno le disposizioni, peraltro, già in parte superate in virtù della sentenza della Corte costituzionale n.   296/2013, che imponevano (anche) agli enti locali la soppressione, l’accorpamento o la riduzione dei relativi oneri finanziari in misura non inferiore al 20% di enti, agenzie e organismi comunque denominati e di qualsiasi natura giuridica e che stabilivano il divieto (anche) per gli enti locali di costituirne di nuovi.           

 

2.         La realizzazione degli obiettivi di finanza pubblica

 

Nell’abrogare le disposizioni che vietavano o limitavano la possibilità per le amministrazioni pubbliche locali di avvalersi di società a partecipazione di maggioranza, diretta o indiretta (o di aziende speciali e istituzioni) per gestire servizi pubblici e strumentali, la l. 147/2013 ha, però, imposto alle stesse società, a decorrere dal 2014, di concorrere “alla realizzazione degli obiettivi di finanza pubblica, perseguendo la sana  gestione dei servizi secondo criteri di economicità ed efficienza” (comma 553, art. 1).

 

Ciò non ha comportato, tuttavia, l’assoggettamento degli organismi partecipati al patto di stabilità interno, com’era previsto dalla precedente normativa, le cui disposizioni (comma 2-bis, ultimo periodo, dell’art. 18 del d.l. 112/2008 conv. dalla  l. 148/2011 per le società partecipate; comma 5-bis dell’art. 114 del t.u. 267/2000 per le aziende speciali e le istituzioni), peraltro mai applicate a causa della mancata emanazione dei decreti ministeriali di attuazione, sono state tutte abrogate dalla legge di stabilità 2014 (v. art. 1, commi 557, 559 e 560) (2)

            Le modalità scelte dal legislatore per fare sì che gli organismi partecipati dagli enti locali realizzino gli obiettivi di finanza pubblica sono, invero, altre.

            In primo luogo, è stata prevista, per i servizi pubblici locali, l’individuazione di parametri standard dei costi e dei rendimenti costruiti nell’ambito della banca dati delle Amministrazioni pubbliche, di cui all’art. 13 della l. 196 del 2009, utilizzando le informazioni disponibili presso le Amministrazioni pubbliche. Per i servizi strumentali i parametri standard di riferimento sono, invece, costituiti dai prezzi di mercato (comma 553, art. 1, l. 147/2013).

            La legge di stabilità 2014 ha, poi, introdotto specifiche misure finalizzate ad evitare che il perpetuarsi di gestioni in perdita possa ripercuotersi negativamente sugli obiettivi di finanza pubblica, che, come si è visto, gli organismi partecipati dagli enti locali sono tenuti a realizzare, proprio attraverso la sana gestione dei servizi secondo criteri di economicità ed efficienza.

A tal fine è stata prevista la cosituzione di un fondo di accantonamento  da parte delle pubbliche amministrazioni locali, che detengono partecipazioni in società  (e in aziende specali e istituzioni), le quali presentino un risultato negativo o saldo finanziario negativo. In tal caso le pubbliche amministrazioni locali partecipanti sono tenute ad accantonare un importo pari al risultato negativo non immediatamente ripianato, in misura proporzionale alla quota di partecipazione (commi 551 e 552, art. 1, l. 147/2013).

            Il comma 551 precisa che per le società che redigono il bilancio consolidato, il risultato di esercizio è quello relativo a tale bilancio; per le sole società che svolgono servizi pubblici “a rete” di rilevanza economica, compresa la gestione dei rifiuti, per risultato si intende la differenza tra valore e costi della produzione ai sensi dell’art. 2425 cod. civ.. Il saldo finanziario riguarda, invece,  i soggetti (come le istituzioni) che adottano la contabilità finanziaria (il saldo finanziario è definito  dal comma 3 dell’art. 31, della l. 12 novembre 2011, n. 183, modif. con l’art. 1, comma 490 della l. 23 dicembre 2014, n. 190).

            Il fondo di accantonamento è vincolato, in quanto destinato a ripianare le perdite subite dal soggetto partecipato; esso può, pertanto, essere “reso disponibile” (cioè svincolato), in misura proporzionale alla quota di partecipazione, nel caso in cui l’ente partecipante ripiani la perdita di esercizio del soggetto partecipato.

            L’ente partecipante ha, tuttavia, altre due possibilità per rendere disponibile la quota accantonata per ripianare le perdite del soggetto partecipato.

            L’ente può, infatti, a tal fine, dismettere la partecipazione (il che richiede che venga indetta una procedura ad evidenza pubblica per la scelta dell’acquirente) o porre in liquidazione il soggetto partecipato (il che presuppone, nel caso di società, che vi sia all’interno della società stessa una maggioranza idonea, com’è nel caso di società unipersonale, per deliberare la messa in liquidazione della società).

            Vi è, comunque, una ulteriore ipotesi in cui l’importo accantonato si rende disponibile per l’ente partecipante, in misura corrispondente e proporzionale alla quota di partecipazione, che si ha quando è il medesimo soggetto partecipato a ripianare in tutto o in parte le perdite conseguite negli esercizi precedenti.

            Il meccanismo di accantonamento sopra descritto decorre dall’anno 2015; la decorrenza “a regime” si avrà, però, dal 2018, posto che, in sede di prima applicazione, per gli anni 2015, 2016 e 2017, è previsto un diverso meccanismo basato sul fatto (storico) che i soggetti partecipati abbiano, nel triennio 2011-2013, realizzato un risultato medio negativo o un risultato medio non negativo.

            Nel primo caso (risultato medio negativo), l’ente partecipante è tenuto ad accantonare, in proporzione alla quota di partecipazione, una somma pari alla differenza tra il risultato conseguito nell’anno precedente e il risultato medio 2011-2013 migliorato del 25% per il 2014, del 50% per il 2015 e del 75% per il 2016; qualora, tuttavia, il risultato negativo sia peggiore di quello medio registrato nel triennio 2011-2013, l’accantonamento è operato nella misura prevista per i soggetti che hanno registrato nel triennio predetto un risultato medio non negativo. Per questi ultimi è, invero, previsto che l’ente partecipante accantoni, in misura proporzionale alla quota di partecipazione, una somma pari al 25% per il 2015, al 50% per il 2016 e al 75% per il 2017 del risultato negativo conseguito nell’esercizio precedente.

            Gli enti partecipanti e i soggetti partecipati dovrebbero, quindi, disporre di almeno un triennio per predisporre e attuare un piano di rientro (o di risanamento come lo definisce il comma 554) dal debito che consenta a detti soggetti di non avere perdite o, quanto meno, se vi sono perdite, che queste siano coperte con il fondo di accantonamento costituito dall’ente o dagli enti partecipanti.

            Nel caso in cui i soggetti gestori dei servizi conseguano un risultato economico negativo sono poi previste, a carico degli amministratori di tali soggetti, delle <sanzioni>, che vanno dalla riduzione dei compensi alla revoca dell’incarico (comma 554, art. 1, l. 147/2013).

            Giova premettere che per “soggetti gestori dei servizi” si devono intendere, ai fini dell’applicazione delle sanzioni di cui trattasi, oltre le aziende speciali e le istituzioni, le società a partecipazione di maggioranza, diretta e indiretta, delle pubbliche amministrazioni locali, limitatamente , però, a quelle che sono “titolari di affidamento diretto da parte di soggetti pubblici per una quota superiore all’80% del valore della produzione“ (limitazione che non è dato rinvenire nei commi 550 e 553 del citato art. 1).

            Ciò premesso, va ora fatto presente che il 1° periodo del comma 554 prevede che le società suddette (e le aziende speciali e le istituzioni), le quali abbiano, “nei tre esercizi precedenti”, conseguito un risultato economico negativo, devono, a decorrere dall’esercizio 2015, procedere alla riduzione del 30% del compenso spettante ai componenti degli organi di amministrazione.

            La riduzione del compenso dovuto agli amministratori dei “soggetti” indicati nel comma 554 è, come ovvio, possibile ove i detti amministratori abbiano diritto a percepire un compenso per l’incarico da essi ricoperto. E’ noto, infatti, che vi sono dei casi in cui la carica di amministratore è “onorifica” (es. amministratori di aziende speciali e istituzioni ex art. 6, comma 2, d.l. 78/2010 e, nella sostanza, quella dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni nominati amministratori di società ai sensi dei commi 4 e 5 dell’art. 4 del d.l. 95/2012 conv. dalla l. 135/2012, come modif. dall’art. 16 del d.l. 90/2014 conv. dalla l. 114/2014).

            Per quel che riguarda i compensi da ridurre è da ritenere, nel silenzio della norma, che essi siano, per gli amministratori delle società partecipate, quelli previsti dal primo e dal terzo comma dell’art. 2389 cod. civ.

            La norma in esame prevede anche una più grave “sanzione” per gli amministratori dei soggetti indicati nel comma 554, che hanno conseguito “per due anni consecutivi” un risultato economico negativo e, cioè, la revoca per giusta causa dell’incarico. La revoca (ricorrendo la suddetta condizione) è obbligatoria, ma non  automatica, dovendo essere deliberata, nel caso di società partecipate, dall’assemblea dei soci. Non sembra, comunque, che per deliberare la revoca sia necessario che il risultato negativo sia dipeso da mala gestio degli amministratori: ai fini della revoca dovrebbe, quindi, essere sufficiente il fatto obiettivo del conseguimento del risultato economico negativo per due anni consecutivi.

            L’ultimo periodo del comma 554 dell’art. 1 della l. 147/2013 stabilisce che le su indicate “sanzioni” (riduzione compenso; revoca per giusta causa) poste a carico degli amministratori dei soggetti menzionati nel comma medesimo non si applicano nel caso in cui il risultato economico di tali soggetti, benchè negativo, sia coerente con un piano di risanamento preventivamente approvato dall’ente controllante.

            La norma ha evidentemente carattere incentivante al perseguimento di una sana gestione dei servizi, come impone il comma 553 del medesimo art. 1.

            A parte la possibilità di adottare il piano di risanamento e la necessità che tale piano venga preventivamente approvato dall’ente che controlla i soggetti di cui al comma 554, null’altro prevede la norma citata. Intanto, nulla è stabilito in merito ai tempi di realizzazione del piano che può, perciò, svilupparsi in più anni, ma non oltre, sembrerebbe, l’esercizio 2018. Né vengono indicati i contenuti del piano, che restano lasciati alla determinazione del soggetto che lo adotta, salvo, come detto, la preventiva approvazione dell’ente controllante. Ciò che conta, in definitiva, è che il piano di risanamento realizzi lo scopo di eliminare il risultato economico negativo. Tale scopo può realizzarsi anche per gradi, nel senso che per ogni esercizio è necessario che il disavanzo, ancorchè permanga, diminuisca sino alla sua totale eliminazione quando il piano di risanamento abbia trovato completa attuazione.

 

3.         La liquidazione delle società partecipate

 

Come si è detto, la legge di stabilità del 2014 ha abrogato gran parte delle disposizioni che vietavano o limitavano la possibilità per le amministrazioni pubbliche locali di avvalersi di società partecipate per gestire servizi pubblici o per fornire servizi strumentali alle stesse amministrazioni.

La legge di stabilità del 2014 ha, tuttavia, introdotto una nuova ipotesi di soppressione delle società partecipate (e delle aziende speciali e delle istituzioni) fondata, però, non più, com’era nelle ipotesi contemplate dalle disposizioni abrogate, su criteri meramente soggettivi, ma su un criterio oggettivo. Ai sensi del comma 555 dell’art. 1 della l. 147/2014 devono, infatti, essere poste in liquidazione, a decorrere dall’esercizio 2017,  le società partecipate di cui al comma 554 (e le aziende speciali e le istituzioni), diverse da quelle che esercitano servizi pubblici locali, che abbiano conseguito un risultato negativo per quattro dei cinque anni precedenti.

La norma ha l’evidente scopo di eliminare le società partecipate da pubbliche amministrazioni locali strutturalmente deficitarie e che costituiscono un peso per la finanza pubblica .

Le società in questione – tra le quali, giova ribadirlo, non sono comprese le società che esercitano servizi pubblici locali -, che si trovano nella condizione suddetta, devono essere poste in liquidazione entro sei mesi dalla data di approvazione del bilancio o rendiconto relativo all’ultimo esercizio. In caso di mancato avvio, entro il predetto termine, della procedura di liquidazione, i successivi atti di gestione sono nulli e la loro adozione comporta responsabilità erariale dei soci.

 

4.         Le dismissioni obbligatorie e quelle incentivate.

 

La liquidazione delle società in perdita prevista dal comma 555 dell’art. 1 della l. 147/2013 è indubbiamente obbligatoria come emerge dalla sanzione della nullità degli atti di gestione compiuti successivamente al termine entro il quale le società stesse devono essere poste in liquidazione.

            L’ordinamento conosce, peraltro, altri casi di dismissione di società o di partecipazioni “obbligatori”. Al riguardo può ricordarsi:

a)         l’art. 13 del d.l. 223/2006 conv. dalla l. 248/2006 con il quale è stato imposto alle società a capitale interamente pubblico o misto costituite da amministrazioni pubbliche regionali e locali di cedere le “attività non consentite” a terzi nel rispetto delle procedure ad evidenza pubblica;

b)         l’art. 3, comma 29 della l. 244/2007 con il quale è stata prevista l’obbligatoria cessione da parte delle amministrazioni pubbliche, nel rispetto delle procedure ad evidenza pubblica, delle società e delle partecipazioni detenute in società aventi “ad oggetto attività di produzione di beni e servizi non strettamente necessarie per il perseguimento delle finalità istituzionali” delle stesse amministrazioni pubbliche.

Tale obbligo è stato ribadito con il comma 569 dell’art. 1 della l. 147/2013 [modif. con l’art. 2, lett. b), d.l. 16/2014 conv. dalla l. 68/2014] , con il quale è stata concessa una proroga di dodici mesi dall’entrata in vigore della stessa l. 147/2013 per effettuare la cessione di dette partecipazioni e previsto che le partecipazioni vietate non alienate entro tale termine cessano ad ogni effetto; la società deve poi, entro i dodici mesi successivi alla cessazione della partecipazione, liquidare in denaro il valore della quota del socio cessato in base ai criteri stabiliti dall’art. 2437-ter, comma secondo, cod. civ.

La sussistenza di obblighi di dismissione di società e partecipazioni, non significa, come ovvio, che le amministrazioni locali non possano sciogliere le società partecipate o cedere a terzi tali società anche se non ricorrono i presupposti stabiliti a tal fine dalle norme dianzi citate. Anzi, il legislatore ha inteso favorire la dismissione e la privatizzazione “volontaria” delle società partecipate, prevedendo, sia pure per un limitato periodo di tempo, alcuni benefici fiscali a favore delle pubbliche amministrazioni cedenti (inserite nel c.d. “elenco ISTAT” di cui all’art. 1, comma 3 della l. 31 dicembre 2009, n. 196) e delle società da esse controllate direttamente o indirettamente che intendono procedere allo scioglimento delle società partecipate o all’alienazione delle partecipazioni detenute in dette società.

In particolare, con il comma 568-bis dell’art. 1 della l. 147/2013 (introdotto con l’art. 2, comma 1 del d.l. 6 marzo 2014, n. 16 conv. dalla l. 2 maggio 2014, n. 68), è stato stabilito che in caso di:

a)         scioglimento della società (o dell’azienda speciale come successivamente disposto con il comma 616 dell’art. 1 della l. 23 dicembre 2014, n. 190) controllata direttamente o indirettamente dalle amministrazioni cedenti:

a-1) gli atti e le operazioni posti in essere in favore delle pubbliche amministrazioni in seguito allo scioglimento della società (o  dell’azienda speciale) sono esenti da imposizione fiscale, incluse le imposte sui redditi e l’IRAP, ad eccezione dell’IVA e che le imposte di registro, ipotecarie e catastali si applicano in misura fissa;

a-2) ove lo scioglimento riguardi una società controllata indirettamente, le plusvalenze realizzate in capo alla società controllante non concorrono alla formazione del reddito e del valore della produzione netta e le minusvalenze sono deducibili nell’esercizio in cui sono realizzate e nei quattro successivi.

            Al fine di poter usufruire dei predetti benefici occorre che lo scioglimento sia in corso o sia deliberato non oltre 24 mesi (in origine 12 mesi prorogati a 24 con il comma 616 dell’art. 1, l. 190/2014, cit.) dall’entrata in vigore del comma 558-bis dell’art. 1 della l. 147/2014. Siccome il comma 568-bis è stato introdotto con la legge di conversione del d.l. 16/2014 e cioè con la l. 2 maggio 2014, n. 68, che è entrata in vigore il 6 maggio 2014, è da ritenere che, per poter usufruire del beneficio in questione, lo scioglimento della società debba essere deliberato al più tardi entro il 6 maggio 2016;

b)         alienazione con procedura ad evidenza pubblica delle partecipazioni detenute alla data di entrata in vigore del citato comma 568-bis (e cioè, come, detto 6 maggio 2014) e contestuale assegnazione del servizio per cinque anni a decorrere dal 1 gennaio 2014.

L’alienazione delle partecipazioni dev’essere in corso alla data di entrata in vigore del comma 568-bis (6 maggio 2014) o deliberata entro 12 mesi (tale termine non è stato modificato diversamente da quello previsto per lo scioglimento delle società partecipate) sempre decorrente dal 6 maggio 2014 (e, quindi, entro il 6 maggio 2015).

Come si è detto, in base alla norma in esame, l’alienazione delle partecipazioni deve avvenire “contestualmente” all’assegnazione del servizio all’aggiudicatario della procedura ad evidenza pubblica “per cinque anni a decorrere dal 1 gennaio 2014”.

L’assegnazione del servizio alla società con effetto retroattivo è, almeno apparentemente, incomprensibile, posto che l’alienazione delle partecipazioni detenute in una società da parte degli enti locali, comportando solo una modifica della compagine sociale, non configura un trasferimento della titolarità dell’affidamento della gestione del servizio, che resta in capo all’immutato soggetto di diritto e cioè alla società stessa.

Ciò induce a ritenere che con la norma in questione, il legislatore si sia, in realtà, voluto riferire al fenomeno della privatizzazione sostanziale della società, ossia al suo passaggio, quale conseguenza dell’alienazione della partecipazione, dalla mano pubblica a quella privata. Lo scopo della norma dovrebbe, allora, essere individuato in quello di limitare la durata di un affidamento “diretto” (solo l’alienazione della partecipazione deve essere effettuata mediante procedura ad evidenza pubblica) ad una società privata al fine di garantire l’osservanza dei principi europei e nazionali di concorrenza, parità di trattamento e non discriminazione.

In tale prospettiva, la data del 1 gennaio 2014, lungi dall’attribuire efficacia retroattiva all’assegnazione del servizio alla società privatizzata, rappresenta solo il dies a quo necessario per stabilire la scadenza dell’assegnazione del servizio a detta società, che non potrà superare il 1 gennaio 2019 e avrà, quindi, una durata effettiva sicuramente inferiore ai cinque anni indicati nella norma.

Nel caso in cui l’alienazione della partecipazione riguardi una “società mista” il comma 568-bis dell’art. 1 della l. 147/2013 attribuisce al socio privato detentore di una quota di almeno il 30% alla data di entrata in vigore dello stesso comma 568-bis (si ricorda che tale comma è stato introdotto con la l. 68/2014 di conv. del d.l. 16/2014 ed è perciò entrato in vigore il 6 maggio 2014) il diritto di prelazione e cioè la preferenza, a parità di condizioni, per l’acquisto della quota di partecipazione dell’amministrazione posta in vendita.

L’amministrazione che intende alienare la quota di partecipazione di cui è titolare è, quindi, tenuta, in considerazione del fatto che l’alienazione deve avvenire mediante una procedura ad evidenza pubblica, ad inserire nel bando o avviso di gara una clausola che preveda che l’aggiudicazione della gara è subordinata al mancato esercizio da parte del socio privato detentore di una quota di almeno il 30% della preferenza ad esso accordata dal citato comma 568-bis.

Il diritto di prelazione dovrà essere esercitato dal socio privato nel termine stabilito dall’amministrazione alienante e la quota posta in vendita potrà essere trasferita al socio privato solo se l’offerta del medesimo sarà pari a quella massima raggiunta mediante la gara.

Il comma 568-bis, infine, prevede che anche in caso di alienazione della partecipazione, ai fini delle imposte sui redditi e dell’IRAP, le plusvalenze non concorrono alla formazione del reddito e del valore della produzione netta e le minusvalenze sono deducibili nell’esercizio in cui sono realizzate e nei quattro successivi.

In argomento appare opportuno far presente che, oltre a quelle previste nel più volte citato comma 568-bis dell’art. 1 della l. 147/2013, vi sono altre disposizioni dirette a favorire, direttamente o indirettamente, lo scioglimento volontario delle società partecipate da amministrazioni locali o la loro privatizzazione.

In tale categoria di disposizioni va, ad esempio, collocato il comma 609, lett. d), art. 1 della l. 190/2014 (che ha aggiunto il comma 4-bis all’art. 3-bis del d.l. 138/2011 conv. dalla l. 148/2011) con il quale è stato stabilito che le spese in conto capitale, ad eccezione delle spese per acquisto di partecipazioni, effettuate dagli enti locali con i proventi derivanti dalla dismissione totale o parziale, anche a seguito di quotazione, di partecipazioni in società individuati nei codici SIOPE E4121 e E4122 e i predetti proventi, sono esclusi dai vincoli del patto di stabilità interno.

 

5.         Il processo di razionalizzazione delle società partecipate

 

L’obiettivo di ridurre le società degli enti locali (e di altre amministrazioni pubbliche) e le partecipazioni da essi detenute in società, in parte, come visto, ridimensionato con la legge di stabilità del 2014, è stato ripreso dal legislatore con la legge di stabilità del 2015 (l. 23 dicembre 2014, n. 190), attraverso, peraltro, una “tecnica” diversa da quella utilizzata in passato.

Con il comma 611 dell’art. 1 della l. 190/2014 è stato, invero, previsto che gli enti locali, (oltre che le regioni, le province autonome di Trento e Bolzano, le camere di commercio, le università, gli istituti di istruzione universitaria pubblici e le autorità portuali) devono avviare, a decorrere dal 1 gennaio 2015, un processo di razionalizzazione delle società e delle partecipazioni societarie, direttamente o indirettamente detenute, allo scopo di ridurre le stesse entro il 31 dicembre 2015, anche tenendo conto dei seguenti criteri:

a)         eliminazione delle società e delle partecipazioni societarie non indispensabili al perseguimento delle proprie finalità istituzionali, anche mediante la messa in liquidazione o cessione (criterio della non indispensabilità);

b)         soppressione delle società che risultino composte da soli amministratori o da un numero di amministratori superiore a quello dei dipendenti (criterio della prevalenza degli amministratori sui dipendenti);

c)         eliminazione delle partecipazioni detenute in società che svolgono attività analoghe o similari a quelle svolte da altre società partecipate o da enti pubblici strumentali, anche mediante operazioni di fusione o di internalizzazione delle funzioni (criterio della analogia delle funzioni);

d)        aggregazione di società di servizi locali di  rilevanza economica (criterio dell’aggregazione);

e)         contenimento dei costi di funzionamento, anche mediante riorganizzazione degli organi amministrativi e di controllo e delle strutture aziendali, nonché attraverso la riduzione delle relative remunerazioni (criterio del contenimento dei costi).

A proposito dei suddetti criteri, va notato che con quello di cui alla lett. a), il legislatore altro non ha fatto se non riprendere e ribadire quanto previsto dal comma 27 dell’art. 3 della l. 24 dicembre 2008, n. 244 (che il comma 611 in esame mantiene, unitamente ai successivi commi 28 e 29, “fermo”), il quale dispone, come già sappiamo (v. sub 4), che le amministrazioni di cui all’art. 1, comma 2 del d.l.vo n. 165 del 2001 (l’elencazione di quest’ultima norma è, peraltro, assai più ampia di quella contenuta nel comma 611) non possono, appunto, “costituire società aventi per oggetto attività di produzione di beni e di servizi non strettamente necessarie per il perseguimento delle proprie finalità istituzionali, né assumere o mantenere direttamente partecipazioni, anche di minoranza in tali società”.

            La circostanza che il comma 611 dell’art. 1 della l. 190/2014 mantenga fermo quanto previsto dal comma 27 dell’art. 3 della l. 244/2007, induce a ritenere che, come stabilisce quest’ultima norma, sia sempre consentita la costituzione di società che producono servizi di interesse generale e l’assunzione e il mantenimento di partecipazioni in dette società (3).

            Il secondo criterio ossia quello delle società aventi più amministratori che dipendenti (o addirittura nessun dipendente) fonda la propria ratio sul presupposto che tali società costituiscano solo un costo (almeno apparentemente inutile), per l’ente locale partecipante.

E’ tuttavia da ritenere che con l’espressione “soppressione” il legislatore non abbia inteso stabilire che le società in questione debbano essere necessariamente sciolte e poste in liquidazione, essendo possibile, ad esempio, anche in questo caso l’accorpamento (a mezzo di fusione) di tali società in altre società appartenenti allo stesso ente locale.

L’elemento della “inutilità” della partecipazione costituisce il  fondamento del successivo criterio, che impone, come si è detto, di “eliminare” le partecipazioni detenute in società che svolgono attività analoghe o similari a quelle svolte da altre società o enti strumentali. E’, invero, di tutta evidenza l’inutilità di mantenere partecipazioni in più società che svolgono le medesime attività o le cui attività sono svolte anche da enti strumentali.

Tale criterio deve ritenersi applicabile anche nel caso in cui un ente locale partecipi ad una società senza, però, conferire ad essa la gestione del servizio, che continua ad essere erogato da altra società partecipata dal medesimo ente locale o affidato a terzi in concessione: è, infatti, evidente che, in tal caso, la partecipazione alla prima società  è del tutto inutile.

Quanto al criterio dell’aggregazione di società, va osservato che, stando alla lettera della legge, tale criterio dovrebbe applicarsi alle sole “società di servizi pubblici locali di rilevanza economica”; limitazione che appare inspiegabile se si considera che lo scopo delle disposizioni di cui trattasi è, come visto, quello di ridurre le partecipazioni societarie degli enti locali (oltre che degli altri soggetti indicati nel primo periodo del comma 611 dell’art. 1 della l. 190/2014). E’, quindi, lecito ritenere che la disposizione in esame debba essere interpretata in modo estensivo (il legislatore cioè minus dixit quam voluit) e che, perciò, sia ben possibile applicare la stessa anche ai servizi privi di rilevanza economica e ai servizi strumentali. Tanto più, va aggiunto, che l’elencazione dei criteri indicati nel più volte citato comma 611 pare debba considerarli non tassativa, ma meramente esemplificativa per cui nulla impedisce che gli enti locali (e gli altri soggetti di cui si è detto) adottino altri criteri e misure per perseguire lo scopo di riduzione delle partecipazioni societarie.

L’ultimo dei criteri elencati nel comma 611 si distingue dagli altri perché esso è volto non a ridurre le società partecipate, ma i costi delle società stesse.

Al riguardo, appare opportuno rilevare che tra i costi che incidono maggiormente sull’andamento economico delle società partecipate dagli enti locali vi sono, come noto, quelli concernenti il personale.

Ed, infatti, non a caso, la legge di stabilità del 2014 aveva riservato una particolare attenzione alle norme relative al personale dipendente dalle società predette attraverso la riscrittura, sia pure parziale, delle due norme fondamentali che disciplinavano la materia, vale a dire il comma 2-bis dell’art. 18 e il comma 7 dell’art. 76 del d.l. 112/2008 conv. dalla l.  133/2008.

Il comma 2-bis dell’art. 18 è stato però integralmente sostituito con l’art. 4, comma 12-bis del d.l. 66/2014 conv. dalla l. 89/2014 e poi modificato con l’art. 3, comma quinquies del d.l. 90/2014 conv. dalla l. 114/2014; il comma 7 dell’art. 76 è stato, invece, addirittura abrogato con l’art. 3, comma 5 del citato d.l. 90/2014.

La nuova normativa recata dal novellato comma 2-bis dell’art. 18 mantiene fermo il principio, al quale le società a partecipazione pubblica locale (e le aziende speciali e le istituzioni) dovranno attenersi, della riduzione dei costi del personale, attraverso il contenimento degli oneri contrattuali e delle assunzioni del personale stesso.

Ciò, però, dovrà avvenire mediante l’emanazione da parte dell’ente controllante di un “atto di indirizzo”, con il quale l’ente medesimo provvederà a definire, per ciascuna società partecipata, criteri e modalità di attuazione del principio di contenimento dei costi, tenendo conto del settore in cui opera la società stessa, nonché delle assunzioni di personale. Le società partecipate (e le aziende speciali e le istituzioni) dovranno, poi, adottare con propri provvedimenti tali indirizzi e, nel caso di contenimento degli oneri contrattuali,  recepirli nella contrattazione di secondo livello.

Come dianzi precisato, con l’art. 3, comma 5, del d.l. 90/2014 conv. dalla l. 114/2014, è stato abrogato il comma 7 dell’art. 76 del d.l. 112/2008 conv. dalla l. 133/2008, che aveva introdotto il divieto, per gli enti locali nei quali l’incidenza delle spese di personale è pari o superiore al 50% delle spese correnti, di procedere ad assunzioni di personale a qualsiasi titolo e con qualsivoglia tipologia contrattuale; i restanti enti potevano procedere ad assunzioni di personale a tempo indeterminato, ma solo nel limite del 40% della spesa corrispondente alle cessazioni dell’anno precedente. Il comma 7 dell’art. 76 aveva, inoltre, fissato il c.d. principio del consolidamento delle spese di personale, in virtù del quale, ai fini del computo della percentuale del 50%, andavano calcolate anche le spese di personale sostenute dalle società a partecipazione pubblica locale totale o di controllo (nonché dalle aziende speciali e dalle istituzioni).

L’art. 3, comma 5, del d.l. 90/2011, nell’abrogare le su riferite disposizioni, ha stabilito che, fermo restando quanto previsto dal comma 2-bis dell’art. 18 del d.l. 112/2008, gli enti locali (e le regioni) sottoposti al patto di stabilità interno devono coordinare le politiche assunzionali delle società partecipate (e delle aziende speciali e delle istituzioni) al fine di garantire anche per le stesse una graduale riduzione della percentuale tra spese di personale e spese correnti.

 

6.         Il piano operativo di razionalizzazione

 

Ai fini dell’attuazione del processo di razionalizzazione delle società partecipate, gli enti locali (e gli altri soggetti di cui si è detto) sono tenuti ad adottare, entro il termine (da ritenere non perentorio) del 31 marzo 2015, un piano operativo di razionalizzazione contenente le modalità e i tempi di attuazione e l’esposizione in dettaglio dei risparmi da conseguire (art. 1, comma 612, l. 190/2014).

Il “piano”, per quel che riguarda gli enti locali deve essere approvato, se si tratta della provincia, dal presidente della stessa o, se si tratta del comune, dal sindaco.

La riferita disposizione, che ha un’evidente funzione acceleratoria e di semplificazione, rappresenta una deroga,  all’art. 42, lett. e), del t.u. 267/2000, che attribuisce alla competenza del consiglio dell’ente locale l’organizzazione dei pubblici servizi e la partecipazione dell’ente locale stesso a società di capitali. Trattasi, peraltro, di una deroga più apparente che reale, in quanto il consiglio dell’ente locale non è affatto escluso dalla realizzazione del piano di razionalizzazione delle società partecipate, ad esso spettando, in virtù appunto della competenza attribuitagli dalla citata norma del t.u. 267/2000, l’adozione dei provvedimenti attuativi del piano stesso (ad es. delibere di scioglimento, liquidazione, ecc. delle società o di mantenimento di quelle in essere ai sensi dell’art. 3, comma 28, l. 244/2007).

Il piano, una volta approvato, deve essere inviato, unitamente ad un’apposita relazione tecnica, alla competente sezione regionale di controllo della Corte dei conti e pubblicato sul sito internet istituzionale dell’amministrazione.

Gli organi tenuti ad approvare il piano – nello specifico, quindi, il presidente della provincia e il sindaco - sono, infine, tenuti a predisporre, entro il 31 marzo 2016, una relazione sui risultati ottenuti in ordine alla riduzione delle società partecipate e delle conseguenti spese. Anche tale relazione deve essere trasmessa alla competente sezione regionale di controllo della Corte dei conti e pubblicata nel sito internet istituzionale dell’amministrazione. La pubblicazione del piano e della relazione costituisce obbligo di pubblicità ai sensi del d.l.vo 14 marzo 2013, n. 33 per cui nel caso venga omessa è attivabile l’istituto dell’accesso civico (art. 5) e sono applicabili le sanzioni stabilite dall’art. 46.

Giova ancora aggiungere che, ai sensi del comma 614 dell’art. 1 della l. 190/2014, nell’attuazione dei piani operativi si applicano le disposizioni di cui all’art. 1 commi da 563 a 568-ter della l. 147/2013 per quel che concerne i processi di mobilità del personale in servizio (v. infra) e il comma 568-bis del medesimo art. 1 l. cit. per quel che riguarda il regime fiscale delle operazioni di scioglimento e alienazione delle società partecipate (v. sub 4), con l’avvertenza che quest’ultima disposizione si applica agli atti finalizzati all’attuazione dei piani operativi deliberati entro il 31 dicembre 2015.

 

7.         La mobilità del personale

 

Le disposizioni recate dai commi da 563 a 568-ter, art. 1 della l. 147/2013 in tema di mobilità del personale si applicano, come detto, anche nell’attuazione dei piani operativi di razionalizzazione delle società e delle partecipazioni societarie direttamente o indirettamente possedute da amministrazioni pubbliche.

I processi di mobilità del personale dipendente dalle predette società o da loro enti strumentali (con esclusione del personale dipendente da società emittenti strumenti finanziari quotate in mercati regolamentati e dalle società dalle stesse controllate)  possono, ai sensi della l. 147/2013, essere realizzati:

a)         nel caso in cui le società rilevino “eccedenze di personale” determinate da esigenze di riorganizzazione delle funzioni e dei servizi esternalizzati, nonché di razionalizzazione delle spese e di risanamento economico finanziario secondo appositi piani industriali (comma 564, art. 1);

b)         nel caso in cui l’incidenza delle spese di personale sia pari o superiore al 50% delle spese correnti (comma 565, art. 1);

c)         nel caso di scioglimento delle società controllate da amministrazioni pubbliche ( e dalle aziende speciali) i cui dipendenti sono ammessi di diritto alle relative procedure [comma 568-bis, lett. a), art. 1, inserito dall’art. 2, comma 1, lett. a-bis, del d.l. 16/2014 conv. dalla l. 68/2014].

E’ da avvertire che per realizzare processi di mobilità non è necessario che vi sia un trasferimento di attività dall’ente locale ad una società controllata o da una società ad un’altra società, essendo possibile attuare la mobilità del personale anche al di fuori delle ipotesi stabilite dall’art. 31 del d.l.vo 165/2001. E’, invece, escluso che la mobilità possa essere attuata tra le società partecipate e le pubbliche amministrazioni (comma 563, art. 1, l. 147/2013).

 

Le procedure di mobilità possono essere promosse dalle amministrazioni controllanti mediante l’adozione di “atti di indirizzo” volti a favorire, prima di avviare nuove procedure di reclutamento di risorse umane da parte delle società controllate l’acquisizione di personale a mezzo, appunto  di procedure di mobilità  (comma 564, art. 1, l. 147/2013).

Le procedure in questione possono essere attuate anche nell’ambito della stessa società controllata mediante il ricorso a forme flessibili di gestione del tempo di lavoro.

Le dette procedure possono, inoltre, essere realizzate tra società controllate dal medesimo ente locale mediante la riallocazione totale o parziale del personale in eccedenza dall’una all’altra società.

L’attuazione da parte delle società controllate delle procedure di mobilità avviene a seguito di un “accordo” tra di esse, che deve, peraltro, essere proceduto da un’informativa da inviare alle rappresentanze sindacali operanti presso la società e alle organizzazioni sindacali firmatarie del contratto collettivo applicato dalle società stesse (commi 563 e 565, art. 1, l. cit.).

Tale informativa – da comunicare anche alla Presidenza del Consiglio dei ministri-Dipartimento della funzioni pubblica – deve indicare “il numero, la collocazione aziendale e i profili del personale in eccedenza” (comma 565, art. 1, l. cit.).

Il comma 566 dell’art. 1, della l. 147/2013, riprendendo quanto stabilito dal comma 5 dell’art. 33 del d.l.vo 165/2001, prevede che la riallocazione totale o parziale del personale in eccedenza deve avvenire entro “dieci gironi” dal ricevimento della informativa. E’, tuttavia, da segnalare che con il comma 567-bis dell’art. 1 della l. 147/2013 (inserito con l’art. 5, comma 2, del d.l. 90/2014 conv. dalla l. 114/2014) è stato stabilito che le procedure attivate dagli enti locali e dalle società controllate per la riallocazione totale o parziale del personale in eccedenza devono concludersi entro sessanta giorni dall’”avvio”. Ciò induce a ritenere che la disposizione che prevede che la riallocazione del personale deve avvenire entro dieci giorni dal ricevimento della informativa sia da considerare implicitamente abrogata o, al più, se ancora in vigore, modificata nel senso che il termine di dieci giorni decorre dallo spirare del termine di sessanta giorni stabilito per la conclusione della procedura per la riallocazione del personale in esubero.

Individuato il personale in eccedenza o in esubero (è da notare che  la l. 147/2013 non  indica i criteri per individuare tale personale), questo può essere trasferito ad altre società controllate dal medesimo ente locale o dai suoi enti strumentali. In ogni caso, il trasferimento richiede, come detto, che vi sia un accordo tra le società controllate. Non è, invece, necessario il consenso dei lavoratori trasferiti (comma 563, art. 1, l. 147/2013). Il personale della società trasferito può, però, chiedere alla società da cui è dipendente o alll’amministrazione controllante la società, in via subordinata, di essere ricollocato nell’organico della stessa o in altra società in una qualifica inferiore (comma 567-bis, art. 1, l. 147/2013 inserito dall’art. 5, comma 2, d.l. 90/2014 conv. dalla l. 114/2014).

La l. 147/2013 contempla anche l’ipotesi che dopo l’espletamento della procedura per la riallocazione del personale in esubero vi sia del personale che risulti privo di occupazione. Il comma 568-ter dell’art. 1 della citata legge [inserito dall’art. 2, comma 1, lett. a-bis) del d.l. 16/2014 conv. dalla l. 68/2014]prevede che, in tal caso, il detto personale “ha titolo di precedenza a parità di requisiti, per l’impiego nell’ambito di missioni afferenti a contratti di somministrazione di lavoro stipulati, per esigenze temporanee e straordinarie, proprie o di loro enti strumentali, dalle stesse pubbliche amministrazioni”. Ora, al di là del significato oscuro della riferita disposizione, sta il fatto che anche al personale in esubero rimasto privo di occupazione a seguito dei processi di mobilità in questione, dovrà trovare applicazione il d.l.vo 4 marzo 2015, n. 22, recante disposizioni per il riordino della normativa in materia di ammortizzatori sociali in caso di disoccupazione involontaria e di ricollocazione dei lavoratori disoccupati.

E’, infine, da ricordare che la legge di stabilità del 2014 stabilisce espressamente che le posizioni dichiarate eccedentarie non possono essere ripristinate neanche mediante nuove assunzioni (comma 565, art. 1).

Per quel che riguarda i lavoratori trasferiti, è previsto che ad essi si applicano i commi 1 e 3 dell’art. 2112 cod. civ. (comma 563, art. 1, l. cit.). Ai lavoratori riallocati sono, pertanto, garantite la continuità dei rapporti di lavoro con il cessionario e la conservazione di tutti i diritti acquisiti. Il cessionario è poi tenuto ad applicare ai detti lavoratori i trattamenti economici e normativi previsti dai contratti collettivi nazionali, territoriali e aziendali vigenti alla data del trasferimento, fino alla loro scadenza, salvo che siano sostituiti da altri contratti collettivi applicabili all’impresa del cessionario. L’effetto di sostituzione si produce, peraltro, solo fra contratti collettivi del medesimo livello.

 

La legge di stabilità 2014 prevede un’altra ipotesi di mobilità del personale, in parte ripresa dal comma 6 dell’art. 33 del d.l.vo 165/2001.

Per la gestione delle eccedenze di personale è, infatti, prevista l’ulteriore possibilità che gli enti controllanti e le società controllate concludano con le organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative accordi collettivi “finalizzati alla realizzazione di forme di trasferimento in mobilità dei dipendenti in esubero presso altre società dello stesso tipo operanti anche al di fuori del territorio della regione ove hanno sede le società interessate da eccedenze di personale” (comma 567, art. 1, l. 147/2013). Tale procedura deve concludersi entro novanta giorni dall’avvio (comma 567-bis, art. 1, l. cit., inserito con l’art. 5, comma 2 del d.l. 90/2014 conv. dalla l. 114/2014).

 

Al fine di favorire processi di mobilità, la legge di stabilità 2014 contempla una particolare forma di incentivazione costituita dalla possibilità, per le società controllate interessate da eccedenze di personale, di farsi carico per un periodo massimo di tre anni, di una quota parte non superiore al 30% del trattamento economico del personale trasferito, nell’ambito delle proprie disponibilità di bilancio e senza nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica. Le somme a tale scopo corrisposte dalla società cedente alla società concessionaria non concorrono alla formazione del reddito imponibile ai fini dell’imposta sul reddito e dell’imposta regionale sulle attività produttive.

 

NOTE:

(1) Con il comma 149 dell’art. 1 della l. 7 aprile 2014, n. 56 [abolizione province] è stata prevista la predisposizione da parte del Ministro per gli affari regionali e delle autonomie di appositi programmi al fine, tra l’altro, “di procedere all’attuazione di quanto previsto dall’art. 9 del d.l. 6 luglio 2012, n. 95 convertito, con modificazioni, dalla l. 7 agosto 2012, n. 135”. I commi da 1 a 7 dell’art. 9 del d.l. 95/2012 sono stati, però, abrogati con l’art. 1, comma 562, lett. a), della l. 147/2013, mentre i restanti commi (da 7-bis a 7-quater) non necessitano di alcun intervento attuativo.

 

(2) Giova ricordare che con sentenza n. 325 del 2010 la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 23-bis, comma 10, lett. a), prima parte del d.l. 112 del 2008 modif. dall’art. 15, comma 1, del d.l. 135 del 2009 conv. dalla l. 166/2009, nella parte in cui assoggettava i soggetti affidatari diretti di servizi pubblici locali al patto di stabilità.

 

(3)       Il comma 27 dell’art. 3 della l. 244/2007 ammette anche la possibilità di costituire società che forniscono servizi di committenza o di centrali di committenza a livello regionale a supporto di enti senza scopo di lusco e di amministrazioni aggiudicatrici di cui all’art. 3, comma 25 del d.l.vo 163/2006 e l’assunzione di partecipazioni in tali società da parte delle amministrazioni di cui all’art. 1, comma 2, del d.l.vo 165/2001.

 

 

 

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