HomeSentenzeArticoliLegislazionePrivacyRicercaChi siamo
Alcune osservazioni sulle "Linee guida per l'attuazione della normativa in materia di prevenzione della corruzione e della trasparenza da parte delle società e degli enti di dir.priv. controllati e partecipati dalle pp.aa. e degli enti p.e."
di Perfetti, Maltoni, Goisis, Antonioli 15 aprile 2015
Materia: pubblica amministrazione / trasparenza

alcune osservazioni sulle “linee guida per l’attuazione della normativa in materia di prevenzione della corruzione e trasparenza da parte delle società e degli enti di diritto privato controllati e partecipati dalle pubbliche amministrazioni e degli enti pubblici economici”

 

I.                   Premessa

Le “Linee Guida” – come viene precisato nella Premessa delle medesime – tenuto conto della disorganicità delle disposizioni contenute nella l. n. 190/2012 e nei decreti delegati attuativi riguardanti le società e gli enti di diritto privato controllati e partecipati, direttamente e indirettamente da pubbliche amministrazioni, mirano ad orientare dette società ed enti nell’applicazione della normativa di prevenzione della corruzione e della trasparenza “con l’obiettivo primario che essa non dia luogo ad un mero adempimento burocratico, ma venga adattata alla realtà organizzativa dei singoli enti”.

Quest’ultima considerazione si muove esattamente nella direzione che, nel presentare il “Manifesto per una riforma di sistema delle società a partecipazione pubblica”, abbiamo inteso indicare, o meglio che è necessario procedere ad riordino complessivo della normativa sulle società pubbliche sulla base della fondamentale distinzione tra società–imprese pubbliche e società pubbliche quasi-amministrazioni (in cui espresse e significative deviazioni legali dal tipo società di capitali suggeriscano una qualificazione pubblicistica). In altri termini, mentre nella prima ipotesi gli enti pubblici, che decidano di perseguire i loro obiettivi (di interesse generale) attraverso l’istituzione o la partecipazione al capitale di società commerciali, dovrebbero prendere atto che il regime delle società e quello delle loro attività sono delineati dal codice civile, nella seconda ipotesi il ricorso alla società di capitali costituisce soltanto lo strumento utilizzato dalle amministrazioni socie per conseguire efficienze aziendali.

Nella prospettiva indicata, sia il legislatore che intenda riformare la disciplina delle società pubbliche che il regolatore pubblico che dia indicazioni sull’applicazione della normativa applicabile a dette società, a nostro avviso, dovrebbe tener conto effettivamente della realtà organizzativa degli enti societari, la quale muta in ragione della distinzione sopra indicata (i.e. quella tra società–imprese pubbliche e società pubbliche quasi-amministrazioni).

Proseguendo, dunque, nella riflessione avviata con la presentazione del “Manifesto per una riforma di sistema delle società a partecipazione pubblica” riteniamo opportuno proporre alcune riflessioni con riferimento alle “Linee Guida” in consultazione pubblica, relativamente alla parte dedicata alle società controllate e partecipate, direttamente e indirettamente da pubbliche amministrazioni regionali e locali.

1.      Coerentemente a quanto si è evidenziato al punto 1. Premessa, a nostro avviso le misure indicate nelle “Linee Guida”, destinate ad incidere anche sui profili organizzativi degli enti societari, dovrebbero essere diversificate in ragione non tanto di un criterio fondato sulla ‘misura’ della partecipazione societaria detenuta da enti pubblici (i.e. la sussistenza o meno di un partecipazione di controllo in mano pubblica), quanto su un criterio che distingua le società in ragione del loro regime (rectius: del fatto che la partecipazione sia o meno detenuta in un’impresa pubblica). Se infatti si opta per quest’ultimo criterio, occorre prendere atto che la struttura di un’impresa pubblica è propriamente quella di un’organizzazione privata e non è equiparabile a quella di un’amministrazione pubblica.

 

2.      I dirigenti delle imprese pubbliche non sono assimilabili ai dirigenti pubblici, anche in considerazione del rapporto sussistente tra questi ultimi e gli organi politici e di indirizzo politico. Non soltanto i rapporti di lavoro e quelli di ufficio dei dirigenti pubblici sono sottoposti ad una disciplina di carattere speciale – in ragione delle irriducibili diversità che ne connotano il ruolo e le funzioni all’interno delle organizzazioni amministrative – ma anche le responsabilità che essi assumono sotto il profilo gestionale non sono equiparabili a quelle proprie della dirigenza nelle imprese private o pubbliche. Le dinamiche che si creano all’interno di un’impresa, ad esempio tra il management e i dirigenti, sono ben diverse da quelle che caratterizzano il rapporto politica/dirigenza nelle pubbliche amministrazioni. Occorre, poi, tener conto che il ruolo e i compiti dei dirigenti di una società-impresa pubblica, non muta a seconda della ‘misura’ della partecipazione al capitale sociale di un ente pubblico.

2.1.       Se si prende atto delle rilevanti differenze che sussistono tra dirigenti delle p.a. e dirigenti delle imprese pubbliche e private, appare impropria l’applicazione a questi ultimi di certe regole che si vorrebbero introdurre in tema, ad esempio, di individuazione del responsabile della prevenzione della corruzione e dei compiti al medesimo spettanti. In particolare, nelle società controllate da amministrazioni pubbliche, si propone di individuare quest’ultimo in uno dei dirigenti delle società, proprio sulla base di una supposta – ma inesistente – assimilazione ai dirigenti pubblici. Si assumono evidentemente come veri i seguenti sillogismi: le società in controllo pubblico sono assimilabili a p.a., in ragione del fatto che le prime non diversamente dalla seconde perseguono un interesse pubblico; i dirigenti di dette società in virtù del controllo pubblico non sono propriamente dirigenti di organizzazioni private; tali dirigenti sono da equiparare ai dirigenti pubblici. Nel caso di specie, detta equiparazione verrebbe ad essere rafforzata mediante la previsione della formalizzazione dell’atto di nomina del dirigente a responsabile della prevenzione della corruzione nelle società pubbliche, nonché dell’atto di revoca del medesimo, atto, quest’ultimo, che dovrebbe essere anche motivato (si v. punto 2.1.2. delle “Linee Guida”). Com’è evidente, attraverso una forzata assimilazione (ben oltre il dettato normativo richiamato) si tende ad inserire un ulteriore elemento di deroga rispetto alla disciplina civilistica applicabile alle società di capitali, anche con riferimento a società ascrivibili alla categoria delle imprese pubbliche, sulla base del solo rilievo del controllo in mano pubblica.

2.2.       Le imprese pubbliche dovrebbero dunque essere assimilate non ad amministrazioni pubbliche ma ad imprese private. In detta prospettiva, ritenendo tuttavia opportuno estendere certe regole rivolte a prevenire la corruzione in enti societari in cui sono investite risorse pubbliche, alle società controllate da p.a. si potrebbero applicare soltanto le regole che si ipotizza siano riferibili alle società soltanto partecipate da enti pubblici (si v. il punto 2.2.1. di tali “Linee Guida”): i.e. regole più flessibili, improntate ad una logica di semplificazione, non tali, dunque, da determinare inutili appesantimenti burocratici.

Dal momento che l’applicazione di dette regole incide in modo significativo sui profili organizzativi degli enti societari, essa dovrebbe trovare fondamento in un criterio di stretta proporzionalità tra mezzi (i.e. le misure organizzative da adottare) e fini (i.e. gli interessi pubblici tutelati nella prevenzione dei fenomeni corruttivi).

2.3.       Occorre poi tener conto che, se, come si è cercato di chiarire, il punto di partenza non può che essere costituito dal concetto di impresa e si valutano le ragioni che hanno portato nel 2001 ad introdurre una disciplina sulla responsabilità amministrativa degli enti e dei soggetti collettivi (i.e. responsabilità da reato), i presidi di garanzia e le misure organizzative, che si possono prevedere al fine di prevenire fatti corruttivi, dovrebbero essere individuati tra quelli già previsti da detta normativa. In altri termini, nelle imprese pubbliche – a prescindere dalla misura della partecipazione pubblica detenuta – occorrerebbe investire il già esistente organismo di vigilanza, istituito ai sensi del d.lgs. n. 231/2001, dei compiti che si vorrebbero attribuire al responsabile della corruzione ed estendere il modello organizzativo al fine di impedire che siano commessi i reati previsti dalla l. n. 190/2012 nonché i reati contro la p.a. e che si verifichino situazioni nelle quali interessi privati condizionino impropriamente l’azione delle amministrazioni, evitando in tal modo di addivenire alla redazione di un autonomo Piano di prevenzione della corruzione. Un organismo di vigilanza, composto soltanto o in maggioranza da soggetti esterni, diversamente dalla soluzione ipotizzata nelle “Linee Guida” con riguardo alle società in controllo pubblico, presenta il vantaggio di assicurare un’effettiva indipendenza nella valutazione delle misure organizzative, della loro efficacia ed adeguatezza, nonché di quelle dei programmi formativi realizzati dall’impresa pubblica al fine di prevenire la commissione dei predetti reati. Se invece, come si ipotizza, la nomina e la revoca del responsabile della prevenzione della corruzione – che dovrebbe essere un dirigente o altro funzionario della società o addirittura un amministratore sfornito di deleghe operative – costituiscono prerogative del Consiglio di amministrazione o dell’amministratore unico, oltre a non garantirsi la predetta indipendenza di giudizio, si determina una situazione che non è esente da rischi di conflitti di interesse, posto che il dirigente o il funzionario, che è sottoposto ai poteri di gestione del management, sarebbe poi chiamato a valutare la idoneità e l’adeguatezza delle misure organizzative poste in essere dall’organo di amministrazione della società, in attuazione del Piano di prevenzione della corruzione. Se dunque l’indipendenza di giudizio non può essere garantita in un’impresa da dirigenti e funzionari in ragione della loro sottoposizione ai poteri di gestione esercitati dal management, ben si comprende come una misura di tal fatta risulti del tutto inefficace e non adeguata alla tutela dei fini di interesse pubblico che si intendono perseguire.

2.4.       Né, d’altro canto, con riferimento alle misure adottabili al fine di prevenire la commissione di fatti corruttivi, sono individuabili differenze sostanziali tra imprese soltanto partecipate e imprese controllate da amministrazioni pubbliche. Al riguardo, è sufficiente osservare che, in molti casi, anche società miste pubblico-private, ad esempio quelle costituite per la gestione di servizi di interesse economico generale, sono imprese pubbliche in controllo pubblico, nelle quali, spesso, l’amministratore delegato o il direttore generale è nominato dal socio privato operativo.

2.5.       Non sembra una soluzione adeguata e comunque rispondente al criterio di semplificazione quella di prevedere un coordinamento tra la figura del responsabile della prevenzione della corruzione e l’organismo di vigilanza istituito in attuazione del d.lgs. n. 231/2001. Questo sdoppiamento di ruoli moltiplica gli adempimenti burocratici: sulla base di distinti modelli organizzativi (uno per evitare la commissione dei c.d. reati-presupposto ex d.lgs. n. 231/01 e l’altro per impedire che siano commessi fatti corruttivi ex l. n. 190/2012) i responsabili delle unità organizzative interne alla società (key officers), sono tenuti ad inviare distinti flussi informativi all’organismo di vigilanza e al responsabile della prevenzione della corruzione, i quali, ciascuno per la propria competenza, sono tenuti ad analizzarli (quasi sempre avvalendosi del qualificato supporto di esperti esterni) e ad individuare le misure organizzative da proporre alla società al fine di ridurre i rischi di commissione dei reati, nonché programmare specifiche attività formative rivolte ai dirigenti e ai dipendenti, redigere distinti report, ecc. Si tratta, come ben si comprende, di adempimenti che appesantiscono enormemente la gestione aziendale e che non rendono agevole neppure realizzare l’ipotizzato coordinamento tra l’organismo di vigilanza e il responsabile della prevenzione della corruzione. Quanto, poi, all’ipotesi di individuare il responsabile della prevenzione della corruzione – che si prevede debba comunque essere un dirigente o un funzionario (si v. punto 2.1.2. VIII cpv delle “Linee Guida”) – in uno dei componenti dell’organismo di vigilanza, se presenta il vantaggio di agevolare il confronto e il coordinamento tra i medesimi, non fa però venire meno la duplicità dei ruoli – che rimangono distinti – e non assicura, per le ragioni già indicate, l’indipendenza di giudizio del responsabile della prevenzione della corruzione.

 

3.      Un’altra misura organizzativa indicata nelle “Linee Guida”, attuabile sia pure secondo diverse graduazioni, è quella della rotazione dei dirigenti. Detta rotazione non è quasi mai realizzabile se non forse in grandi società multi-utility quotate in mercati regolamentati. E’ del tutto evidente infatti che, di solito, nelle società c.d. chiuse, partecipate da amministrazioni locali e regionali vi è un numero limitato di dirigenti, di regola assunti in ragione di competenze professionali specialistiche. Per quanto concerne, invece, la distinzione delle competenze all’interno della società – misura proposta come alternativa a quella della rotazione dei dirigenti – dovrebbe già essere prevista dai modelli organizzativi aziendali, adottati in attuazione del d.lgs. n. 231/01.

 

4.      Infine, per quanto attiene al responsabile della trasparenza appare opportuno individuarlo in un dirigente o altro funzionario della società. Com’è noto, con l’art. 11 d.lgs. n. 33/2013 – che è stato sostituito dall’art. 24-bis, d.l. 24 giugno 2014, n. 90, conv dalla l. 11 agosto 2014, n. 114 – la disciplina in tema di trasparenza è stata estesa agli enti di diritto privato in controllo pubblico “limitatamente alle attività di interesse pubblico”. Ciò ha comportato, in particolare, la sottoposizione delle società controllate da amministrazioni pubbliche a tutti gli obblighi di trasparenza previsti per queste ultime. Tuttavia, alcune disposizioni del d.lgs. n. 33/2013 non appaiono di agevole applicazione agli enti societari, essendo state concepite dal legislatore per le amministrazioni pubbliche, come ad es. l’art. 5, comma 4 di tale decreto, ove si stabilisce, con riguardo all’esercizio del diritto civico, che, “nei casi di ritardo o mancata risposta il richiedente può ricorrere al titolare del potere sostitutivo di cui all'articolo 2, comma 9-bis della legge 7 agosto 1990, n. 241, e successive modificazioni, che, verificata la sussistenza dell'obbligo di pubblicazione, nei termini di cui al comma 9-ter del medesimo articolo, provvede ai sensi del comma 3”. Occorre, infatti, considerare che il rinvio all’art. 2, comma 9-bis, l. n. 241/1990 rende applicabile la disciplina ivi prevista nei confronti del responsabile della trasparenza, che non sembra opportuno far coincidere con un componente dell’organismo di vigilanza, tenuto conto del ruolo di garanzia e indipendenza che riveste quest’ultimo. Detto ruolo, infatti, rischierebbe di essere almeno in parte pregiudicato dalla sottoposizione ai poteri di sostituzione attribuiti ad altra figura interna o organo societario, con riguardo all’esercizio del diritto civico. Ne consegue che appare preferibile la soluzione che individua il responsabile per la trasparenza in un figura interna distinta dal responsabile della prevenzione della corruzione, che come si è evidenziato, si auspica coincida con l’organismo di vigilanza.

 

Luca Raffaello Perfetti (Università degli studi di Bari), Andrea Maltoni (Università degli studi di Ferrara), Francesco Goisis (Università degli studi di Milano), Marco Antonioli (Università degli studi di Milano-Bicocca).

HomeSentenzeArticoliLegislazioneLinksRicercaScrivici