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Le conseguenze degli atti prolissi secondo il Consiglio di Stato
Nota all'ordinanza n. 3006 del Consiglio di Stato sez. VI del 13 aprile 2021
di officeadvice.it 4 maggio 2021
Materia: giustizia amministrativa / processo

Le conseguenze degli atti prolissi secondo il Consiglio di Stato

 

Il limite relativo alle dimensioni entro il quale un atto di natura processuale dovrà contenersi deriva da una imposizione normativa, la cui violazione consente al giudice di non esaminare la parte che eccede i limiti della domanda. Quindi, l’atto in sé è da considerarsi valido, però è rimessa alla valutazione dell’organo giudicante, la eventuale inopportunità, quindi non considerazione, di alcuni parti dello scritto difensivo (Ordinanza n. 3006 emessa dal Consiglio di Stato del 13 aprile 2021).

 

Il fatto

 

La questione oggetto di trattazione da parte della Sesta Sezione del Consiglio di Stato ha riguardato, in punto di diritto, una controversia avente ad oggetto l’illegittimità del silenzio inadempimento mantenuto dall’Amministrazione comunale sulla denuncia di abusività di alcuni lavori di ampliamento e sopraelevazione. Non trattandosi di una questione di nuova trattazione, o comunque di un riferimento ad impianto normativo complesso, non è da ritenersi giustificato il superamento dei limiti dimensionali previsti dall’art. 13 ter delle norme attuative del codice del processo amministrativo.

 

Proprio per quel che riguardo il caso oggetto di trattazione della causa, i limiti dimensionali fissati con decreto del Presidente del Consiglio dello Stato del 22 dicembre 2016, n. 167, con riferimento al rito del silenzio, ossia 30.000 caratteri sono risultati di gran lunga superati, atteso che l’atto di ricorso in appello ha raggiunto il numero di 37 pagine, mentre lo scritto difensivo di controparte è risultato pari a 32 pagine e la successiva memoria finale dell’appellata conta 31 pagine; la memoria di replica dell’appellante conta 21 pagine.

 

In siffatta ipotesi, ha precisato il Consiglio di Stato, che la redazione di scritti chiari e sintetici, in grado cioè di selezionare in modo competente le sole questioni (di fatto e di diritto) rilevanti al fine del decidere, è dirimente per l’assunzione di decisioni approfondite e consapevoli.

 

La decisione

 

La questione della sinteticità degli atti processuali di parte e dei relativi provvedimenti giudiziari, ha già fatto emergere diversi riscontri in sede legislativa ed è stata altresì questione assai discussa in dottrina.

Sul punto, il principio su cui poggia la questione è che gli atti del processo devono essere dotati di specifici requisiti quali, ad esempio, chiarezza e concisione.

 

Il principio della sinteticità, già previsto dall’art. 3 codice del processo amministrativo, finora non era stato comunque considerato come una rigida imposizione di legge, ma piuttosto come un principio tendenziale che doveva ispirare comportamenti e condotte virtuose da parte degli operatori del diritto. Invero, non potendo essere considerato un dovere presidiato da autonome sanzioni il giudice, per sanzionare comunque in qualche modo la condotta dell’avvocato prolisso, si avvaleva soltanto della condanna alle spese di lite, così come disciplinate ex art. 26 c.p.a.

Ad allargare gli orizzonti normativi, ci si rende conto di come, in realtà, non è stato affatto facile dettare una regola generale, visto oltretutto che la regola di sinteticità non può, certo, entrare in conflitto con gli artt. 24, comma 2 e 111 Cost.

 

Ecco quindi emergere il carattere innovativo del citato art. 13 ter disp. att. al c.p.a., rispetto all’iniziale impostazione legislativa. La norma infatti introduce una deroga rispetto all’obbligo generalmente esistente in capo al giudice di pronunciarsi su tutta la domanda. Pertanto, la sinteticità non costituisce più un mero canone orientativo della condotta delle parti, ma è oramai da considerarsi una regola del processo amministrativo, strettamente funzionale alla realizzazione del giusto processo, sotto il profilo della sua ragionevole durata.

Sulla base di questo presupposto, la Sezione Sesta ha ricordato che la brevità dell’atto processuale costituisce lo strumento mediante il quale il legislatore ha inteso vincolare le parti a quello sforzo di “sintesi” giuridica della materia controversa.

 

Sennonché, conclude il Supremo Consesso, nel caso de quo, ed oggetto di approfondito esame, con il fine ultimo di non sorprendere le parti in una fase caratterizzata dall’assenza di una applicazione sistematica da parte della giurisprudenza delle suddette conseguenze delle condotte difformi, è opportuno, nel rispetto del principio di leale collaborazione ex art. 2, comma 2, c.p.a., proporre espresso invito alle parti a riformulare le difese nei limiti dimensionali previsti, con il divieto di introdurre fatti, motivi ed eccezioni nuove rispetto a quelli già dedotte.

 

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