|
Gli obblighi incostituzionali di associazionismo locale (nota a margine della sentenza n. 33 del 4 marzo 2019 della Corte Cost.)
(Avv. Maurizio LUCCA, Segretario Generale Amministrazioni Locali e Manager di Rete)
La Corte Costituzionale, con la sentenza n. 33 del 4 marzo 2019 (Red. Antonini), dichiara l’illegittimità costituzionale degli obblighi di gestione associate «nella parte in cui non prevede la possibilità, in un contesto di Comuni obbligati e non, di dimostrare, al fine di ottenere l’esonero dall’obbligo, che a causa della particolare collocazione geografica e dei caratteri demografici e socio ambientali, del Comune obbligato, non sono realizzabili, con le forme associative imposte, economie di scala e/o miglioramenti, in termini di efficacia ed efficienza, nell’erogazione dei beni pubblici alle popolazioni di riferimento».
Giova rammentare che secondo la giurisprudenza costituzionale, gli interventi statali in materia di coordinamento della finanza pubblica che incidono sull’autonomia degli enti territoriali devono svolgersi secondo i canoni di proporzionalità e ragionevolezza dell’intervento normativo rispetto all’obiettivo prefissato.
In termini più divulgativi o semplici, in un contesto «di misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività economica», nonché «di disposizioni urgenti per la revisione della spesa pubblica con invarianza dei servizi ai cittadini» non si può pretendere che le unioni di Comuni o il loro convenzionamento, in relazione ad una densità demografica prestabilita e indicata (anche questa) non superiore a 5.000/3.000 abitanti, possa portare alla riduzione della spesa e all’efficientamento dei servizi, senza un riscontro delle realtà concrete e non dei meri desideri, o sul piano delle teorie economiche delle probabilità astratte, nonostante i principi di differenziazione, adeguatezza e sussidiarietà (ex art. 118 Cost.).
In effetti, sul piano della razionalità il desiderio legislativo, pur se condivisibile nel virtuosismo del pensiero, rimane qualcos’altro rispetto all’oggetto palese desiderato, nella concezione psicanalitica, e di matrice freudiana, sull’interpretazione dei sogni, non potendo ammettere de iure un dovere dello Stato (Persona) di imporre alle “Autonomie Locali” di associarsi tout court: una presunzione iuris et de iure di idoneità di un metodo organizzativo rigidamente preconfezionato (standard) per tutti (in non apparente violazione dell’art. 3 Cost.), con una cangiante compressione delle potestà comunali (anche sotto il profilo regolamentare).
I Comuni sono un prodotto spontaneo della realtà sociale risalente nel tempo, sono ordinamenti sorti prima dello Stato Italiano: l’art. 5 Cost. «La Repubblica, una e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali…» nel verbo “riconoscere” (nella definizione di percepire qualcosa di già noto) manifesta un processo di adattamento tra Comunità locali e Stato moderno: «in questa norma le “autonomie locali” sono positivamente assunte e collegate – in posizione indifferenziate - all’unità ed indivisibilità della Repubblica».
Mentre nella locuzione “autonomie” si volle definire una speciale attribuzione di potere rispetto alla “sovranità” che definisce il carattere degli ordinamenti originari (quelli dello Stato) rispetto a quelli derivati (Selbstgesetzgebungsrecht, nella definizione dei giuristi tedeschi).
Sotto altri profili, si dovrebbe richiamare, non solo i principi di buon andamento e differenziazione, ma anche la spinta costituente verso il decentramento amministrativo e l’adeguamento della legislazione statale alle esigenze dell’Autonomia locale, riservando allo Stato solo quelle funzioni essenziali ed indivisibili, necessarie a garantire l’unità ordinamentale su tutto il territorio nazionale, con una evidente valorizzazione degli Enti locali, quali centri decisionali indipendenti.
La questione, si capisce, verte su un obbligo imposto (non una facoltà) più che sull’associazionismo in sé (peraltro, con un decreto legge e non con una legge organica), sull’obbligo incidente direttamente sull’assetto organizzativo dei Comuni prevedendo, in via definitiva, un esercizio in forma associata delle funzioni fondamentali stesse, senza margini di discrezionalità (alias autonomia, ma anche di opportunità), giustificata sotto il profilo dei risparmi di spesa che si otterrebbero in virtù dell’intervento riformatore (in realtà definito nelle memorie di parte come una “riforma ordinamentale” ex novo degli enti locali); mentre prima vigeva la volontarietà nell’an e la flessibilità nel quomodo della scelta delle forme associative alle quali aderire.
Va detto che i risparmi invocati (altri direbbero decantati, nel significato non dell’incensare ma del decadere nel fondo) - nella specie - non risultano essere stati mai quantificati (o quantificabili): un’illusoria semplificazione dei centri decisionali che ha portato, anche, alla (fu) dismissione delle Provincie (nelle intenzioni senza raggiungere, anche questa volta, ad alcun risparmio ma con un aggravio di spese e meno servizi, oltre ad una perdita di rappresentanza diretta dei cittadini).
Nella discussione emerge che il precetto legislativo presenta «delle rilevanti conseguenze sul normale funzionamento del circuito democratico»: la scelta di associarsi non è una libera scelta (rectius rientrante nelle facoltà e/o alternative dello spettro organizzativo/gestionale di autodeterminazione) ma un vincolo che sottrae il merito politico all’indirizzo degli organi rappresentativi: un evidente vulnus del principio di responsabilità politica degli organi democraticamente eletti, espresso dagli artt. 95 e 97 Cost., nonché dell’autonomia degli Enti locali coinvolti.
Si coglie subito il senso del “dramma”, destinato alla rappresentazione dalla scena nazionale a quella locale, già dall’eloquente titolo del Comunicato dell’Ufficio Stampa della Corte Cost. del 4 marzo 2019 «I piccoli comuni possono sottrarsi alla gestione associata delle funzioni fondamentali se dimostrano che non realizza risparmi»: pensare di ridurre la spesa quando le risorse sono già scarse, mettendo assieme le scarsità è una questione già di per sé evidente, come nel sentire popolare «due poveri non fanno un mezzo ricco», anzi - in molti casi - le spese sono anche aumentate.
L’Ordinamento giuridico spesso crea delle sovrastrutture normative per imporre delle regole di convivenza che, prima di essere disposizioni normative o precetti, sono “condizionamenti sociali”, correlati all’esigenza di avere persone che ubbidiscono, in forza del rispetto di superiori interessi di “unità e integrità” dello Stato; cittadini, riuniti in Comunità locali, sempre pronti a servire il Paese, contribuendo al pagamento delle tasse a fronte di servizi erogati: no taxation without representation.
Si legge «l’obbligo imposto ai Comuni sconta un’eccessiva rigidità perché dovrebbe essere applicato anche in tutti quei casi in cui: a) non esistono Comuni confinanti parimenti obbligati; b) esiste solo un Comune confinante obbligato, ma il raggiungimento del limite demografico minimo comporta il coinvolgimento di altri Comuni non in situazione di prossimità; c) la collocazione geografica dei confini dei Comuni (per esempio in quanto montani e caratterizzati da particolari fattori antropici, dispersione territoriale e isolamento) non consente di raggiungere gli obiettivi normativi».
Si termina in modo lapidario con una sottile cesura «Si tratta di situazioni dalla più varia complessità che però… meritano attenzione perché il sacrificio imposto all’autonomia comunale non realizza quei risparmi di spesa cui è finalizzata la normativa stessa».
Non mancano le indicazioni transfrontaliere quando si indicano soluzioni già praticate efficacemente rispetto alla individuazione ex lege della dimensione territoriale ottimale e omogenea per lo svolgimento delle funzioni fondamentali: «(ad esempio in Francia) sono state trovate risposte strutturali al problema della polverizzazione dei Comuni, spesso attuando la differenziazione sul piano non solo organizzativo ma anche funzionale».
Un’informazione sintetica ma esaustiva dell’intera questione nella sua centralità del merito: le imposizioni teoriche prive di riscontri oggettivi (si direbbe scientifici, richiamandosi alla ripetibilità dell’esperimento scientifico) perseguite da tanti maestri e cultori dell’associazionismo forzato, invasive dell’autodeterminazione (c.d. autosufficienza) organizzativa dei Comuni, si pone oltre al perimetro dell’architettura costituzionale e del policentrismo istituzionale, non giustifica un diktat finanziario che si contrappone in negativo all’obiettivo dichiarato: il risparmio e non l’aumento della spesa quando non sono presenti i presupposti.
Non sono mancate le testimonianze e le esperienze (rinvenibili on line) di molte Amministrazioni (c.d. Comuni polvere) che hanno vissuto le esperienze spinte delle Unioni o dei Convenzionamenti (ex art. 30 e 32 del D.Lgs. n. 267/2000), mediante il drenaggio di ingenti trasferimenti pubblici, con trasferimenti di funzioni in relazione ai contributi percepiti, assistendo - una volta terminati le cit. elargizioni – allo scioglimento inesorabile, dimostrando tutti i limiti delle norme sull’associazionismo, fenomeno che dovrebbe essere prima di natura culturale, e poi economico.
In modo visivo, la previsione generalizzata dell’obbligo di gestione associata per (quasi) tutte le funzioni fondamentali sconta - in ogni caso - un’eccessiva rigidità, estesa al punto che non consente margini di apprezzamento di «tutte quelle situazioni in cui, a motivo della collocazione geografica e dei caratteri demografici e socio ambientali, la convenzione o l’unione di Comuni non sono idonee a realizzare, mantenendo un adeguato livello di servizi alla popolazione, quei risparmi di spesa che la norma richiama come finalità dell’intera disciplina».
Una prova dei limiti della norma, annota la Corte, una serie di rinvii che copre un arco temporale di quasi un decennio (ma anche oltre, per certi aspetti), dimostrano l’esistenza di situazioni oggettive che, in non pochi casi, rendono di fatto inapplicabile la norma; senza voler soffermarsi, si aggiunge, sul “tributo” normativo, reiterato e rivisto, dell’inquadramento e/o classificazioni delle “funzioni fondamentali”.
Tale matrice di ingegneria legislativa non combacia con la geografia funzionale traslabile nel terreno concreto dei confini territoriali nella sua più intima materialità (peraltro, uno dei requisiti per definire un ordinamento giuridico (un popolo, un territorio, una sovranità): «il sacrificio imposto all’autonomia comunale non è in grado di raggiungere l’obiettivo cui è diretta la normativa stessa; questa finisce così per imporre un sacrificio non necessario, non superando quindi il test di proporzionalità».
Il pregio della sentenza della Corte Cost. n. 33 del 4 marzo 2019 è di aver affrontato in modo aperto e senza indugio tutti gli ulteriori limiti della disciplina degli Enti locali rispetto al disegno costituzionale sull’assetto organizzativo dell’Autonomia comunale italiana, dove «le funzioni fondamentali risultano ancora oggi contingentemente definite con un decreto -legge che tradisce la prevalenza delle ragioni economico finanziarie su quelle ordinamentali»:
a. un incompiuto federalismo fiscale sulla spinta “Fibonacci” della spending review dei soli (piccoli) Comuni con l’esercizio associato delle funzioni stesse, rispetto alla non ancora chiarita spesa degli apparati dello Stato (ad es. i Ministeri);
b. un’infelice esito dei vari tentativi di approvazione della cosiddetta Carta delle autonomie locali;
c. il problema della dotazione funzionale tipica, caratterizzante e indefettibile, dell’Autonomia comunale mai risolto ex professo dal legislatore statale, sull’impianto costituzionale risultante dalla riforma del Titolo V della Costituzione.
Giova rammentare che l’organizzazione dello Stato richiede un gran impegno e impiego di risorse, richiede la creazione di un apparato amministrativo efficiente e snello, in grado di raggiungere obiettivi di salvaguardia della popolazione e di giustizia sociale, raccordandosi con il mondo delle Autonomie in una proiezione di sana gestione contabile e di benessere generale, profili di legalità e qualità connessi al perseguimento dell’interesse pubblico prevalente (ex art. 97 Cost.).
Nelle intense righe del pronunciamento vengono segnate (o segnalate) delle vere dicotomie (del “piè veloce” di Achille) che anche un animo semplice, privo delle più elementari nozioni di diritto comprenderebbe solo con una minima dose di buon senso, «risultano assegnate al più piccolo Comune italiano, con una popolazione di poche decine di abitanti» compiti e funzioni «come alle più grandi città del nostro ordinamento, con il risultato paradossale di non riuscire, proprio per effetto dell’uniformità, a garantire l’eguale godimento dei servizi, che non è certo il medesimo tra chi risiede nei primi e chi nei secondi».
Bisogna cambiare prospettiva, rivedere le proprie convinzioni, leggere ciò che non è scritto visto che si parla di un aspetto centrale e vitale per la tenuta di tutto l’ordinamento e della società: si affronta il ruolo del primo centro decisionale politico – amministrativo dello Stato Comunità: i piccoli Comuni.
I Comuni sotto i 5.000 abitanti costituiscono l’ossatura dell’ordinamento, coprono per dimensione quasi il 70 % dei Comuni italiani, e non godono di risorse né di trasferimenti significativi, sono oberati di una moltitudine di adempimenti formali (incomprensibili ai più e inutili il più delle volte), con un approccio da parte degli Enti sovraordinati non sempre all’altezza delle aspettative: nel senso di una lontananza dalla reale portata delle norme sull’impatto locale.
La sentenza della Corte Cost. è una espressione significativa, quanto emblematica, di questa distonia visiva - tra il centro e la periferia - quasi a dire, ed è stato detto, che il sentimento che ha fatto sorgere la norma è stato (quasi) «un moto dell’anima contrario ad una determinata situazione, e tale moto dell’anima si modifica poi in un sentimento opposto» rispetto al fine voluto, un’involuzione dall’assetto costituzionale in un obbligo non giustificato.
La Corte prima di andare oltre con gli altri profili, quasi a richiamare una best practice, ovvero, che le esperienze sono sotto gli occhi di tutti (forse, dicono gli osservatori da terra, volando troppo alto non si scorge il basso), osserva che «non appare inutile ricordare che riusciti interventi strutturali in risposta al problema della polverizzazione dei Comuni sono stati realizzati in altri ordinamenti… Ciò è avvenuto, ad esempio, in quello francese, dove il problema è stato risolto sia con la promozione di innovative modalità di associazione intercomunale, sia attraverso formule di accompagnamento alle fusioni; in forme diverse, ma sempre con interventi di tipo organico, risposte sono state fornite anche in Germania, nel Regno Unito e in molti altri Stati europei (basti ricordare Svezia, Danimarca, Belgio, Olanda)».
Assistiamo, ancora una volta, al mancato superamento del giudizio di costituzionalità delle riforme (delle riforme tentate), in un eccesso irragionevole di obblighi cogenti, sproporzionato rispetto all’assetto dei poteri e dei benefici: «la volpe prendeva in giro la leonessa, perché mette sempre al mondo soltanto un cucciolo alla volta. E quella: «uno solo, è vero, ma leone!». Non in base al numero, ma in base al valore va misurata la qualità».
|