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Tribunale di Palermo - sez. fallimentare, 24/10/2014 n. 187
Sulla possibilità di fallimento delle società pubbliche.

E' di interpretazione autentica la norma di cui al D.L. n. 95/12, conv. in L. 135/2012, che ha dettato in materia di società a partecipazione pubblica una disposizione di generale rinvio alla disciplina codicistica delle società di capitali.

Il fallimento delle società pubbliche, cui sia affidata l'erogazione di servizi pubblici, non presenta alcuna interferenza con la titolarità del servizio, perché, anche quando la società partecipata gestisce un servizio pubblico, non è mai titolare di quel servizio, ma semplice affidataria ad opera dell'ente pubblico socio affidante e, pertanto, l'applicazione dello statuto dell'imprenditore, ivi compresa la dichiarazione di fallimento, non determina alcuna ingerenza dell'autorità giudiziaria nell'attività della pubblica amministrazione né impedisce l'esecuzione di un servizio necessario alla collettività. Eventuali norme speciali che siano volte a regolare la costituzione della società, la partecipazione pubblica al suo capitale e la designazione dei suoi organi, non incidono sul modo in cui essa opera nel mercato né possono comportare il venir meno delle ragioni di tutela dell'affidamento di terzi contraenti contemplate dalla disciplina civilistica. Ciò che rileva nel nostro ordinamento, ai fini dell'applicazione dello statuto dell'imprenditore commerciale, non è il tipo di attività esercitata, ma la natura del soggetto: se così non fosse si dovrebbe giungere alla conclusione che anche le società a capitale interamente privato, cui sia affidata la gestione di un servizio pubblico ritenuto essenziale, sarebbero esentate dal fallimento". Insomma, la società a partecipazione pubblica è una (delle) modalità di gestione del servizio pubblico, pur non essendone titolare. E', infatti, compito dell'ente pubblico titolare degli interessi pubblici, nell'ipotesi di decozione, trovare una soluzione alternativa al loro soddisfacimento, mediante gestione del servizio in altra forma o riassegnazione ad altro soggetto, mentre agli organi del fallimento spetta la liquidazione delle attività fallimentari, nel rispetto dei limiti generalmente stabiliti dalla legge, al fine di assicurare la continuità del servizio pubblico.

Il D.L. n. 95/12, convertito in L. 135/2012, ha dettato, in materia di società a partecipazione pubblica, una norma di generale rinvio alla disciplina codicistica delle società di capitali, precisando che: "Le disposizioni del presente articolo e le altre disposizioni, anche di carattere speciale, in materia di società a totale o parziale partecipazione pubblica si interpretano nel senso che, per quanto non diversamente stabilito e salvo deroghe espresse, si applica comunque la disciplina dettata dal codice civile in materia di società di capitali" (art. 4, c. 13). Dalla lettura del Dossier del Servizio Studi del Senato, n. 32 del luglio 2012 n. 39 e del parere del Comitato per la legislazione del Senato sul disegno di legge n. 5389, si ricava la volontà del legislatore di attribuire alla norma in questione natura di norma di interpretazione autentica, "al fine di imprimere un indirizzo di cautela verso un processo di progressiva entificazione pubblica di tali società, valorizzando la forma privata societaria e la disciplina comune dell'attività rispetto alla sostanza pubblica del soggetto e della funzione".

Materia: società / partecipazione pubblica

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

IL TRIBUNALE CIVILE DI PALERMO

SEZIONE FALLIMENTARE

Composto dai Sigg. ri:

1) Dr. Mauro Terranova Presidente

2) D. ssa Raffaella Vacca Giudice est.

2) Dr. Giuseppe Sidoti Giudice

riunito in Camera di Consiglio, ha pronunciato la seguente

 

SENTENZA

per la dichiarazione d’insolvenza ai fini dell’ammissione alla procedura di amministrazione straordinaria, ex D. L. vo n. 270/1999, nei confronti di:

Alto Belice Ambiente S. p. A. in liquidazione – in persona del suo liquidatore pro tempore - con sede legale in Monreale (PA), (omissis) n. 57, iscritta alla sezione ordinaria della CCIAA il 10. 3. 2003 col n. (omissis), numero REA PA (omissis) avente ad oggetto la gestione integrata dei rifiuti nell’A. T. O.

 

IL TRIBUNALE

visto il ricorso per la dichiarazione di fallimento di Alto Belice Ambiente S. p. A. in liquidazione, presentato, in data 23. 1. 2014, dalla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Palermo, sulla base delle risultanze della nota del Nucleo di Polizia Tributaria della Guardia di Finanza di Palermo del 19. 4. 2013, che ha evidenziato lo stato di insolvenza della predetta società;

rilevato che, con memoria del 28. 2. 2014, l’Alto Belice Ambiente S. p. A. in liquidazione: a) ha eccepito l’improcedibilità del ricorso per carenza del requisito soggettivo del fallimento, ai sensi dell’art. 1 L. F. e dell’art. 2221 c. c., che escludono il fallimento degli enti pubblici, ed in considerazione della rilevanza pubblicistica dell’attività svolta; b) evidenziato che l’A. B. A. S. p. a., con delibera del 7. 2. 2011, è stata posta in liquidazione, in esecuzione della L. R. 9/2010 (che ha recepito la legge statale n. 42/10) e della circolare 2/2010, come misura di razionalizzazione dell’intero settore della gestione dei rifiuti (per il quale è stato nominato un Commissario straordinario di nomina presidenziale, prorogato sino al 15. 1. 2015) e non già quale conseguenza della condizione di dissesto della società; c) invocato la concezione sostanzialistica dell’impresa pubblica, secondo la quale non sarebbe sufficiente ad escludere la qualifica di ente pubblico il fatto che esso abbia formalmente assunto la veste di società di capitali, rilevando, a tal fine, la presenza di una serie di elementi (desumibili dall’atto costitutivo e dalle clausole statutarie) sintomatici della sua natura pubblica come, per esempio, la nomina degli organi sociali da parte dell’ente pubblico, la previsione di apposite clausole statutarie volte ad attribuire loro particolari prerogative o a limitare l’autonomia gestionale degli amministratori, la costituzione o lo scioglimento della società ad iniziativa pubblica, l’esistenza di pubblici finanziamenti, la circostanza che non operi in ambiente concorrenziale; d) evidenziato che il commissariamento emergenziale della Regione e degli enti locali in materia di rifiuti determina una modalità di gestione del servizio a carattere obbligatorio e che il carattere pubblicistico discende, quasi geneticamente, dall’essere stata costituita ai sensi dell’art. 113 del d. lgs. 267/2000, come sostituito dall’art. 35 della legge n. 448/2001, che prevede la possibilità che i servizi di pubblica utilità locale possano essere affidati a società per azioni o a responsabilità limitata, con prevalente capitale pubblico; e) contestato la ricorrenza del presupposto oggettivo, sia perché il credito maggiormente significativo (per oltre 20. 000. 000,00 di euro) è quello nei confronti dell’Erario, sia in considerazione della responsabilità sussidiaria dei comuni-soci, deducendo, in sostanza, che la circostanza che i comuni non abbiano adempiuto ai propri debiti, per circa €32. 000. 000,00 (somma che l’A. B. A. S. p. A. avrebbe potuto utilizzare per pagare debiti erariali), si risolverebbe in una semplice partita di giro;

dato atto che con decreto del 19. 5. 2014 è stata richiesta all’Agenzia delle Entrate l’ultima dichiarazione dei redditi di Alto Belice Ambiente S. p. A. , al fine di verificare la ricorrenza di presupposti di cui al D. Lgs. n. 270/99;

che con decreto dei 7. 6-7. 7. 2014 si avvertiva il Ministero dello Sviluppo Economico della possibilità di designare un delegato e di esprimere un parere scritto sulla ricorrenza dei presupposti di ammissione all’amministrazione straordinaria, con designazione di un commissario giudiziale, per l’ipotesi di dichiarazione dello stato di insolvenza;

che all’udienza del giorno 8-8-2014 il Tribunale ha rinviato all’udienza del 10. 10. 2014, non essendo ancora pervenuta la nota del MISE;

vista la nota del 14 agosto 2014 con la quale il Ministero dello Sviluppo Economico ha confermato la ricorrenza di tutti i presupposti soggettivi e oggettivi dell’art. 2 del D. Lgs. vo n. 270/1999;

visto l’allegato al verbale d’udienza del 10. 10. 2014 dell’Alto Belice Ambiente S. p. A. ;

 

PREMESSO

che, ai sensi dell’art. 2 del D. Lgs. vo n. 270/1999, possono essere ammesse all’amministrazione straordinaria le imprese soggette alle disposizioni del fallimento che hanno congiuntamente: 1) un numero di lavoratori subordinati, compresi quelli ammessi al trattamento di integrazione dei guadagni, non inferiore a duecento da almeno un anno; 2) debiti per un ammontare complessivo non inferiore a due terzi tanto del totale dell’attivo dello stato patrimoniale che dei ricavi dell’ultimo esercizio;

che il Ministero dello Sviluppo Economico ha confermato che ABA occupa oltre 200 dipendenti, rientrando nel limite previsto dalla lettera a), art. 2, comma 1 del d. lgs. 270/99 (risultando impegnati un numero di addetti pari a 277 unità al 31. 4. 2014) e presenta un’esposizione debitoria pari ad €55. 573. 588, valore superiore ai 2/3 tanto dell’attivo dello stato patrimoniale (€39. 909. 617 2/3 di 59. 864. 425), che dei ricavi per vendite e prestazioni (€13. 125. 331 2/3 di €19. 687. 996);

che, con riguardo allo stato d’insolvenza, il Ministero dello Sviluppo Economico ha fatto espresso richiamo alle conclusioni della Procura della Repubblica, di cui alla memoria del 19. 3. 2014.

 

CONSIDERATO

che il punto controverso e oggetto di contestazione, da parte della società insolvente, è l’assoggettabilità dell’ABA alle disposizioni sul fallimento (da cui discenderebbe l’assoggettabilità all’amministrazione straordinaria), sotto il profilo dell’esercizio dell’impresa commerciale,

 

OSSERVA

le normative civilistica (artt. 2221 c. c. ) e fallimentare (art. 1), che prevedono per gli enti pubblici economici un’espressa esenzione dall’applicazione delle disposizioni in materia di fallimento e di concordato preventivo, sottoponendoli alla liquidazione coatta amministrativa (mentre, per le provincie e i comuni, il T. U. E. L. prevede la particolare procedura del dissesto finanziario dell’ente), muovono dalla convinzione dell’incompatibilità tra le finalità della gestione di un servizio pubblico essenziale e gli effetti tipici del fallimento, che determinerebbe un’ingerenza dell’autorità giudiziaria in ambiti riservati alla P. A.

Questa incompatibilità ha orientato alcuni interpreti, ed i giudici in particolar modo (che si troverebbero, in caso di fallimento, a dover “gestire” il servizio pubblico essenziale), pur nel silenzio della norma (che non ha previsto un tertium genus tra enti pubblici e persone giuridiche di diritto privato), a sussumere, di volta in volta, le società commerciali, che abbiano ad oggetto servizi pubblici, ed in presenza di particolare requisiti, nell’ambito degli enti pubblici.

L’assunto non convince.

Una recente pronuncia della giurisprudenza penale precisa che : “il fallimento delle società pubbliche, cui sia affidata l’erogazione di servizi pubblici, non presenterebbe alcuna interferenza con la titolarità del servizio, perché, anche quando la società partecipata gestisce un servizio pubblico, non è mai titolare di quel servizio, ma semplice affidataria ad opera dell’ente pubblico socio affidante e, pertanto, l’applicazione dello statuto dell’imprenditore, ivi compresa la dichiarazione di fallimento, non determina alcuna ingerenza dell’autorità giudiziaria nell’attività della pubblica amministrazione né impedisce l’esecuzione di un servizio necessario alla collettività” (Cass. Pen n. 234/2011).

Eventuali norme speciali che siano volte a regolare la costituzione della società, la partecipazione pubblica al suo capitale e la designazione dei suoi organi, non incidono sul modo in cui essa opera nel mercato né possono comportare il venir meno delle ragioni di tutela dell’affidamento di terzi contraenti contemplate dalla disciplina civilistica. Ciò che rileva nel nostro ordinamento, ai fini dell’applicazione dello statuto dell’imprenditore commerciale, non è il tipo di attività esercitata, ma la natura del soggetto: se così non fosse si dovrebbe giungere alla conclusione che anche le società a capitale interamente privato, cui sia affidata la gestione di un servizio pubblico ritenuto essenziale, sarebbero esentate dal fallimento”. (Cass. SS. UU. 25. 11. 2013 n. 26283).

Insomma, la società a partecipazione pubblica è una (delle) modalità di gestione del servizio pubblico, pur non essendone titolare. E’, infatti, compito dell’ente pubblico titolare degli interessi pubblici, nell’ipotesi di decozione, trovare una soluzione alternativa al loro soddisfacimento, mediante gestione del servizio in altra forma o riassegnazione ad altro soggetto (Cass. n. 22209/13), mentre agli organi del fallimento spetta la liquidazione delle attività fallimentari, nel rispetto dei limiti generalmente stabiliti dalla legge, al fine di assicurare la continuità del servizio pubblico (App. Napoli 24. 4. 2013).

Ancora, “l'attribuzione di funzioni di rilevanza costituzionale, quali sono riconosciute agli enti pubblici territoriali, come i comuni, non possono tralaticiamente essere riconosciute a soggetti che hanno la struttura di una società per azioni, in cui la funzione di realizzare un utile economico è, comunque, un dato caratterizzante la loro costituzione. Una conclusione diversa, porterebbe all'inaccettabile risultato di escludere dall'ambito di applicazione della disciplina in esame un numero pressoché illimitato di enti operanti, non solo nel settore dello smaltimento dei rifiuti, e quindi con attività in cui viene in rilievo, come interesse diffuso, il diritto alla salute e all'ambiente, ma anche là dove viene in rilievo quello all'informazione, alla sicurezza antinfortunistica, all'igiene del lavoro, alla tutela del patrimonio storico e artistico, all'istruzione e alla ricerca scientifica, in sostanza in tutti i casi in cui vengono ad essere coinvolti, seppur indirettamente, i valori costituzionali di cui alla parte prima della Costituzione(Cass. , sez. II, 9/7/2010, n. 28699). In conclusione, possono essere esonerati dall'applicazione del d. lgs. n. 231/2001 soltanto lo Stato, gli enti pubblici territoriali, gli enti che svolgono funzioni di rilievo costituzionale e gli altri enti pubblici non economici (Cass. penale n. 234/11).

Se si ragionasse diversamente, dovrebbero escludersi dall’ambito del fallimento tutte le società a capitale totalmente privato, che siano concessionarie di un pubblico servizio o affidatarie di un’attività di interesse pubblico. Inoltre, non si comprenderebbe la normativa sull’amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi che, invocando la richiamata dicotomia impresa-imprenditore, all’art. 27, comma 2 b-bis d. lgs. n. 270/9, prevede che le società operanti nel settore dei servizi pubblici essenziali possono conseguire il recupero dell’equilibrio economico delle attività imprenditoriale anche attraverso la cessione di complessi di beni e contratti sulla base di un programma di prosecuzione dell’esercizio di impresa di durata non superiore ad un anno.

Come immaginare un sistema che prevede l’esonero dalla procedura concorsuale solo per gli operatori economici, esercenti servizi pubblici essenziali, che non raggiungano le soglie dimensionali necessarie per accedere all’amministrazione straordinaria (Cass. n. 22209/13).

A favore dell’assoggettabilità delle società a partecipazione pubblica alle procedure concorsuali militano altre considerazioni.

Innanzitutto, esigenze di certezza del diritto, nonché la vigenza del principio generale secondo cui “nessun ente pubblico può essere istituito se non per legge” (art. 4 L. 70/75), oltre che il principio costituzionale in materia di organizzazione di cui all’art. 97 Cost. , che impongono che la qualificazione di una società di capitali in ente sostanzialmente pubblico avvenga esclusivamente per iniziativa del legislatore o sia, comunque, desumibile da un quadro normativo sufficientemente certo, non potendo, invece, derivare da una mera scelta dell’interprete in tal senso. (Cass. SS. UU. n. 26283 del 25. 11. 2013, in tema di responsabilità degli amministratori per i danni arrecati al patrimonio di società in house).

Il sistema di pubblicità legale, mediante il registro delle imprese, inoltre, determina nei terzi un legittimo affidamento sull’applicabilità alle società ivi iscritte di un regime di disciplina conforme al nomen juris dichiarato, affidamento che, invece, verrebbe deluso qualora il diritto societario venisse disapplicato e sostituito da particolari disposizioni pubblicistiche.

Sul versante degli interessi coinvolti, infatti, è stato sottolineato che non possono essere pretermessi i principi di affidamento e di uguaglianza rispetto ai vari soggetti privati con i quali la società in mano pubblica, ma con veste di società di diritto privato, entra in relazione, senza tacere della concorrenza che pure impone parità di trattamento tra gli operatori economici (App. Napoli 24. 4. 2013 e 27 maggio 2013).

Il fatto, poi, che il legislatore, in occasione della recente riforma fallimentare sull’art. 1 L. F. abbia ribadito, nella relativa relazione illustrativa, che l’esenzione dal fallimento fosse riferita ai soli enti pubblici, senza alcuna estensione alle società partecipate e che, attraverso la disciplina ex art. 2449 ss. c. c. , abbia scelto di regolare soltanto alcuni profili della materia (ovvero quelli concernenti la nomina e la revoca di rappresentanti dello Stato o degli altri enti pubblici negli organi di amministrazione e di controllo), rinunciando a dettare una disciplina organica sulle partecipazioni pubbliche, è coerente con la volontà di assoggettare le società partecipate al diritto comune invece che ad una normativa speciale.

Coerente, inoltre, all’art. 106 del trattato UE (ex art. 86 TCE) sulla parità di trattamento tra imprese pubbliche e private e, comunque, ad un sistema comunitario che tollera il riconoscimento di diritti speciali al socio pubblico solo eccezionalmente, in quanto espressamente previsti e al solo fine di evitare grave pregiudizio ad interessi essenziali.

Quella che viene intesa come una lacuna della disciplina, dunque, dovrebbe intendersi quale espressione di una precisa scelta di politica legislativa, volta ad equiparare il trattamento delle iniziative economiche pubbliche e di quelle private, assoggettando anche le prime, in caso di adozione della forma societaria, al diritto comune.

Detto altrimenti, la scelta della P. A. di acquisire partecipazioni in società private implica il suo assoggettamento alle regole proprie della forma giuridica prescelta (Cass. SS. UU. n. 26806/09). Anzi, è lo Stato stesso (o l’ente territoriale) che, pur potendo optare per una forma di diritto pubblico (impresa-organo o impresa-ente) si assoggetta volontariamente alla legge delle società per azioni, al fine di assicurare alla propria gestione maggiore snellezza e per godere delle opportunità che la forma privatistica offre.

Di questa scelta, però, non è possibile abusare, selezionando il regime cui di volta in volta sottostare.

Non può ignorarsi, infatti, che negli ultimi decenni le PP. AA. hanno abusato del privilegio derivante dall’affidamento diretto della gestione dei servizi pubblici a società partecipate, in deroga ai fondamentali principi della concorrenza tra imprese e della trasparenza.

Da una parte, vi è stata la progressiva tendenza ad ampliare l’ambito dei servizi pubblici, includendo non solo quelli aventi per oggetto attività economiche incidenti sulla collettività, ma anche quelli riguardanti attività tendenti a promuovere lo sviluppo socio-economico delle comunità locali, fino ad arrivare ad affidare a società partecipate addirittura tipiche attività istituzionali o strumentali dell’ente.

E’ il caso delle cc. dd. società strumentali, cioè quelle che svolgono attività rivolta agli stessi enti promotori o comunque azionisti della società, con funzioni di supporto delle amministrazioni pubbliche, quindi destinate essenzialmente alla P. A. (e che, seguendo la tricotomia impresa-organo, impresa-ente ed impresa-società, avrebbero dovuto assumere la forma della prima). La loro disciplina mira “ad evitare che un soggetto, che svolga attività amministrativa, eserciti allo stesso tempo attività d’impresa, beneficiando dei privilegi dei quali esso può godere in quanto P. A. ”.

Si è poi sviluppato in modo esponenziale un modello di gestione mediante società controllate (c. d. in house), in un’ottica rivolta solo formalmente alla aziendalizzazione dei servizi e ad una privatizzazione effettiva, in realtà sostanzialmente diretta ad eludere i procedimenti ad evidenza pubblica ed a sottrarre interi comparti della P. A. ai vincoli di bilancio.

Si tratta di una deriva che, ovviamente, non poteva essere assecondata.

La mutata prospettiva ha preso atto della crisi dell’intervento pubblico nell’economia, le cui cause sono state individuate: nell’eccessiva espansione dei settori d’intervento, con l’esternalizzazione di attività svolte da apparati amministrativi; nel graduale abbandono dell’ottica imprenditoriale, per il perseguimento di finalità politiche e sociali; nella dipendenza del sistema dal finanziamento gestito dal potere politico; nell’inesistenza della “sanzione economica” a tutela dell’equilibrio finanziario della gestione.

In quest’ottica, gli ultimi anni sono stati contrassegnati da un progressivo ridimensionamento della partecipazione statale nell’esercizio dell’attività d’impresa (al quale si è accompagnata, sul piano organizzativo istituzionale, l’abolizione del Ministero per le partecipazioni statali) ed una tendenza a moralizzare il fenomeno della partecipazione pubblica, che ha raggiunto il suo epilogo con le norme della spending review.

Il D.L. n. 95/12, convertito in L. 135/2012, ha dettato, in materia di società a partecipazione pubblica, una norma di generale rinvio alla disciplina codicistica delle società di capitali, precisando che: “Le disposizioni del presente articolo e le altre disposizioni, anche di carattere speciale, in materia di società a totale o parziale partecipazione pubblica si interpretano nel senso che, per quanto non diversamente stabilito e salvo deroghe espresse, si applica comunque la disciplina dettata dal codice civile in materia di società di capitali” (art. 4, comma 13).

Dalla lettura del Dossier del Servizio Studi del Senato, n. 32 del luglio 2012 n. 39 e del parere del Comitato per la legislazione del Senato sul disegno di legge n. 5389, si ricava la volontà del legislatore di attribuire alla norma in questione natura di norma di interpretazione autentica, “al fine di imprimere un indirizzo di cautela verso un processo di progressiva entificazione pubblica di tali società, valorizzando la forma privata societaria e la disciplina comune dell’attività rispetto alla sostanza pubblica del soggetto e della funzione”.

Inoltre, nella circolare della Regione Siciliana del 29.8.2012, prot. n. 5444 tale previsione è stata definita: “norma di chiusura”, che dovrebbe porre fine a questioni interpretazioni sul regime speciale e ordinario delle società di cui alla fattispecie.

Questa controspinta, nel senso del ritorno al diritto comune, talvolta è andata ben oltre quanto richiesto dal diritto comunitario (ad es. in tema di responsabilità degli amministratori), che invece assume un atteggiamento di completa neutralità tra proprietà pubblica e proprietà privata delle imprese, rilevando per esso soltanto che l’impresa pubblica non goda di regimi privilegiati, come quello che consente ad alcuni competitori, non individuati per legge, di continuare ad operare in perdita sul mercato sino a che non vengano poste in stato di liquidazione o venga loro revocato l’affidamento del servizio pubblico. (cfr. Cass. n. 11417/2013), con evidente alterazione della concorrenza.

La modifica dell’art. 2449 e l’abrogazione dell’art. 2450 c. c. , ad es. , sono stati determinati proprio dall’ordinamento comunitario (Corte giust. Ue, sez. I, 6 dicembre 2007), poiché gli articoli in questione assegnavano al socio pubblico un potere sproporzionato di incidere sulla governance della società.

Il sistema così delineatosi, inoltre, non appare compatibile con l’orientamento giurisprudenziale secondo cui per le società strumentali e in house non è possibile configurare un rapporto di alterità tra l’ente pubblico partecipante e la società stessa e neppure una separazione patrimoniale, risultando le stesse una sorta di articolazione interna alla stessa pubblica amministrazione e, quindi, legate ad essa da un vero e proprio rapporto di servizio, sempre che ricorrano i seguenti presupposti: a) natura esclusivamente pubblica dei soci; b) svolgimento dell’attività in prevalenza a favore dei soci stesso; c) sottoposizione ad un controllo corrispondente a quello esercitato dagli enti pubblici sui propri uffici”. Con la precisazione che detti requisiti debbano sussistere tutti contemporaneamente e debbano trovare il loro fondamento in precise e non derogabili disposizioni dello statuto sociale.

A meno che non se ne specifichi l’ambito di applicazione, come di recente ha fatto la Suprema Corte, che ha, finalmente, tracciato i confini della giurisdizione contabile, negando recisamente la validità di ricostruzioni panpubblicistiche, fondate su interpretazioni riqualificatorie della natura delle società in house, prive di base normativa ed in contrasto coi principi costituzionali di cui all’art. 101, comma 2, Cost. ed all’art. 97 Cost (Cass. SS. UU. n. 26283/2013).

In contrasto, altresì, per le ragioni sopra specificate, con le disposizioni di cui all’art. 2449, ult. comma c. c. , degli artt. 2380 bis e 2497 c. c. e dell’art. 4 del d. l. c. d. spending review, nonché con l’art. 106 del Trattato CE, perché introdurrebbe un modello di società in mano pubblica con tali scostamenti dal diritto comune da tradursi in una sostanziale immunità rispetto alle regole di mercato o di ingiustificato privilegio, con effetti di inefficienza economica per lo stesso sistema.

La qualificazione di società in house, insomma, riguarda esclusivamente l’ambito della responsabilità degli organi sociali per danni cagionati al suo patrimonio, con l’effetto di incardinare la giurisdizione in capo alla Corte dei Conti anziché al G. O. , e legittima, inoltre, la deroga delle regole sulle gare d’appalto, senza comportare una più generale riqualificazione della sua natura e senza avere alcuna ricaduta sull’assoggettamento alle procedure concorsuali.

La nozione di organismo di diritto pubblico (l’anello mancante o tertium genus), infatti,è stata introdotta dal codice degli appalti pubblici (d. lgs. n. 163/06), con la precisazione, all’art. 3 comma 26, che essa vale solo ai fini del codice.

La definizione di organismo di diritto pubblico è fornita dal Decreto Legislativo 25 febbraio 2000, n. 65, articolo 2 (che ha sostituito il Decreto Legislativo 17 marzo 1995, n. 157, articolo 2), il quale nello statuire, in materia di appalti pubblici, che rientrano tra le amministrazioni aggiudicatrici gli organismi di diritto pubblico, offre di detti organismi la seguente definizione: sono tali gli organismi dotati di personalità giuridica, istituiti per soddisfare specifiche finalità d'interesse generale, non aventi carattere industriale o commerciale, la cui attività è finanziata in modo maggioritario dallo Stato, dalle Regioni, dagli enti locali, da altri enti pubblici o organismi di diritto pubblico, o la cui gestione è sottoposta al controllo o i cui organi d'amministrazione, di direzione o di vigilanza sono costituiti, almeno per la metà, da componenti designati dai medesimi soggetti pubblici".

La Suprema Corte, inoltre, con sentenze n. 10299/2013 e n. 3037 del 11. 2. 2014, ha ribadito che la società non muta la sua natura privatistica in relazione al tipo di controllo esercitato dall’Ente pubblico. Ed anche di recente, sempre con riguardo alle società in house, in materia di concordato, la giurisprudenza di merito ha confermato che: In difetto di diversa qualificazione legislativa, deve ritenersi valido il principio generale della assoggettabilità alle procedure concorsuali delle imprese che abbiano assunto la forma societaria iscrivendosi nell'apposito registro e quindi volontariamente assoggettandosi alla disciplina privatistica (Tribunale Modena 10 gennaio 2014).

Senza contare che, nel caso di specie, spettava alla società debitrice eventualmente dimostrare la ricorrenza del requisito del “controllo analogo”, ossia d’essere sottoposta al controllo assoluto della P. A. o dell’ente pubblico territoriale, così penetrante da privare gli amministratori di effettivi e concreti poteri gestori, tanto da far ritenere la società partecipata una mera “articolazione interna”. Onere non assolto, posto che i descritti requisiti del c. d. organismo di diritto pubblico, come detto, devono trovare il loro fondamento in precise e non derogabili disposizioni dello statuto sociale. Lo Statuto dell’A. B. A. S. p. A. , però, non è stato prodotto.

Al contrario, dalla lettura della visura camerale emerge che: “al consiglio di amministrazione spettano i più ampi poteri di ordinaria e straordinaria amministrazione e, più segnatamente, ha la facoltà di compiere tutti gli atti che ritenga più opportuni per l’attuazione ed il raggiungimento degli scopi sociali; restano esclusi dalla sua competenza le materie che a norma di legge e di questo statuto sono riservate all’assemblea. Il consiglio di amministrazione, nei limiti previsti dall’art. 2381 c. c., può delegare particolari funzioni e compiere incarichi speciali al Presidente e all’amministratore delegato. Può, inoltre, nominare uno o più procuratori per determinati atti o categorie di atti”.

Neppure la lettura dei poteri associati alla carica di AD e di Presidente del CdA suggerisce una organizzazione sussumibile in un’articolazione interna dell’ente pubblico territoriale di riferimento.

Che l’AT0 Alto Belice Ambiente S. p. A. , poi, non abbia poteri coattivi di imposizione e riscossione della tariffa (che costituisce il corrispettivo del servizio erogato) e che debba stipulare contratti servizio per regolare i rapporti con i comuni del comprensorio territoriale di riferimento, confermerebbe la natura privatistica della società.

Nessun rilievo, inoltre, può attribuirsi alla responsabilità sussidiaria dei comuni del comprensorio territoriale, che non esclude, appunto, la responsabilità diretta della società di servizi.

L’oggetto dell’ATO, infatti, è quello di riorganizzare le modalità di gestione del servizio di smaltimento rifiuti, attraverso un’integrazione territoriale, e, più precisamente, consiste nella raccolta, trasporto, smaltimento e riciclaggio dei rifiuti solidi urbani e pericolosi e non, nello spazzamento delle vie, aree ed edifici pubblici, scerbamento e sterramento di strade ed aree aperte al pubblico, pulizia delle caditoie stradali,etc. nonché l’acquisto, la realizzazione e la gestione di impianti per il trattamento dei rifiuti; la bonifica di siti contaminati da attività di smaltimento di rifiuti e quant’altro necessario al mantenimento della pulizia e del decoro dell’ambiente territoriale. La società, inoltre, può svolgere attività di studi e ricerca in materia, nonché tutte le attività connesse ai servizi predetti, direttamente ovvero mediante convenzioni e/o incarichi, purché strumentali all’oggetto sociale; può inoltre emettere obbligazioni, compiere tutte le operazioni commerciali, industriali e finanziarie, mobiliari o immobiliari, prestare avalli, fidejussioni ed ogni altra garanzia anche reale; assumere direttamente o indirettamente interessenze o partecipazioni in consorzi e/o società, aventi oggetto analogo connesso od affine al proprio.

Non v’è dubbio, dunque, che indipendentemente dall’effettivo esercizio delle sopradescritte attività, essa svolge attività commerciale. Ed infatti, “le società costituite nelle forme previste dal codice civile ed aventi ad oggetto un’attività commerciale sono assoggettabili a fallimento, indipendentemente dall’effettivo esercizio di una siffatta attività, in quanto esse acquistano la qualità di imprenditore commerciale dal momento della loro costituzione, non dall’inizio del concreto esercizio dell’attività d’impresa, al contrario di quanto avviene per l’imprenditore commerciale individuale. Sicché, mentre quest’ultimo è identificato dall’esercizio effettivo dell’attività, relativamente alle società commerciali è lo statuto a compiere tale identificazione, realizzandosi l’assunzione della qualità in un momento anteriore a quello in cui è possibile, per l’impresa non collettiva, stabilire che la persona fisica abbia scelto, tra i molteplici fini potenzialmente raggiungibili, quello connesso alla dimensione imprenditoriale (Sez. 1, Sentenza n. 21991 del 06/12/2012).

Il requisito della lucratività, infine, è elemento essenziale ed imprescindibile ai fini della qualificazione della fattispecie societaria ex art. 2247 c. c., non potendo la presenza della partecipazione pubblica comportare una deviazione dallo scopo tipico previsto per legge.

Quanto alla ricorrenza degli ulteriori requisiti di fallibilità, risulta, innanzitutto, confermato il superamento dei limiti dimensionali di cui all’art. 1 comma I lettera b), ed altresì superato il valore di € 30. 000,00 per l’ammontare complessivo dei debiti, come previsto dall’art. 15, ultimo comma, della legge fallimentare, tenuto conto, oltre che delle risultanze della nota della Guardia di Finanza, dei debiti maturati nei confronti dell’Erario, pari ad €20. 357. 109,99, la pendenza di procedure esecutive e, in particolare, il pignoramento presso terzi notificato dalla curatela dell’AMIA S. p. A. per €3. 748. 864,27.

Anche considerando l’ammontare dei crediti esposti nei confronti dei Comuni, la circostanza che i predetti non si siano attivati al pagamento dei debiti pregressi, nonostante siano trascorsi ben oltre tre anni dalla messa in liquidazione delle Autorità d’Ambito Territoriale, lascia presagire una prolungata illiquidità, posto che l’adempimento integrale delle ragioni creditorie non può prescindere dall’azione giudiziaria, con consequenziale aggravamento dello stato di decozione.

Gli elementi innanzi riassunti dimostrano, dunque, la fallibilità dell’ABA, da ciò conseguendo, ai sensi del D. Lgvo n. 270/99, la sua assoggettabilità all’amministrazione straordinaria.

A tal proposito, si precisa che l’accertamento dello stato d’insolvenza, ai sensi dell’art. 3 D. Lgs. n. 270/99, può essere effettuato sia d’ufficio che su impulso del P. M. (oltre che dei creditori e dell’imprenditore)e che, nel caso di specie, la verifica dei presupposti di cui al D. Lgs. 270/99 è stata promossa dal Tribunale, nell’ambito nel procedimento per la declaratoria di fallimento promosso dal P. M. Inoltre, all’udienza del giorno 8. 8. 2014, nonché alla successiva del giorno 10. 10. 2014, il P. M. ha chiesto, subordinatamente alla verifica dei presupposti di cui al citato decreto legislativo, la declaratoria d’insolvenza.

Ai sensi dell’art. 8 D. Lgs n. 270/1999, alla dichiarazione dello stato d’insolvenza consegue la nomina del Giudice delegato per la procedura e del Commissario Giudiziale, designato in conformità alle indicazioni ricevute dal Ministro dello Sviluppo Economico, nonché la fissazione della data dell’udienza di accertamento del passivo e del termine perentorio per il deposito delle domande dei creditori e dei titolari di diritti reali o personali su beni della società.

Quanto, infine, alla gestione dell’impresa nel c. d. “periodo di osservazione” e, cioè, fino a quando non si provvederà a norma dell’art. 30 D. Lgs. n. 270/1999, ritiene il Collegio che tale gestione, anche in considerazione della particolare natura e delle peculiari caratteristiche del servizio svolto, vada, almeno allo stato, lasciato agli organi dell’Alto Belice Ambiente i quali, in applicazione del disposto dell’art. 67 L. F. , richiamato dall’art. 18 D. Lgs. n. 270/99, la eserciteranno sotto la vigilanza del Commissario Giudiziale.

 

P.Q.M.

Visti gli artt. 1, 5, 6, 9, 14 e 16 del R. D. 16 marzo 1942 n. 267, come modificato con d. lgs. n° 5/’06 e con d. lgs. n. 169/’07;

DICHIARA

lo stato d’insolvenza di:

Alto Belice Ambiente S. p. A. in liquidazione – in persona del suo liquidatore pro tempore - con sede legale in Monreale (PA), salita . . . n. 57, e sede effettiva in Monreale, via Regione Siciliana n. 49, iscritta alla sezione ordinaria della CCIAA il 10. 3. 2003 col n. 0. . . , numero REA PA-. . . , avente ad oggetto la gestione integrata dei rifiuti nell’A. T. O.

ORDINA

Al legale rappresentante della società di provvedere entro tre giorni al deposito dei bilanci, delle scritture contabili e fiscali obbligatorie e di un elenco dei creditori.

NOMINA

Giudice Delegato la Dott. ssa Raffaella Vacca e Commissario Giudiziale l’avv. Omissis

STABILISCE

il giorno 25 febbraio 2015ore 10,30, nei locali del Tribunale dinanzi al predetto Giudice Delegato, per la adunanza in cui si procederà alla verifica dello stato passivo.

ASSEGNA

ai creditori ed ai terzi che vantano diritti reali o personali su cose in possesso della società, il termine perentorio di trenta giorni prima dell’adunanza di cui al punto che precede per la presentazione, in via telematica, delle domande di insinuazione.

DISPONE

che la gestione dell’impresa, sino al decreto di apertura della procedura di amministrazione straordinaria ovvero sino al decreto che dichiari il fallimento, sia affidata agli organi della società, che la eserciteranno sotto la vigilanza del Commissario Giudiziale;

ORDINA

che la presente sentenza sia comunicata, pubblicata e affissa ai sensi degli artt. 8 e 94 D. Lgs. n. 270/1999 e 17 L. F. , nonché comunicata, entro tre giorni, al Ministero dello Sviluppo Economico.

ORDINA

la prenotazione a debito.

Così deciso in Palermo nella Camera di consiglio della sezione quarta civile e fallimentare del Tribunale il giorno 20 ottobre 2014

 

Depositata il 24/10/2014

 

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