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Consiglio di Stato, Sez. V, 18/5/2015 n. 2515
Sui criteri di inclusione nel c.d. 'elenco Istat' delle unità istituzionali che fanno parte del Settore Amministrazioni pubbliche (S.13).

La Fondazione La Triennale di Milano non deve essere inclusa nell'elenco ISTAT.

Ai fini dell'inserimento nel c.d. 'elenco Istat' di un ente o organismo nell'ambito del settore S13 postula la compresenza (e in via cumulativa) dei - quattro - requisiti ivi contemplati, e precisamente: i) l'essere tale ente o organismo privo di scopo di lucro; ii) l'essere dotato di personalità giuridica; iii) l'agire da produttore di beni o servizi 'non destinabili alla vendita'; iv) l'essere controllato e finanziato in prevalenza da amministrazioni pubbliche. Dal carattere cumulativo di tali requisiti discende che l'assenza anche di uno solo di essi non consentirà di ascrivere l'ente o organismo di cui si discute nell'ambito del richiamato settore S13. Ebbene, soffermandosi sul requisito sub iii), la pertinente disciplina di settore stabilisce che la qualificabilità come "produttore di beni o servizi non destinabili alla vendita" vada verificata in base al criterio del c.d. 'prezzo economicamente significativo' escludendo tale qualificabilità nelle ipotesi in cui i proventi delle 'vendite' coprono o meno una quota superiore del 50 per cento dei costi di produzione (in tal senso, i paragrafi 1.3 e 5.2 del 'Manuale SEC 95').

In applicazione di principi di matrice comunitaria deve ritenersi che l'organismo 'in house' (al di là del formale 'velo societario') si qualifichi come mera articolazione organizzativa interna dell'ente o organismo che lo controlla, in tal modo qualificando l'istituto medesimo come legittima declinazione del generale principio dell'autoproduzione (ovvero, per utilizzare la pregnante terminologia della direttiva 2014/23/UE, come corollario del 'principio di libera amministrazione delle autorità pubbliche'). Pertanto, nel caso di specie, in assenza di un'efficace contestazione della qualificazione della 'Triennale di Milano Servizi' come organismo 'in house' la Fondazione La Triennale di Milano è in grado di esercitare sull'organismo in questione "il potere di gestione come se si trattasse di una propria articolazione amministrativa, così costituita per la sola esigenza di distinguere sul piano contabile l'una e l'altra attività, peraltro riconducibili all'identica direzione". Ne consegue che, ai fini dell'applicazione del richiamato criterio del 50 per cento, i risultati delle attività di mercato svolti dall'organismo 'in house' sono certamente computabili al fine di valutare l'ascrivibilità dell'unicum economico/funzionale (i.e.: dell'ente/organismo controllante e di quello controllato) nell'ambito del più volte richiamato settore S13. Pertanto, difettava nel caso di specie uno dei presupposti (cumulativi e quindi parimenti indispensabili) perché fosse disposta l'inclusione della Fondazione La Triennale di Milano nell'ambito del Settore S13 di cui al Regolamento(CE) n. 2223/96 e, conseguentemente, perché fosse disposta la sua inclusione nell'elenco ISTAT per l'anno 2006 e quindi perché fosse disposta l'applicazione nei confronti della Fondazione delle disposizioni in materia di contenimento di spese per le amministrazioni pubbliche.


Materia: pubblica amministrazione / attività

N. 02515/2015REG.PROV.COLL.

 

N. 03437/2013 REG.RIC.

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta)

ha pronunciato la presente

 

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 3437 del 2013, proposto dall’ISTAT - Istituto Nazionale di Statistica, dal Ministero dell'Economia e delle Finanze e dal Ministero per i Beni e le Attività Culturali, rappresentati e difesi per legge dall’Avvocatura generale dello Stato, domiciliata in Roma, Via dei Portoghesi, 12

 

contro

Fondazione La Triennale di Milano, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati Francesco Perli e Letizia Mazzarelli, con domicilio eletto presso Letizia Mazzarelli in Roma, Via Panama, 18

 

per la riforma della sentenza del T.A.R. della Lombardia, Sezione I, n. 326/2013

 

Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

 

Visto l'atto di costituzione in giudizio della Fondazione ‘La Triennale’ di Milano;

 

Viste le memorie difensive;

 

Visti tutti gli atti della causa;

 

Relatore nell'udienza pubblica del giorno 2 aprile 2015 il Cons. Claudio Contessa e uditi per le parti l’avvocato dello Stato Stigliano Messuti, nonché gli avvocati Mazzarelli e Perli;

 

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue

 

FATTO

Le vicende all’origine del presente ricorso sono descritte nei termini che seguono nell’ambito dell’impugnata sentenza del T.A.R. della Lombardia.

La ricorrente in primo grado Fondazione La Triennale di Milano ha esposto in fatto di essere stata riconosciuta come ente pubblico autonomo con R.D. 25 giugno 1931, n. 349 e di essere stata trasformata in fondazione di diritto privato senza scopo di lucro con decreto legislativo 20 luglio 1999, n. 273, garantendo la personalità giuridica di diritto privato, in luogo di quella pubblica, la possibilità di un migliore e più razionale svolgimento delle proprie funzioni.

Queste ultime si riassumono, a norma dello statuto, nello svolgimento e nella promozione di plurime attività con particolare riferimento ai settori dell’architettura, dell’urbanistica, delle arti decorative e visive, del design, dell’artigianato, della produzione industriale, della moda, della comunicazione audiovisiva e dell’organizzazione di esposizioni di rilievo nazionale e internazionale.

La Fondazione La Triennale di Milano provvede al perseguimento dei fini statutariamente previsti, giovandosi del proprio patrimonio, dei proventi delle viste attività, nonché di contributi da parte dello Stato, di enti pubblici territoriali e di altri enti, oltre che di quelli elargiti dai cosiddetti partecipanti istituzionali e dai partecipanti.

La Fondazione è gestita da un consiglio di amministrazione, i cui soci a designazione pubblica ne costituiscono la maggioranza.

Il comma 3 dell’articolo 3 del richiamato decreto legislativo n. 273 del 1999 ha autorizzato la costituzione di società di capitali, a condizione che non siano perseguiti utili e che, comunque, l’eventuale surplus rispetto alle spese occorse sia destinato ai fini istituzionali.

Con atto notarile in data 16 dicembre 2002 la ricorrente ha costituito (ai sensi dell’articolo 3 del decreto legislativo 273 del 1999) la società unipersonale Triennale di Milano Servizi S.r.l., interamente posseduta e controllata dalla ricorrente e alla stessa è stato affidato il compito di dar corso alle attività commerciali.

Operando attraverso strumenti privatistici, la struttura del bilancio è mutata, ricercando la Fondazione autonomamente il proprio equilibrio economico, continuando in ogni caso a fruire di contributi pubblici, che assommerebbero al 30 per cento circa dei ricavi e che le sarebbero assegnati periodicamente senza integrare alcun obbligo da parte del soggetto pubblico erogante.

 Su tale posizione di autonomia e di equilibrio finanziario, nel quale il bilancio consolidato per l’esercizio 2005 esponeva ricavi pari ad euro 7.094.805,00, ivi compresi i contributi pubblici per euro 2.520.223,00, nonché costi per euro 7.090.286,00, ha inciso il decreto-legge 4 luglio 2006, n. 223, convertito, con modificazioni, dalla legge 4 agosto 2006, n. 248, il cui articolo 22 prescriveva la riduzione delle spese di funzionamento per enti e organismi pubblici non territoriali per il 2006 nella misura del 10 per cento e comunque nei limiti delle disponibilità non impiegate alla data di sua entrata in vigore.

Al detto contenimento delle spese si associava l’obbligo di riversare nel bilancio dello Stato la corrispondente somma con ulteriore previsione che, per il triennio 2006 - 2009, le previsioni di spesa non potessero superare l’80 per cento di quelle dell’anno 2006: in difetto di una puntuale osservanza di quanto così stabilito i bilanci degli enti e degli organismi pubblici non sarebbero stati approvati da parte delle rispettive Amministrazioni vigilanti.

 Lo stesso articolo 22 faceva, poi, riferimento, quanto al suo spettro di applicazione, all’elenco allegato al comma 5 dell’articolo 1 della l. 30 dicembre 2004, n. 311, la quale a sua volta prevedeva che, per l’anno 2006, gli enti e le amministrazioni pubbliche assoggettate alla vista disciplina, fossero individuate dall’Istituto nazionale di statistica con proprio provvedimento pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale non oltre il 31 luglio di ogni anno.

E dunque avverso detta statuizione, che aveva incluso nell’elenco dei soggetti obbligati a rispettare la vista disciplina anche la Fondazione La Triennale di Milano, veniva proposto il primo ricorso che il T.A.R. della Lombardia accoglieva ritenendolo fondato.

La sentenza in questione è stata impugnata in sede di appello dall’ISTAT, dal Ministero dell’Economia e delle Finanze e dal Ministero per i Beni e le Attività culturali i quali ne hanno chiesto la riforma articolando plurimi motivi.

Con un primo motivo (pagine da 4 a 6 dell’atto di appello) gli appellanti lamentano che i primi Giudici non abbiano rilevato l’improcedibilità del ricorso di primo grado per avere la Fondazione appellata omesso di impugnare gli elenchi ISTAT successivi all’anno 2006.

E infatti, gli elenchi in questione (nel cui ambito la Fondazione appellata era sempre stata inserita) si sarebbero integralmente sostituiti a quello impugnato in primo grado e avrebbero consolidato il paventato nocumento prodotto dall’iniziale inserimento nell’elenco relativo all’anno 2006.

 Del resto, non potrebbe in alcun modo ritenersi che l’eventuale annullamento di un elenco si ripercuota su quelli degli anni successivi, non trattandosi di un unico elenco ‘aggiornabile’ nel corso degli anni, bensì di diversi elenchi che vengono predisposti ex novo di anno in anno (oltretutto, la Fondazione appellante risulta inserita anche nell’elenco relativo all’anno 2012).

A questo punto del ricorso in appello le amministrazioni appellanti svolgono una breve disamina sulle previsioni di cui al Regolamento(CE) 25 giugno 1996, n 2223 (‘Regolamento del Consiglio relativo al Sistema europeo dei conti nazionali e regionali nella Comunità’ – c.d. sistema europeo dei conti nazionali o ‘SEC 95’) e sulle modalità di predisposizione del conto economico consolidato delle amministrazioni pubbliche nell’ambito della procedura per deficit eccessivi di cui all’articolo 126 del TFUE (pagine da 6 a 10 dell’atto di appello).

 Al riguardo l’Istituto appellante rammenta che l’elaborazione del conto economico consolidato si basa sulla corretta individuazione delle unità istituzionali che fanno parte del Settore ‘Amministrazioni pubbliche’ (AP) denominato S13 secondo i criteri di cui al richiamato regolamento n. 2223/96 e del relativo ‘Manuale del SEC 95 sul disavanzo e sul debito pubblico’.

La qualificazione di un Ente o Organismo come ‘Unità istituzionale’ e il suo inserimento nell’ambito del Settore ‘Amministrazioni Pubbliche’ - S13 sono disciplinate dai paragrafi 2.12, 2.68 e 2.69 del Regolamento.

In particolare, le disposizioni da ultimo richiamate stabiliscono che ciò che distingue le ‘Unità istituzionali’ è il fatto di agire quali “produttori di beni e servizi non destinabili alla vendita”.

Tale carattere viene a sua volta identificato in base al c.d. ‘criterio del 50 per cento’ il quale consiste nell’accertare se i ricavi per prestazioni di servizi, realizzati in situazioni e condizioni di mercato, coprano una quota superiore al 50 per cento dei costi di produzione.

Tanto premesso dal punto di vista generale, le amministrazioni appellanti passano ad articolare i propri motivi di censura – per così dire – ‘di carattere sostanziale’.

In primo luogo (pagine da 10 a 17 dell’atto di appello) esse lamentano che i primi Giudici abbiano erroneamente affermato che le previsioni in materia di contenimento della spesa pubblica di cui al comma 5 dell’articolo 1 della l. 30 dicembre 2004, n. 311 e di cui all’articolo 22 del decreto-legge 4 luglio 2006, n. 223 comportino ex se l’assoggettamento a tali previsioni delle amministrazioni e degli Enti ivi contemplati (fino ad affermare che “è con la statuizione di inserzione nella lista che si costituiscono gli obblighi ricadenti sugli enti che ivi figurano iscritti”).

In tal modo decidendo i primi Giudici avrebbero commesso un vero e proprio errore di prospettiva, omettendo di considerare:

 

- che nessuna delle due disposizioni richiamate (il comma 5 dell’articolo 1 della l. 311 del 2004 e l’articolo 22 del decreto-legge 223 del 2006) rimette direttamente all’Istituto il compito di individuare le amministrazioni e gli Enti da assoggettare alle richiamate previsioni in materia di contenimento della spesa pubblica;

 

- che, al contrario, entrambe le disposizioni si limitano ad assumere (peraltro, con alcune significative eccezioni) il contenuto di un elenco predisposto per mere finalità statistiche e vi ‘ritagliano’ un diverso e autonomo perimetro applicativo, in tal modo funzionalizzando il contenuto di quell’elenco alle esigenze proprie di una complessiva disciplina finalizzata al contenimento della spesa pubblica (al riguardo l’Istituto appellante ribadisce che le richiamate disposizioni “hanno semplicemente assunto una determinata classificazione statistica – già ricadente nell’ambito di una specifica disciplina comunitaria – quale strumento per l’individuazione dei destinatari dei precetti da esse stesse dettate (…)”).

 

In definitiva, i primi Giudici avrebbero erroneamente omesso di considerare “l’indubbia autonomia del censurato elenco e delle relative regole di compilazione e di aggiornamento rispetto agli effetti che le diverse disposizioni legislative nazionali di carattere finanziario vi collegano”, in tal modo concludendo – in modo parimenti erroneo – nel senso sia stata l’iscrizione nell’elenco medesimo a determinare le conseguenze in tema di obbligo di rispetto di taluni vincoli di finanza pubblica (si tratta, in particolare: i) del divieto di superare il vincolo/limite del 2 per cento rispetto alle corrispondenti previsioni del precedente anno per ciò che riguarda la dinamica della spesa complessiva – l. 311 del 2004 - e ii) dell’obbligo di limitare le spese per consumi intermedi – decreto-legge n. 223 del 2006 -).

 

Sotto altro – ma connesso - profilo la sentenza in epigrafe sarebbe meritevole di riforma per avere i primi Giudici omesso di considerare che non è certamente l’inclusione nel c.d. ‘elenco ISTAT’ a determinare in modo diretto effetti pregiudizievoli nella sfera giuridica delle amministrazioni, enti e organismi inclusi.

Al contrario, tale inclusione rappresenta di per sé un fenomeno ‘neutro’ nell’ambito della fattispecie (e si caratterizza come mera risultante dell’esercizio di discrezionalità tecnico-amministrativa, peraltro condotta in applicazione di parametri di univoca lettura).

L’attività tecnico-valutativa a tal fine realizzata dall’Istituto si limita quindi a recepire “[una] manifestazione di scienza che presuppone l’acquisizione di elementi valutativi attraverso una analitica istruttoria, alla quale fa seguito l’enunciazione di un giudizio di carattere tecnico”.

Anche sotto tale aspetto, quindi, la sentenza in epigrafe sarebbe meritevole di riforma per avere i primi Giudici omesso di considerare che l’inclusione nell’elenco in parola costituisce una mera “certificazione statistica emanata in attuazione di norme tecniche dettate dal Regolamento SEC 95” e che essa, pertanto, non è idonea ad arrecare un effettivo vulnus alla sfera giuridica delle amministrazioni ed enti coinvolti (laddove tale effetto è piuttosto da ricondurre alle disposizioni di legge che all’inclusione nell’elenco ISTAT abbiano fatto espresso riferimento e rinvio).

Con un ulteriore motivo (pagine da 17 a 21 del ricorso in appello) l’ISTAT lamenta che erroneamente i primi Giudici abbiano annullato l’inclusione della Fondazione appellata nell’elenco dell’anno 2006 per quanto riguarda l’applicazione del c.d. ‘test market – non market’ (ci si riferisce alla previsione di cui a punto 2.68 del Regolamento SEC 95, secondo cui “il settore amministrazioni pubbliche (S.13) comprende tutte le unità istituzionali che agiscono da produttori di altri beni e servizi non destinabili alla vendita (cfr. paragrafo 3.26) la cui produzione è destinata a consumi collettivi e individuali ed è finanziata in prevalenza da versamenti obbligatori effettuati da unità appartenenti ad altri settori e/o tutte le unità istituzionali la cui funzione principale consiste nella redistribuzione del reddito e della ricchezza del paese” e di cui al successivo punto 2.69, secondo cui rientrano nel settore S13 “le istituzioni senza scopo di lucro dotate di personalità giuridica che agiscono da produttori di altri beni e servizi non destinabili alla vendita, che sono controllate e finanziate in prevalenza da amministrazioni pubbliche”).

In particolare i primi Giudici avrebbero erroneamente ritenuto che, al fine di applicare la c.d. ‘regola del 50 per cento’ (volta ad individuare l’eventuale prevalenza di servizi non destinabili alla vendita)

- non ci si potesse limitare ad esaminare i dati di bilancio della sola Fondazione appellata (la quale, effettivamente, ritrae dal mercato meno del 50 per cento dei suoi costi di produzione)

- ma si dovessero considerare i dati del bilancio consolidato della ‘Holding Triennale’ (comprensivo anche delle cospicue vendite sul mercato operate dalla società ‘in house’ Triennale Milano Servizi s.r.l., interamente posseduta dalla Fondazione appellata).

Le conclusioni cui sono conseguentemente pervenuti i primi Giudici (i quali, sulla base dei dati di bilancio consolidato, hanno ritenuto che la ‘Holding Triennale’ fosse da escludere dal settore S13 in quanto ritrae dalle attività di mercato più del 50 per cento dei propri costi di gestione) risulterebbe erronea in quanto fondata su un presupposto metodologico fallace

Infatti, se i primi Giudici avessero correttamente applicato il paragrafo 2.14 del Regolamento SEC 95, avrebbero dovuto conseguentemente escludere che la Fondazione appellata fosse qualificabile come ‘holding’, risultando carente dei presupposti e delle condizioni a tal fine posti dal medesimo paragrafo 2.14.

 Con un ulteriore motivo di ricorso (pagine 21 e 22 dell’atto di appello) l’Istituto appellante chiede la riforma della sentenza in epigrafe per la parte in cui i primi Giudici hanno ritenuto difettare, nel caso di specie, il requisito del ‘controllo pubblico’ che necessariamente deve caratterizzare il rapporto fra un’amministrazione pubblica e un’istituzione senza scopo di lucro perché quest’ultima sia legittimamente inclusa nell’ambito del settore S13.

In tal modo decidendo il TAR avrebbe omesso di considerare:

 

- che, nel corso di primo grado, la stessa Fondazione appellata aveva riconosciuto di essere controllata da amministrazioni pubbliche;

 

- che, in base al paragrafo 2.26 del Regolamento SEC 95, il potere detenuto da amministrazioni pubbliche di designare la maggioranza dei rappresentanti e di determinare la politica generale o i programmi di un’istituzione senza scopo di lucro costituiscono elementi determinanti per giustificare l’inclusione di tale istituzione nel settore S13. Ebbene, dagli atti di causa risulterebbe in modo indubbio che, per quanto riguarda la Fondazione appellata, la maggioranza dei componenti del Consiglio di amministrazione è certamente di designazione pubblica (non deponendo in senso contrario il fatto che essi, una volta nominati, siano tenuti ad operare “nell’esclusivo interesse della Fondazione senza vincolo di mandato”). Allo stesso modo, sarebbe indubbio il potere esercitabile dalle pubbliche amministrazioni di riferimento di influenzare la politica generale e i programmi della Fondazione, potendo esse giungere sino a disporre il commissariamento della Fondazione medesima.

Con l’ultimo motivo di appello l’ISTAT chiede la riforma della sentenza in epigrafe anche in relazione al capo relativo all’addebito delle spese di lite.

In particolare, la sentenza in epigrafe risulterebbe meritevole di riferma per la parte in cui ha ritenuto di addossare le spese di lite - in solido - all’Istituto e al Ministero per i beni e le attività culturali, disponendo al contempo (e in modo immotivato) la compensazione nei confronti del Ministero dell’economia e delle finanze.

Si è costituita in giudizio la Fondazione La Triennale di Milano la quale ha concluso nel senso della reiezione dell’appello.

Con ordinanza n. 4867/2013 (resa all’esito della Camera di consiglio del 5 dicembre 2013) questo Consiglio ha respinto l’istanza di sospensione cautelare degli effetti della sentenza in epigrafe.

Alla pubblica udienza del 2 aprile 2015 il ricorso è stato trattenuto in decisione.

 

DIRITTO

1. Giunge alla decisione del Collegio il ricorso in appello proposto dall’ISTAT, dal Ministero dell’Economia e delle Finanze e dal Ministero per i Beni e le Attività culturali avverso la sentenza del T.A.R. della Lombardia con cui è stato accolto il ricorso proposto dalla Fondazione La Triennale di Milano e, per l’effetto, è stato annullato in parte qua il provvedimento con cui l’ISTAT ha formato l’elenco delle amministrazioni pubbliche inserite nel conto economico consolidato ai sensi del comma 5 dell’articolo 1 della l. 30 dicembre 2004, n. 311.

 

2. Il Collegio osserva in primo luogo che non può essere condiviso il motivo con cui l’Istituto appellante ha lamentato la mancata declaratoria di improcedibilità del primo ricorso per non avere la Fondazione appellata proceduto ad impugnare anche gli ‘elenchi ISTAT’ relativi agli anni successivi al 2006.

 

2.1. Al riguardo si osserva in primo luogo che i presupposti fattuali da cui prende le mosse l’argomento a tal fine profuso dall’Istituto risultano in parte inesatti, risultando che la Fondazione ‘La Triennale di Milano’ abbia quanto meno impugnato con motivi aggiunti l’elenco ISTAT per l’anno 2007 pubblicato in data 31 luglio 2007.

 

2.2, Si osserva in secondo luogo che, ai sensi dell’articolo 35, comma 1, lettera c), del cod. proc. amm., il Giudice amministrativo deve dichiarare – anche d’ufficio – il ricorso improcedibile “quando nel corso del giudizio sopravviene il difetto di interesse delle parti alla decisione (…) ovvero sopravvengono altre ragioni ostative ad una pronuncia sul merito”.

Ora, tale disposizione legislativa deve essere ricollegata alla tradizionale – e qui condivisa – nozione di interesse al ricorso (e alla relativa decisione) intesa come l’utilità concreta che il ricorrente, nella situazione giuridica e di fatto in cui versa, si ripromette di ottenere dall’accoglimento del ricorso, sia pure in via indiretta e strumentale (sul punto –ex multis -: Cons. Stato, IV, 3 settembre 2014, n. 4488, id., VI, 22 febbraio 2013, n. 1094).

 

Ebbene, riconducendo i principi in questione alle peculiarità del caso di specie, è evidente la permanente sussistenza di un interesse alla coltivazione del ricorso proposto avverso l’inclusione dell’Istituto appellato nel c.d. ‘elenco ISTAT’ del 2006, se solo si consideri:

 

- che i presupposti fattuali e tecnico/giuridici che presiedono all’inserimento (o al non inserimento) dell’Istituto appellante nell’ambito del c.d. elenco ISTAT non sono sostanzialmente modificati nel corso degli anni. Ne consegue che, una volta ottenuta una decisione giurisdizionale che palesa l’iniziale carenza di quei presupposti, le ragioni in fatto e in diritto sottese a quella pronuncia possono essere vantate al fine di richiedere l’esclusione dall’inserimento anche per gli anni successivi;

 

- che è proprio la reiterazione nel tempo delle valutazioni che presiedono al richiamato inserimento a confermare la permanenza di un interesse alla coltivazione del ricorso proposto avverso tale inserimento, anche se relativo ad anni pregressi. Si intende con ciò rappresentare che l’avvenuto inserimento in elenco per gli anni successivi al 2006 non ha in alcun modo consolidato una situazione fattuale sfavorevole all’Istituto appellato in quanto l’obbligo ex lege di ripetere di anno in anno le valutazioni tecnico/valutative sottese all’inserimento fa permanere in capo agli Enti ed organismi che tali valutazioni abbiano inizialmente contestato un evidente interesse alla corretta definizione e configurazione delle regole che presiedono all’inserimento stesso anche per il futuro.

Pertanto, deve essere respinto il motivo di ricorso con cui si è lamentato che i primi Giudici avrebbero omesso di dichiarare l’improcedibilità del primo ricorso.

 

3. L’articolato motivo di ricorso articolato dalle pagine 10 a 17 dell’atto di appello può essere condiviso in via di principio ma non può condurre alle conseguenze auspicate dall’Istituto appellante.

 

3.1. Come si è anticipato in narrativa, con tale motivo di ricorso si è chiesta la riforma della sentenza di primo grado per la parte in cui si è postulata l’immediata valenza lesiva dell’inserimento nei cc.dd. ‘elenchi ISTAT’ sino ad affermare che “è con la statuizione di inserzione nella lista che si costituiscono gli obblighi ricadenti sugli enti che ivi figurano iscritti”.

 

Al riguardo l’Istituto appellante ha rilevato – non senza fondamento – che non è la predisposizione in sé degli elenchi di cui al comma 5 dell’articolo 1 della l. 311 del 2004 (e, in seguito, di cui al comma 2 dell’articolo 1 della l. 196 del 2009) a determinare un nocumento alle amministrazioni, enti e organismi ivi inseriti (nocumento che deriverebbe piuttosto dalla disposta applicazione delle disposizioni in tema di contenimento della spesa pubblica di cui al comma 5 dell’articolo 1 della l. 30 dicembre 2004, n. 311 e di cui all’articolo 22 del decreto-legge 4 luglio 2006, n. 223).

 

Sotto tale aspetto – e in modo sostanzialmente condivisibile - l’Istituto appellante ha osservato:

 

- che la predisposizione degli elenchi in questione muove da finalità eminentemente statistiche e contabili (quali quelle, proprie del Regolamento (CE) n. 2223/96, di pervenire a un quadro contabile il più possibile condiviso e armonizzato al livello UE, fornendo informazioni comparabili, aggiornate ed attendibili sulla struttura e sull'andamento della situazione economica di ogni Paese, in tal modo contribuendo all'attuazione e al monitoraggio dell'Unione economica e monetaria);

 

- che, tuttavia, il Legislatore nazionale ha talvolta ritenuto di utilizzare gli elenchi e le classificazioni operate ai fini di cui al Regolamento (CE) n. 2223, cit. al diverso – e comunque legittimo – fine di perseguire particolari obiettivi di contenimento delle spese riferibili al c.d. ‘settore pubblico allargato’, in tal conferendo al contenuto del c.d. ‘elenco ISTAT’ (al quale peraltro vengono operati alcuni interventi ‘per sottrazione’ – es.: il comma 1 dell’articolo 22 del decreto-legge n. 223 dl 2006 -) una connotazione e una finalità in parte diverse rispetto a quelle originarie, tipiche di una mera elencazione con finalità statistiche e contabili.

 

3.2. Allo stesso modo, possono essere condivise in via di principio le premesse logico-sistematiche da cui muove l’Istituto per ciò che riguarda le attività tecnico-valutative che preludono alla predisposizione dell’elenco.

Al riguardo le amministrazioni appellanti hanno rilevato – non senza fondamento – che le attività a tal fine realizzate devono limitarsi alla coerente e puntuale applicazione di regole e criteri piuttosto rigorosi recati dalla pertinente disciplina comunitaria (in particolare: il Reg(CE) 2223/96 e il relativo ‘Manuale’) limitandosi ad enunciare un giudizio di carattere tecnico che si concreta in una pura e semplice “certificazione statistica”.

 

3.3. Ma il punto centrale ai fini della presente decisione è che il richiamato giudizio di “certificazione statistica”, pur se vincolato in base alla rigida applicazione delle disciplina tecnica di settore, postula pur sempre il corretto apprezzamento dei rilevanti presupposti fattuali e l’altrettanto corretta individuazione delle regole tecnico/giuridiche di riferimento.

Si intende in tal modo rappresentare che, pur riconoscendo gli oggettivi margini di valutazione che devono essere riconosciuti alle amministrazioni deputate all’esercizio di attività tecnico-discrezionali (e all’apprezzamento dei sottostanti presupposti fattuali), resta pur sempre rimessa all’Autorità giurisdizionale la verifica in ordine al corretto apprezzamento da parte dell’amministrazione di settore dei richiamati presupposti fattuali, nonché in ordine alla corretta individuazione dei connessi profili e delle pertinenti regole tecniche di riferimento.

 

4. Tanto premesso dal punto di vista generale, si può passare all’esame di merito del ricorso (i.e.: alla questione relativa al se l’inserimento della Fondazione appellante nel c.d. ‘elenco Istat’ per l’anno 2006 sia stato disposto in base a un corretto apprezzamento dei pertinenti presupposti di fatto e alla parimenti corretta individuazione delle pertinenti regole tecnico/giuridiche di riferimento).

 

4.1. Sotto tale aspetto l’appello in epigrafe non può trovare accoglimento.

 

4.2. E’ pacifico in atti che l’inclusione della Fondazione appellata nell’ambito del richiamato elenco sia stata disposta in (asserita) applicazione dei paragrafi 2.68 e 2.69, lettera b) del Regolamento SEC 95.

 

In particolare:

 

- il paragrafo 2.68 reca la definizione del ‘settore amministrazioni pubbliche (S13)’, il quale “comprende tutte le unità istituzionali che agiscono da produttori di altri beni e servizi non destinabili alla vendita (cfr. paragrafo 3.26) la cui produzione è destinata a consumi collettivi e individuali ed è finanziata in prevalenza da versamenti obbligatori effettuati da unità appartenenti ad altri settori e/o tutte le unità istituzionali la cui funzione principale consiste nella redistribuzione del reddito e della ricchezza del paese”;

 

- il successivo paragrafo 2.69, ai fini che qui rilevano, stabilisce che “le unità istituzionali comprese nel settore S.13 sono le seguenti: (…) b) le istituzioni senza scopo di lucro dotate di personalità giuridica che agiscono da produttori di altri beni e servizi non destinabili alla vendita, che sono controllate e finanziate in prevalenza da amministrazioni pubbliche”.

 

Ebbene, soffermandosi sulla seconda delle richiamate previsioni si osserva che l’inclusione di un ente o organismo nell’ambito del settore S13 postula la compresenza (e in via cumulativa) dei – quattro – requisiti ivi contemplati, e precisamente: i) l’essere tale ente o organismo privo di scopo di lucro; ii) l’essere dotato di personalità giuridica; iii) l’agire da produttore di beni o servizi ‘non destinabili alla vendita’; iv) l’essere controllato e finanziato in prevalenza da amministrazioni pubbliche.

 

Dal carattere cumulativo di tali requisiti discende che l’assenza anche di uno solo di essi non consentirà di ascrivere l’ente o organismo di cui si discute nell’ambito del richiamato settore S13.

 

Ebbene, soffermandosi sul requisito sub iii), la pertinente disciplina di settore stabilisce che la qualificabilità come “produttore di beni o servizi non destinabili alla vendita” vada verificata in base al criterio del c.d. ‘prezzo economicamente significativo’ escludendo tale qualificabilità nelle ipotesi in cui i proventi delle ‘vendite’ coprono o meno una quota superiore del 50 per cento dei costi di produzione (in tal senso, i paragrafi 1.3 e 5.2 del ‘Manuale SEC 95’).

 

Ora, è incontestato fra le parti che

 

- laddove, ai fini dell’applicazione del c.d. ‘criterio del 50 per cento’ si computino anche le attività di mercato svolte dalla società in house ‘Triennale di Milano Servizi’ s.r.l. (interamente posseduta dalla Fondazione appellata) l’effetto sarà quello di escludere l’iscrizione della Fondazione appellata nel settore S13;

 

- viceversa, laddove ai medesimi fini si escludano le richiamate attività, l’effetto sarà quello di confermare la richiamata iscrizione.

 

L’Istituto appellante sottolinea che la computabilità, ai richiamati fini, delle attività svolte dalla società in house ‘Triennale di Milano Servizi’ è da escludere in quanto la Fondazione appellata non è qualificabile come ‘holding’ ai sensi dei paragrafi 2.14 e 2.26 del Regolamento SEC 95 (non avendo, in particolare, quale funzione principale quella di “controllare e dirigere un gruppo di società controllate”).

 

4.3. Ritiene, tuttavia, il Collegio che la questione non vada impostata in base alla controversa qualificabilità della Fondazione appellata come ‘holding’, bensì in base alla diversa (e logicamente preliminare) questione relativa ai rapporti fra l’Ente/organismo controllante e il proprio organismo ‘in house’.

Va premesso al riguardo che l’ISTAT non ha impugnato il capo della sentenza (invero, determinante ai fini del decidere) con cui si qualificava la ‘Triennale Milano Servizi’ come “una specie di società in house”. Al contrario, tale qualificazione è stata espressamente richiamata – e senza contestazioni di sorta – nello stesso atto di appello (pag. 17).

Pertanto, deve ritenersi che non sussista contestazione in ordine alla qualificabilità della richiamata società strumentale come organismo ‘in house’ della Fondazione appellata.

Ma se ciò è vero, ne consegue che (pure a prescindere dal richiamo alla disciplina di settore inerente il diverso fenomeno delle cc.dd. ‘holding pubbliche’) i dati economico-finanziari riferibili alla società ‘in house’ debbano essere correttamente computati in modo unitario rispetto a quelli dell’ente o organismo controllante.

Ciò in quanto, in coerente applicazione di principi di matrice in primis eurounitaria, deve ritenersi che l’organismo ‘in house’ (al di là del formale ‘velo societario’) si qualifichi come mera articolazione organizzativa interna dell’ente o organismo che lo controlla, in tal modo qualificando l’istituto medesimo come legittima declinazione del generale principio dell’autoproduzione (ovvero, per utilizzare la pregnante terminologia della direttiva 2014/23/UE, come corollario del ‘principio di libera amministrazione delle autorità pubbliche’).

Pertanto, in assenza di un’efficace contestazione della qualificazione della ‘Triennale di Milano Servizi’ come organismo ‘in house’ della Fondazione appellata, devono essere puntualmente confermate le deduzioni dei primi Giudici secondo cui la Fondazione appellata è in grado di esercitare sull’organismo in questione “il potere di gestione come se si trattasse di una propria articolazione amministrativa, così costituita per la sola esigenza di distinguere sul piano contabile l’una e l’altra attività, peraltro riconducibili all’identica direzione”.

E la coerente conseguenza di tale ricostruzione è nel senso che, ai fini dell’applicazione del richiamato criterio del 50 per cento, i risultati delle attività di mercato svolti dall’organismo ‘in house’ siano certamente computabili al fine di valutare l’ascrivibilità dell’unicum economico/funzionale (i.e.: dell’ente/organismo controllante e di quello controllato) nell’ambito del più volte richiamato settore S13.

 

4.4. Conseguentemente, difettava nel caso di specie uno dei presupposti (cumulativi e quindi parimenti indispensabili) perché fosse disposta l’inclusione della Fondazione appellata nell’ambito del Settore S13 di cui al Regolamento(CE) n. 2223/96 e, conseguentemente, perché fosse disposta la sua inclusione nell’elenco ISTAT per l’anno 2006 e quindi – in via ulteriormente mediata – perché fosse disposta l’applicazione nei confronti della Fondazione delle disposizioni in materia di contenimento di spese per le amministrazioni pubbliche richiamate in narrativa.

 

4.5. Di tanto ha verosimilmente maturato consapevolezza lo stesso Istituto appellante il quale – secondo le risultanze in atti – ha escluso la Fondazione appellata dall’elenco delle amministrazioni pubbliche per il 2013 (si tratta dell’elenco pubblicato sulla G.U.R.I. – serie generale - del 20 settembre 2013).

 

5. Per le ragioni dinanzi esposte l’appello in epigrafe deve essere respinto.

Quanto al regolamento delle spese il Collegio ritiene – in parziale riforma della sentenza appellata – che la particolarità e parziale novità delle questioni in fatto e in diritto sottese alla presente decisione giustifichino l’integrale compensazione fra le parti in relazione al doppio grado di giudizio.

 

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta) definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo respinge nei sensi di cui in motivazione.

 

Spese del doppio grado compensate.

 

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.

 

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del giorno 2 aprile 2015, con l'intervento dei magistrati:

Maurizio Meschino, Presidente FF

 

Claudio Contessa, Consigliere, Estensore

 

Gabriella De Michele, Consigliere

 

Andrea Pannone, Consigliere

 

Vincenzo Lopilato, Consigliere

 

L'ESTENSORE

 

IL PRESIDENTE

 

DEPOSITATA IN SEGRETERIA

Il 18/05/2015

 

IL SEGRETARIO

(Art. 89, co. 3, cod. proc. amm.)

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