HomeSentenzeArticoliLegislazionePrivacyRicercaChi siamo
Società pubbliche: gli effetti sanzionatori per l’inadempimento ai piani ex art. 24 del TUSPP
di Roberto Camporesi 26 settembre 2018
Materia: società / partecipazione pubblica

Società pubbliche: gli effetti sanzionatori per l’inadempimento ai piani ex art. 24 del TUSPP

 

Per le società a partecipazioni pubbliche e loro soci, ricorre il 30 di settembre 2018, la scadenza di un anno del termine finale dell’adempimento di predisposizione dei piani straordinari di revisione delle partecipazioni ex art. 24 del testo unico in materia di società a partecipazione pubblica (d.lgs 175/2016 e s.m.i. “ TUSPP”).

In particolare occorre osservare che l’art. 24 comma 5 dispone:” In caso di mancata adozione dell'atto ricognitivo ovvero di mancata alienazione entro i termini previsti dal comma 4, il socio pubblico non può esercitare i diritti sociali nei confronti della società e, salvo in ogni caso il potere di alienare la partecipazione, la medesima è liquidata in denaro in base ai criteri stabiliti all'articolo 2437-ter, secondo comma, e seguendo il procedimento di cui all'articolo 2437-quater del codice civile.”  A sua volta il comma 4 prevede:” L’alienazione, da effettuare ai sensi dell'articolo 10, avviene entro un anno dalla conclusione della ricognizione di cui al comma 1.” Ove è stabilito il termine, più volte prorogato, del 30 settembre 2018.

La disposizione in rassegna contiene due fattispecie specifiche e rilevanti e precisamente:

-          La mancata adozione dell’atto ricognitivo ex art. 24 TUSPP;

-          La mancata alienazione entro il termine di un anno dalla conclusione delle ricognizioni.

La prima fattispecie dal sapore punitivo e con contenuto sanzionatorio si verificherà allorquando allo scadere del termine del 30 settembre 2018 non risultasse adottato alcun provvedimento ai sensi dell’art. 24 del TUSP. Meno chiare appaiono le situazioni di ritardato adempimento oltre il termine del 30 settembre 2017 ma prima del 30 settembre 2018, quantomeno ai fini dell’applicazione di questa norma sanzionatoria in quanto, da un lato si è fatto riferimento a che il termine del 30 settembre fosse ordinatorio e non perentorio e dall’altro lato, l’inadempimento del termine comporta un effetto sanzionatorio, ai fini della disciplina della trasparenza, essendo a tale fine l’atto oggetto di pubblicazione sul sito della PA socia. Non pare riconducibile alla fattispecie sanzionatoria la adozione del piano ex art. 24 da parte di organo diverso dal consiglio comunale, atteso che per la revisione delle partecipazioni ai sensi della legge 190/2014 si era stabilita la competenza del sindaco e che quindi non pare ravvisarsi una carenza totale dell’atto anche se approvato da organo diverso.

Infine, sul punto, sicuramente non può prospettarsi l’applicazione analogica delle sanzioni tipizzate dall’art. 20, comma 7, del medesimo TUSP in caso di mancata adozione, a regime, dei piani di razionalizzazione periodica. “Quest’ultimo comma, infatti, a differenza di altri del medesimo art. 20, non viene richiamato dall’art. 24 TUSP, e, pertanto, in omaggio al principio di legalità che vige per le sanzioni amministrative (art. 1 legge n. 689 del 1981), nonché per le ipotesi di responsabilità amministrativo-contabile sanzionatoria (Corte dei conti, Sezioni riunite in sede giurisdizionale, sentenze n. 12-QM/2007 e n. 12-QM/2011), non può essere esteso oltre i casi da esso considerati”.  (Deliberazione Corte dei Conti - sez. regionale di controllo per la Lombardia 2/7/2018 n. 199/2018/VSG).

Più articolate considerazioni merita la seconda fattispecie che presenta anch’essa aspetti più che di carattere punitivo, di esautoramento dalla gestione dell’exit tanto del socio che della società, attraverso automatismi indipendenti dagli interessati.

In primo luogo si deve considerare che la norma fa riferimento alla mancata “alienazione” e non ad un generalizzato inadempimento delle azioni “di razionalizzazione” previste nel piano ex art. 24 del TUSPP.

Si deve ricordare infatti che la revisione delle partecipazioni in società, tanto quella straordinaria di cui all’art. 24 che quella ordinaria ex art. 20, ha come finalizzazione quella di indurre le amministrazioni pubbliche socie ad attuare una serie multipla di possibili azioni volte a definire “un piano di riassetto per la loro razionalizzazione, fusione o soppressione, anche mediante messa in liquidazione o cessione. (Deliberazione Corte dei Conti  Lombardia  6/12/2017 n. 348/PAR)

Il piano deve pertanto definire l’esito del procedimento di analisi e valutazione delle società partecipate e “(…) sarà, (…), necessario che la scelta di attuare su una società pubblica interventi di razionalizzazione, ivi comprese “fusione o soppressione, anche mediante messa in liquidazione o cessione”, sia esplicitata formalmente. (Deliberazione Corte dei Conti - sez. regionale di controllo Valle d'Aosta 22/6/2018 n. 8/2018/VSGO).

Quindi affinché si verifichi la fattispecie in esame deve risultare in modo inequivocabile che la Pa socia abbia concluso il procedimento di revisione stabilendo che l’esito sia la vendita. (Contra  M. Maracci “I “piani di revisione straordinaria” all’esame del MF e della Corte dei Conti e alla prova della concreta attuazione”  in Azienda Italia  n. 1/2018) E’ pacifico in dottrina che la scelta delle azioni da intraprendere possa essere anche il frutto di una mera scelta discrezionale, non supportata da alcun specifico adempimenti alla legge: risulta dunque sufficiente che la PA socia motivi la scelta nel piano ex art. 24 per individuare l’alienazione come azione da intraprendere (Cfr. M. Maracci op.cit..); tesi condivisibile ma che dovrà tenere conto che in quest’ultimo caso la Pa socia dovrà farsi carico di risarcire eventuali danni causati agli altri soci o ai terzi diversamente da quanto agisce in ottemperanza alle disposizioni di legge (art. 4, 5 e 20 c.2 del TUSP). Non sfugge che la mancata alienazione porti all’aggressione del capitale sociale in quanto l’art. 24 comma 5 richiama la procedura l’art. 2437 quater del codice civile, relativa alla liquidazione della quota di recesso che, alla fine dei procedimenti, riscontrati come infausti, di cedere agli altri soci o a terzi, prevede l’intaccamento del patrimonio sociale, prima aggredendo le riserve e poi, in caso di incapienza delle stesse, del capitale sociale.

La norma in discussione non fa distinzione in ordine agli effetti che produce ma a ben vedere per taluni tipi di società occorrerà fare dei distingui. Un caso per tutti sono le società di servizi pubblici locali a rete di rilevanza economica (in house o miste) costituite ed affidate del servizio dalle autorità di ambito locale. Si tratta di società che gestiscono servizi pubblici sulla base di norma di legge che attribuisce all’ATO un potere sovraordinato rispetto quello del singolo ente locale presente nel bacino e che (a) ha competenza esclusiva per le funzioni di organizzazione dei servizi pubblici locali, (b) sono forme aggregative degli enti locali obbligatorie (c) deliberano l’affidamento del servizio e “le loro deliberazioni sono validamente assunte nei competenti organi degli stessi senza necessità di ulteriori deliberazioni, preventive o successive, da parte degli organi degli enti locali” (art. 3 bis comma 1 bis del d.l. 138/2011). Per tali società appare quantomai complesso giustificare la decisione di alienare la partecipazione ed in ogni caso, soprattutto quando la motivazione non appare giustificabile sulla base di precetti normativi (ci si riferisce unicamente all’art. 5 e art. 20 c. 2 del TUSSP in quanto le prescrizioni  di cui all’art. 4 comma 1 e 2 sono sicuramente assolte) Infatti qualora l’esito della liquidazione intaccasse il capitale sociale compromettendo la sopravvivenza della società e quindi l’esercizio del servizio pubblico, la scelta del socio recedente non può essere foriera di conseguenze in capo all’ente recedente anche in termini di valutazione di supposti danni in capo agli altri soci.

Inoltre tale teoria, che avvalla una forma di exit volontario non motivato (“ad libitum”) svincolato anche dall’ottemperare alla legge, appare una deviazione non giustificabile dalle disposizioni del codice civile e pone in una situazione di discriminazione gli eventuali soci privati presenti nella compagine sociale, facendo intravedere profili di incostituzionalità (in senso conforme alla dottrina tuttavia si deve registrare Tar Lombardia Brescia sentenza 1305/2015 che estende l’applicazione della norma – in una versione precedente - anche alle società miste ove sono presenti privati).

L’automatismo intrinseco della disposizione di legge sembra prescindere da ogni azione anche se appare necessario quantomeno notificare alla società la richiesta di liquidazione della quota.

In effetti non è sostenibile la teoria del completo automatismo senza alcuna comunicazione di exit alla società in quanto:

-          in primo luogo appare quantomeno necessario che la Pa socia, da un lato comunichi alla società la richiesta di exit e dall’altro dia dimostrazione dell’esito infausto del tentativo di vendita con forme di evidenza pubblica ai sensi dell’art. 10 del TUSPP. Il richiamo all’art. 10 rubricato (“Alienazioni di partecipazioni sociali”) conferma che la fattispecie prevista dalla norma contenuta nel comma 5 dell’art. 24 del TUSPP è l’esito negativo della vendita e non di altre modalità di razionalizzazione.

La mancanza della comunicazione e della prova del tentativo della vendita rendono problematica l’applicazione della disposizione. Infatti appare arduo sostenere che la norma ha esplicato i suoi effetti anche nei confronti della ignara società.

Gli effetti della norma sono duplici: da un lato l’inibizione dei diritti di socio e la liquidazione della quota.

Per quanto attiene la inibizione dei diritti di socio, in altra sede si era sostenuto (“uscita automatica dalle società pubbliche novità del TUSP” di Dall’aglio, Galanti e Camporesi in http://www.dirittodeiservizipubblici.it/articoli/articolo.asp?sezione=dettarticolo&id=728)” Insorge dunque la problematica di come debbano essere conteggiati i quorum costitutivi e deliberativi dell’assemblea ordinaria nel periodo transitorio di sospensione dei diritti sociali e fintanto che non si effettui il rimborso della partecipazione receduta. La soluzione più ragionevole sembrerebbe quella di mutuare la disciplina civilistica ed assimilare la posizione della Pubblica Amministrazione receduta a quella del socio moroso che non può esercitare i diritti sociali. Sul punto è intervenuto il Comitato del notariato del Triveneto, con la massima notarile I.B.24, che ha specificato che il socio moroso ha comunque il diritto di intervento in assemblea e, se intervenuto, di essere computato tra i presenti. Nelle decisioni assembleari, dunque, la partecipazione del socio moroso deve essere computata per il calcolo del quorum costitutivo, mentre non deve essere computata per il calcolo delle maggioranze e della quota di capitale richiesta per l’approvazione della deliberazione. “

La questione non è di poca portata in quanto è del tutto evidente che non si è di fronte ad un recesso, come previsto dal codice civile di cui si richiamano solo alcune disposizioni e quindi si avalla la teoria della Corte dei Conti che ha definito questo istituto come recesso extra ordinem sui generis (per un approfondimento si rimanda a R. Camporesi “Il diritto di recesso previsto dal testo unico in materia di società a partecipazioni pubbliche” ed. Centro Studi Enti locali.

Certamente interessante sarà conoscere la opinione del giudice delle Imprese, di cui non si conoscono precedenti e che rappresenterà il giudice naturale per le controversie che si instaureranno fra soci Pa e società, cosi come ha definitivamente scolpito la Cassazione, Sez. Unite Civili, con l’ordinanza n. 21299 del 14 settembre 2017.

La posizione del giudice delle imprese sarà particolarmente interessante atteso la innegabile novità che ha suscitato in materia di “controllo analogo” la sentenza del Tribunale di Roma che ha ritenuto illegittimo lo statuto di una società in house che rimetteva anche la gestione ordinaria (oltre che quella straordinaria ) nelle competenza dei soci e non dell’organo amministrativo, in quanto rappresentava una violazione ai principi generali previsti dall’ordimento per il funzionamento delle società di capitali, sovvertendo principi che si ritenevano granitici in diritto amministrativo per la governance della società in house (Trib. Roma 16° sez. civile sent. n. 20276/2018)

 

Dott. Roberto Camporesi - studio BP  Bologna - Rimini

 

HomeSentenzeArticoliLegislazioneLinksRicercaScrivici