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TAR Lazio, sez. I quater, 19/9/2017 n. 9828
Non è manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 14, c. 1-bis e c.1-ter del d. l.vo14 marzo 2013, n. 33, nella parte che prevede la pubblicazione dei redditi dei dirigenti sul sito web dell'Amministrazione.

E' rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 14, comma 1-bis e comma 1-ter del decreto legislativo 14 marzo 2013, n. 33, inseriti dall'art. 13, comma 1, lett. c), del decreto legislativo 25 maggio 2016, n. 97, nella parte in cui prevedono che le pubbliche amministrazioni pubblichino i dati di cui all'art. 14, comma 1, lett. c) ed f) dello stesso decreto legislativo anche per i titolari di incarichi dirigenziali, per contrasto con gli artt. 117, comma 1, 3, 2 e 13 della Costituzione.

Materia: pubblica amministrazione / trasparenza

Pubblicato il 19/09/2017

 

N. 09828/2017 REG.PROV.COLL.

 

N. 00564/2017 REG.RIC.          

 

REPUBBLICA ITALIANA

Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio

 (Sezione Prima Quater)

 

ha pronunciato la presente

 

ORDINANZA

sul ricorso numero di registro generale 564 del 2017, proposto da:

 

-OMISSIS-, rappresentati e difesi dagli avvocati Stefano Orlandi, Micaela Grandi, con domicilio eletto presso lo studio dell’avv. Renato Caruso in Roma, via Cristoforo Colombo, n.436;

 

contro

Garante per la protezione dei dati personali, Presidenza del Consiglio dei ministri, rappresentati e difesi dall'Avvocatura Generale dello Stato, presso la cui sede domiciliano in Roma, via dei Portoghesi, n.12;

e con l'intervento di

ad opponendum:

Codacons – Coordinamento delle associazioni e dei comitati di tutela dell’ambiente e dei diritti degli utenti e dei consumatori, rappresentato e difeso dagli avvocati Carlo Rienzi, Gino Giuliano, con domicilio eletto presso il suo Ufficio Legale in Roma, viale Giuseppe Mazzini, n.73;

 

per l'annullamento:

- della nota del Segretario generale del Garante per la protezione dei dati personali n. 34260/96505 del 14 novembre 2016 ricevuta dai ricorrenti il 15 novembre 2016;

- delle note del Segretario generale del Garante per la protezione dei dati personali n. 37894/96505, 37897/96505, 37899/96505, 37892/96505, 37893/96505, 37898/96505, del 15 dicembre 2016,

eventualmente,

previa eventuale disapplicazione dell'art. 14, comma 1-bis, d.lgs. 14 marzo 2013, n. 33, nella parte in cui prevede che le pubbliche amministrazioni pubblichino i dati di cui all'art. 14 comma 1, lett. c) ed f), dello stesso decreto legislativo anche per i titolari di incarichi dirigenziali,

ovvero

per la rimessione alla Corte di Giustizia dell'Unione europea o alla Corte Costituzionale della questione in ordine alla compatibilità delle disposizioni sopra citate con la normativa europea e costituzionale.

 

Visto il ricorso;

Visto l’atto di costituzione in giudizio del Garante per la protezione dei dati personali e della Presidenza del Consiglio dei ministri;

Visto l’atto di intervento ad opponendum di Codacons;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell'udienza pubblica del 13 giugno 2017 il cons. Anna Bottiglieri e uditi per le parti i difensori come da relativo verbale.

 

1. Con l’odierno gravame i ricorrenti, dirigenti di ruolo del Garante per la protezione dei dati personali, hanno interposto impugnativa avverso la nota del Segretario generale del Garante n. 34260/96505 del 14 novembre 2016, che, al fine di adempiere alle prescrizioni di cui all'art. 14, comma 1-bis, del d.lgs. 14 marzo 2013, n. 33, nella parte in cui prevede che le pubbliche amministrazioni pubblichino nel proprio sito web i dati dei titolari di incarichi dirigenziali di cui all'art. 14 comma 1, lett. c) e f) dello stesso d.lgs., ed evidenziato che la violazione dell’obbligo è sanzionata amministrativamente dall’art. 47, comma 1, del d.lgs. n. 33/2013, a carico del singolo dirigente responsabile della mancata comunicazione, ed è parimenti soggetta a pubblicazione, ha invitato i ricorrenti a inviare entro un dato termine la relativa documentazione, e precisamente:

- copia dell’ultima dichiarazione dei redditi presentata, oscurando i dati eccedenti, come previsto dalla Linee guida del Garante;

- dichiarazione, aggiornata alla data di sottoscrizione, per la pubblicità della situazione patrimoniale, da rendersi secondo lo schema allegato alla richiesta;

- dichiarazione di negato consenso per il coniuge non separato e i parenti entro il secondo grado, ovvero, pel caso di avvenuta prestazione del consenso, copia delle dichiarazioni dei redditi dei suddetti soggetti e dichiarazioni aggiornate per la pubblicità delle rispettive situazioni patrimoniali, sempre secondo il modello allegato;

- dichiarazione dei dati relativi ad eventuali altre cariche presso enti pubblici o privati o altri incarichi con oneri a carico della finanza pubblica assunte dagli interessati.

L’impugnativa è stata estesa agli ulteriori provvedimenti indicati in epigrafe, con i quali il Garante ha restituito a ciascuno dei ricorrenti, intonsa, la documentazione trasmessa dai medesimi in riscontro alla predetta richiesta, significando che quanto fatto pervenire, ovvero una busta sigillata contenente la documentazione sopra elencata, con contestuale istanza di non dar corso al trattamento dei relativi dati, onde evitare un illegittimo pregiudizio nelle more della tutela giudiziale in via di attivazione, non integrasse adempimento dell’obbligo. I ricorrenti hanno rappresentato di aver successivamente trasmesso alla casella di posta elettronica indicata dall’Amministrazione la documentazione in parola, al solo fine di adempiere a quanto richiesto e mantenendo assolutamente ferma la propria opposizione al trattamento dei dati in questione e alla loro successiva pubblicazione.

A sostegno dell’impugnativa, i ricorrenti descrivono il precedente quadro normativo, illustrando come l’art. 21, comma 1, della l. 18 giugno 2009, n. 69, abbia introdotto l’obbligo a carico delle pubbliche amministrazioni di cui all’art. 1, comma 2, del d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165, di pubblicare sui propri siti internet i curricula vitae dei dirigenti, i dati relativi agli emolumenti da questi percepiti e i relativi recapiti d’ufficio, oltre che le informazioni inerenti i tassi di assenza e di presenza del personale di ciascun ufficio dirigenziale, e come tale obbligo sia poi rifluito nella formulazione dell’art. 15 del d.lgs. 14 marzo 2013, n. 33, “Riordino della disciplina riguardante il diritto di accesso civico e gli obblighi di pubblicità, trasparenza e diffusione di informazioni da parte delle pubbliche amministrazioni”, il cui ambito di applicazione è stato esteso, con l’art. 24-bis del d.l. 24 giugno 2014, n. 90, convertito dalla l. 11 agosto 2014, n. 114, anche alle autorità amministrative indipendenti, tra cui il Garante per la protezione dei dati personali, mentre, allo stato, l’ambito di applicazione soggettiva della disciplina sulla trasparenza è definito nell’art. 2-bis del d. lgs. n. 33/2013.

Proseguono i ricorrenti evidenziando che il quadro degli obblighi di trasparenza applicabili ai dirigenti è stato modificato radicalmente dal d.lgs. 25 maggio 2016, n. 97, recante revisione e semplificazione delle disposizioni in materia di prevenzione della corruzione, pubblicità e trasparenza, in attuazione dell'art. 7 della l. 7 agosto 2015, n. 124, che li ha equiparati integralmente a quelli stabiliti per i titolari di incarichi politici, di amministrazione, di direzione o di governo.

In particolare, il d.lgs. 97/2016 ha introdotto il comma 1-bis dell’art. 14 del d.lgs. n. 33/2013, prevedente che “le pubbliche amministrazioni pubblicano i dati di cui al comma 1 per i titolari di incarichi o cariche di amministrazione, di direzione o di governo comunque denominati, salvo che siano attribuiti a titolo gratuito, e per i titolari di incarichi dirigenziali, a qualsiasi titolo conferiti, ivi inclusi quelli conferiti discrezionalmente dall'organo di indirizzo politico senza procedure pubbliche di selezione”.

I dati in parola sono elencati al comma 1 dello stesso art. 14, e sono i seguenti, tra cui quelli in contestazione, riportati in corsivo:

a) l'atto di nomina o di proclamazione, con l'indicazione della durata dell'incarico o del mandato elettivo;

b) il curriculum;

c) “i compensi di qualsiasi natura connessi all'assunzione della carica; gli importi di viaggi di servizio e missioni pagati con fondi pubblici”;

d) i dati relativi all'assunzione di altre cariche, presso enti pubblici o privati, ed i relativi compensi a qualsiasi titolo corrisposti;

e) gli altri eventuali incarichi con oneri a carico della finanza pubblica e l'indicazione dei compensi spettanti;

f) “le dichiarazioni di cui all'articolo 2, della legge 5 luglio 1982, n. 441, nonché le attestazioni e dichiarazioni di cui agli articoli 3 e 4 della medesima legge (dichiarazione dei redditi, dichiarazione dello stato patrimoniale come possesso di beni immobili o mobili registrati, azioni, obbligazioni o quote societarie etc., n.d.r.,) come modificata dal presente decreto, limitatamente al soggetto, al coniuge non separato e ai parenti entro il secondo grado, ove gli stessi vi consentano. Viene in ogni caso data evidenza al mancato consenso. […]”.

Ciò posto, i ricorrenti lamentano, in linea generale, che il livello di trasparenza richiesto dalla novella normativa appena descritta, che determina il trattamento giuridico limitativo della riservatezza individuale costituito dalla pubblicazione online dei dati in parola a carico di un notevolissimo numero di soggetti (secondo le elaborazioni dell'Aran, oltre 140.000, senza contare coniugi né parenti fino al secondo grado), non trovi rispondenza in alcun altro ordinamento nazionale, contrasti frontalmente con il principio di proporzionalità di derivazione europea, sia fondato sull’erronea assimilazione di condizioni non equiparabili fra loro (dirigenti delle amministrazioni pubbliche e degli altri soggetti cui il decreto si applica e titolari di incarichi politici), e prescinda dall'effettivo rischio corruttivo insito nella funzione svolta, come del resto evidenziato dallo stesso Garante per la protezione dei dati personali anche nell’ambito del parere reso alla Presidenza del Consiglio dei Ministri sullo schema del d.lgs. 97/2016.

Di talchè i ricorrenti, rilevato che le Linee guida sull’attuazione dell’art. 14 del d.lgs. 33/2013 dell’Autorità Nazionale Anticorruzione (Anac), in corso di predisposizione, indicano al punto 6 che gli obblighi di trasparenza riferiti ai dirigenti si applicano a partire dall’1 gennaio 2017 e che i dati dovranno essere pubblicati dal 31 marzo 2017 (esclusa la dichiarazione dei redditi, la quale andrà pubblicata entro un mese dalla sua presentazione), hanno domandato l’annullamento degli atti gravati, previa eventuale disapplicazione dell’art. 14, comma 1-bis, del d.lgs. 33/2013, nella parte in cui prevede che le pubbliche amministrazioni pubblichino i dati di cui all’art. 14 comma 1, lett. c) ed f) dello stesso d.lgs. anche per i titolari di incarichi dirigenziali, ovvero, in subordine, che il Tribunale adito sollevi in via pregiudiziale la questione di legittimità dell’art. 14, comma 1-bis in combinato disposto con il comma 1, lett. c) ed f), d.lgs. n. 33/2013, innanzi alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea o avanti alla Corte costituzionale, per violazione in tale ultima ipotesi degli artt. 2, 3, 11, 13 e 117, comma 1, della Costituzione.

Le predette conclusioni sono affidate ai seguenti motivi di diritto.

1) Violazione di legge per violazione del diritto alla vita privata, del diritto alla protezione dei dati personali, del principio di proporzionalità e del principio di finalità sanciti dagli artt. 7, 8 e 52 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, dall’art. 6 del Trattato UE, dall’art. 8 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, dall’art. 6, par. 1, lett. c), direttiva 95/46/CE e dall’art. 5, par. 1, lett. c), del regolamento 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio del 27 aprile 2016.

Con il primo motivo in parola i ricorrenti affermano che il contrasto degli atti gravati con il diritto europeo emerge dalla sentenza della Corte di giustizia 20 maggio 2003 (C-465/00, C-138/01 e C-139/01, Österreichischer Rundfunk), che, in analoga fattispecie di legislazione nazionale che prevedeva la raccolta e divulgazione di dati concernenti il reddito di dipendenti di un ente pubblico, ha dichiarato la diretta invocabilità innanzi al giudice nazionale, avverso norme di diritto interno contrarie a tali disposizioni, dell’art. 6, par. 1, lett. c), della direttiva 95/46/CE del 24 ottobre 1995, Direttiva del Parlamento europeo del Consiglio relativa alla tutela delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali, nonché alla libera circolazione di tali dati, ai sensi del quale “i dati personali devono essere (...) adeguati, pertinenti e non eccedenti rispetto alle finalità per le quali vengono rilevati e/o per le quali vengono successivamente trattati”, nonché dell'art. 7, lett. c) o e) della stessa direttiva, secondo cui il trattamento dei dati personali può essere effettuato solo laddove esso sia necessario per adempiere a un obbligo legale al quale è soggetto il responsabile del trattamento ovvero per l'esecuzione di un compito di interesse pubblico o connesso all'esercizio di pubblici poteri di cui è investito il responsabile del trattamento a cui vengono comunicati i dati.

I ricorrenti richiamano ancora la sentenza n. 389 del 1989 della Corte costituzionale e la sentenza della Corte di giustizia europea 22 giugno 1989, in C 103/1988, F.lli Costanzo v. Comune di Milano, che hanno riconosciuto che anche gli organi della pubblica amministrazione, nello svolgimento della propria attività amministrativa, sono vincolati a non dare applicazione alle norme interne confliggenti con quelle comunitarie direttamente applicabili.

Ciò posto, i ricorrenti concludono per la disapplicazione nei loro confronti dell’art. 14, comma 1-bis e comma 1, lett. c) e f), d.lgs. n. 33/2013, disposizioni che ritengono contrarie alla predetta disciplina comunitaria, direttamente applicabile, di protezione dei dati personali, letta anche alla luce degli artt. 7 (Rispetto della vita privata e della vita familiare), 8 (Protezione dei dati di carattere personale) e 52 (Portata e interpretazione dei diritti e dei principi) della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea.

I ricorrenti soggiungono come la gravata disposizione sia suscettibile di recare pregiudizio ai diritti fondamentali oggetto dell’art. 6 del Trattato UE (Diritto alla sicurezza), e si ponga, come detto, in diretto contrasto con l’art. 6, par. 1, lett c), e l’art. 8, par. 1 e 4, della direttiva 95/46/CE, che, rispettivamente, individuano rigorose modalità di trattamento dei dati personali e vietano il trattamento di quelli rivelanti dati sensibili, principi confermati dalla nuova normativa in materia di protezione dei dati di cui al regolamento n. 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 27 aprile 2016, entrato in vigore in Italia il 4 maggio 2016 e destinato ad avere piena efficacia il 25 maggio 2018, con l’art. 8 della Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali – CEDU, richiamata all’art. 52 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE, che disciplina il diritto al rispetto della vita privata e familiare, del domicilio e della corrispondenza della persona, vietando ogni ingerenza dell’autorità pubblica nell'esercizio di tale diritto che non sia previsto dalla legge e costituisca una misura necessaria per la protezione dei beni ivi indicati, con la Convenzione n. 108 del Consiglio d’Europa, firmata a Strasburgo il 28 gennaio 1981, che persegue la specifica finalità di proteggere le persone rispetto al trattamento automatizzato di dati a carattere personale, con l’art. 117, primo comma, della Costituzione, che prevede che “la potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali.”

Più in dettaglio, i ricorrenti sostengono che l’obbligo di trasmissione all’amministrazione e la successiva pubblicazione dei dati di cui all’art. 14, d.lgs. n. 33/2013, così come novellato dall’art. 13, d.lgs. n. 97/2016, con l’introduzione del comma 1-bis, e con specifico riferimento ai dati di cui alle lettere c) e f), violi le richiamate disposizioni sotto il profilo:

A - della violazione del diritto alla vita privata e alla protezione dei dati, comportando un’ingerenza nella vita privata degli interessati, del coniuge e dei parenti di secondo grado;

B - della violazione dei principi di proporzionalità, di pertinenza e non eccedenza nel trattamento dei dati personali, stante la compressione pressoché integrale di diritti fondamentali, in violazione del principio di proporzionalità, il cui rispetto comporterebbe il perseguimento delle legittime finalità di trasparenza dell’Amministrazione e non dei suoi dipendenti, contemperando in pari tempo i diritti fondamentali degli interessati.

In particolare, nel caso di specie, i ricorrenti sostengono che nessuna misura di contemperamento sia stata posta in essere, disattendendo, peraltro, i pareri espressi dal Garante per la protezione dei dati (parere reso al Governo il 3 marzo 2016; nota 30 ottobre 2014, firmata con il Presidente dell'Anac e indirizzata al Ministro per la semplificazione e la pubblica amministrazione), che hanno evidenziato le criticità costituite dal carattere indifferenziato degli obblighi di pubblicità, con conseguente pregiudizio della ragionevolezza complessiva della disciplina in materia di trasparenza, essenziale per il buon andamento e la democraticità dell'azione amministrativa, dalle significative limitazioni della riservatezza comportate dall’obbligo di pubblicità, suscettibile di irragionevolezza, stante la divulgazione online di una quantità spesso ingestibile di dati, riferiti per giunta non solo ai diretti interessati, ma anche al coniuge e ai parenti entro il secondo grado, ove questi acconsentano, con rischi di alterazione, manipolazione, riproduzione per fini diversi, che potrebbero frustrare le esigenze di informazione veritiera e, quindi, di controllo, poste a base della disposizione, dalla sproporzione delle misure di pubblicità, introdotte mediante la totale equiparazione, ovvero senza alcuna graduazione, di tutti i dirigenti delle pubbliche amministrazioni ai titolari di incarichi politici di amministrazione, di direzione e di governo.

Del resto, analoga sproporzione, rilevano i ricorrenti, è stata stigmatizzata nell’ordinamento francese, avendo il Conseil constitutionnel, con decisione n. 2013-675 DC del 9 ottobre 2013, relativa alla “Loi organique relative à la transparence de la vie publique” (Projet de loi adopté le 17 septembre 2013 - T.A. n. 209), giudicato sproporzionata la pubblicazione dello stato reddituale e patrimoniale di soggetti che non ricoprono cariche elettive ma che esercitano incarichi implicanti soltanto responsabilità di natura amministrativa, per i quali è stato ritenuto invece proporzionato il solo deposito delle relative dichiarazioni presso l’Autorità di controllo competente (punto 22).

I ricorrenti proseguono indicando i rischi insiti nel sistema di pubblicità prescritto dalla norma, sia con riguardo al tipo di documentazione richiesta, prettamente basata sui valori immobiliari, sia con riguardo al tipo di pubblicità prevista, ovvero la diffusione mediante i siti internet istituzionali (tra cui i rischi di furto di identità o rischi di natura più grave da parte di potenziali aggressori, anche in zone del territorio diverse da quelle di abituale dimora, la divulgazione di informazioni sensibili), ed evidenziano modalità alternative di pubblicità idonee ad assicurare le finalità di trasparenza assunte dalla norma, mentre, quanto all’erronea equiparazione fra titolari di incarichi dirigenziali e di incarichi politici, sostengono la pervasività della misura, che per i secondi costituisce un sacrificio temporalmente limitato alla durata dell’incarico politico, laddove per i dirigenti si trasforma in una vera e propria condizione di vita, destinata ad accompagnarli per l’intera durata del rapporto di lavoro (art. 14, comma 2, d.lgs. n. 33/2013), tenuto anche conto del fatto che, una volta diffusi, anche se materialmente rimossi dai siti istituzionali, i dati pubblicati possono continuare a circolare senza che vi sia un effettivo modo di impedirlo.

Il sacrificio imposto ai diritti dei singoli, rilevano i ricorrenti, è ulteriormente aggravato dalla previsione normativa (art. 7-bis, comma 1, e 9, comma 1, d.lgs. n. 33/2013) per cui nessun filtro o artifizio può essere adottato dalle amministrazioni cui compete la pubblicazione online dei dati affinché l’accesso ai documenti venga, anche con l’uso di strumenti informatizzati, in qualunque modo discriminato e gli stessi documenti siano resi non consultabili dai c.d. motori di ricerca, con l’effetto di rendere immediatamente e automaticamente indicizzate le informazioni e i dati personali riferiti ai ricorrenti (ed, eventualmente, ai loro familiari), o comunque a essi riconducibili, da parte dei motori di ricerca Internet, quali Google, che amplifica a dismisura la conoscibilità dei documenti pubblicati online, producendo un’irragionevole espansione del novero dei fruitori dei dati al di là di qualunque criterio limitativo temporale o geografico, e prestandosi alla disseminazione di dati decontestualizzati e parziali, idonei a fornire rappresentazioni erronee e fuorvianti della personalità degli interessati e delle informazioni a essi riferibili, anche nei confronti di soggetti non interessati ai profili di trasparenza amministrativa, che possono casualmente imbattersi, usando quale chiave di ricerca il nominativo personale, nell’insieme delle informazioni in parola.

In altre parole, per i ricorrenti, la sproporzione della misura e la gravità dell’interferenza nella vita privata degli interessati risiede anche nella sconfinata platea dei soggetti che, tramite la prevista diffusione in internet dei documenti e dei dati richiesti, è in condizione di accedere alla mole di informazioni sopra descritte, peraltro con estrema facilità, essendo le stesse, come detto, a portata di “click” grazie alla mera digitazione dei nominativi degli interessati nei comuni motori di ricerca.

I ricorrenti invocano altre determinazioni inerenti la necessità del rispetto, nella regolazione della trasparenza, del principio di proporzionalità di derivazione europea, che, negando l’automatica prevalenza dell’obiettivo di trasparenza sul diritto alla protezione dei dati personali, depongono per la sua violazione nel caso di specie (Anac, Atto di segnalazione n. 1 del 2 marzo 2016, relativo al d.lgs. di cui all’art. 7 della legge n.124 del 2015, approvato dal Consiglio dei Ministri il 20 gennaio 2016; Corte di giustizia dell’Unione europea, decisione del 20 maggio 2003, Österreichischer Rundfunk, C-465/00, C-138/01 e C-139/01 riunite; Corte di Giustizia dell’U.E., Grande Sezione, decisione del 9 novembre 2010, C-92/09 e 93/09 riunite).

Nel proprio percorso argomentativo i ricorrenti richiamano il parere del Gruppo delle Autorità di protezione dati europee, previsto dall’articolo 29 della direttiva 95/46/CE, organismo consultivo e indipendente, composto dai rappresentanti delle Autorità di protezione dei dati di ciascuno Stato membro, dal Garante europeo della protezione dei dati e da un rappresentante della Commissione europea, reso in relazione alla pubblicazione di dati personali per scopi di trasparenza nel settore pubblico, Opinion 2/2016 on the publication of Personal Data for Transparency purposes in the Public Sector, WP 239.

Tale parere, in applicazione dei principi sin qui riferiti in tema di misure relative a conflitti di interesse e trasparenza, richiamata l’attenzione degli Stati membri sulla necessità di definire criteri oggettivi e pertinenti nello stabilire quali dati di quali soggetti debbano essere sottoposti a trattamento, ovvero di adottare un approccio selettivo al trattamento di dati personali, nel quale rilevano anche le distinzioni basate “sulla collocazione gerarchica e sul potere decisionale con riguardo a politici, alti dirigenti o figure pubbliche che occupino posizioni associate a responsabilità di natura politica, rispetto a soggetti che rivestono qualifiche gestionali nel settore pubblico, quali gli amministratori o i dirigenti, che non occupano cariche elettive ma rivestono qualifiche di natura gestionale-amministrativa, e ai soggetti operanti nel settore pubblico privi di autonome responsabilità decisionali”, e sulla necessità di rispettare il principio (di minimizzazione) per cui “il trattamento di dati personali deve corrispondere al minimo necessario per il raggiungimento dello scopo perseguito (l’individuazione e la punizione di eventuali conflitti di interesse)”, ha concluso che nel caso di “norme nazionali in materia di trasparenza”, che prevedano “la pubblicazione online di informazioni relative ai redditi individuali e ai compensi percepiti da soggetti che rivestono qualifiche di livello elevato nell’amministrazione (ad esempio, dirigenti generali)” sarebbe, nel rispetto del principio di minimizzazione “sufficiente pubblicare l’importo complessivo dei compensi relativi ai soggetti in questione. Viceversa, sarà difficilmente proporzionata la pubblicazione di dati quali il codice o identificativo fiscale, relazioni finanziarie per esteso, informazioni dettagliate ricavate da denunce dei redditi o dai cedolini stipendiali, informazioni bancarie o indirizzi privati, numeri di telefono personali o account personali di posta elettronica”;

C – della violazione del principio di finalità di cui agli artt. 8 della Carta e 6, par. 1, lett. b), dir. 95/46/CE, cardine della disciplina di protezione dei dati, secondo il quale i dati personali possono essere “rilevati per finalità determinate, esplicite e legittime, e successivamente trattati in modo non incompatibile con tali finalità”, ritenendosi in ricorso che l’avversata norma pieghi le informazioni personali (obbligatoriamente) conferite dagli interessati all’amministrazione finanziaria in adempimento dei doveri fiscali (nella forma della dichiarazione dei redditi) al perseguimento di una finalità diversa e incompatibile rispetto a quella che ne ha giustificato l’originaria raccolta.

Anche per tale profilo, sottolineata l’estraneità delle finalità fiscali alle finalità di trasparenza, i ricorrenti invocano le conclusioni assunte dal Gruppo delle Autorità di protezione dati europee, parere n. 03/2013, che evidenziano il nesso che deve sussistere tra gli scopi per cui i dati sono stati originariamente raccolti e le finalità dell'ulteriore trattamento previsto, il contesto in cui questi sono stati raccolti e le ragionevoli aspettative degli interessati per quanto riguarda il loro ulteriore utilizzo, la natura dei dati trattati, le possibili conseguenze dell’ulteriore trattamento sulle persone interessate, le eventuali garanzie previste per evitare un impatto eccessivo sulle persone interessate.

D – della violazione del principio di pertinenza e non eccedenza nel trattamento dei dati personali con riferimento al principio di ragionevolezza.

I ricorrenti sostengono che non vi sia alcuna ragionevolezza nel diffondere i compensi di un dirigente, così come ritengono priva di qualunque logica la pubblicazione del numero di fabbricati posseduti senza ulteriore specificazione che non la città in cui essi si trovano, elementi che ritengono suscettibili, di per se, di dare adito alle più varie congetture.

2) Violazione di legge per violazione dell’art. 117, comma 1 della Costituzione e violazione del rispetto dei vincoli internazionali e comunitari.

Con il secondo motivo di ricorso i ricorrenti lamentano la violazione da parte delle norme in parola dell’art.117, comma 1, della Costituzione, sotto il profilo della violazione dei principi di pertinenza e non eccedenza nel trattamento dei dati, degli obblighi di esattezza, di aggiornamento e di limitata conservazione dei dati, fissati dalla normativa internazionale e comunitaria sopra illustrata e direttamente operanti nell’ordinamento nazionale, con conseguente illegittimità anche costituzionale delle stesse.

3) Violazione di legge per violazione dell’art. 3 della Costituzione, del principio di uguaglianza, dell’art. 13 Costituzione (libertà personale).

Per il terzo motivo, l’art. 14, comma 1-bis, del d.lgs. 14 marzo 2013, n. 33, nella parte in cui prevede che ai dirigenti delle pubbliche amministrazioni si applichino gli stessi obblighi di pubblicità e di trasparenza dei titolari di incarichi politici di cui di cui all’art. 14, comma 1, lett. c) ed f) – sancendo il medesimo obbligo di pubblicazione online della dichiarazione dei redditi e della dichiarazione dello stato patrimoniale (come possesso di beni immobili o mobili registrati, azioni, obbligazioni o quote societarie) nonché dei compensi di qualsiasi natura connessi all'assunzione della carica (ivi inclusi gli importi di viaggi di servizio e missioni pagati con fondi pubblici) – si pone in contrasto con il principio di eguaglianza formale di cui all’art. 3, comma 1, Cost., avendo parificato in modo irragionevole, illogico, irrazionale e arbitrario situazioni molto diverse fra loro (trasparenza delle cariche politiche e trasparenza degli incarichi amministrativi), senza distinguerne la portata degli obblighi di pubblicità online in ragione, in particolare, del grado di esposizione dell'incarico pubblico al rischio di corruzione, dell'ambito di esercizio della relativa azione o delle risorse pubbliche assegnate della cui gestione il soggetto interessato debba quindi rispondere, nonché delle ragionevoli aspettative di riservatezza dei dipendenti pubblici coinvolti.

I ricorrenti richiamano, al riguardo, la già citata decisione della Corte costituzionale francese (n° 2013-675 DC del 9 ottobre 2013), che ha ritenuto sproporzionata la pubblicazione dello stato reddituale e patrimoniale di soggetti che non ricoprono cariche elettive ma che esercitano incarichi implicanti soltanto responsabilità di natura amministrativa.

I ricorrenti denunziano la violazione del principio di eguaglianza anche tramite l’utilizzo della tecnica del “tertium comparationis”, ovvero in relazione al fatto che le contestate misure siano state previste per i dirigenti pubblici e parapubblici, e non per altre categorie di lavoratori e settori aventi le medesime caratteristiche, nonché per altre figure professionali dell’amministrazione.

I ricorrenti ritengono le impugnate disposizioni in materia di trasparenza irragionevoli e irrazionali, dunque viziate sotto il profilo dell’eccesso di potere, per l’evidente sproporzione dei mezzi utilizzati per raggiungere le finalità di trasparenza volute dal legislatore, con effetti in larga parte disfunzionali rispetto all’esigenza di consentire quelle forme diffuse di controllo sul perseguimento delle funzioni istituzionali e sull'utilizzo delle risorse pubbliche di cui al d.lgs. 33/2013, finalità che assumono poter essere assicurata dalla mera indicazione delle fasce stipendiali, eventualmente anche per qualifiche non comprese nella normativa di cui trattasi.

I ricorrenti sostengono infine che detta nuova situazione giuridica: è stata imposta ai dirigenti per legge, mutando unilateralmente le condizioni anche contrattuali previgenti, con effetti diretti e negativi su aspetti fondamentali della vita degli interessati, legati al riconosciuto diritto alla riservatezza e alla dignità personale; che lo strumento previsto è irragionevole, in quanto la pubblicazione della dichiarazione dei redditi o l’indicazione dei beni immobili non necessariamente lasciano trasparire condotte illecite, e considerato che gli episodi di corruzione vedono spesso coinvolte anche figure diverse da quelle dirigenziali, non assoggettate ai menzionati obblighi; che gli obblighi in parola sono stati introdotti con riferimento ai congiunti delle figure dirigenziali (coniuge non separato e parenti entro il secondo grado), che vengono assoggettati dalle disposizioni citate ai medesimi obblighi di pubblicazione, e che la prevista possibilità per il familiare di negare il consenso alla pubblicazione è misura insufficiente a impedire un implicito giudizio negativo sulla determinazione, atteso che si prevede che il rifiuto del congiunto sia pubblicato sul sito dell’amministrazione.

4) Violazione di legge per violazione degli artt. 2 e 13 Costituzione, della libertà e sicurezza personale, del principio di uguaglianza

Con il quarto motivo i ricorrenti sostengono che le disposizioni in questione sono violative degli articoli 2 e 13 della Costituzione che garantiscono a chiunque di godere dei diritti fondamentali, ivi compresi quelli alla sicurezza e alla libertà, beni che si ritengono compromessi dalla conoscibilità integrale e diffusa della situazione reddituale e patrimoniale di una persona e della sua famiglia, che pone gli interessati in una posizione di sostanziale rischio per la sicurezza individuale e perpetra ulteriormente anche la violazione del principio di uguaglianza.

Tale rischio, soggiungono i ricorrenti, è stato evidenziato in analoghe fattispecie nel già citato parere dell’8 giugno 2016 del Gruppo delle Autorità di protezione dati europee nonché nelle Linee guida recanti indicazioni operative ai fini della definizione delle esclusioni e dei limiti all'accesso civico di cui all’art. 5, comma 2, del d.lgs. 33/2013 dell’ANAC (delibera n. 1309 del 28 dicembre 2016).

5) Con il quinto motivo, relativo alla domanda di annullamento delle note del Segretario generale del Garante, i ricorrenti riconoscono che le stesse traggono diretto fondamento dai vigenti obblighi normativi in materia di trasparenza di cui si chiede la disapplicazione, e che l’Amministrazione ha introdotto temperamenti alle previsioni normative, ma espongono tuttavia come tali temperamenti non elidano il grave pregiudizio discendente agli interessati dalla diffusione delle informazioni richieste.

Ciò in quanto la possibilità di mascherare gli importi delle spese sanitarie del nucleo familiare contenuti nella dichiarazione dei redditi e posti in detrazione sarebbe rimedio vanificato dal confronto tra l’importo del reddito complessivo con il reddito imponibile (dati non mascherabili), per cui la presenza di spese per cure mediche, rivelatrice dello stato di salute degli interessati e dei familiari, verrebbe immediatamente rilevata anche da un osservatore non specificamente interessato o, circostanza ben più preoccupante, da chi avesse interesse e sufficienti mezzi per procedere al rilevamento automatizzato e massivo di tali situazioni tramite la consultazione dei dati diffusi in rete anche mediante l’azione dei motori di ricerca.

6) Con il sesto motivo, dedicato alla disapplicazione dell’art. 14, comma 1-bis, in combinato disposto con il comma 1, lett. c), d.lgs. n. 33/2013, i ricorrenti assumono, oltre a quanto rilevato in relazione all’art. 14, comma 1, lett. f), dello stesso d.lgs., che l’indiscriminata diffusione presso il pubblico dei compensi, con le modalità previste dalla legge, peraltro indipendentemente da qualunque predefinizione di soglia, è un'ingerenza nella vita privata che può essere giustificata, ai sensi dell'art. 8, n. 2, della CEDU (richiamata dall’art. 52 della Carta dei diritti fondamentali), solo ove tale informazione contribuisca al benessere economico del paese e non per (pur rilevanti) esigenze di trasparenza amministrativa. Nel caso di specie si tratterebbe, invece, di un mero interesse del pubblico a essere informato, e la misura sarebbe, in ogni caso, sproporzionata rispetto al diritto alla vita privata e familiare nonché al diritto alla protezione dei dati personali degli interessati.

I ricorrenti ribadiscono come, del resto, in conformità al principio di proporzionalità, l'obiettivo perseguito dalle norme in esame ben potrebbe essere realizzato utilizzando modalità meno invasive (quali, a esempio, la diffusione di dati coperti dall'anonimato, la pubblicazione di tabelle reddituali, la pubblicazione in forma nominativa di informazioni secondo scaglioni, come previsto in taluni ordinamenti europei).

Infine, i ricorrenti ritengono la normativa nazionale de qua incompatibile con l'art. 6, n. 1, lett. b) e c), della direttiva 95/46 e non legittimata ai sensi dell'art. 7, lett. c) o e), di quest'ultima, poiché essa rappresenta un'ingerenza non giustificata alla luce dell'art. 8, n. 2, della CEDU, nonché sproporzionata, atteso che l’ordinario controllo contabile, integrato da un regime di pubblicità dei redditi rispettoso dei diritti dei singoli, sarebbe sufficiente per garantire l'impiego parsimonioso delle finanze pubbliche.

Esaurita l’illustrazione delle illegittimità rilevate a carico degli atti gravati, i ricorrenti, come detto, domandano la disapplicazione delle menzionate disposizioni di cui all’art. 14, d.lgs. n. 33/2013, con il conseguente annullamento degli atti gravati, e, in subordine, che il Tribunale adito rimetta alla Corte di Giustizia dell’Unione europea le questioni pregiudiziali analiticamente formulate in ricorso, ai sensi dell'art. 267 TUE, ovvero sollevi innanzi alla Corte Costituzionale la questione di legittimità dell’art. 14, comma 1-bis in combinato disposto con il comma 1, lett. c) ed f), d.lgs. n. 33/2013, per violazione degli artt. 2, 3, 11, 13 e 117, comma 1, della Costituzione.

2. Si sono costituiti in resistenza il Garante per la protezione dei dati personali e la Presidenza del Consiglio dei ministri, eccependo in via pregiudiziale il difetto di giurisdizione dell’adito Tar in favore del giudice ordinario, ai sensi dell’art.152 del d.lgs. 30 giugno 2003, n. 196, e l’inammissibilità dell’impugnativa, rivolta avverso atti non costituenti provvedimenti amministrativi e in quanto tali privi di autonoma lesività.

Nel merito, la difesa erariale sostiene la legittimità dell’azione amministrativa posta in essere dal Garante, che, esercitati i suoi compiti consultivi e non vincolanti nei confronti del legislatore evidenziando alcune limitate criticità della bozza di disposizione di cui si discute, ed entrata in vigore la norma di legge nella formulazione in parola, non poteva che adottare le iniziative finalizzate a darvi attuazione, e illustra l’insussistenza nella fattispecie dei peculiari presupposti individuati dalla giurisprudenza che legittimano il ricorso al rimedio della disapplicazione della normativa nazionale: difetterebbe, in particolare, l’elemento di assoluta certezza del contrasto tra la norma interna e gli invocati principi del diritto UE.

L’Amministrazione resistente evidenzia con varie argomentazioni come l’applicazione delle contestate misure di trasparenza, in chiave di prevenzione di fenomeni corruttivi, appare particolarmente indicata e rispettosa del parere del Garante, concludendo pertanto, in ogni caso, per la reiezione del gravame.

3. Con ordinanza 2 marzo 2017, n. 1030, la domanda di sospensione interinale dell’esecuzione degli atti gravati, incidentalmente formulata in ricorso, è stata accolta.

4. Si è costituito in giudizio ad opponendum, il Codacons – Coordinamento delle associazioni e dei comitati di tutela dell’ambiente e dei diritti degli utenti e dei consumatori.

L’interveniente, illustrati la sua legittimazione e il suo interesse a spiegare intervento nel giudizio di cui trattasi, sostiene la legittimità dei gravati provvedimenti, attuativi di disposizioni normative a tutela della trasparenza dell’agire amministrativo che ritiene parimenti legittime, tenuto conto delle facoltà dei cittadini in cui il principio della trasparenza deve necessariamente declinarsi al fine del raggiungimento delle connesse finalità pubblicistiche volte a favorire il controllo diffuso sul perseguimento delle funzioni istituzionali e sull’utilizzo delle risorse pubbliche.

Il Codacons rileva in particolare come l’estensione ai dirigenti pubblici degli obblighi di trasparenza prescritti inizialmente solo a carico dei titolari di incarichi politici fosse già stata prevista dall’Anac (delibera n. 144/2014) mediante una interpretazione costituzionalmente orientata, e anzi imposta, dell’art. 14 del d.lgs. 33/2013, alla luce del principio di ragionevolezza e non discriminazione di cui all’art. 3 Cost., trattandosi in entrambi i casi di categorie titolari di poteri, di natura politica o amministrativa, di indirizzo o di gestione e di amministrazione attiva, esposte più di altre al concreto e attuale pericolo di corruzione, con la conseguente esigenza di garantire, mediante la pubblicazione di dati anche reddituali e patrimoniali, la trasparenza del loro esercizio, mediante una prescrizione normativa che si inserisce, quale naturale evoluzione legislativa connessa alla trasformazione e all’accrescimento del ruolo e della responsabilità della dirigenza operatosi nel tempo, in un coacervo di specifici obblighi già incombenti sui dirigenti (art. 13 del D.P.R. 62/2013).

Per il Codacons, che conclude per il rigetto del gravame e richiama, quanto alla ragionevolezza e coerenza dell’attuale assetto normativo, le Linee guida Anac n. 241/2014, sarebbe, in sostanza, la sottrazione dei dirigenti all’obbligo di trasparenza di cui all’art. 14, d.lgs. 33/2013, a dar luogo a una irragionevole e incostituzionale disparità di trattamento.

5. Nel prosieguo, le parti costituite hanno affidato a memorie lo sviluppo delle proprie tesi difensive.

5.1. La difesa erariale, ribadite le eccezioni pregiudiziali già spiegate, e riferito che, l’Anac, con delibera n. 382/2017, ha sospeso l’efficacia della precedente delibera n. 241/2017, Linee guida per l’attuazione del ridetto art. 14, limitatamente alla parte inerente l’applicazione del relativo comma 1, lett. c) e f) per i dirigenti pubblici, in dichiarata attesa della definizione del presente giudizio o di un intervento chiarificatore del legislatore, rileva l’inconferenza dell’assunto secondo cui l’estensione di obblighi preesistenti e vigenti nell’ordinamento nazionale da oltre tre anni a una nuova categoria di soggetti possa ridondare, ora, in violazione di un apparato di norme europee e nazionali, determinando lesioni di diritti e libertà individuali di valore assoluto.

La difesa erariale rileva, più in dettaglio, l’insostenibilità della tesi, cui ritiene informato il gravame, secondo cui gli obblighi di pubblicazione di cui all’art. 14, lett. c) e f), d.lgs. 33/2013, sarebbero legittimi in relazione a determinate categorie di soggetti (titolari di incarichi politici) e illegittimi in relazione ad altra categoria (titolari di incarichi dirigenziali), sia in quanto, evidentemente, il vizio non concerne l’obbligo di pubblicazione ex se, sia perché basata esclusivamente su orientamenti giurisprudenziali formatisi in base a valutazioni di proporzionalità e ragionevolezza di norme appartenenti a ordinamenti stranieri, ciò che implica l’apprezzamento delle modalità complessive con cui gli stessi hanno regolato la materia della trasparenza e dell’accesso, che non permette di effettuare comparativamente una diretta utilizzazione delle relative conclusioni.

La difesa erariale evidenzia ancora come tutte le norme sovranazionali richiamate dalla parte ricorrente rimettano sempre al legislatore nazionale, come è naturale che sia, la ponderazione dei diversi interessi in gioco (interesse pubblico generale alla trasparenza, da una parte, e interesse personale alla riservatezza del singolo, dall'altra) e come, quindi, i principi invocati di proporzionalità, pertinenza, non eccedenza, finalità, non siano altro che strumenti in base ai quali effettuare una ponderazione, che sconta i differenti caratteri e la diversa portata dell'interesse pubblico generale che si intende tutelare attraverso il regime di trasparenza, e che può avere una configurazione diversa, a seconda del sistema nazionale considerato.

In altre parole, la difesa erariale evidenzia la necessità di distinguere, nella valutazione di come i predetti principi possano essere legittimamente calati nei vari ordinamenti, tra sistemi nazionali in cui l'accesso agli atti dati e informazioni delle pubbliche amministrazioni (secondo il paradigma statunitense “Freedom of information act - Foia”), è sempre stato generalizzato, è ormai cristallizzato e funziona bene, in cui il sistema di giustizia (o di rimedi stragiudiziali) opera in modo tempestivo ed efficiente, i casi di conflitti di interessi e di corruzione non sono numerosi (o è comunque prevista una specifica disciplina normativa al riguardo), e sistemi in cui, diversamente, l'accesso è sempre stato qualificato e ristretto o magari non garantisce adeguati standard di tempestività ed efficienza, i casi di conflitti di interessi e di corruzione sono al di sopra della media europea e internazionale ovvero esistono discipline deboli sulla trasparenza e sul conflitto di interessi.

E, per l’Amministrazione, collocandosi l’Italia in questa seconda categoria, alla luce delle specifiche pubblicazioni nazionali e internazionali richiamati nella memoria, è in siffatto contesto (“relatività intrinseca”) che va valutata la proporzionalità, pertinenza, non eccedenza, finalità della contestata misura, operazione che dimostra che la relativa ampiezza è giustificata e rispettosa dei predetti criteri, anche tenendo conto degli studi e dei dati dell’OCSE in tema di gestione del conflitto di interessi e di “asset disclosure” per i funzionari pubblici (Government at a Glance 2015; Survey on Managing Conflict of Interest in the Executive Branch, 2014), che evidenziano, a livello internazionale, che il livello di divulgazione degli interessi privati dei funzionari pubblici, in media, è strettamente correlato alla posizione dirigenziale, e che, in Italia, il livello di divulgazione per i dirigenti è al di sotto della media OCSE, la cui Recommendation on Public Integrity, del gennaio 2017, raccomanda ai paesi aderenti di rafforzare le misure finalizzate a prevenire e gestire conflitti di interesse attuali e potenziali.

L’Amministrazione, poi, sostiene che i ricorrenti non chiariscono le ragioni giuridiche per le quali l’obbligo di cui alla lett. c) dell’art. 14, comma 1, d.lgs. 33/2013 costituisca violazione della tutela dei dati personali, e rileva la manifesta contraddizione in cui a suo avviso ricadrebbero i ricorrenti, non chiarendo perché tutti gli obblighi di pubblicazione in esame sarebbero legittimi per i titolari di cariche politiche e illegittimi per i dirigenti, anche di nomina politica.

Infine, la difesa erariale, in relazione ai dati patrimoniali di cui alla ridetta lettera f), illustra alcuni aspetti della disciplina in parola, illustrandone la funzione equilibratrice tra gli interessi in gioco [oscuramento di tutti i dati sensibili; pubblicazione del solo quadro riassuntivo della dichiarazione dei redditi, riassuntivo del dato patrimoniale generale, senza elementi analitici di dettaglio; previsione del consenso del familiare per la pubblicazione dei dati che lo riguardano; proporzionalità della misura, sotto il profilo della prevista contrazione dei dati da pubblicare, non comprendenti quelli di cui alla lettera f), per i dirigenti dei comuni sotto i 15.000 abitanti, art. 3, comma 1-ter, e per i dirigenti scolastici, Linee guida ANAC, p.11].

5.2. Il Codacons eccepisce il difetto di giurisdizione dell’adito Tribunale e l’inammissibilità del ricorso, stante la natura non provvedimentale degli atti gravati, sulla scorta di motivazioni non dissimili di quelle a suo tempo svolte dalla difesa erariale nelle analoghe eccezioni, nonché l’improcedibilità del ricorso per mancata impugnazione della delibera dell’Anac di approvazione delle Linee guida attuative dell’art. 14 del d.lgs. 33/2013, pubblicate in pendenza della controversia (24 marzo 2017).

Nel merito, il Codacons, premesso, come già la difesa erariale, che il ricorso è contraddittorio, nella misura in cui i ricorrenti contestano non la legittimità dell’obbligo di pubblicazione in se, bensì esclusivamente la sua applicazione ai dirigenti, confuta analiticamente, con varie argomentazioni, le censure ricorsuali, sostenendo la compatibilità e, anzi, la necessità della misura, nonché la sua ragionevolezza e proporzionalità, alla luce del diritto dell’UE e della Costituzione.

5.3. I ricorrenti eccepiscono l’inammissibilità dell’intervento del Codacons e confutano le questioni pregiudiziali e di merito introdotte dalle parti resistenti.

5.4. La difesa erariale, in replica, fa propria l’eccezione di improcedibilità del ricorso per mancata impugnazione della delibera dell’Anac di approvazione delle Linee guida, già svolta dall’interveniente ad opponendum.

5.5. La controversia è stata trattenuta in decisione alla pubblica udienza del 13 giugno 2017.

6. Va prioritariamente affrontata, com’è d’uopo, la disamina delle questioni pregiudiziali.

7. Viene in immediato rilievo la questione inerente la giurisdizione dell’adito Tribunale sulla controversia in esame.

Il Collegio la ritiene sussistente, in forza delle seguenti considerazioni.

7.1. L’art. 152 del d.lgs. 30 giugno 2003, n. 196, Codice in materia di protezione dei dati personali, dispone al comma 1 che “Tutte le controversie che riguardano, comunque, l'applicazione delle disposizioni del presente codice, comprese quelle inerenti ai provvedimenti del Garante in materia di protezione dei dati personali o alla loro mancata adozione, nonché le controversie previste dall'articolo 10, comma 5, della legge 1° aprile 1981, n. 121, e successive modificazioni, sono attribuite all'autorità giudiziaria ordinaria”.

Il giudice amministrativo ha ritenuto non conforme al dettato costituzionale una lettura dell'art. 152, comma 1, d.lgs. n. 196/2003, nel senso della introduzione di una giurisdizione esclusiva nei riguardi del giudice ordinario estesa agli interessi legittimi. Tale disposizione, si è sostenuto, non persegue la finalità di fondare la giurisdizione sulla sola individuazione del soggetto pubblico coinvolto nella controversia, bensì quella di chiarire come i provvedimenti del Garante per la protezione dei dati personali, riguardanti la protezione di detti dati, in quanto incidenti su diritti soggettivi dei privati, sono soggetti al sindacato dell'autorità giudiziaria ordinaria secondo le particolari regole di procedura dettate dai successivi comma contenuti nel medesimo articolo, con la conseguente indispensabilità, ai fini dell’operatività della disposizione, e, indi, sulla individuazione del plesso giurisdizionale competente per la disamina di una controversia afferente la protezione dei dati personali, dell’apprezzamento della concreta situazione soggettiva azionata in giudizio, secondo il tradizionale paradigma interesse legittimo/diritto soggettivo (C. Stato, VI, 3 settembre 2009, n. 5198, confermativa della sentenza del TAR Lazio, Roma, II, 23 gennaio 2009, n. 587).

La tesi non ha superato il vaglio di legittimità del giudice della giurisdizione, che, nel pronunziarsi sulla questione, ha rilevato, per un verso, la piana lettura e la altrettanto piana interpretazione della disposizione, “la cui cristallina espressione letterale (rara avis) non lascia margini a dubbi circa l'intentio legis di attribuire l'intera materia alla cognizione dell'AGO, senza eccezioni di sorta” e, in particolare, senza che a ciò risulti di ostacolo, come ritenuto dal giudice amministrativo, l’art. 103 Cost., stante l’evoluzione interpretativa di cui la norma costituzionale è stata oggetto a partire da Cass. SS.UU. 3521/1994.

Nel giungere alle predette conclusioni, le SS.UU. hanno anche osservato come l’art. 152, comma 1, del d.lgs. n. 196/2003 risulti, nel merito, perfettamente ragionevole, “poichè la materia dell'accesso ai dati personali e dei costi di esercizio di tale diritto presenta una indiscutibile, reciproca, inestricabile interferenza di diritti e interessi legittimi, nella quale, peraltro, netta appare la prevalenza dei primi rispetto ai secondi” (Cass., SS.UU. 14 aprile 2011, n. 8487).

Alla luce della appena richiamata giurisprudenza, non può, pertanto, porsi alcun dubbio sul fatto che: a) tutte le controversie afferenti alla “intera materia” dell'accesso ai dati personali, per richiamare le parole della Corte, sono soggette alla giurisdizione del giudice ordinario; b) per esse, non è necessaria alcuna distinzione fondata sulla posizione soggettiva azionata in giudizio.

Ciò posto, occorre osservare che nel giudizio in esame si discute non dell’applicazione di norme del d.lgs. n. 196 del 2003 - i cui articoli non risultano neanche invocati dai ricorrenti quale parametro di legittimità violato dalle gravate disposizioni - o di provvedimenti del Garante in materia di protezione dei dati personali o loro mancata adozione, bensì di questioni e provvedimenti che afferiscono alle norme in materia di trasparenza, di cui al d.lgs. 14 marzo 2013, n. 33.

Viene, pertanto, in rilievo l’art. 50 - Tutela giurisdizionale del predetto d.lgs. 33/2013, che dispone che “Le controversie relative agli obblighi di trasparenza previsti dalla normativa vigente sono disciplinate dal decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104”, e, per l’effetto, il codice del processo amministrativo ivi richiamato e, nel suo ambito, l’art. 133, che indica al comma 1, lett. a), n. 6, tra le materie di giurisdizione esclusiva attribuite al giudice amministrativo, “il diritto di accesso ai documenti amministrativi e violazione degli obblighi di trasparenza amministrativa”.

Di tali ultime norme l’Amministrazione resistente offre la seguente lettura.

In particolare, la difesa erariale sostiene che, poiché il legislatore, nel d.lgs. 33/2013, art. 50, si riferisce alle controversie “relative agli obblighi di trasparenza”, mentre il c.p.a., art. 133, comma 1, lett. a), n. 6, menziona la “violazione degli obblighi di trasparenza amministrativa”, tema asseritamente meno ampio del primo, il rimando operato dall’art. 50 va inteso in senso letterale e siccome riferito all’intero c.p.a., con la conseguenza che, per la controversia in esame, devono essere applicate le norme del codice del processo amministrativo sul generale riparto di giurisdizione (art. 7: “sono devolute alla giurisdizione amministrativa le controversie, nelle quali si faccia questione di interessi legittimi e, nelle particolari materie indicate dalla legge, di diritti soggettivi, concernenti l'esercizio o il mancato esercizio del potere amministrativo, riguardanti provvedimenti, atti, accordi o comportamenti riconducibili anche mediatamente all'esercizio di tale potere, posti in essere da pubbliche amministrazioni”), e valutata, per l’effetto, la natura della situazione soggettiva azionata in giudizio, secondo la già citata ripartizione interessi legittimi/diritti soggettivi, con la conclusione dell’attribuzione al giudice ordinario della cognizione del giudizio, nell’ambito del quale la difesa erariale non rinviene posizioni di interesse legittimo.

La tesi è suggestiva ma non convince.

E’ innanzitutto debole, sotto il profilo della semantica frasale, e, indi, dell’interpretazione letterale, la differenziazione - unico elemento posto a base dell’eccezione - tra le espressioni “relative agli obblighi di trasparenza” di cui all’art. 50, d.lgs. 33/2013 e “violazione degli obblighi di trasparenza amministrativa” di cui all’art. 133, comma 1, lett. a), n. 6), c.p.a..

Le due locuzioni rimandano, invero, nella parte qualificante, a un unico tema, che è quello degli “obblighi ditrasparenza amministrativa”, inequivocabilmente contenuto in entrambe, mentre la differenza in parola è confinata nell’alveo delle parole introduttive del tema stesso (“relative agli”; “violazione degli”), e, indi, in posizione tale che, nell’economia generale delle due norme, non permette quell’apprezzamento della sua rilevanza nei sensi richiesti dalla difesa erariale.

Anche sotto il profilo sostanziale, la ricostruzione in commento manifesta gravi criticità: se è vero infatti che la “violazione degli obblighi” è solo una delle possibili fattispecie delle questioni “relative agli obblighi”, è altresì vero che l’indagine sulla “violazione degli obblighi” comporta necessariamente la disamina delle questioni “relative agli obblighi” (sussistenza, estensione, ambito soggettivo e oggettivo, etc.) , di talchè è ben arduo ipotizzare che la disamina della violazione dell’obbligo possa costituire una categoria a se stante, diversa quella dell’obbligo in se, tale da richiedere, o permettere, l’intervento di due distinte cognizioni giudiziali.

Sotto il profilo dell’interpretazione sistematica, inoltre, è difficile comprendere come il legislatore possa aver affidato l’elemento dirimente di una questione così rilevante, qual è quella del riparto di giurisdizione della materia della trasparenza amministrativa, sulla base non dell’individuazione dell’oggetto della disciplina da regolare, in se considerata, per giunta incontrovertibilmente delineata (“obblighi di trasparenza amministrativa”), bensì sulle modalità con cui la stessa è stata richiamata.

Sul punto, può anche osservarsi come, per le altre disposizioni dell’art. 133, comma 1, c.p.a. (che si ritiene di non riportare integralmente per mere ragioni di economia espositiva), la delimitazione della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo avvenga mediante la enucleazione di specifiche materie [lett. a), 1): “risarcimento del danno ingiusto cagionato in conseguenza dell'inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del procedimento amministrativo”; lett. a), 2): “formazione, conclusione ed esecuzione degli accordi integrativi o sostitutivi di provvedimento amministrativo e degli accordi fra pubbliche amministrazioni”], e, laddove tale criterio non risulti esaustivo, con il richiamo di porzioni di materie, a loro volta espressamente delimitate tramite eccezioni [lett. b): “controversie aventi ad oggetto atti e provvedimenti relativi a rapporti di concessione di beni pubblici, ad eccezione delle controversie concernenti indennità, canoni ed altri corrispettivi e quelle attribuite ai tribunali delle acque pubbliche e al Tribunale superiore delle acque pubbliche”], esclusioni [ lett. c): “controversie aventi ad oggetto atti e provvedimenti relativi a rapporti di concessione di beni pubblici, ad eccezione delle controversie concernenti indennità, canoni ed altri corrispettivi e quelle attribuite ai tribunali delle acque pubbliche e al Tribunale superiore delle acque pubbliche”], “fermi restando” [lett. f): “controversie aventi ad oggetto gli atti e i provvedimenti delle pubbliche amministrazioni in materia urbanistica e edilizia, concernente tutti gli aspetti dell'uso del territorio, e ferme restando le giurisdizioni del Tribunale superiore delle acque pubbliche e del Commissario liquidatore per gli usi civici, nonché del giudice ordinario per le controversie riguardanti la determinazione e la corresponsione delle indennità in conseguenza dell'adozione di atti di natura espropriativa o ablativa”], ovvero mediante l'indicazione del settore di intervento, indicato mediante l’autorità procedente ovvero lo specifico oggetto dell’agire pubblico [lett. l): “le controversie aventi ad oggetto tutti i provvedimenti, compresi quelli sanzionatori ed esclusi quelli inerenti ai rapporti di impiego privatizzati, adottati dalla Banca d'Italia…”].

L’apprezzamento della estensione della giurisdizione esclusiva affidata al giudice amministrativo dall’art. 133 del codice del processo amministrativo non richiede, pertanto, di norma, che la verifica dell’appartenenza della controversia a una determinata materia, settore, parti di essi o amministrazione. In ciò, il c.p.a. si rivela da un lato coerente con la ratio dell’attribuzione della giurisdizione esclusiva, che esclude, in nuce, la necessità di un’analisi, caso per caso, di quale sia l’interesse azionato in giudizio (scrutinio che può invece riguardare, ove necessario, la disamina del merito del ricorso), dall’altro attuativo del principio di chiarezza della legislazione, come del resto già dimostra l’art. 7 dello stesso codice sulla giurisdizione amministrativa generale.

Del resto, uno dei criteri informatori del codice, alla luce della legge delega 18 giugno 2009, n. 69, art. 44, comma 2, lett. b), n. 2), è il riordino delle norme vigenti sulla giurisdizione del giudice amministrativo anche rispetto alle altre giurisdizioni, con l’evidente finalità di eliminare la necessità di distinguere tra diritti e interessi legittimi in determinate materie, nei quali gli stessi si presentano inestricabilmente interferenti.

A ben vedere, pertanto, la tesi della difesa erariale, comportando la necessità di distinguere tra diritti e interessi ai fini della individuazione della giurisdizione in una materia menzionata in sede di regolazione di giurisdizione esclusiva del g.a., risulta disarmonica non solo con l’art. 50 del d.lgs. 33/2013 e con l’art. 133 del c.p.a., ma con l’intero impianto codicistico di cui al d.lgs. 104/2010.

E allora non può che concludersi che, anche per gli “obblighi di trasparenza”, la menzione della materia tra quelle elencate all’art. 133 c.p.a. comporti la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo.

A tale conclusione non è di ostacolo l’art. 50 del d.lgs. 33/2013, che per le controversie “relative agli obblighi di trasparenza” - diversamente da quanto fa, come visto, il Codice in materia di protezione dei dati personali a favore del giudice ordinario per le questioni che riguardano l'applicazione delle norme del codice stesso, comprese quelle inerenti ai provvedimenti del Garante in materia di protezione dei dati personali - non introduce un espresso rinvio alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo né si riferisce direttamente all’art. 133, comma 1, lett. a), n. 6 del c.p.a., bensì richiama l’intera disciplina del d.lgs. 2 luglio 2010, n. 104 (c.p.a.).

Ogni possibile dubbio sul punto può infatti essere superato sol che si osservi che l’attuale formulazione dell’art. 133, comma 1, lett. a), n. 6 del c.p.a. (“sono devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo … le controversie in materia di … diritto di accesso ai documenti amministrativi e violazione degli obblighi di trasparenza amministrativa”), che precedentemente richiamava solo le controversie in materia di accesso ai documenti amministrativi, è stata introdotta proprio dal d.lgs. 33/2013 (art. 52, comma 4, lett. e), e che, come già sopra rilevato, tra i criteri ispiratori del c.p.a. introdotto con il d.lgs. 104/2010, a mente della legge delega 18 giugno 2009, n. 69, art. 44, comma 2, lett. b), punto 1, si rinviene quello di conferire unitarietà di fonte alle norme sulla giurisdizione del giudice amministrativo. Di talchè deve ritenersi che, nel novellare il c.p.a. per la materia della trasparenza, il d.lgs. 33/2013 abbia opportunamente ritenuto di attenersi ai criteri ispiratori dello stesso c.p.a., anziché introdurre una isolata norma sulla giurisdizione, che si sarebbe posta in contrasto con il nuovo impianto regolatorio della giurisdizione amministrativa.

Inoltre, la conclusione assunta armonizza l’interpretazione letterale, sistematica e teleologica delle norme considerate, non incorrendo nelle difficoltà interpretative sopra citate, in cui incappa invece la lettura offerta dalla difesa erariale, ed è rafforzata dalla circostanza che la materia della trasparenza è stata accomunata, nella regolazione della giurisdizione, da parte dell’alinea di cui al comma 1, lett. a), n. 6, con la materia dell’accesso agli atti, rimessa, quale categoria autonoma, alla cognizione del giudice amministrativo.

Deve ancora rilevarsi come la proposta interpretazione si manifesti conforme ai principi generali della giurisdizione amministrativa.

Invero, come più volte chiarito dalla giurisprudenza, e come ora definitivamente sancito anche dall’art. 7, comma 1, d.lgs. n. 104/2010, c.p.a., la giurisdizione esclusiva presuppone tradizionalmente che l'oggetto della controversia abbia un collegamento, sia pure indiretto o mediato, con l'esercizio del potere pubblico (sentenze della Corte Costituzionale n. 204 del 2004 e n. 191 del 2006; C. Stato, V, 31 gennaio 2017, n. 382; vedasi anche in tal senso Cass., SS. UU., 4 settembre 2015, n. 17586).

E un siffatto collegamento emerge con tutta evidenza nella materia in trattazione, sol che si consideri che le argomentazioni addotte dalla parte resistente pubblica sottolineano come il tema della regolazione della trasparenza dell’attività amministrativa costituisca uno degli imprescindibili riflessi degli ordinamenti democratici.

Infine, il riconoscimento dell’attribuzione al giudice amministrativo, in via esclusiva, della materia della trasparenza non stride con la riserva al giudice ordinario della materia dell'accesso ai dati personali (art. 152, d.lgs. n. 196 del 2003).

La materia della trasparenza si colloca infatti sul piano dell’interesse pubblico che si intende tutelare attraverso il regime della pubblicità dei dati, che è profondamente diverso dal piano in cui opera il codice in materia di protezione dei dati personali, e che si pone, al più, laddove siano possibili interferenze, sia logicamente che cronologicamente, a valle di ogni questione inerente gli specifici diritti e obblighi relativi all’accesso ai dati personali.

La diversità dei piani di cui sopra emerge ictu oculi anche dall’oggetto delle rispettive regolazioni, costituite, per il d.lgs. 30 giugno 2003, n. 196, dalla protezione dei dati personali, e per il d.lgs. 14 marzo 2013, n.33, dal diritto di accesso civico e dagli obblighi di pubblicità, trasparenza e diffusione di informazioni da parte delle pubbliche amministrazioni.

Alla luce di tali ultime notazioni, deve anzi rilevarsi come le due giurisdizioni esclusive, ordinaria in materia di protezione dei dati personali, amministrativa in materia di trasparenza, rispecchino perfettamente, completandosi, il profilo privatistico e quello pubblicistico del più ampio tema complessivamente evidenziato dai due considerati ordinamenti di settore.

7.2. L’eccezione di carenza di giurisdizione dell’adito Tribunale va, per tutto quanto sopra, respinta.

8. Occorre a questo punto individuare le parti del presente giudizio, e, segnatamente, esaminare l’eccezione, sollevata dai ricorrenti, di inammissibilità dell’intervento ad opponendum del Codacons.

Sul punto, in linea generale, può rammentarsi che le condizioni legittimanti gli interventi volontari nel giudizio amministrativo, allo stato regolato dagli artt. 28 e 50 del c.p.a., consistono tradizionalmente, per gli interventori ad adiuvandum, nella carenza di una posizione sostanziale di interesse legittimo, cui conseguirebbe, anziché la assunta posizione adesiva, la proposizione di autonomo ricorso nei prescritti termini di decadenza (C. Stato, IV, 29 febbraio 2016, n. 853; VI, 6 settembre 2010, n. 6483; C.G.A.R.S., 2 maggio 2017, n. 205; si veda, comunque, C. Stato, VI, 3 marzo 2016, n. 882, che ammette, ai sensi della lettera dell’art. 28 del c.p.a., anche dopo la scadenza del termine di decadenza, un intervento adesivo dipendente del cointeressato, almeno laddove egli sia destinatario di atti ad effetti non frazionabili), e, per gli interventori ad opponendum, nella titolarità di un interesse contrario a quello azionato dai deducenti, il quale potrebbe subire pregiudizio dall'annullamento dell'atto impugnato (Tar Lazio, Roma, I, 4 giugno 2007, n. 5149).

L’interveniente, ai sensi dell’art. 50, comma 1, c.p.a., deve esporre la titolarità di una situazione qualificata, la quale, per quanto attiene all’intervento ad opponendum, di rilevanza in questa sede, presuppone necessariamente un oggettivo e concreto interesse in capo al terzo a contrastare il ricorso e a conseguirne il rigetto, interesse che può essere sia analogo a quello esposto dall’Amministrazione resistente o dal controinteressato già costituito in giudizio sia autonomamente correlato al mantenimento in vita dell’atto gravato.

In altre parole, l’intervento ad opponendum, ai fini della sua ammissibilità, non può prescindere dalla rappresentazione da parte dell’interveniente della titolarità di una situazione soggettiva, idonea ad attestare la ricaduta di effetti negativi a suo danno in caso di positivo riscontro dell’azione di annullamento proposta, adeguatamente supportata da elementi concreti e oggettivi atti a comprovare la sussistenza di un interesse che, seppure di mero fatto, deve palesarsi come specifico e differenziato rispetto alla collettività (da ultimo, Tar Lazio, Roma, II-bis, 4 maggio 2017, n. 5201).

Tanto chiarito, deve concludersi che, contrariamente a quanto rappresentato dai ricorrenti, che dubitano che il Codacons abbia dimostrato l’interesse a intervenire in giudizio, tutte tali condizioni, nel caso di specie, risultano sussistenti.

Come chiarito dall’atto di intervento, il Codacons “è un’associazione di volontariato di cui alla l. 266/91 autonoma, senza fini di lucro a base democratica e partecipativa che persegue esclusivamente obiettivi di solidarietà sociale” (art. 1 dello Statuto). L’Associazione, come da disposizioni statutarie, “ha quale sua esclusiva finalità quella di tutelare con ogni mezzo legittimo, ivi compreso il ricorso allo strumento giudiziario, i diritti e gli interessi dei consumatori ed utenti, categoria socialmente debole” (art. 2.2 Statuto) e a tal fine “interviene nei giudizi civili, penali e amministrativi (art. 2.3 Statuto).

Con l’intervento in esame, il Codacons ha azionato il suo interesse ad agire al fine di “tutelare il miglior utilizzo delle risorse pubbliche” perseguendo “ogni attività illecita finalizzata alla corruzione e comunque alla violazione delle norme e dei principi che devono informare il corretto andamento della pubblica amministrazione, anche per evitare che i cittadini debbano subire il sovrapprezzo necessariamente generato dalle condotte corruttive” (art. 2.1 dello Statuto), e a tutelare “il diritto alla trasparenza, alla corretta gestione e al buon andamento delle pubbliche amministrazioni” (art. 2.1 Statuto).

Atteso l’oggetto dell’odierno giudizio e gli interessi e scopi perseguiti e qui dichiarati dall’Associazione, deve indi ritenersi sussistente la legittimazione e l’interesse ad agire del Codacons a sostegno delle parti resistenti.

8.1. Con l’occasione, deve rilevarsi, d’ufficio, la tardività della memoria difensiva depositata dal Codacons l’8 giugno 2017, ovvero quando erano ormai scaduti i termini di cui all’art. 73, comma 1, c.p.a., da calcolarsi tenendo conto della data dell’udienza di discussione (13 giugno 2017).

9. Occorre ora occuparsi delle eccezioni, formulate sia dalla difesa erariale che dal Codacons, di inammissibilità del ricorso, stante la natura non provvedimentale degli atti gravati, e di improcedibilità dello stesso, non avendo i ricorrenti provveduto all’impugnazione della delibera dell’Anac 8 marzo 2017, n. 241, di approvazione delle Linee guida attuative dell’art. 14 del d.lgs. 33/2013, pubblicata in pendenza della controversia (24 marzo 2017).

Entrambe le eccezioni vanno respinte.

9.1. Quanto alla prima, di inammissibilità, si osserva che gli atti in parola attuano una prescrizione introdotta dalla legge, ovvero ne concretizzano gli effetti, introducendo le previsioni di dettaglio e richiamando le sanzioni previste pel caso di inadempimento, ciò che evidenzia che il meccanismo obbligatorio previsto dalla norma, lungi dall’essere auto-applicativo, necessita dell’intermediazione costituita dal provvedimento della pubblica amministrazione, che, collocandosi nella fase esecutiva dell’obbligo, manifesta il suo contenuto autoritativo e la sua portata lesiva.

Del resto, non consta che la natura applicativa di un atto dell’amministrazione possa tradursi in carenza di contenuto provvedimentale: se così fosse ben pochi atti amministrativi sarebbero impugnabili, atteso che essi, per la più parte, danno concreta attuazione a previsioni di legge.

9.2. Quanto alla seconda eccezione, di improcedibilità, si rammenta che l’individuazione della sopravvenuta carenza di interesse deve essere effettuata con criteri rigorosi e restrittivi per evitare che la preclusione dell’esame del merito della controversia si trasformi in un'inammissibile elusione dell'obbligo del giudice di provvedere sulla domanda, dovendosi, in particolare, ritenere che (a prescindere dalle ipotesi di sopravvenienze costituite da modifiche normative o accadimenti di fatto) solo laddove vi sia stata l’adozione di provvedimenti sopravvenuti ormai non più utilmente impugnabili, il giudice possa dichiarare la sopravvenuta carenza di interesse, essendo ormai definitiva l’inconfigurabilità di qualsiasi possibile utilità discendente dalla favorevole definizione nel merito della controversia (da ultimo, C. Stato, III, 3 novembre 2016, n. 4615; V, 8 aprile 2014, n. 1663; IV, 17 settembre 2013, n. 4637).

Applicando tali coordinate ermeneutiche al caso di specie, la favorevole valutazione dell’eccezione non potrebbe indi che fondarsi sull’accertamento della natura vincolante delle sopravvenute Linee guida Anac 8 marzo 2017, n. 241: solo in tal caso, infatti, i ricorrenti potrebbero ritenersi sforniti di interesse alla coltivazione dell’impugnazione degli atti gravati con il ricorso, atteso che, anche nel caso di una favorevole delibazione del gravame, con conseguente annullamento degli stessi, i contestati obblighi troverebbero comunque fonte nelle predette Linee guida, non fatte oggetto di impugnazione.

Ma un siffatto accertamento è escluso dal parere del Consiglio di Stato, Commissione speciale, n. 1257 del 29 maggio 2017, reso nell’adunanza del 20 aprile 2017, in ordine a uno schema di atto assunto dall’Anac sempre in materia di trasparenza, la delibera di “Aggiornamento delle Linee guida per l'attuazione della normativa in materia di prevenzione della corruzione e trasparenza da parte delle società e degli enti di diritto privato controllati e partecipati dalle pubbliche amministrazioni e degli enti pubblici economici”.

In tale parere è stato osservato (punto 3) come le linee guida in parola costituiscano, in esplicazione della potestà di vigilanza affidata all’Anac dall’art. 1, comma 2, lettera f), della l. 6 novembre 2012, n. 190, e s.m.i., un atto di natura non regolamentare, che, nella misura in cui è volto a chiarire la portata applicativa e le ricadute organizzative degli adempimenti stabiliti dalla normativa di cui trattasi (legge 190/2012 e d.lgs. 33/2013, come novellati dal d.lgs. 97/2016), è riconducibile al novero degli atti non vincolanti, ovvero che possono essere disattesi mediante atti che contengano una adeguata e puntuale motivazione, idonea a dar conto delle ragioni della diversa scelta amministrativa.

Al di fuori di tale ultima ipotesi, ha chiarito il predetto parere, la violazione delle linee guida può essere considerata, in sede giurisdizionale, come elemento sintomatico dell’eccesso di potere, sulla falsariga dell’elaborazione che si è avuta con riguardo alla violazione delle circolari.

Ed è noto che, per la giurisprudenza, le circolari non rivestono un rilevanza determinante nella genesi dei provvedimenti che ne fanno applicazione, per cui i soggetti destinatari di questi ultimi non hanno alcun onere di impugnare la circolare, essendo meramente facoltizzati (e quindi non onerati), a contestarne la legittimità (C. Stato, IV, 16 ottobre 2000, n. 5506; 20 settembre 1994, n. 720).

10. Esaurito l’esame delle eccezioni pregiudiziali, può passarsi all’esame del merito del gravame.

11. Come ampiamente riferito in fatto, i ricorrenti contestano i gravati provvedimenti del Garante per la protezione dei dati personali, che hanno dato applicazione nei loro confronti alla norma di cui all’art. 14, comma 1-bis, d.lgs. 33/2013, laddove prevede, in analogia con quanto già previsto per i titolari di incarichi politici di cui al comma 1, che le pubbliche amministrazioni pubblichino nel proprio sito web, oltre che gli altri dati elencati nel comma 1 dell’art. 14, anche i dati dei titolari di incarichi dirigenziali di cui all'art. 14 comma 1, lett. c) e f) dello stesso d.lgs., costituiti da:

“c)i compensi di qualsiasi natura connessi all'assunzione della carica; gli importi di viaggi di servizio e missioni pagati con fondi pubblici;”;

“f) le dichiarazioni di cui all'articolo 2, della legge 5 luglio 1982, n. 441, nonché le attestazioni e dichiarazioni di cui agli articoli 3 e 4 della medesima legge, come modificata dal presente decreto, limitatamente al soggetto, al coniuge non separato e ai parenti entro il secondo grado, ove gli stessi vi consentano. Viene in ogni caso data evidenza al mancato consenso.”.

In particolare, in attuazione della predetta norma, il Garante ha invitato i ricorrenti a inviare entro un dato termine la relativa documentazione, e precisamente:

- copia dell’ultima dichiarazione dei redditi presentata, oscurando i dati eccedenti, come previsto dalla Linee guida del Garante;

- dichiarazione, aggiornata alla data di sottoscrizione, per la pubblicità della situazione patrimoniale, da rendersi secondo lo schema allegato alla richiesta;

- dichiarazione di negato consenso per il coniuge non separato e i parenti entro il secondo grado, ovvero, pel caso si avvenuta prestazione del consenso, copia delle dichiarazioni dei redditi dei suddetti soggetti e dichiarazioni aggiornate per la pubblicità delle rispettive situazioni patrimoniali, sempre secondo il modello allegato;

- dichiarazione dei dati relativi ad eventuali altre cariche presso enti pubblici o privati o altri incarichi con oneri a carico della finanza pubblica assunte dagli interessati.

La disposizione normativa sulla base della quale la predetta richiesta è stata avanzata è ritenuta dai ricorrenti violativa degli artt. 7, 8 e 52 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, dell’art. 6 del Trattato UE, dell’art. 8 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, dell’art. 6 della direttiva 95/46/CE, dell’art. 5 del Regolamento 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio del 27 aprile 2016, da applicarsi negli Stati membri a decorrere dal 25 maggio 2018, nonché degli artt. 117, 3, 13, 2 della Costituzione.

In particolare, secondo i ricorrenti, i predetti obblighi di pubblicazione comporterebbero una ingiustificata e pesante ingerenza nel diritto alla vita privata e alla protezione dei dati, con riflessi anche relativi alla diritto di sicurezza, e sarebbero contrari ai principi di proporzionalità, pertinenza, non eccedenza e finalità nel trattamento dei dati personali, sia per la natura dei dati richiesti che per le modalità di diffusione in internet, in quanto introdotti senza misure che impediscano l’indicizzazione delle informazioni da parte dei comuni motori di ricerca.

12. Ritiene al riguardo il Collegio che le questioni sollevate dai ricorrenti meritino favorevole considerazione, nei limiti di seguito evidenziati.

13. Appare immediatamente opportuno chiarire che il Collegio non dubita della serietà e della fondatezza delle ragioni illustrate dalla difesa erariale quando evidenzia la necessità non più prorogabile di adottare un sistema rigido di prevenzione della corruzione, alla luce dei noti fatti di cronaca giudiziaria, e in virtù dei numerosi moniti provenienti da rilevanti organizzazioni internazionali (Onu, Greco, OCSE) e dalla stessa Unione europea, che hanno raccomandato più volte all'Italia l'adozione di misure severe e drastiche, ispirate a una logica di integrità e trasparenza.

Del resto, una siffatta necessità consegue anche alle classifiche stilate dall'organizzazione “Transparency International” citate dall’Amministrazione, che collocano Italia tra i paesi in cui è più elevata la percezione della corruzione, da intendersi anche come carenza di trasparenza.

Meritevole di massima considerazione è anche la notazione secondo cui l’Italia, nella generale bipartizione tra sistemi nazionali caratterizzati da un generalizzato e risalente sistema di accesso agli atti, dati e informazioni delle pubbliche amministrazioni, dalla tempestività ed efficienza dei rimedi giudiziali e stragiudiziali, dalla non rilevanza numerica dei casi di conflitti di interessi e di corruzione, o comunque dalla loro puntuale regolazione specifica, e sistemi in cui, al contrario, l'accesso è ristretto e non garantisce adeguati standard di tempestività ed efficienza, i casi di conflitti di interessi e di corruzione sono al di sopra della media europea e internazionale ed esistono discipline deboli sulla trasparenza e sul conflitto di interessi, si colloca nella seconda categoria, per la quale l’unica risposta possibile per realizzare un serio regime di prevenzione della corruzione è una normativa sulla trasparenza che sia correlata alla portata delle rilevate problematiche.

Però, sia la considerazione della rilevanza del contesto delineato da tali informazioni e da tutti gli altri elementi evidenziati dall’Amministrazione a sostegno dell’adozione di un regime di trasparenza “forte”, sia l’apprezzamento ulteriore dell’entità della ricaduta negativa dei fenomeni corruttivi in tutti i settori in cui essi si manifestano (amministrativo, giudiziario, economico, sociale …), che conferma la priorità della questione, nulla dicono in ordine alla proporzionalità e alla ragionevolezza delle misure qui in contestazione, posto che, com’è evidente, va escluso che la risposta normativa a qualsiasi problematica, per quanto, in linea generale, di rilievo assoluto, opportuna, se non necessitata, motivata da idonei presupposti e compulsata dalla comunità internazionale, possa trasmodare dagli ambiti che nella Costituzione e nella normativa europea delineano i diritti della persona.

14. Nell’individuare, conseguentemente a quanto sopra, gli ambiti tutelati qui in evidenza, vengono in rilievo, come sostenuto dagli interessati:

- la direttiva 24 ottobre 1995, n. 95/46/CE, Direttiva del Parlamento europeo del Consiglio relativa alla tutela delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali, nonché alla libera circolazione di tali dati, che all’art. 6, par. 1, lett. c), prevede che gli Stati membri dispongono che i dati personali siano “adeguati, pertinenti e non eccedenti rispetto alle finalità per le quali vengono rilevati e/o per le quali vengono successivamente trattati”;

- l’art. 7 della stessa direttiva 95/46/CE, che dispone che “Gli Stati membri dispongono che il trattamento di dati personali può essere effettuato soltanto quando: … c) è necessario per adempiere un obbligo legale al quale è soggetto il responsabile del trattamento … oppure e) è necessario per l'esecuzione di un compito di interesse pubblico o connesso all'esercizio di pubblici poteri di cui è investito il responsabile del trattamento o il terzo a cui vengono comunicati i dati…”;

- l’art. 8 della ridetta direttiva 95/46/CE, paragrafi 1 e 4, che recitano rispettivamente che “Gli Stati membri vietano il trattamento di dati personali che rivelano l'origine razziale o etnica, le opinioni politiche, le convinzioni religiose o filosofiche, l'appartenenza sindacale, nonché il trattamento di dati relativi alla salute e alla vita sessuale.”, e che “Purché siano previste le opportune garanzie, gli Stati membri possono, per motivi di interesse pubblico rilevante, stabilire ulteriori deroghe oltre a quelle previste dal paragrafo 2 sulla base della legislazione nazionale o di una decisione dell'autorità di controllo.”.

In relazione alla predetta direttiva, si osserva che la Corte di giustizia delle comunita' europee (Sezioni riunite, 20 maggio 2003, Rechnungshof e Neukomm e Lauermann c. Osterreichischer Rundfunk e altri) ha ritenuto che gli art. 6, n. 1, lett. c), e 7, lett. c) ed e), della direttiva in parola sono direttamente applicabili, nel senso che essi possono essere fatti valere da un singolo dinanzi ai giudici nazionali per evitare l'applicazione delle norme di diritto interno contrarie a tali disposizioni.

Inoltre, i principi da essa recati e sopramenzionati hanno trovato conferma nella nuova normativa in materia di protezione dei dati personali di cui al regolamento (UE) n. 2016/679 del parlamento europeo e del Consiglio, del 27 aprile 2016, entrato in vigore in Italia il 4 maggio 2016 e destinato ad acquisire piena efficacia il 25 maggio 2018;

- la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, art. 7 (“Ogni persona ha diritto al rispetto della propria vita privata e familiare, del proprio domicilio e delle proprie comunicazioni.”), art. 8 (“1. Ogni persona ha diritto alla protezione dei dati di carattere personale che la riguardano. 2.Tali dati devono essere trattati secondo il principio di lealtà, per finalità determinate e in base al consenso della persona interessata o a un altro fondamento legittimo previsto dalla legge …”), art. 52 (“1. Eventuali limitazioni all'esercizio dei diritti e delle libertà riconosciuti dalla presente Carta devono essere previste dalla legge e rispettare il contenuto essenziale di detti diritti e libertà. Nel rispetto del principio di proporzionalità, possono essere apportate limitazioni solo laddove siano necessarie e rispondano effettivamente a finalità di interesse generale riconosciute dall'Unione o all'esigenza di proteggere i diritti e le libertà altrui. 2. I diritti riconosciuti dalla presente Carta per i quali i trattati prevedono disposizioni si esercitano alle condizioni e nei limiti dagli stessi definiti.

3. Laddove la presente Carta contenga diritti corrispondenti a quelli garantiti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei Diritti dell'Uomo e delle Libertà fondamentali, il significato e la portata degli stessi sono uguali a quelli conferiti dalla suddetta convenzione. La presente disposizione non preclude che il diritto dell'Unione conceda una protezione più estesa…”;

- l’art. 8 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, che dispone che “Ogni persona ha diritto al rispetto della sua vita privata e familiare, del suo domicilio e della sua corrispondenza.”, e che “Non può esservi ingerenza della pubblica autorità nell'esercizio di tale diritto a meno che tale ingerenza sia prevista dalla legge e costituisca una misura che, in una società democratica, è necessaria per la sicurezza nazionale, l'ordine pubblico, il benessere economico del paese, la prevenzione dei reati, la protezione della salute o della morale, o la protezione dei diritti e delle libertà altrui.”;

- l’art. 5 della Convenzione n. 108 sulla protezione delle persone rispetto al trattamento automatizzato di dati di carattere personale, adottata a Strasburgo il 28 gennaio 1981, ratificata con l. 21 febbraio 1989, n. 98, secondo cui i dati a carattere personale oggetto di un’elaborazione automatizzata sono: “a) ottenuti e elaborati in modo lecito e corretto; b) registrati per scopi determinati e legittimi ed impiegati in una maniera non incompatibile con detti fini; c) adeguati, pertinenti e non eccessivi riguardo ai fini per i quali vengono registrati; d) esatti e, se necessario, aggiornati; e) conservati in una forma che consenta l’identificazione delle persone interessate per una durata non superiore a quella necessaria ai fini per i quali sono registrati.”.

Le predette norme delineano chiaramente la necessità, fortemente evidenziata dalla sopra citata sentenza della Corte di giustizia delle comunita' europee 20 maggio 2003 in relazione agli art. 6, n. 1, lett. c), e 7, lett. c) ed e), della direttiva n. 1995/46/CE, ma declinata anche dalle altre decisioni invocate in ricorso e riportate in fatto, secondo cui la tutela delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali, nonché alla libera circolazione di tali dati, non osta a una normativa nazionale che imponga la raccolta e la divulgazione dei dati sui redditi dei dipendenti pubblici, a condizione, però, che sia provato che la divulgazione, laddove puntuale, ovvero riferita anche ai nominativi dei dipendenti, risulti necessaria e appropriata per l'obiettivo di buona gestione delle risorse pubbliche.

In altre parole, i principi di proporzionalità, pertinenza e non eccedenza costituiscono il canone complessivo che governa l’equilibrio del rapporto tra esigenza, privata, di protezione dei dati personali, ed esigenza, pubblica, di trasparenza.

15. In applicazione delle predette coordinate normative ed ermeneutiche, la denunzia di incompatibilità con la normativa europea e costituzionale formulata dai ricorrenti in relazione ai contestati dati oggetto di divulgazione risulta non manifestamente infondata.

Il Collegio ritiene infatti che la divulgazione dei dati riferiti ai dirigenti pubblici di cui alle lettere c) e f) dell’art. 14, comma 1, del d.lgs. 33/2013, applicabile ai medesimi per effetto dell’estensione operata dal successivo comma 1-bis, che riguardano la situazione reddituale e patrimoniale degli interessati, si presti ai seguenti rilievi.

A) Quanto alla integrale equiparazione dei dirigenti pubblici con i titolari di incarichi politici, originari destinatari della prescrizione di cui all’art. 14, comma 1, d.lgs. 33/2013, e alla assenza di qualsiasi differenziazione tra le figure dirigenziali.

Il Collegio osserva che la previsione in contestazione assimila condizioni che, all’evidenza, non sono equiparabili fra loro, stante l’enorme diversità tra le condizioni giuridiche facenti capo, nel vigente ordinamento nazionale, da un lato, ai titolari di incarichi politici e, dall’altro, ai titolari di incarichi dirigenziali.

La differenza di status tra le considerate categorie per genesi, struttura, funzioni esercitate e poteri statali di riferimento è talmente marcata da non richiedere, per la sua illustrazione, molte parole.

Basti al riguardo segnalare che i rapporti e le responsabilità che correlano, da un lato, i titolari di incarichi politici, dall’altro, i dirigenti pubblici, allo Stato e, indi, ai cittadini, si collocano su piani non comunicanti, in un insieme che rende del tutto implausibile la loro riconduzione, agli esclusivi fini della trasparenza, nell’ambito di un identico regime.

I ricorrenti segnalano anche, condivisibilmente, come la comune soggezione dei titolari di incarichi politici e dei dirigenti a identici obblighi di pubblicità, stante la diversa durata temporale che, di norma, caratterizza lo svolgimento delle relative funzioni, sia particolarmente pervasiva per i secondi, esposti, ai sensi del comma 2 dell’art. 14 in esame, all’assoggettamento alla disciplina in contestazione per un periodo corrispondente all’intera durata del rapporto di lavoro, che si atteggia pertanto, nei loro confronti, diversamente che per i titolari di incarichi politici, alla stregua di una “condizione della vita”.

Anche la mancata differenziazione tra le categorie dirigenziali soggette alla misura, in base, a esempio, all’amministrazione di appartenenza, alla qualifica, alle funzioni in concreto ricoperte, ai compensi percepiti, è parimenti indice di una non adeguata calibrazione della disposizione in parola, tenuto conto della molteplicità delle categorie dirigenziali rinvenibili nell’ordinamento vigente, e della connessa varietà ed estensione dei segmenti di potere amministrativo esercitato.

Sul punto, deve rilevarsi come i temperamenti apportati alla norma in sede applicativa, siccome illustrati dalla difesa erariale, non sono idonei a sconfessare la linea, fatta propria dall’art. 14, comma 1-bis, d.lgs. 33/2013, secondo cui il regime di cui trattasi è destinato a vincolare “i titolari di incarichi dirigenziali, a qualsiasi titolo conferiti, ivi inclusi quelli conferiti discrezionalmente dall'organo di indirizzo politico senza procedure pubbliche di selezione”.

Del resto, i ricorrenti evidenziano che la disposizione, secondo quanto rilevato dallo stesso Garante per la protezione dei dati personali nell’ambito del parere reso alla Presidenza del Consiglio dei ministri sullo schema del d.lgs. 25 maggio 2016, n. 97, che ha inserito il ridetto art. 14-bis, concerne un notevolissimo numero di soggetti, indicato, secondo le elaborazioni dell'Aran, in oltre 140.000.

E lo stesso parere ha rilevato come una siffatta scelta, cui consegue un trattamento giuridico limitativo della riservatezza individuale, è stata effettuata senza alcuna considerazione dell’effettivo rischio corruttivo insito nella funzione svolta.

L’argomentazione in parola, insieme ad altre considerazioni che militano a favore dell’irragionevolezza della misura, si trova ancor più esplicitata nella nota a firma del Presidente dell'Anac e del Garante per la protezione dei dati indirizzata al Ministro per la semplificazione e la pubblica amministrazione del 30 ottobre 2014, che riferisce, può aggiungersi autorevolmente, stante la particolare competenza nella materia di cui trattasi dei due firmatari, che “le criticità - segnalate da vari soggetti alle Autorità da noi presiedute - attengono, essenzialmente, al carattere indifferenziato degli obblighi di pubblicità. Essi si applicano infatti, con analogo contenuto, ad enti e realtà profondamente diversi tra loro, senza distinguerne la portata in ragione del grado di esposizione dell'organo al rischio di corruzione; dell'ambito di esercizio della relativa azione o, comunque, delle risorse pubbliche assegnate, della cui gestione l'ente debba quindi rispondere. Nel regolare così, in modo identico, situazioni diverse, tali norme rischiano di pregiudicare la ragionevolezza complessiva della disciplina in materia di trasparenza (essenziale invece per il buon andamento e la democraticità dell'azione amministrativa). E questo, con effetti in larga parte disfunzionali rispetto alla stessa esigenza di consentire ‘forme diffuse di controllo sul perseguimento delle funzioni istituzionali e sull'utilizzo delle risorse pubbliche’, perseguita dallo stesso decreto n. 33. Pertanto, le limitazioni (in alcuni casi anche significative) della riservatezza, che tali obblighi di pubblicità comportano, possono risultare irragionevoli e, come tali, meritevoli di revisione […]. La divulgazione on-line di una quantità spesso ingestibile di dati comporta infatti dei rischi di alterazione, manipolazione, riproduzione per fini diversi, che potrebbero frustrare quelle esigenze di informazione veritiera e, quindi, di controllo, che sono alla base del decreto”.

Resta da aggiungere che la difesa erariale stigmatizza che la contestazione del regime di pubblicità di cui trattasi, già pacificamente in vigore per i titolari di cariche politiche, sia formulata in ricorso solo in quanto applicabile ai dirigenti.

Il rilievo non è conducente, atteso che la segnalata circostanza è una mera conseguenza delle caratteristiche di personalità, attualità e concretezza che devono permeare l’interesse giuridico fatto valere nel giudizio amministrativo.

B) Quanto alla diffusione degli specifici dati di cui all’art. 14, comma 1-bis, lett. c) e f) del d.lgs. 33/2013.

Il Collegio dubita della legittimità della prescrizione imposta ai dirigenti di pubblicare i dati in contestazione, invece che, a tutela della proporzionalità della misura, una loro ragionata elaborazione, atta a scongiurare incontrovertibilmente la diffusione di dati sensibili o di dati, per un verso, superflui ai fini perseguiti dalla norma, per altro verso, suscettibili di interpretazioni distorte.

In particolare, si è già visto che la disposizione di cui trattasi comporta la divulgazione online di dati reddituali e patrimoniali relativi ai dirigenti, ai coniugi e ai parenti entro il secondo grado, ove essi acconsentano. E’ prevista anche, pel caso di mancato consenso del coniuge o del parente entro il secondo grado, la menzione dello stesso. I dati in parola, essendo desunti dalla dichiarazione dei redditi, si collocano a un livello di notevole dettaglio.

La rigorosità della misura è sottolineata dalla ulteriore prescrizione secondo cui nessun filtro o artifizio può essere adottato dalle amministrazioni cui compete la pubblicazione online dei dati affinché l’accesso ai documenti venga, anche con l’uso di strumenti informatizzati, in qualunque modo discriminato e gli stessi documenti siano resi non consultabili dai c.d. motori di ricerca.

L’art. 7-bis, comma 1, d.lgs. n. 33/2013, dispone infatti che “Gli obblighi di pubblicazione dei dati personali diversi dai dati sensibili e dai dati giudiziari, di cui all'articolo 4, comma 1, lettere d) ed e), del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196, comportano la possibilità di una diffusione dei dati medesimi attraverso siti istituzionali, nonché' il loro trattamento secondo modalità che ne consentono la indicizzazione e la rintracciabilità tramite i motori di ricerca web ed il loro riutilizzo ai sensi dell'articolo 7 nel rispetto dei principi sul trattamento dei dati personali”.

Le descritte caratteristiche di una siffatta pubblicazione la rendono indubbiamente foriera di usi da parte del pubblico che possono trasmodare, come pure segnalato nella già citata nota del 30 ottobre 2014 indirizzata dal Presidente dell'Anac e dal Garante per la protezione dei dati al Ministro per la semplificazione e la pubblica amministrazione, dalla finalità della trasparenza, sino a giungere alla messa a rischio della sicurezza degli interessati, nei sensi segnalati in ricorso e riportati in fatto.

Può aggiungersi a quanto più articolatamente rappresentato dagli interessati che il legislatore delegato ha ritenuto di assicurare il regime di trasparenza mediante lo “sversamento” sic et simpliciter dei dati in parola, posto a carico degli interessati, con i connessi rischi di cui sopra, ovvero, come detto, senza mitigare la portata della divulgazione di questi ultimi mediante l’elaborazione di una piattaforma di elementi effettivamente significativi ai fine di garantire una vera e propria trasparenza dell’attività amministrativa.

Non vi è dubbio che tale ultima opzione, pur richiedendo uno sforzo preparatorio da parte del legislatore delegato maggiore di quello esercitato nel mero trasferimento in capo ai dirigenti di un regime già in corso di applicazione per i titolari di cariche politiche, sarebbe risultata - diversamente da quello in esame - non solo conforme ai principi comunitari e costituzionali nella coniugazione equilibrata degli interessi pubblici e privati in gioco, ma anche più efficace ai fini dell’introduzione di un effettivo regime di trasparenza a carico dei dirigenti pubblici, atteso che, in forza delle stesse considerazioni poste a base del principio di “utilità marginale” operante in economia, non consta che la pubblicazione di massicce quantità di dati si traduca automaticamente nell’agevolazione della ricerca di quelli più significativi a determinati fini.

La questione va infatti posta al livello dei singoli cittadini o delle loro aggregazioni semplici, rispetto ai quali è lecito supporre, come dato notorio, in caso di accesso finalizzato alla trasparenza, la mancata disponibilità di efficaci strumenti di lettura e di elaborazione di dati sovrabbondanti o eccessivamente diffusi.

Ed è a tale livello che va necessariamente ricondotta la problematica della trasparenza amministrativa e regolato il relativo interesse pubblico, pena la sostanziale inutilità del regime “anti-corruttivo” disegnato per i dirigenti pubblici, che deve essere finalizzato, per sua natura, a tutelare l’intera collettività e non solo i soggetti complessi a vario titolo operanti nell’ordinamento vigente, che, essendo in possesso di strumenti idonei a decrittare importanti masse di informazioni, risultano, a legislazione vigente, ossia al cospetto dell’attuale formulazione del combinato disposto dell’art. 14, comma 1, lett. c) e f), e dell’art. 1-bis, allo stato i soli in grado di trarre dalle stesse conclusioni coerenti con quanto complessivamente reso disponibile e con gli obiettivi propri della legislazione di cui trattasi.

Come, del resto, segnala in sostanza la ridetta nota 30 ottobre 2014 del Presidente dell'Anac e del Garante per la protezione dei dati, laddove evidenzia la disfunzionalità della previsione in esame rispetto all’esigenza di consentire le forme diffuse di controllo sul perseguimento delle funzioni istituzionali e sull’utilizzo delle risorse pubbliche, che costituisce la finalità perseguita dal d.lgs. 33/2013.

Deve ancora rilevarsi che i ricorrenti segnalano vari esempi di come i dati utili ai fini del regime di trasparenza per i dirigenti avrebbero potuto essere selezionati.

Il Collegio si limita a prenderne atto, non spettando a questa sede giudiziale entrare nel merito delle relative valutazioni.

16. A questo punto va evidenziato che la tutela della posizione dei ricorrenti, che consegue alla rilevata serietà delle contestazioni formulate, nei sensi di cui sopra, non può essere attuata mediante l’annullamento degli atti gravati, trattandosi, come dianzi già osservato, di provvedimenti che danno mera esecuzione a puntuali obblighi di legge, di talchè va escluso in radice il rimedio della demolizione dell’atto conseguente all’esito dell’ordinario scrutinio della sua legittimità secondo il paradigma costituito dalla legislazione di riferimento.

17. Né pare che la norma contestata dai ricorrenti sia suscettibile di essere disapplicata per contrasto con normative comunitarie, posto che, alla luce di tutti gli elementi emergenti dal fascicolo di causa, non è individuabile una disciplina self-executing di tale matrice direttamente applicabile alla fattispecie oggetto di giudizio.

Sul punto, infatti, occorre concordare con la difesa erariale quando segnala che i principi di proporzionalità, pertinenza, e non eccedenza di fonte comunitaria invocati dalla parte ricorrente non sono che criteri in base ai quali effettuare una ponderazione della conformità dell’art. 14, comma 1-bis, d.lgs. 14 marzo 2013, n. 33, nella parte in cui prevede che le pubbliche amministrazioni pubblichino i dati di cui all'art. 14 comma 1, lett. c) ed f), dello stesso decreto legislativo anche per i titolari di incarichi dirigenziali, operazione che sconta i differenti caratteri e la diversa portata dell'interesse pubblico generale che si intende tutelare attraverso il regime di trasparenza, e che può avere una configurazione diversa, a seconda del sistema nazionale considerato.

La sorte del ricorso non può, pertanto, che essere affidata alla disamina delle questioni pregiudiziali sollevate dai ricorrenti da parte della Corte di Giustizia dell'Unione europea o della Corte Costituzionale.

18. Nell’ambito dei predetti rimedi, il Collegio propende per la remissione alla Corte Costituzionale dello scrutinio inerente la non manifesta infondatezza della questione di costituzionalità relativa all’art. 14, comma 1-bis, d.lgs. 14 marzo 2013, n. 33, nella parte in cui prevede che le pubbliche amministrazioni pubblichino i dati di cui all'art. 14 comma 1, lett. c) ed f), dello stesso decreto legislativo anche per i titolari di incarichi dirigenziali.

Ciò in quanto, come visto, nell’ambito di siffatto scrutinio, inerente il rispetto da parte della misura dei principi di proporzionalità, pertinenza, e non eccedenza di matrice comunitaria, indispensabile ai fini della tutela di diritti fondamentali della persona, un ruolo centrale è assunto dalla questione inerente se uno specifico ordinamento nazionale preservi il necessario equilibrio nel rapporto tra protezione dei dati personali e esigenze di trasparenza, calibrando anche in ragione dei primi l’intensità dell’interesse pubblico da assicurare mediante la divulgazione di dati personali.

E un tale giudizio appare proprio di una Corte nazionale.

Del resto, la conclusione è rafforzata dalla già citata sentenza della Corte di giustizia dell’Unione europea 20 maggio 2003, che, nella analoga fattispecie sottoposta al suo giudizio, ha rimesso tale valutazione al giudice a quo.

19. In punto di rilevanza della proponenda questione di legittimità costituzionale, il Collegio ribadisce che gli atti impugnati con l’odierno ricorso costituiscono diretta applicazione della norma sospetta di contrasto con la Costituzione.

Pertanto, discendendo la paventata violazione della sfera soggettiva dei ricorrenti direttamente dalla norma stessa, solo dalla dichiarazione della sua illegittimità costituzionale potrebbe derivare il richiesto accoglimento del ricorso per illegittimità derivata degli atti impugnati.

20. Quanto, invece, alla non manifesta infondatezza della questione di costituzionalità dell’art. 14, comma 1-bis, d.lgs. 14 marzo 2013, n. 33, nella parte in cui prevede che le pubbliche amministrazioni pubblichino i dati di cui all'art. 14, comma 1, lett. c) ed f), dello stesso decreto legislativo, originariamente previsto per i titolari di incarichi politici, anche per i titolari di incarichi dirigenziali, sotto i profili segnalati al precedente punto 15, essa si pone, ad avviso del Collegio, in relazione:

- all’art. 117, comma 1, della Costituzione, che vincola la potestà legislativa esercitata dallo Stato e dalle Regioni al rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali, tra cui si collocano i principi di proporzionalità, pertinenza e non eccedenza nel trattamento dei dati personali;

- all’art. 3 della Costituzione e al principio di uguaglianza formale e sostanziale, sia per la irragionevole parità di trattamento che la disposizione riserva ai titolari di incarichi politici e titolari di incarichi dirigenziali, categorie non assimilabili in quanto soggette a regimi giuridici incomparabili, che non giustificano né permettono l’integrale identità di regolazione ai fini di trasparenza, sia per l’irragionevole parificazione di tutti gli incarichi dirigenziali, effettuata senza distinguere, conformemente alla natura dell’interesse pubblico perseguito dalla norma, la portata degli obblighi di pubblicità online in ragione delle caratteristiche delle loro tipologie, ovvero in riferimento al grado di esposizione dell'incarico pubblico al rischio di corruzione e all’entità delle risorse pubbliche assegnate all’ufficio della cui gestione il soggetto interessato deve rispondere;

- agli artt. 2 e 13 della Costituzione, relativi ai diritti inviolabili dell’uomo e alla libertà personale, stante la suscettibilità della prescrizione imposta ai dirigenti di comunicare, ai fini della loro pubblicazione, i dati in contestazione, desunti dalla dichiarazione dei redditi, invece che una loro ragionata elaborazione, più funzionale alle finalità perseguite dalla trasparenza amministrativa e atta a scongiurare incontrovertibilmente la diffusione di dati sensibili o di dati, per un verso, superflui ai fini perseguiti dalla norma, per altro verso, suscettibili di interpretazioni distorte.

21. Dalla rilevata non manifesta infondatezza della questione di costituzionalità dell’art. 14, comma 1-bis, d.lgs. 14 marzo 2013, n. 33, nella parte in cui prevede che le pubbliche amministrazioni pubblichino i dati di cui all'art. 14, comma 1, lett. c) ed f), dello stesso decreto legislativo anche per i titolari di incarichi dirigenziali, discende l’apprezzamento della non manifesta infondatezza della questione di incostituzionalità anche di parte del correlato comma 1-ter dello stesso art. 14, secondo cui: “Ciascun dirigente comunica all'amministrazione presso la quale presta servizio gli emolumenti complessivi percepiti a carico della finanza pubblica, anche in relazione a quanto previsto dall'articolo 13, comma 1, del decreto-legge 24 aprile 2014, n. 66, convertito, con modificazioni, dalla legge 23 giugno 2014, n. 89. L'amministrazione pubblica sul proprio sito istituzionale l'ammontare complessivo dei suddetti emolumenti per ciascun dirigente.”.

Invero, l’oggetto della pubblicazione prevista all’ultimo periodo dal predetto comma 1-ter costituisce un dato aggregato che contiene quello di cui al comma 1, lett. c) dello stesso articolo e può anzi corrispondere del tutto a quest’ultimo, laddove il dirigente non percepisca altro emolumento se non quello corrispondente alla retribuzione per l’incarico assegnato.

Il Collegio ritiene, pertanto, di estendere, d’ufficio, ai sensi dell’art. 23 della l. 11 marzo 1953, n. 87, recante norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte Costituzionale, la questione di legittimità costituzionale anche al comma 1-ter dell’art. 14 del d.lgs. 33/2013, limitatamente alla prescrizione di cui all’ultimo periodo, che dispone che “L'amministrazione pubblica sul proprio sito istituzionale l'ammontare complessivo dei suddetti emolumenti per ciascun dirigente”.

Quanto alla rilevanza e alla non manifesta infondatezza della ulteriore questione sollevata, negli esclusivi sensi di cui sopra (ovvero escludendo gli obblighi di comunicazione all’Amministrazione di appartenenza), si richiamano integralmente le argomentazioni già esposte in ordine all’art. 14, comma 1-bis, d.lgs. 14 marzo 2013, n. 33, nella parte in cui prevede che le pubbliche amministrazioni pubblichino i dati di cui all'art. 14, comma 1, lett. c) ed f), dello stesso decreto legislativo anche per i titolari di incarichi dirigenziali.

22. In conclusione, sussistono dunque i presupposti di rilevanza e di non manifesta infondatezza che impongono al Collegio di sollevare questione di legittimità costituzionale:

- dell’art. 14, commi 1-bis e 1-ter del decreto legislativo 14 marzo 2013, n. 33 (inseriti dall'art. 13, comma 1, lett. c), del decreto legislativo 25 maggio 2016, n. 97), nella parte in cui prevedono che le pubbliche amministrazioni pubblichino i dati di cui all'art. 14, comma 1, lett. c) ed f) dello stesso decreto legislativo anche per i titolari di incarichi dirigenziali, per contrasto con gli artt. 117, comma 1, 3, 2 e 13 della Costituzione.

Restano riservate all’esito del giudizio incidentale le determinazioni definitive sulle questioni preliminari, sul merito e sulle spese.

 

P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione Prima Quater).

a) dichiara rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 14, comma 1-bis e comma 1-ter del decreto legislativo 14 marzo 2013, n. 33, inseriti dall'art. 13, comma 1, lett. c), del decreto legislativo 25 maggio 2016, n. 97, nella parte in cui prevedono che le pubbliche amministrazioni pubblichino i dati di cui all'art. 14, comma 1, lett. c) ed f) dello stesso decreto legislativo anche per i titolari di incarichi dirigenziali, per contrasto con gli artt. 117, comma 1, 3, 2 e 13 della Costituzione;

b) sospende il giudizio in corso;

c) ordina che la presente ordinanza, a cura della Segreteria della Sezione, sia notificata a tutte le parti in causa ed al Presidente del Consiglio dei ministri, e comunicata al Presidente del Senato della Repubblica ed al Presidente della Camera dei Deputati;

d) dispone la trasmissione degli atti, sempre a cura della Segreteria, alla Corte Costituzionale.

Vista la richiesta degli interessati e ritenuto che sussistano i presupposti di cui all'art. 52, comma 1, d. lgs. 30 giugno 2003, n. 196, a tutela dei diritti o della dignità della parte interessata, manda alla Segreteria di procedere all'oscuramento delle generalità nonché di qualsiasi altro dato idoneo a identificare la parte interessata.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del 13 giugno 2017 con l'intervento dei magistrati:

Salvatore Mezzacapo,            Presidente

Anna Bottiglieri,        Consigliere, Estensore

Fabio Mattei,  Consigliere

                       

                       

L'ESTENSORE                     IL PRESIDENTE

Anna Bottiglieri                     Salvatore Mezzacapo

                       

IL SEGRETARIO

 

 

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