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Consiglio di Stato, Sez. VI, 2/2/2018 n. 677
Sulla rimessione all'Adunanza plenaria del CdS della questione se possano partecipare alla selezione per il conferimento di incarichi di Direttore di museo anche i candidati aventi non la cittadinanza italiana, ma quella di un altro Stato dell'Unione

Materia: pubblica amministrazione / lavoro

Pubblicato il 02/02/2018

 

N. 00677/2018REG.PROV.COLL.

 

N. 03911/2017 REG.RIC.

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Sesta)

 

ha pronunciato la presente

 

SENTENZA in parte "definitiva" e in parte "parziale", con contestuale ordinanza di trasmissione all'Adunanza Plenaria

 

Sull’appello n. 3911 del 2017, proposto dal Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo, in persona del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso dall’Avvocatura Generale dello Stato, presso i cui uffici è domiciliato ex lege in Roma, alla via dei Portoghesi, n. 12;

 

contro

la signora Giovanna Paolozzi Maiorca Strozzi, rappresentata e difesa dagli avvocati Virginia Ripa di Meana e Francesco Brizzi, con domicilio eletto in Roma, piazza dei Caprettari, n. 70, presso lo studio dei difensori;

 

nei confronti di

i signori Peter Assmann e Martina Bagnoli, rappresentati e difesi dagli avvocati Luca Raffaello Perfetti e Claudio Tesauro, con domicilio eletto in Roma, via Vittoria Colonna, n. 39, presso lo studio dei difensori;

 

per la riforma

della sentenza del TAR Lazio, sede di Roma, sezione II quater, 24 maggio 2017, n. 6171, resa fra le parti, che ha accolto il ricorso n. 1117/2016, proposto per l’annullamento:

a) dell’art. 3, comma 2, del D.M. 27 novembre 2014, recante la disciplina per il conferimento di incarichi dirigenziali;

b) del bando 7 gennaio 2015 del MIBACT, di selezione pubblica per conferire l’incarico di direttore per 7 istituti museali di livello dirigenziale generale e di 13 istituti museali di livello dirigenziale non generale;

c) dell’esclusione della signora Paolozzi Strozzi dalla selezione pubblica per il conferimento dell’incarico di direttore degli istituti museali «Palazzo Ducale di Mantova» e «Galleria Estense di Modena»;

d) delle schede di valutazione di attribuzione dei punteggi in applicazione dei criteri fissati dall’art. 5 del bando del 7 gennaio 2015 e dalla delibera della commissione di valutazione del 5 maggio 2015;

e) dei verbali della commissione dei giorni 16, 25 e 29 giugno 2015 e 1° luglio 2015, che hanno individuato i candidati ammessi al colloquio, e dei giorni 11 e 29 luglio 2015, che hanno determinato la terna dei candidati in base all’art. 5 del bando;

f) dei provvedimenti con cui il Ministero ha conferito gli incarichi per gli istituti museali «Palazzo Ducale di Mantova» e «Galleria Estense di Modena»;

 

Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visti gli atti di costituzione in giudizio dei signori Peter Assmann e Martina Bagnoli;

Visto l’atto d’appello incidentale, depositato dalla signora Giovanna Paolozzi Maiorca Strozzi;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell'udienza pubblica del giorno 26 ottobre 2017 il Cons. Francesco Gambato Spisani e uditi per le parti l’avvocato dello Stato Danilo Del Gaizo, l’avvocato Francesco Brizzi e l’avvocato Ignazio La Grotta, in dichiarata delega dell'avvocato Luca Raffaello Perfetti;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

 

FATTO e DIRITTO

§ 1. Con i provvedimenti indicati in epigrafe, il Ministero appellante ha conferito ai controinteressati in primo grado gli incarichi di «direttore del Palazzo Ducale di Mantova» e di «direttore della Galleria Estense di Modena».

L’odierna appellata ha partecipato ad entrambe le selezioni per il conferimento di tali incarichi ed è stata inclusa, con un punteggio di 77 punti su 100, nei corrispondenti elenchi dei dieci candidati ammessi al colloquio, ma non è stata inserita nelle due terne successivamente determinate, per procedere alle corrispondenti nomine, che sono state attribuite invece ai controinteressati in primo grado.

§ 2. Con il ricorso n. 1117 del 2016, proposto al TAR per il Lazio, Sede di Roma, l’odierna appellata ha impugnato tutti gli atti del procedimento, chiedendone l’annullamento.

Il TAR, con la sentenza n. 6171 del 2016, ha accolto alcune delle censure proposte ed ha annullato gli atti impugnati.

In particolare, il TAR – dopo aver dichiarato sussistente la giurisdizione del giudice amministrativo – ha ritenuto che gli atti impugnati siano illegittimi per le seguenti ragioni:

a) non sarebbe stata congruamente motivata l’assegnazione dei punteggi;

b) i colloqui finali si sarebbero svolti ‘a porte chiuse’, in violazione del principio per il quale le prove orali di un concorso devono essere pubbliche;

c) quanto alla nomina relativa al «Palazzo Ducale di Mantova», non si sarebbe potuto inserire nella terna il signor Pe. As., perché non in possesso della cittadinanza italiana.

§ 3. Con l’appello principale in esame, il Ministero per i beni le attività culturali e per il turismo ha impugnato la sentenza del TAR n. 6171 del 2016, chiedendo che, in sua riforma, sia respinto il ricorso di primo grado.

L’atto di appello del Ministero contiene quattro motivi.

Con il primo di essi, l’Amministrazione ha dedotto che non sussisterebbe la giurisdizione del giudice amministrativo, perché vi sarebbe quella del giudice civile, ai sensi dell’art. 63 del d. lgs. n. 165 del 2001.

Il Ministero ha sostenuto in proposito che la procedura indetta col bando del 7 gennaio 2015 non sarebbe assimilabile ad un concorso in senso tecnico (e non sarebbe dunque volta a selezionare i migliori dirigenti da assumere), ma avrebbe «natura idoneativa», finalizzata a individuare a chi sia idoneo, fra i quali poi lo stesso Ministero compie una scelta nella sostanza fiduciaria e, di conseguenza, insindacabile.

Con il secondo motivo, il Ministero ha dedotto che il TAR avrebbe errato nella interpretazione dell’art. 19, comma 1, del d.lgs. n. 165 del 2001, dell’art. 14, comma 2 bis, del d.l. n. 83 del 2014, dell’art. 3 della legge 7 agosto 1990, n. 241, nonché dell’art. 5, commi 2, 3 e 4 del bando di selezione, ed ha rilevato che la commissione, contrariamente a quanto ritenuto dal TAR, avrebbe legittimamente attribuito i punteggi ai singoli partecipanti alla procedura.

Con il terzo motivo, il Ministero ha lamentato che il TAR – nel rilevare che i colloqui finali si sarebbero svolti ‘a porte chiuse’, in violazione delle regole sulle prove orali di un concorso - avrebbe violato il «principio di corrispondenza fra chiesto e pronunciato», nonché l’art. 6 del d.P.R. 9 maggio 1994, n. 487.

L’Amministrazione ha dedotto che il ricorso di primo grado non conterrebbe una tale doglianza e, in subordine, che non sussisterebbe un concreto interesse a dedurre un tale vizio del procedimento, che peraltro neppure sussisterebbe, essendo stata comunque rispettata la trasparenza, con la registrazione dei colloqui svolti.

Con il quarto motivo, il Ministero ha chiesto che sia respinto il motivo accolto dal TAR sulla illegittimità della nomina relativa al «Palazzo Ducale di Mantova», conferita al signor Pe. As., non in possesso della cittadinanza italiana.

A fondamento di questo motivo, l’Amministrazione ha dedotto che il principio affermato dalla sentenza impugnata si porrebbe in contrasto con l’art. 45 del Trattato di funzionamento della Unione Europea, con gli artt. 11 e 117 della Costituzione, con l’art. 2 del d.P.R. n. 487 del 1994, con l’art. 1 del d.P.C.M. 7 febbraio 1994, n. 174, e con l’art. 38 del decreto legislativo n. 165 del 2001.

Ad avviso del Ministero, il bando del 7 gennaio 2015 avrebbe legittimamente consentito che i cittadini degli altri Stati dell’Unione europea possano partecipare alla procedura.

§ 4. L’appellata si è costituita in giudizio, chiedendo la reiezione dell’appello principale, ed ha proposto un appello incidentale, con cui ha riproposto quattro motivi, già formulati in primo grado e respinti dal TAR.

Con il primo di essi, l’appellante incidentale ha lamentato la violazione dell’art. 19 del decreto legislativo n. 165 del 2001, deducendo che l’art. 14, comma 2 bis, del decreto legge n. 83 del 2014 non avrebbe derogato alla regola generale per cui, prima di attribuire un incarico dirigenziale a ‘soggetti esterni’, è necessaria la previa verifica della indisponibilità nei ruoli dell’amministrazione di soggetti idonei a ricoprire l’incarico.

Poiché nella specie il bando del 7 gennaio 2015 non avrebbe effettuato tale verifica, né essa sarebbe stata effettuata in precedenza, tutti gli atti del procedimento sarebbero illegittimi, per violazione del citato art. 19 del decreto legislativo n. 165 del 2001.

Con il secondo motivo, l’appellante incidentale ha dedotto che il bando del 7 gennaio 2015 sarebbe illegittimo per violazione dell’art. 19 del d.lgs. n. 165 del 2001, anche per ulteriori due aspetti, e in particolare perché:

- esso non avrebbe attribuito adeguata rilevanza all’esperienza lavorativa svolta nei ruoli del Ministero (di cui ella è in possesso);

- per la «conoscenza dell’organizzazione amministrativa italiana», sarebbe stata illogicamente prevista l’attribuzione ai ‘candidati esterni’ del massimo punteggio di 2 punti (poi in concreto attribuiti ai dirigenti nominati, anche all’incaricato per il «Palazzo Ducale di Mantova»), malgrado una tale «conoscenza» non sia ravvisabile in linea di principio.

Con il terzo motivo, l’appellante incidentale ha lamentato la violazione dell’art. 14, comma 2 bis, del decreto legge n. 83 del 2014, deducendo che le valutazioni della commissione non avrebbero rispettato il criterio sulla prevalenza della tutela e della valorizzazione dei beni culturali.

Con il quarto motivo, l’appellante incidentale ha infine lamentato che i punteggi – come indicati in dettaglio nell’esposizione della censura - sarebbero stati attribuiti con valutazioni manifestamente illogiche.

§ 5. Si sono costituiti in giudizio i dirigenti aventi la qualità di controinteressati in primo grado, i quali, con una memoria depositata in data 12 giugno 2017, hanno chiesto l’accoglimento dell’appello principale del Ministero, nonché la reiezione di quello incidentale della originaria ricorrente.

§ 6. Con la memoria depositata in data 12 giugno 2017, il Ministero ha illustrato le proprie tesi difensive, ha insistito nelle già formulate conclusioni ed ha chiesto inoltre la reiezione dell’appello incidentale.

§ 7. Con l’ordinanza 15 giugno 2017, n. 2471, la Sezione ha accolto l’istanza incidentale cautelare formulata dal Ministero appellante, in base ad una valutazione comparativa degli interessi coinvolti.

La Sezione ha disposto il mantenimento in servizio dei controinteressati appellati, non sussistendo interessi contrari pubblici o privati, ed ha contestualmente fissato la data di definizione del secondo grado del giudizio.

§ 8. Con le memorie depositate il 25 settembre 2017 e con le note di replica di data 5 ottobre 2017, il Ministero e l’appellante incidentale hanno illustrato le rispettive tesi ed hanno insistito nelle già formulate conclusioni.

In particolare, con la memoria del 25 settembre 2017, il Ministero:

- ha fatto presente che – in pendenza di un altro giudizio, proposto con ricorso straordinario poi trasposto ai sensi dell’art. 48 del c.p.a. ed avente per oggetto un’altra nomina conseguente alla selezione indetta col bando del 7 gennaio 2015 – la stessa Amministrazione ha adito le Sezioni Unite della Corte di Cassazione con regolamento di giurisdizione, per sentir dichiarare la giurisdizione del giudice civile;

- ha chiesto, fino alla pronuncia relativa, la sospensione di questo giudizio ai sensi dell’art. 295 c.p.c.;

- ha chiesto che comunque si ribadiscano i principi affermati da questa Sezione, con la sentenza n. 3666 del 2017.

Gli appellati, controinteressati in primo grado, con la loro memoria del 5 ottobre 2017 hanno aderito alle deduzioni del Ministero.

L’appellante incidentale, con la memoria del 25 settembre 2017 (v. pp. 18 e ss.), ha dedotto che in base al «principio di non contestazione» si dovrebbe ritenere che il colloquio affrontato dai candidati si sarebbe effettivamente svolto a porte chiuse ed ha quindi ribadito che le «prove orali» si sarebbero svolte con modalità illegittime.

Ella si è inoltre opposta alla sospensione del giudizio, con la memoria di replica del 5 ottobre 2017, poiché non sussisterebbero i relativi presupposti.

§ 9. All’udienza del giorno 26 ottobre 2017, la Sezione ha trattenuto il ricorso in decisione.

§10. Per ragioni di ordine logico, il Collegio ritiene che le questioni controverse tra le parti, per come approfondite con gli atti d’appello e con le memorie difensive, debbano essere esaminate nel seguente ordine:

a) dapprima va decisa l’istanza del Ministero appellante principale, volta a far sospendere il presente giudizio;

b) va esaminato poi il primo motivo del medesimo appello principale, per il quale non sussisterebbe la giurisdizione amministrativa sulla definizione della presente controversia;

c) le ulteriori questioni controverse vanno esaminate tenendo conto del susseguirsi in concreto degli atti del procedimento amministrativo e, di conseguenza, esaminando dapprima le doglianze contenute nel ricorso di primo grado (anche per come riproposte dall’interessata con il suo appello incidentale) e quelle contrapposte del Ministero concernenti il bando di selezione, i verbali e le valutazioni della commissione e gli atti conclusivi del procedimento;

d) in ragione delle determinazioni prese dal Collegio, va infine affrontata la questione concernente la possibilità di nominare il direttore del «Palazzo Ducale di Mantova» nella persona del signor Pe. As., il quale è in possesso non della cittadinanza italiana, ma della cittadinanza austriaca, cioè di un altro Stato membro dell’Unione europea.

§ 11. Preliminarmente, il Ministero ha chiesto che il giudizio sia sospeso ai sensi dell’art. 295 del codice di procedura civile, poiché – in relazione ad un altro giudizio, proposto avverso gli atti che hanno condotto alla nomina di un altro direttore di un museo, in applicazione dell’art. 14 del d.l. 31 maggio 2014, n. 83, convertito nella l. 29 luglio 2014, n. 104 – è stato proposto un regolamento preventivo di giurisdizione, all’esame delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione.

§ 12. Ritiene il Collegio che tale istanza vada respinta.

Per l’art. 295 del codice di procedura civile, richiamato dall’art. 39 del codice del processo amministrativo, «Il giudice dispone che il processo sia sospeso in ogni caso in cui egli stesso o altro giudice deve risolvere una controversia, dalla cui definizione dipende la decisione della causa».

Tale disposizione, poiché comporta il differimento della decisione della controversia con incidenza sul principio della ragionevole durata del processo (cfr. Cons. Stato, Sez. V, 17 febbraio 2016, n. 640), va interpretata nel senso che la «sospensione necessaria» va disposta nei soli casi di pregiudizialità in senso tecnico, ovvero quando in un altro giudizio, pendente tra le stesse parti, possa essere emanata una pronuncia avente efficacia di giudicato nella causa pregiudicata o comunque un’efficacia vincolante (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 1° settembre 2016, n. 3783; v. anche Cass. civ., Sez. VI, 11 agosto 2017, n. 20072, che ha espressamente escluso la sospensione necessaria qualora vi siano giudizi pendenti fra parti diverse, nonché Cass. civ., Sez. Un., 12 maggio 2004, n. 9490).

§ 13. Si deve pertanto passare all’esame del primo motivo dell’appello principale, con cui il Ministero ha dedotto che non sussisterebbe la giurisdizione del giudice amministrativo a conoscere della controversia.

§ 13.1. Ritiene il Collegio che tale censura sia infondata e vada respinta.

Il TAR ha ritenuto sussistente la propria giurisdizione ai sensi dell’art. 63, comma 4, prima parte, del decreto legislativo n. 165 del 2001, per il quale «restano devolute alla giurisdizione del giudice amministrativo le controversie in materia di procedure concorsuali per l'assunzione dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni».

§ 13.2. L’Amministrazione appellante sostiene che la selezione indetta con il bando del 7 gennaio 2015 non sarebbe qualificabile come una «procedura concorsuale», in quanto avrebbe una natura diversa: si tratterebbe infatti di una cd ‘procedura idoneativa’, assimilabile a quelle previste dall’art. 15, comma 7 bis, del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 502, per la nomina degli incarichi di direzione di struttura complessa nel Servizio sanitario nazionale, procedure sulle quali la consolidata giurisprudenza ravvisa la giurisdizione ordinaria.

In proposito, l’amministrazione, con la memoria del 25 settembre 2017, ha richiamato anche la sentenza 30 giugno 2017, n. 3221, di questa Sezione.

Quanto a quest’ultima sentenza, osserva il Collegio che essa si è occupata di questioni non assimilabili a quelle ora controverse tra le parti.

Essa ha affermato la sussistenza della giurisdizione del giudice civile in relazione all’impugnazione di atti riguardanti una procedura di nomina del direttore di un istituto di ricerca, la quale è stata connotata dal legislatore come «procedura idoneativa», che si svolge in modo del tutto simile a quelle di cui al citato decreto legislativo n. 502 del 1992 sulle nomine degli incarichi di direzione di struttura complessa del Servizio sanitario nazionale.

§ 14. Osserva il Collegio che l’Amministrazione appellante – nel formulare il proprio motivo sull’assenza della giurisdizione amministrativa – ha unicamente contestato l’interpretazione data dal TAR al comma 4 (sopra riportato) dell’art. 63 del decreto legislativo n. 165 del 2001, ma non ha anche richiamato il comma 1 del medesimo art. 63, nella parte in cui esso dispone che «sono devolute al giudice ordinario, in funzione di giudice del lavoro, tutte le controversie relative ai rapporti di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni di cui all’articolo 1, comma 2,… incluse le controversie concernenti l’assunzione al lavoro, il conferimento e la revoca degli incarichi dirigenziali».

§ 15. Ciò posto, effettivamente, come ha dedotto il Ministero, vi è l’orientamento giurisprudenziale per il quale le controversie riguardanti la procedura prevista dal decreto legislativo n. 502 del 1992 sono attribuite alla giurisdizione del giudice civile, perché essa si concreterebbe non in prove concorsuali, ma in una «procedura idoneativa», la quale si limiterebbe a verificare la sussistenza dei requisiti ed a predisporre un elenco di soggetti per definizione ‘tutti idonei’ ed in possesso dei requisiti di professionalità previsti dalla legge e delle capacità di gestione richieste, entro il quale il direttore generale compierebbe una scelta di carattere essenzialmente fiduciario, affidata alla sua ‘responsabilità manageriale’ (cfr. Cass. civ., Sez. Un., 19 luglio 2011, n. 15764; Sez. Un., 28 novembre 2005, n. 25042).

§ 16. Il Collegio ritiene che le deduzioni dell’Amministrazione appellante non siano accoglibili e che non sussista nel caso di specie la giurisdizione del giudice civile, per le seguenti ragioni:

a) in primo luogo, la procedura prevista dall’art. 15, comma 7 bis, del decreto legislativo n. 502 del 1992 non è assimilabile a quella prevista dall’art. 14, comma 2 bis, del d.l. n. 83 del 2014 (v, il seguente § 17), sicché non rileva esaminare quali siano i rimedi giurisdizionali avverso gli atti emessi in applicazione dell’art. 15, comma 7 bis;

b) in secondo luogo, non emergono disposizioni derogatorie al principio generale sancito dall’art. 7 del codice del processo amministrativo, per il quale il giudice amministrativo è il giudice naturale quando siano impugnati atti con cui è esercitato un potere pubblico, come inteso dalle sentenze della Corte Costituzionale n. 204 del 2004 e n. 191 del 2006, ed in particolare quando siano impugnati atti formalmente e sostanzialmente amministrativi, emanati del potere esecutivo (v. il seguente § 18).

§ 17. Quanto ai rapporti tra la procedura prevista dall’art. 15, comma 7 bis, del decreto legislativo n. 502 del 1992 e quella prevista dall’art. 14, comma 2 bis, del d.l. n. 83 del 2014, vi sono significative differenze, conseguenti anche al fatto che il medesimo art. 14, comma 2 bis, riguarda la dirigenza statale (le cui funzioni e il cui status sono stati parzialmente disciplinati da norme regolamentari, ritualmente impugnate con il ricorso di primo grado).

§ 17.1. La procedura disciplinata dall’art. 15, comma 7 bis, del decreto legislativo n. 502 del 1992, si articola nelle seguenti fasi:

- una commissione - «composta dal direttore sanitario dell'azienda interessata e da tre direttori di struttura complessa nella medesima disciplina dell'incarico da conferire, individuati tramite sorteggio da un elenco nazionale nominativo costituito dall'insieme degli elenchi regionali dei direttori di struttura complessa appartenenti ai ruoli regionali del Servizio sanitario nazionale» - procede a individuare «una terna di candidati idonei formata sulla base dei migliori punteggi attribuiti», entro la quale il direttore generale dell’azienda interessata nomina il prescelto;

- per far ciò, la commissione «riceve dall'azienda il profilo professionale del dirigente da incaricare» e procede «sulla base dell'analisi comparativa dei curricula, dei titoli professionali posseduti, avuto anche riguardo alle necessarie competenze organizzative e gestionali, dei volumi dell'attività svolta, dell'aderenza al profilo ricercato e degli esiti di un colloquio».

§ 17.2. La procedura che ha condotto al presente giudizio è invece disciplinata dal d.l. 31 maggio 2014, n. 83, convertito nella l. 29 luglio 2014, n. 104, recante «Disposizioni urgenti per la tutela del patrimonio culturale, lo sviluppo della cultura e il rilancio del turismo».

L’art. 14, ai commi 2 e 3, ha previsto un riassetto della struttura organizzativa del Ministero dei beni, delle attività culturali e del turismo, definito da un successivo regolamento, e, al comma 2 bis, ha previsto che, «Al fine di adeguare l'Italia agli standard internazionali in materia di musei e di migliorare la promozione dello sviluppo della cultura, anche sotto il profilo dell'innovazione tecnologica e digitale, con il regolamento di cui al comma 3 sono individuati … i poli museali e gli istituti della cultura statali di rilevante interesse nazionale che costituiscono uffici di livello dirigenziale. I relativi incarichi possono essere conferiti, con procedure di selezione pubblica, per una durata da tre a cinque anni, a persone di particolare e comprovata qualificazione professionale in materia di tutela e valorizzazione dei beni culturali e in possesso di una documentata esperienza di elevato livello nella gestione di istituti e luoghi della cultura, anche in deroga ai contingenti di cui all'articolo 19, comma 6, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, e successive modificazioni».

In attuazione dell’art. 14, comma 3, è stato emanato il regolamento di organizzazione con il d.P.C.M. 29 agosto 2014, n. 171, il cui art. 30 ha disciplinato gli «Istituti centrali e dotati di autonomia speciale» del Ministero:

- il comma 3 ha previsto che «Sono altresì dotati di autonomia speciale i seguenti istituti e musei di rilevante interesse nazionale: a) quali uffici di livello dirigenziale generale: … b) quali uffici di livello dirigenziale non generale: … 2) la Galleria Estense di Modena; … 9) il Palazzo Ducale di Mantova»;

- il comma 5 ha previsto che «L'organizzazione e il funzionamento degli Istituti centrali e degli Istituti dotati di autonomia speciale, ivi inclusa la dotazione organica, sono definiti con uno o più decreti ministeriali di natura non regolamentare»;

- il comma 6 ha disposto che «In ogni caso gli incarichi di direzione degli istituti e musei di cui al comma 3 possono essere conferiti, secondo le modalità previste dall'articolo 14, comma 2 bis», sopra citato (cioè mediante le «procedure di selezione pubblica»).

Il Ministero ha poi emanato la ‘circolare’ 1° dicembre 2014, n. 373, con la quale sono stati resi pubblici i contenuti di tre decreti ministeriali di organizzazione della struttura, emessi in data 27 novembre 2014.

Con uno dei tre decreti, contenente regole generali e astratte, il Ministero ha approvato la «Disciplina» «dei criteri e delle procedure per il conferimento degli incarichi dirigenziali».

L’art. 3 di tale decreto ha disciplinato la «Procedura di conferimento degli incarichi dirigenziali relativi agli istituti della cultura statali di rilevante interesse nazionale», prevedendo:

- al comma 1, che «Ai sensi dell'articolo 14, comma 2-bis, del decreto legge 31 maggio 2014, n. 83, convertito, con modificazioni, dalla legge 29 luglio 2014, n. 106, il Ministro stabilisce quali incarichi dirigenziali relativi ai poli museali e agli istituti della cultura statali di rilevante interesse nazionale che costituiscono uffici di livello dirigenziale, come individuati con il regolamento di organizzazione del Ministero di cui al decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri 29 agosto 2014, n. 171, o con successivi decreti ministeriali, possono essere conferiti con procedure di selezione pubblica, per una durata da tre a cinque anni, a persone di particolare e comprovata qualificazione professionale in materia di tutela e valorizzazione dei beni culturali e in possesso di una documentata esperienza di elevato livello nella gestione di istituti e luoghi della cultura, anche in deroga ai contingenti di cui all'articolo 19, comma 6, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, e successive modificazioni, e comunque nel rispetto delle dotazioni organiche del personale dirigenziale del Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo e nei limiti delle dotazioni finanziarie destinate a legislazione vigente al personale dirigenziale del Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo»;

- al comma 2, che, «per le finalità di cui al comma 1, il Ministero può svolgere apposite procedure di selezione distinte da quelle dirette al conferimento degli altri incarichi dirigenziali. Oltre che in base ai criteri di cui all'articolo 19, comma 1, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 e successive modificazioni, il conferimento degli incarichi di cui al presente articolo avviene in base ai criteri della verifica del possesso della particolare e comprovata qualificazione professionale in materia di tutela e valorizzazione dei beni culturali e della documentata esperienza di elevato livello nella gestione di istituti e luoghi della cultura. Conseguentemente, non si applicano i criteri di cui all'articolo 2, comma 4, previsti per il conferimento di incarichi di funzione dirigenziale ai sensi dell'articolo 19, comma 6, del decreto legislativo n. 165 del 2001 e successive modificazioni»;

- al comma 3, che, «per gli incarichi dirigenziali per il cui conferimento sia stata scelta la procedura di selezione pubblica di cui ai commi l e 2, il Ministro e il Direttore generale Musei, con riguardo rispettivamente agli incarichi di prima fascia e agli incarichi di seconda fascia, si avvalgono, ai fini della selezione, di una o più commissioni nominate dal Ministro, composte ciascuna da tre a cinque membri esperti di chiara fama nel settore del patrimonio culturale» (comma 3).

In attuazione di una nota ministeriale del 5 gennaio 2015, la «direzione generale organizzazione» ha poi indetto la prima delle selezioni pubbliche in data 7 gennaio 2015, per conferire l’incarico di direttore per venti dei citati istituti, ovvero per i diciotto «istituti e musei di rilevante interesse nazionale» già individuati dall’art. 30, comma 3, del d.P.C.M. n. 171 del 2014 e per altri due istituti, individuati con decreti successivi, ai sensi del decreto ministeriale 27 novembre 2014, riportato nella «circolare» del 1° dicembre 2014, sopra richiamata.

Il bando:

- ha determinato i compiti relativi agli incarichi da assegnare, i requisiti per partecipare alla selezione, le modalità per presentare la domanda, i criteri da seguire per la nomina della «commissione di valutazione», nonché i criteri di valutazione aggiuntivi rispetto a quelli generali dell’art. 19, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165;

- ha fissato criteri di valutazione aggiuntivi, rispetto a quelli generali previsti dal medesimo art. 19, comma 2, riguardanti i titoli valutabili, le esperienze valorizzabili e le ulteriori competenze da considerare;

- all’art. 5, comma 3, ha previsto che la commissione, dopo aver valutato i curricula pervenuti, avrebbe selezionato un massimo di dieci candidati per ogni istituto, convocandoli per un colloquio, e avrebbe individuato fra loro una ‘terna’ di nominativi da trasmettere, rispettivamente, al Ministro ovvero al Direttore generale Musei, a seconda dell’importanza dell’istituto, per la scelta finale da parte di costoro.

§ 17.3. Così sintetizzate le normative applicabili alla fattispecie (non coordinate tra loro, anche perché – malgrado in sede amministrativa siano state emesse disposizioni generali e astratte di rango secondario - non risulta talvolta seguito il procedimento di cui all’art. 17 della legge n. 400 del 1988, ad es. prima dell’emanazione dei «decreti» di data 27 novembre 2014), ritiene il Collegio che le «procedure di selezione pubblica», disciplinate dall’art. 14, comma 2 bis, del d.l. n. 83 del 2014 non siano assimilabili a quelle previste dall’art. 15, comma 7 bis, del decreto legislativo n. 502 del 1992.

§ 17.4. L’espressione «procedure di selezione pubblica» va interpretata tenendo conto dell’art. 97, quarto comma, della Costituzione, il quale induce a ritenere che l’art. 14, comma 2 bis, si riferisca a vere e proprie «procedure concorsuali per l’assunzione dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni», per le quali l’art. 63, comma 4, del decreto legislativo n. 165 del 2001 ha mantenuto la giurisdizione amministrativa di legittimità.

Con riferimento all’art. 97, quarto comma, Cost. (per il quale «Agli impieghi nelle Pubbliche Amministrazioni si accede mediante concorso, salvo i casi stabiliti dalla legge»), la Corte Costituzionale, con le sentenze 24 giugno 2010, n. 225, e 13 novembre 2009, n. 293, ha evidenziato che esso in linea di principio esige lo svolgimento di una procedura pubblica ‘di tipo comparativo’, volta cioè a selezionare la persona oggettivamente più idonea a ricoprire una data posizione ovvero il migliore fra gli aspiranti che si presentano, e ‘congrua’, nel senso che essa deve consentire la verifica del possesso delle richieste professionalità.

§ 17.5. Le «procedure di selezione pubblica» - previste dall’art. 14, comma 2 bis, del d.l. n. 83 del 2014 e dal regolamento applicativo – consistono in un procedimento dalla ‘struttura trifasica’, quanto alla individuazione dei candidati da scegliere, caratterizzata:

a) dalle valutazioni delle posizioni dei candidati, al fine di individuarne dieci da ammettere alle fasi successive;

b) dall’effettuazione dei colloqui, con i dieci candidati così individuati, per la selezione dei tre candidati da sottoporre alla scelta finale;

c) dall’atto conclusivo del procedimento, con cui – all’interno della terna – vi è la ‘scelta finale’ del candidato da nominare.

Nel corso delle prime due fasi, la commissione – sulla base di criteri volti a selezionare i candidati migliori, anche ‘esterni’ - esercita poteri tecnico-discrezionali, così svolgendo pubbliche funzioni mediante atti autoritativi.

Già tale considerazione induce a ritenere che rilevano i principi affermati da questo Consiglio, per il quale si è in presenza di un pubblico concorso, quando la commissione effettua il confronto dei titoli di ciascun candidato (Sez. V, 21 agosto 2015, n. 4039; Sez. III, 16 dicembre 2015, n. 5693).

A maggior ragione poi, va ravvisato un pubblico concorso, per il fatto che è stato previsto un sub procedimento specifico, intermedio tra la scelta della decina e la individuazione della terna, caratterizzato dai «colloqui» da svolgere tra la commissione ed i candidati.

§ 17.6. Non è dunque pertinente il richiamo alla giurisprudenza per la quale sussisterebbe la giurisdizione del giudice civile, quando si tratti di controversie riguardanti l’applicazione dell’art. 15, comma 7 bis, del d.lgs. n. 502 del 1992: tale comma disciplina una procedura rivolta a dipendenti di per sé idonei, da scegliere in base ad un criterio di «consonanza» fra il prescelto e l’autorità che sceglie, circa le priorità da seguire e le modalità da impiegare per attuare un dato indirizzo politico amministrativo.

§ 17.7 Per come sono state strutturate dalla normativa primaria e da quella secondaria, le «procedure di selezione pubblica» previste dall’art. 14, comma 2 bis, del d.l. n. 83 del 2014 consistono in selezioni volte all’eventuale conferimento dell’incarico anche ad ‘esterni’, privi della qualità di dipendenti dello Stato e della qualifica dirigenziale.

Si tratta dunque di veri e propri procedimenti di assunzione, ai quali si applica l’art. 63, comma 4, del medesimo decreto legislativo n. 165 del 2001, nella parte in cui ha previsto che «restano devolute alla giurisdizione del giudice amministrativo le controversie in materia di procedure concorsuali per l’assunzione dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni».

§ 17.8. Nel presente giudizio, poiché l’atto d’appello non ha posto la relativa questione (come rilevato nel § 14), la sussistenza della giurisdizione amministrativa non si può desumere dall’art. 63, comma 1, del decreto legislativo n. 165 del 2001, per il quale «sono devolute al giudice ordinario, in funzione di giudice del lavoro, tutte le controversie relative ai rapporti di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni di cui all’articolo 1, comma 2…incluse le controversie concernenti l’assunzione al lavoro, il conferimento e la revoca degli incarichi dirigenziali».

Peraltro, il Collegio osserva che la normativa sostanziale sopra riportata ha disciplinato una procedura «di selezione pubblica» ‘aperta a tutti’ ed ha attribuito alla commissione peculiari poteri pubblicistici di natura autoritativa e tecnico-discrezionale, tipicamente disciplinati – quanto alla giurisdizione – dall’art. 7 del codice del processo amministrativo e dall’art. 63, comma 4, del d.lgs. n. 165 del 2001: non si tratta di una «assunzione al lavoro», espressione che richiama una libera designazione ad personam di chi la possa effettuare,

§ 17.9. Va inoltre rilevato che, come emerge dalla lettura della sentenza impugnata (cfr. il suo § 17) ed è comunque incontestato, con il ricorso di primo grado l’odierna appellata ha impugnato anche l’art. 3, comma 2, del decreto ministeriale 27 novembre 2014, recante la «Disciplina» per il conferimento degli incarichi dirigenziali.

§ 17.10. Pertanto, nella specie rileva anche la giurisprudenza delle Sezioni Unite della Cassazione, per la quale sussiste la giurisdizione amministrativa di legittimità quando – in una controversia concernente il mancato conferimento di un incarico dirigenziale – sia stato impugnato un ‘atto di macrorganizzazione’ (Sez. Un., 31 maggio 2016, n. 11387), pur se avente natura regolamentare (Sez. Un., 27 febbraio 2017, n. 4881).

§ 17.11. A parte ogni rilievo sulla sua natura normativa, sul suo inserimento nella gerarchia delle fonti e sul procedimento seguito per la sua emanazione (che di per sé non è stato oggetto di un specifico motivo di impugnazione in primo grado), il decreto ministeriale del 27 novembre 2014 – per la sua portata generale - va qualificato quanto meno come atto di macrorganizzazione, di per sé dunque incidente su posizioni di interesse legittimo.

La sussistenza della giurisdizione amministrativa sull’impugnazione del decreto ministeriale 27 novembre 2014, con la conseguente prospettazione dell’illegittimità derivata degli atti successivi, comporta che dell’intera controversia, e quindi anche degli atti applicativi del decreto stesso, debba conoscere il giudice amministrativo (per il rilievo, ai fini della giurisdizione, della connessione con gli atti applicativi, cfr. Sez. Un., 27 febbraio 2017, n. 4481).

Infatti, nessuna disposizione di legge ha ripartito la giurisdizione, mediante la scissione dell’esame delle censure, alcune senz’altro proponibili innanzi al giudice amministrativo, ovvero devolvendo a diversi ordini giurisdizionali quelle riguardanti l’atto di macrorganizzazione e quelle rivolte avverso gli atti applicativi, anteriori alla costituzione del rapporto di lavoro.

§ 18. Oltre che per le considerazioni che precedono, il primo motivo d’appello va respinto, anche per un altro e dirimente ordine di considerazioni, basato sulla peculiarità delle regole sulla acquisizione delle funzioni e dello status di dirigente statale (di cui all’art. 19 del testo unico n. 165 del 2001) e sulla connessa applicabilità dell’art. 7 del codice del processo amministrativo.

§ 18.1. Ritiene il Collegio che vada rimarcata comunque la natura autoritativa del provvedimento di nomina dei dirigenti dello Stato volto all’attribuzione ex novo del relativo status (pur quando si tratti dei direttori dei musei statali e la relativa procedura termini con un atto di scelta, emanato in attuazione dell’art, 14, comma 7, bis, del decreto legge n. 83 del 2014).

Infatti, il medesimo l’art. 14 bis – a parte le deroghe espresse, che saranno di seguito esaminate – si inserisce in un contesto normativo nel quale si applicano per i dirigenti statali le disposizioni dell’art. 19 del testo unico approvato con il decreto legislativo n. 165 del 2001.

Tra tali disposizioni, rilevano il suo comma 2 (modificato dall’art. 3 della legge 15 luglio 2002, n. 145, recante «Disposizioni per il riordino della dirigenza statale»), per il quale «2. Tutti gli incarichi di funzione dirigenziale nelle amministrazioni dello Stato, anche ad ordinamento autonomo, sono conferiti secondo le disposizioni del presente articolo. Con il provvedimento di conferimento dell'incarico, ovvero con separato provvedimento del Presidente del Consiglio dei ministri o del Ministro competente per gli incarichi di cui al comma 3, sono individuati l'oggetto dell'incarico e gli obiettivi da conseguire, con riferimento alle priorità, ai piani e ai programmi definiti dall'organo di vertice nei propri atti di indirizzo e alle eventuali modifiche degli stessi che intervengano nel corso del rapporto, nonché la durata dell'incarico… Al provvedimento di conferimento dell'incarico accede un contratto individuale con cui è definito il corrispondente trattamento economico... È sempre ammessa la risoluzione consensuale del rapporto».

§ 18.2. Ad avviso del Collegio, il riferimento al «provvedimento di conferimento dell’incarico ovvero» al «separato provvedimento del Presidente del Consiglio dei ministri o del Ministro competente per gli incarichi» va inteso nel senso che l’atto di investitura nelle pubbliche funzioni – attributivo dello status di dirigente statale ed emanato da un componente del Governo – ha senz’altro natura pubblicistica.

Non rileva, dunque, nel presente giudizio approfondire la connessa, ma diversa, questione, se abbia natura autoritativa anche il «provvedimento» con cui sia conferito un ulteriore incarico (o sia revocato) a chi già risulti da tempo dirigente e non si faccia alcuna questione del «provvedimento» che per la prima volta gli ha attribuito il relativo status.

§ 18.3. La natura pubblicistica del provvedimento di nomina di un dirigente dello Stato è connaturata alla natura del potere così esercitato dal componente del Governo e risale alla tradizione ottocentesca: prima dell’entrata in vigore delle riforme di cui ai decreti legislativi n. 29 del 1993 e n. 80 del 1998 (come trasfusi nel testo unico n. 165 del 2001), non si è mai dubitato che fosse impugnabile innanzi al giudice amministrativo il provvedimento di nomina e di investitura di un dirigente statale nelle pubbliche funzioni, su ricorso di chi avesse interesse a conseguire una tale nomina.

In considerazione della possibilità di poter dedurre tutti i vizi di legittimità del provvedimento, ed in particolare l’eccesso di potere, una tale soluzione si è posta in coerenza con i principi desumibili dagli articoli 24, 100, 103 e 113 della Costituzione e, in particolare, con quelli riguardanti la indefettibilità della tutela giurisdizionale degli interessi legittimi.

§ 18.4. Con l’entrata in vigore dei decreti legislativi n. 29 del 1993 e n. 80 del 1998, e a seguito della privatizzazione dei rapporti di lavoro alle dipendenze della pubblica amministrazione (salve le eccezioni previste dalla legge), si è poi prevista la giurisdizione del giudice civile sulle controversie concernenti il personale c.d. privatizzato.

Quanto alla giurisdizione, le disposizioni di tali decreti legislativi sono state trasfuse nel già richiamato art. 63, comma 1, del testo unico n. 165 del 2001, per il quale «1. Sono devolute al giudice ordinario, in funzione di giudice del lavoro, tutte le controversie relative ai rapporti di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni di cui all'articolo 1, comma 2, ad eccezione di quelle relative ai rapporti di lavoro di cui al comma 4, incluse le controversie concernenti l'assunzione al lavoro, il conferimento e la revoca degli incarichi dirigenziali e la responsabilità dirigenziale, nonché quelle concernenti le indennità di fine rapporto, comunque denominate e corrisposte, ancorché vengano in questione atti amministrativi presupposti. Quando questi ultimi siano rilevanti ai fini della decisione, il giudice li disapplica, se illegittimi. L'impugnazione davanti al giudice amministrativo dell'atto amministrativo rilevante nella controversia non è causa di sospensione del processo».

§ 18.5. Con riferimento alle controversie concernenti il conferimento dello status di dirigente statale e del conseguente incarico, dalla normativa sopra riportata emerge che va effettuata una summa divisio.

§ 18.5.1. Le controversie concernenti il «contratto individuale con cui è definito il corrispondente trattamento economico», e che «accede» al «provvedimento», rientrano senz’altro nell’ambito della giurisdizione del giudice civile, ai sensi del riportato art. 63, comma 1.

Ai fini del riparto della giurisdizione, per le controversie individuali concernenti i «rapporti di lavoro» già instaurati tra l’amministrazione e i dirigenti (v. la rubrica dell’art. 63), si applica dunque il medesimo principio riguardante lo svolgimento dei rapporti di lavoro degli altri dipendenti per i quali vi è stata la cd privatizzazione.

Tuttavia, sul piano normativo, vi è una netta differenza sostanziale che caratterizza i rapporti di lavoro degli ‘altri dipendenti’ rispetto a quelli dei ‘dirigenti’:

- ai sensi dell’art. 5, comma 2, del testo unico, gli ‘altri dipendenti’ sono espressamente sottoposti ai «poteri del privato datore di lavoro», esercitabili in via esclusiva proprio dai dirigenti, i quali sono gli «organi preposti alla gestione» dei rapporti di lavoro (e cioè alla «gestione … delle risorse umane», disciplinata in quanto tale dall’art. 4, comma 2, sulle funzioni dei dirigenti);

- per i dirigenti, nessuna disposizione di legge invece prevede che i Ministri gestiscano il rapporto di lavoro con i dirigenti mediante i «poteri del privato datore di lavoro» (né potrebbe ciò prevedere, trattandosi di una contraddizione in termini preclusa dai principi costituzionali applicabili nei casi di esercizio dei poteri pubblici).

§ 18.5.2. Quanto alle controversie riguardanti il «conferimento» di un incarico dirigenziale statale conseguente alla attribuzione ex novo del relativo status (cioè al caso devoluto all’esame del Collegio), ritiene il Collegio che la sussistenza della giurisdizione amministrativa di legittimità dipenda dalla constatazione della natura autoritativa e pubblicistica del «provvedimento» amministrativo, da qualificare così in base a basilari principi del diritto amministrativo e ora disciplinato in via generale dall’art. 19, comma 2, del testo unico n. 165 del 2001, in connessione proprio al già sopra citato art. 63, comma 4, del medesimo testo unico, per il quale sussiste la giurisdizione amministrativa di legittimità per le «procedure concorsuali per l’assunzione dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni».

Tale natura autoritativa e pubblicistica si desume:

a) dalla rilevata assenza in qualsiasi disposizione legislativa del richiamo ai «poteri del privato datore di lavoro» (esercitabili invece – iussu legis - dai dirigenti nei confronti degli ‘altri dipendenti’), quanto ai poteri del Presidente del Consiglio, del Ministro o di altra autorità competente alla nomina;

b) dall’ultimo periodo dell’art. 19, comma 2, del testo unico n. 165 del 2001 (per il quale «L'impugnazione davanti al giudice amministrativo dell'atto amministrativo rilevante nella controversia non è causa di sospensione del processo»), il quale acquista un senso e una specifica e concreta portata applicativa solo se si ritiene che lo stesso legislatore ha ammesso che l’atto genetico dell’incarico sia impugnabile innanzi al giudice amministrativo (se del caso, su iniziativa di un terzo, interessato al conferimento del medesimo incarico);

c) dalla riforma disposta con l’art. 3 della sopra citata legge n. 145 del 2002, il quale – come emerge dai lavori preparatori - in più punti ha conferito il nomen iuris di «provvedimento» (proprio del diritto pubblico e di per sé non riferibile al diritto privato o al diritto del lavoro) all’atto con cui vi è l’investitura del dirigente nella carica e nella organizzazione amministrativa;

d) dalla riconducibilità del provvedimento di nomina all’esito di una delle procedure concorsuali per l’assunzione, ai sensi dell’art. 63, comma 4, del testo unico n. 165 del 2001.

§ 18.6. Sotto tale profilo, il legislatore ha tenuto conto anche del secondo, del terzo e del quarto comma dell’art. 97 della Costituzione, per i quali:

- «I pubblici uffici sono organizzati secondo disposizioni di legge, in modo che siano assicurati il buon andamento e l'imparzialità dell'amministrazione»;

- «Nell'ordinamento degli uffici sono determinate le sfere di competenza, le attribuzioni e le responsabilità proprie dei funzionari»;

- «Agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni si accede mediante concorso, salvo i casi stabiliti dalla legge».

Nel sistema all’epoca vigente sui criteri di riparto della giurisdizione e tenuto in considerazione dall’Assemblea Costituente (i cui lavori per le sentenze della Corte Costituzionale n. 6 del 2018 e n. 204 del 2004 costituiscono un punto essenziale di riferimento anche per la verifica dei limiti entro i quali il legislatore ordinario può incidere sulle tradizionali regole sul riparto della giurisdizione), per la pacifica giurisprudenza gli atti di investitura di pubbliche funzioni ed il conferimento degli incarichi dirigenziali erano senza dubbio riconducibili a determinazioni autoritative delle competenti autorità, e dunque in quanto tali incidenti su posizioni di interesse legittimo e devolute alla giurisdizione amministrativa di legittimità.

D’altra parte, ciò si deve desumere dalla natura ontologica degli atti governativi di nomina dei dirigenti, i quali sono incontestabilmente atti formalmente e sostanzialmente amministrativi.

Qualora l’espressione contenuta nell’art. 19, comma 2, del testo unico n. 165 del 2001 («provvedimento di conferimento dell'incarico» di dirigente statale) si dovesse invece ritenere atecnica ed evocativa di un atto di natura privatistica, devoluto alla giurisdizione del giudice civile, si darebbe una lettura del testo incoerente non solo con il suo contenuto testuale, ma anche con i canoni ermeneutici indicati dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 204 del 2004 e con le categorie giuridiche consolidatesi nella storia della giustizia amministrativa.

§ 18.7. D’altra parte, in base ad una lettura secundum Constitutionem delle disposizioni sopra riportate, non risulta neppure condividibile la tesi dell’Amministrazione appellante, secondo cui un atto del Ministro - di scelta di un dirigente, posto al vertice della struttura statale – potrebbe avere natura ‘privatistica’.

Con riferimento ai rapporti di lavoro, un atto ha natura privatistica quando in qualche modo costituisce espressione di autonomia negoziale e riguarda rapporti di natura patrimoniale.

Il «provvedimento» di conferimento dell’incarico dirigenziale deve invece essere emanato – anche quanto al procedimento da seguire - nel rispetto del principio di legalità, ai sensi dell’art. 97 della Costituzione, ed anche il suo contenuto non può essere liberamente determinato, rilevando la normativa di settore.

Sotto tale profilo, rileva il principio posto a base dell’art. 7, comma 1, del codice del processo amministrativo (e già desumibile dalla Costituzione, per le sentenze della Corte Costituzionale n. 204 del 2004 e n. 191 del 2006), per il quale «Sono devolute alla giurisdizione amministrativa le controversie, nelle quali si faccia questione di interessi legittimi … concernenti l'esercizio o il mancato esercizio del potere amministrativo, riguardanti provvedimenti, atti, accordi o comportamenti riconducibili anche mediatamente all'esercizio di tale potere, posti in essere da pubbliche amministrazioni».

Tale art. 7, in quanto entrato in vigore il 16 ottobre 2010 e di cui non è dubitabile la legittimità costituzionale, costituisce quanto meno un rilevante canone interpretativo anche della normativa preesistente, ai fini del riparto della giurisdizione.

Tale canone interpretativo, del resto, quando si tratti di nomine poste in essere all’esito di procedure, è corroborato dal già citato art. 63, comma 4, del testo unico n. 165 del 2001.

18.8. Nella specie, dunque, «le procedure di selezione pubblica» dei dirigenti statali si sono concluse con «provvedimenti» di conferimenti di incarichi dirigenziali (come previsto dall’art. 19 del testo unico n. 165 del 2001), sia pure con le scelte conseguenti alla elaborazione delle terne individuate dalla commissione (come previsto dalla normativa applicativa dell’art. 14, comma 2 bis, del decreto legge n. 83 del 2014), e sono state indette, condotte e concluse dall’Amministrazione centrale dello Stato nell’esercizio di un «potere amministrativo» (come previsto dall’art. 7 del c.p.a.).

Anche per tale dirimente ragione va respinto il primo motivo d’appello.

§ 19. Così rilevata la sussistenza della giurisdizione amministrativa di legittimità, ritiene il Collegio che – per evidenti ragioni logiche – debba passarsi all’esame del primo motivo dell’appello incidentale, con cui l’appellata, nel riproporre la relativa censura di primo grado, ha lamentato la violazione delle disposizioni per le quali, prima di affidare un incarico dirigenziale a soggetti esterni, il Ministero avrebbe dovuto verificare se all’interno dell’amministrazione vi fossero «risorse umane in possesso dei requisiti professionali richiesti» (v. l’art. 14, comma 2 bis, del d.l. n. 83 del 2014, in connessione all’art. 19, comma 6, del decreto legislativo n. 165 del 2001).

§ 19.1. Al § 18 della sentenza impugnata, il TAR ha respinto questa censura, rilevando che il sopra citato art. 14, comma 2 bis, del d.l. n. 83 del 2014 ha previsto una deroga all’art. 19, comma 6, del decreto legislativo n. 165 del 2001, escludendo che l’indizione della procedura sia stata condizionata alla «previa ricerca all’interno del ruolo dell’amministrazione di dipendenti in possesso del background culturale e professionale preteso per divenire titolari dell’incarico e per esercitare la relativa funzione».

§ 19.2. L’appellante incidentale ha contestato tale statuizione del TAR, riproponendo le doglianze formulate in primo grado, sulla necessità della previa valutazione, dal parte del Ministero, sulla sussistenza o meno di personale idoneo a svolgere le funzioni per le quali è stata indetta la procedura.

Ella ha dedotto che – in applicazione dell’art. 19, comma 6, del d.lgs. n. 165 del 2001, non derogato sul punto dall’art. 14, comma 2 bis, del d.l. n. 83 del 2014 – il Ministero:

- avrebbe dovuto prima verificare che le professionalità relative fossero «non rinvenibili nei ruoli dell’amministrazione», rendendo nota mediante avviso la disponibilità dei posti corrispondenti e verificando se vi era la disponibilità di dirigenti interni;

- avrebbe potuto indire la procedura solo nel caso di mancata proposizione di istanze di dirigenti già in servizio o di motivato accertamento di un livello insufficiente degli eventuali istanti;

§ 20. Ritiene il Collegio che le censure dell’appellante incidentale siano infondate e vadano respinte, anche se per considerazioni diverse da quelle poste a base della sentenza impugnata.

§ 20.1. L’art. 19 del d. lgs. n. 165 del 2001, disciplina gli «Incarichi di funzioni dirigenziali», che in linea di principio possono essere conferiti:

- a chi sia già dipendente dell’Amministrazione e risulti iscritto nel ruolo unico della dirigenza di cui all’art. 23;

- a seguito della «pubblicazione di apposito avviso sul sito istituzionale», con indicazione del «numero» e della «tipologia dei posti di funzione che si rendono disponibili nella dotazione organica», nonché dei «criteri di scelta», e l’acquisizione e la valutazione delle «disponibilità dei dirigenti interessati».

Al sistema generale previsto dall’art. 19, si affianca l’eccezione prevista dal comma 6, per il quale gli incarichi in questione «possono essere conferiti, da ciascuna amministrazione, entro il limite del 10 per cento della dotazione organica dei dirigenti appartenenti alla prima fascia dei ruoli di cui all'articolo 23 e dell'8 per cento della dotazione organica di quelli appartenenti alla seconda fascia, a tempo determinato,… fornendone esplicita motivazione, a persone di particolare e comprovata qualificazione professionale, non rinvenibile nei ruoli dell'Amministrazione».

Nel disciplinare il conferimento di incarichi nei confronti di personalità esterne di eminente valore, il comma 6 ha tenuto conto anche dell’esigenza dell’equilibrio dei bilanci pubblici, limitando il numero di tali incarichi, nonché dell’esigenza di riconoscere e di valorizzare le esperienze e le professionalità del personale dei ruoli dell’Amministrazione e di consentire loro le migliori prospettive lavorative.

Incidendo sulla disciplina generale di cui all’art. 19, comma 6, del d.lgs. n. 165 del 2001, l’art. 14 del d.l. n. 83 del 2014 ha previsto una procedura concorsuale speciale per la nomina dei dirigenti dei musei di maggiore importanza, ammettendo che le relative assunzioni possano avvenire «anche in deroga ai contingenti di cui all'articolo 19, comma 6, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165».

Con tale «deroga», la disposizione legislativa ha consentito una spesa maggiore rispetto a quella consentita dalle regole generali, allo scopo di reperire le migliori professionalità disponibili, anche all’esterno dell’amministrazione.

§ 20.2. Ritiene la Sezione che, a parte tale deroga, l’art. 14 del d.l. n. 83 del 2014 non abbia posto alcuna deroga al fondamentale principio per il quale solo sulla base di una «esplicita motivazione» l’Amministrazione può conferire l’incarico dirigenziale «a persone di particolare e comprovata qualificazione professionale, non rinvenibile nei ruoli dell'Amministrazione».

§ 20.3. Tale principio va esaminato tenendo conto della realtà che caratterizza il patrimonio culturale della Nazione, presidiato dall’art. 9 della Costituzione.

In ragione della eccezionale consistenza di tale patrimonio, accumulatosi nei secoli, gli ordinamenti degli Stati preunitari e le leggi dello Stato italiano unitario hanno introdotto disposizioni volte alla tutela, alla valorizzazione ed alla catalogazione dei relativi beni (per tutte, v. la legge n. 364 del 1909, la legge n. 688 del 1912, la legge n. 1089 del 1939, il testo unico n. 490 del 1999, il codice n. 42 del 2004, con le relative modificazioni), con la conseguente tradizionale selezione di personale – anche di qualifica dirigenziale - altrettanto eccezionalmente qualificato.

§ 20.4. Ad avviso del Collegio, proprio in ragione di tale eccezionale qualificazione (riconosciuta dallo stesso Ministero), si deve ritenere oltremodo difficile – se non impossibile – ipotizzare che l’Amministrazione avrebbe potuto giustificare l’indizione di una selezione pubblica ‘aperta agli esterni’, sulla constatazione della assenza di una «comprovata qualificazione professionale, non rinvenibile nei ruoli dell’Amministrazione».

§ 20.5. L’unico significato plausibile della normativa introdotta dall’art. 14 del d.l. n. 83 del 2014 è allora quello per cui – fermo restando che nei ruoli del Ministero indubbiamente vi sono dirigenti di «comprovata qualificazione professionale» – la selezione in questione avrebbe dovuto consentire il motivato confronto tra tali dirigenti e gli interessati ‘esterni’.

In altri termini, in sede interpretativa - e in assenza di un testuale coordinamento logico tra le disposizioni dell’art. 19 del d.lgs. n. 165 del 2001 e quelle dell’art. 14 del d.l. n. 83 del 2014) - si deve ritenere che, in sede di applicazione del medesimo art. 14:

- l’Amministrazione deve pur sempre basare le sue scelte su una «esplicita motivazione» (ex art. 19, comma 6), da effettuare però non con un ‘solo atto anteriore’ all’indicazione della selezione (quello previsto dallo stesso comma 6 ed avente di per sé ad oggetto valutazioni ‘negative’ del personale dirigente, che si devono ritenere sostanzialmente impossibili per le ragioni sopra evidenziate, con riferimento ai dirigenti del MIBACT), bensì con le valutazioni ‘necessariamente positive’ sia di merito assoluto che comparative, da effettuare doverosamente ‘all’interno’ del procedimento previsto dall’art. 14;

- la commissione – nel corso delle «procedure di selezione pubblica» da questo previste – deve motivatamente valutare se sia il caso di conferire l’incarico dirigenziale non al personale dell’Amministrazione (di per sé aventi eminenti qualità), ma ai candidati ‘esterni’ risultati evidentemente ancor più meritevoli.

La «esplicita motivazione», in altri termini, va palesata proprio con le valutazioni della commissione così istituita, avverso le quali v’è piena tutela giurisdizionale, sia in astratto, sia nel caso concreto, dato che sono state oggetto di altre censure dell’interessata.

Le considerazioni che precedono – le uniche in base alle quali si può considerare l’art. 14 conforme agli articoli 3, 9 e 97 della Costituzione, pena altrimenti l’emergere di serissime questioni di legittimità costituzionale - inducono dunque a ritenere che nella specie la normativa applicabile di rango secondario non ha disposto – come non avrebbe potuto disporre - una ‘svalutazione’ del personale già in servizio presso l’Amministrazione.

§ 20.6. In concreto, tale personale ha potuto partecipare alla ‘procedura aperta’ ed è stato valutato sulla base di una «esplicita motivazione», che ha riguardato sia le loro posizioni, sia quelle dei candidati ‘esterni’, le cui lusinghiere valutazioni – che hanno condotto al loro inserimento nelle terne – consistono proprio nella «esplicita motivazione» delle ragioni di interesse pubblico, tali da evidenziare come, rispetto alle eminenti professionalità del personale in servizio, ve ne fossero altre, ancor più eminenti, secondo il giudizio della commissione, consentito in parte qua proprio dalla normativa di «deroga» di cui all’art. 14 del d.l. n. 83 del 2014.

§ 21. Sempre prendendo come criterio quello del susseguirsi degli atti impugnati, va preso in esame il secondo motivo dell’appello principale, con cui è stato chiesto che, in riforma della sentenza del TAR, sia respinta la censura di primo grado sulla illegittimità degli atti con cui la commissione ha attribuito i punteggi ai candidati.

§ 21.1. Il TAR ha accolto il quinto motivo di primo grado, con cui era stata lamentata la violazione dell’art. 5 del bando di cui al decreto ministeriale 7 gennaio 2015, nonché la presenza di profili di eccesso di potere per difetto di motivazione ed illogicità manifesta.

In particolare, il TAR ha evidenziato che l’11 luglio 2015 la commissione ha individuato tre ‘classi di giudizio’ in cui inserire, all’esito dei colloqui, i candidati ed ha ritenuto che ciò non fosse consentito né dal bando, né dal precedente verbale della riunione del 5 maggio 2015, nel corso della quale la commissione ha fissato i criteri di valutazione ed ha definito l’articolazione delle fasi della selezione.

Ad avviso del TAR, la scelta della commissione avrebbe comportato un ingiustificato ‘innalzamento’ del livello della sua discrezionalità nella valutazione dei candidati, con illegittima valutazione dell’esito dei colloqui, poiché non vi sarebbe «alcuna motivazione sul contenuto, l’esito e la valutazione dei singoli colloqui», che inoltre si sarebbero svolti illegittimamente a ‘porte chiuse’.

§ 21.2. Avverso tali statuizioni del TAR, il Ministero appellante ha formulato due distinte censure, di cui la prima riguarda la congruità della motivazione delle scelte attraverso i punteggi.

La seconda censura - sulle modalità di svolgimento dei colloqui, che per il Ministero non si sarebbero svolti ‘a porte chiuse” - è stata approfondita col terzo motivo dell’appello principale, e verrà trattato in corrispondenza.

§ 21.3. Si tratta invece subito la censura sulla motivazione dei punteggi.

In proposito, la sentenza impugnata ha ritenuto che lo «scarto minimo dei punteggi» stessi fra i candidati ammessi alla «decina» intermedia e quelli inseriti nella «terna» finale all’esito del colloquio si sarebbe dovuto basare su «una più puntuale e più incisiva manifestazione espressa di giudizio da parte della commissione nella valutazione dei colloqui e nell’attribuzione dei relativi punteggi, piuttosto che su motivazioni criptiche ed involute, come si dovrebbero considerare quelle più sopra trascritte.

E’ al riguardo dedotto che, proprio perché l’ingresso nella ‘terna’, per come si è poi dimostrato nei fatti, era condizionato anche da un apprezzamento minimo della commissione in favore dell’uno o dell’altro concorrente, sarebbe stata dovuta in questo caso una puntuale ed analitica giustificazione in ordine all’assegnazione di ciascun punto con riferimento ai dieci candidati ammessi al colloquio».

La sentenza impugnata (v. il § 23) ha inoltre ritenuto sussistente un profilo di eccesso di potere, per il fatto che «i criteri di distribuzione dei 20 punti (al massimo), da assegnare nel corso dei colloqui a coloro che erano stati selezionati per avere ingresso nella decina», sarebbero stati definiti «nella seduta dell’11 luglio 2015, quando già erano noti i nomi dei candidati scrutinandi nell’ambito del colloquio».

§ 21.4 Il Collegio ritiene che sia fondato il motivo di appello con cui il Ministero ha dedotto che le valutazioni della commissione non sono affette dai profili di eccesso di potere rilevati dal TAR.

Quanto al metodo scelto per la selezione, le considerazioni poste a base della statuizione impugnata risultano non condivisibili.

Nel verbale della seduta dell’11 luglio 2015, la commissione ha previsto che per i colloqui «i 20 punti disponibili per questa fase della selezione dovranno essere attribuiti tenendo conto di tutti i criteri indicati nel decreto direttoriale 7 gennaio 2015, con particolare riguardo ai seguenti elementi: comprovata e qualificata esperienza nella gestione museale; propensione alla innovazione e alla direzione di strutture complesse; abilità ed esperienza nel far dialogare il museo con tutti i soggetti internazionali e nazionali. Per i candidati stranieri, inoltre, andranno considerate anche la capacità di inserimento nel sistema amministrativo italiano e la effettiva conoscenza della lingua italiana».

Con tali criteri, la commissione in sostanza si è limitata ad effettuare una parafrasi del decreto di indizione della procedura, ben noto ai candidati, e non ha introdotto alcun criterio di giudizio nuovo.

Quanto all’altra considerazione sul merito delle scelte effettuate, svolta dalla sentenza impugnata, il Collegio ritiene che il Ministero ha ragionevolmente considerato come scienza l’«amministrazione dei beni culturali», nonché dei musei che li raccolgono e li organizzano per renderli fruibili al pubblico: si tratta di un sapere dimostrabile in termini logico-discorsivi e di una materia oggetto di insegnamento nelle università.

Pertanto, la commissione - incaricata di selezionare candidati aventi posizioni di livello particolarmente elevato – nell’esercizio dei suoi poteri tecnico-discrezionali ha ben potuto attribuire rilevanza al contenuto dei colloqui, aventi per oggetto le tematiche e le esperienze sopra evidenziate.

Le sue determinazioni non risultano viziate dai dedotti profili di eccesso di potere.

Infatti, non risulta manifestamente illogico o irrazionale il criterio di suddividere i candidati – tutti di livello notevole - in tre fasce di valutazione, corrispondenti ai tre selezionati per la scelta finale.

Inoltre, la scelta della terna finale è stata corredata di un breve giudizio discorsivo relativo a ciascuno dei tre candidati, giudizio rispetto al quale non sono state dedotte specifiche incoerenze.

Infine, nulla di illogico si può desumere dal fatto che vi sia stata una lieve differenza di valutazione fra i candidati: la commissione ha valutato professionisti tutti in assoluto di ottimo livello ed era quindi inevitabile che le considerazioni finali si basassero su ‘sfumature’ e su variazioni di aggettivi, nell’ambito di giudizi particolarmente lusinghieri nei confronti di ciascuno dei candidati.

§ 22. Vanno ora esaminati il secondo, il terzo ed il quarto motivo dell’appello incidentale, i quali hanno contestato gli ulteriori profili dell’attribuzione del punteggio da parte della commissione.

Tali motivi vanno esaminati congiuntamente, perché all’evidenza connessi.

§ 22.1. Le censure dell’appellante incidentale risultano infondate e vanno respinte.

Come si è già sopra rilevato in sede di esame del secondo motivo dell’appello principale, la commissione è titolare di un’ampia discrezionalità tecnica: non sono state dedotte e neppure sono emerse specifiche circostanze che possano indurre a ritenere manifestamente illogiche le valutazioni della commissione.

§ 22.2. In particolare, con il quarto motivo (§ 14), di portata più generale, è stata chiesta in sostanza una rivalutazione delle risultanze del procedimento e dunque una valutazione alternativa a quella della commissione, in senso favorevole alla appellante incidentale.

Si tratta però di censure di merito, non ammissibili in questa sede, anche perché non sono stati dedotte, né sono emerse, specifiche considerazioni o valutazioni anomale della commissione esaminatrice.

§ 23. Con il terzo motivo, l’appellante incidentale ha sostenuto che la commissione avrebbe violato un criterio imposto dalle norme che l’hanno istituita, ovvero quello desumibile dall’art. 14, comma 2 bis, del d.l. n. 83 del 2014 e dall’art. 5, comma 2, del bando, che stabilivano l’attribuzione di un «peso preponderante» alla «tutela e valorizzazione di beni culturali».

Ad avviso della interessata (v. § 13 dell’appello incidentale), la violazione del criterio sarebbe evidenziata dal fatto che la commissione ha stabilito di assegnare soltanto un massimo di 15 punti per «la complessiva attività documentata svolta in settori della tutela e valorizzazione o gestione di beni culturali, fino a 10 punti, cui si sommano 5 punti se il candidato per almeno 5 anni ha svolto ruoli di direzione o equipollente (per es. nell'amministrazione pubblica di tutela e valorizzazione o in istituti o in musei)», e invece fino a 33 punti per la «specifica esperienza professionale documentata di direzione e/o gestione di musei, comprendente attività di conservazione e valorizzazione delle collezioni, pianificazione delle attività, gestione delle risorse umane, finanziarie e strumentali; … complessità delle attività e/o delle strutture gestite e risultati conseguiti».

§ 24. In proposito, però, il Collegio ritiene che è ragionevole far rientrare l’attività di «direzione ovvero gestione» di musei nell’ambito della «tutela e valorizzazione o gestione di beni culturali», come il particolare sta al generale, dato che la tutela e la valorizzazione vi sono state anche con l’istituzione dei musei statali, consentendo la loro visione ed il loro studio in un contesto strutturato.

Risulta dunque la prevalenza del criterio della «tutela e valorizzazione», perché è stata prevista l’attribuzione di 48 punti su 100, più di ogni altro criterio isolatamente considerato.

§ 25. Con il secondo motivo, l’appello incidentale (§ 12) censura un particolare criterio di valutazione, quello che consente di attribuire 2 punti per la conoscenza dell’«organizzazione amministrativa italiana», che non potrebbe, in tesi, sussistere per candidati esterni, a maggior ragione non italiani.

§ 26. Rileva il Collegio che tale censura risulta inammissibile, poiché non è stato comprovato, ovvero dedotto, che l’attribuzione di tale punteggio abbia in concreto pregiudicato l’appellante incidentale all’esito della selezione.

D’altra parte, l’appellante incidentale stessa non ha di certo interesse a dedurre che si siano penalizzati i candidati esterni non italiani, per l’attribuzione ai candidati cittadini italiani di un punteggio presumibilmente maggiore, rispetto a quello attribuito ai candidati esterni non italiani.

La censura è peraltro anche infondata, poiché l’«organizzazione amministrativa» italiana può ben essere oggetto di studio, e quindi di «conoscenza», anche da parte di chi non ne faccia parte e non la conosca dall’interno.

§ 27. Quanto al terzo motivo dell’appello principale, concernente le modalità di svolgimento dei colloqui, il Ministero lamenta che il TAR avrebbe erroneamente accolto le doglianze di primo grado, sulla irregolarità del loro svolgimento.

§ 27.1. Ritiene il Collegio che del motivo in esame vada preliminarmente chiarito l’esatto ambito di incidenza.

§ 27.2. Con il ricorso di primo grado, è stato proposto il quinto motivo, contenente due distinte censure, una relativa alla motivazione delle scelte attraverso i punteggi, questione di cui si è trattato nell’ambito del secondo motivo di appello principale, e l’altra relativa appunto alla modalità di svolgimento del colloquio ‘a porte chiuse’.

Il quinto motivo è stato così sintetizzato dalla sentenza impugnata: «Violazione e falsa applicazione dell’art. 5 del decreto 7 gennaio 2015, Eccesso di potere sotto il profilo del difetto di motivazione e della illogicità manifesta, sviamento, in quanto l’11 luglio 2015 la commissione si è riunita preliminarmente rispetto alla fase di espletamento dei colloqui e nel corso della quale (per come risulta dalla documentazione versata in atti) si decise di individuare tre classi di giudizio in cui inserire, all’esito dei colloqui, i candidati».

«Tale previsione non trova riscontro nel decreto 7 gennaio 2015, recante il bando della selezione, né nel verbale della riunione del 5 maggio 2015, nel corso della quale sono stati specificati dalla commissione i criteri di valutazione dei candidati ed è stata definita la disciplina delle fasi della selezione. Tale operazione ha prodotto un inaccettabile ed ingiustificato innalzamento del livello di discrezionalità nella valutazione dei candidati da parte dei componenti della commissione, che si è manifestato in modo evidente all’esito dei colloqui, dal momento che non esiste alcuna motivazione sul contenuto, l’esito e la valutazione dei singoli colloqui, che peraltro si sono svolti (ancor più illegittimamente) a ‘porte chiuse’».

§ 27.3. La sentenza di primo grado ha ritenuto in diritto che il colloquio in questione rappresentasse la prova orale di un concorso e che il suo svolgimento a porte chiuse abbia violato la norma generale dell’art. 12 e dell’art. 6 comma 4, del d.P.R. 9 maggio 1994, n. 487, per cui nei pubblici concorsi «Le prove orali devono svolgersi in un'aula aperta al pubblico, di capienza idonea ad assicurare la massima partecipazione».

§ 27.4. Nel corso della discussione svoltasi nell’udienza del 26 ottobre 2017, l’Amministrazione appellante ha lealmente preso atto che quest’ultimo profilo di censura era effettivamente presente nel ricorso di primo grado ed ha quindi rinunciato alla parte del motivo di appello in esame, con cui la sentenza del TAR era stata criticata per aver deciso extra petita sul punto.

§ 27.5. La sentenza di primo grado ha accolto il profilo di censura riguardante le modalità dello svolgimento dei colloqui, ritenendo che essi si siano svolti ‘a porte chiuse’.

Il TAR ha ritenuto comprovata tale circostanza sulla base dei seguenti elementi:

- il verbale nulla ha precisato «circa la presenza di uditori estranei ai membri della commissione durante lo svolgimento del colloquio»;

- «alcuni candidati sono stati ammessi a sostenere detta prova ‘da remoto’, attraverso l’uso della modalità comunicativa skype»;

- la difesa dell’Amministrazione sul punto non avrebbe contestato «le prospettazioni di parte ricorrente» (v. il § 24 della sentenza impugnata).

Nel corso del giudizio d’appello, l’originaria ricorrente ha ribadito che la circostanza dello svolgimento a porte chiuse si dovrebbe ritenere provata per il mero fatto della prospettata sua non contestazione nel corso del giudizio di primo grado.

§ 28. Ciò posto, il motivo di appello in esame contesta, come si è detto, che sussista la violazione delle regole riguardanti lo svolgimento dei colloqui.

§ 28.1. Ritiene il Collegio che la censura del Ministero appellante vada accolta.

In linea di principio, il verbale di svolgimento delle prove concorsuali deve dare atto delle circostanze di fatto giuridicamente rilevanti, che siano espressamente richieste dalla normativa di riferimento.

Non è invece necessario che il verbale indichi l’avvenuto svolgimento di circostanze di fatto non preindividuate dalla legge (denominate come «menzioni» dagli artt. 47 e ss. della l. notarile 16 febbraio 1913, n. 89, sulla disciplina della forma degli atti pubblici) e che devono necessariamente svolgersi, nel corso del relativo procedimento.

Salve le formalità specificamente richieste dalla legge ad esempio in materia elettorale, la verbalizzazione è necessariamente richiesta quando accada qualcosa che ecceda l’ordinario corso del procedimento, ad esempio sia disposto l’allontanamento dalla sala di chi voglia assistere alle operazioni, ovvero si debbano far constare una dichiarazione del presidente della seduta o una statuizione della commissione in sede collegiale, circa l’andamento dei lavori.

Ciò posto, quando con un ricorso si deduca che le prove orali di un concorso si siano svolte ‘a porte chiuse’, l’assenza di qualsiasi annotazione a verbale sulle modalità del loro svolgimento non può essere intesa nel senso che esse abbiano avuto luogo effettivamente ‘a porte chiuse’.

Certo, se il verbale specifica le concrete modalità con le quali si è proceduto, ovvero ‘a porte chiuse’ o ‘a porte aperte’, si può porre la questione se le relative risultanze facciano o no fede fino a querela di falso.

Se però nulla è stato specificato nel verbale, l’assenza della verbalizzazione delle ‘porte aperte’ non può essere intesa nel senso che le prove si sono svolte ‘a porte chiuse’.

Come ha più volte chiarito la giurisprudenza, infatti, chi contesta la legittimità degli atti di una procedura di gara o di concorso non può basare la sua deduzione solo sulla mancata menzione a verbale della regolarità delle operazioni in ogni loro singolo passaggio, ma ha l’onere di provare in positivo le circostanze e gli elementi idonei a far presumere che un’irregolarità abbia avuto luogo.

In assenza di tale prova, si può desumere che le operazioni non descritte nel verbale si siano svolte secondo quanto le norme prevedono (cfr. Cons. Stato, Sez. V, 19 agosto 2015, n. 3948; Sez. III, 3 agosto 2015, n. 3803; Sez. V, 22 febbraio 2011, n. 1099).

Dunque, dalle modalità di redazione dei verbali nessun elemento può essere tratto per ravvisare l’illegittimità dello svolgimento dei colloqui.

Quanto alla prospettata «non contestazione» nella specie da parte della difesa del Ministero, il Collegio condivide l’insegnamento giurisprudenziale secondo il quale il relativo principio di cui agli artt. 115 e 116 c.p.c. trova nel processo amministrativo di legittimità un’applicazione temperata dalla particolare struttura di quest’ultimo, che di regola fa seguito ad un procedimento amministrativo, le cui risultanze, tradotte nei relativi atti, vanno tenute per ferme, quanto meno sino a prova contraria (in tal senso, per tutte Cons. Stato, Sez. III, 26 febbraio 2016, n. 799).

Infatti, quando si tratti della impugnazione di un provvedimento autoritativo, la «non contestazione» non è ravvisabile in linea di principio, anche se l’Amministrazione nelle sue difese non ribadisce espressamente la sussistenza dei fatti posti a base del provvedimento impugnato, oggetto di contestazione del ricorrente (Cons. Stato, Sez. VI, 4 dicembre 2017, n. 5651).

Ciò posto, nel caso in esame, nessuna specifica frase, riferibile al Ministero o alla sua difesa, può essere intesa nel senso che sia stata ammessa la circostanza dello svolgimento dei colloqui ‘a porte chiuse’.

Quanto all’esposizione del fatto che «alcuni candidati sono stati ammessi a sostenere detta prova ‘da remoto’, attraverso l’uso della ‘modalità comunicativa skype’», ritiene il Collegio che la narrazione di tale circostanza - di per sé neutra rispetto alla apertura o alla chiusura della sala - non può far ritenere che sia stata esclusa la presenza di terzi ad assistere alla relativa conversazione.

Neppure è stato dedotto che qualcuno, presente in loco, abbia chiesto di annotare a verbale che non gli sia stato consentito di assistere o di ascoltare il contenuto dei colloqui.

Pertanto, il Collegio ritiene anche che nessun elemento vi sia per ipotizzare che, nel caso di specie, la seduta non si sia svolta pubblicamente, nel senso che il pubblico eventualmente interessato non vi avrebbe potuto assistere.

§ 28.2. Con particolare riferimento alla «modalità comunicativa skype», il Collegio ritiene di dover precisare che col ricorso di primo grado non è stato neppure dedotto o ipotizzato che qualche candidato se ne sia avvantaggiato, per il fatto di aver potuto basare il proprio colloquio su ‘letture o suggerimenti altrui’, di per sé ovviamente non consentiti.

L’unico riferimento alla «modalità comunicativa skype» è stato effettuato dalla ricorrente in primo grado all’esclusivo scopo di corroborare la propria deduzione sullo svolgimento ‘a porte chiuse’ dei colloqui.

In questa sede, dunque, non si pone la questione di principio sul se – in base alla normativa vigente e tenuto conto della possibilità che l’interlocutore possa avvalersi di letture o di suggerimenti – una ‘prova orale’, così definita dalla normativa applicabile nel procedimento, possa avere luogo con la «modalità comunicativa skype».

§ 28.3. Diventa pertanto irrilevante, per la decisione del Collegio, verificare se effettivamente – come ha dedotto il Ministero appellante – vi sia stata la registrazione dei colloqui realizzati tramite skype, non dovendosi verificare se qualche candidato se ne sia potuto avvantaggiare: si tratta – si ripete – di una questione non sollevata col ricorso di primo grado.

§ 29. In accoglimento della censura del Ministero appellante principale, si deve pertanto integralmente respingere il quinto motivo del ricorso di primo grado.

§ 30. Quanto sin qui esposto comporta come conseguenza che si debba respingere, con decisione definitiva, il ricorso di primo grado limitatamente alla domanda di annullamento degli atti di cui in epigrafe nella parte in cui essi hanno conferito l’incarico di «direttore della Galleria Estense di Modena».

Tale incarico, infatti, è stato conferito ad una cittadina italiana, l’attuale controinteressata, sicché fra i motivi di ricorso specificamente rivolti contro tale nomina non c’è e non è riscontrabile quello concernente la cittadinanza dei candidati.

Pertanto, in parziale riforma della sentenza impugnata, il ricorso di primo grado va respinto, quanto all’impugnazione del conferimento dell’incarico di «direttore della Galleria Estense di Modena».

§ 31. Si deve ora passare all’esame dell’ultimo motivo d’appello, con cui il Ministero ha impugnato la statuizione del TAR, che ha accolto la censura di primo grado secondo cui l’Amministrazione ha illegittimamente consentito la partecipazione alla procedura anche a candidati aventi non la cittadinanza italiana, ma quella di un altro Stato dell’Unione europea.

Il TAR, ritenendo fondata la censura di primo grado, ha annullato gli atti impugnati nella parte in cui essi hanno conferito l’incarico di direttore del «Palazzo Ducale di Mantova».

§ 32. Ritiene la Sezione che la questione sollevata dal Ministero appellante comporta la soluzione di alcune questioni processuali e sostanziali di massima di particolare importanza, la cui definizione va rimessa all’esame dell’Adunanza Plenaria, ai sensi dell’art. 99 del codice del processo amministrativo.

§ 33. La questione sostanziale centrale riguarda il se possano partecipare alla procedura di selezione in esame i cittadini di uno Stato membro dell’Unione, che non siano anche cittadini italiani (risultando il signor Pe. As, cittadino della Repubblica d’Austria).

§ 34. Va definito il quadro normativo di riferimento, sul rapporto che sussiste fra le disposizioni generali sull’ammissione ai pubblici impieghi, quanto al requisito della cittadinanza italiana, e le disposizioni che disciplinano l’incarico di direttore di un museo dello Stato (e cioè l’art. 14, comma 2 bis, del d.l. n. 83 del 2014 e le norme ad esso collegate).

§ 35. Quanto alle disposizioni di legge ordinaria, lo status civitatis è stato espressamente previsto quale requisito per l’ammissione ai pubblici impieghi, dal regio decreto 25 giugno 1908, n. 290, e dal conseguente «Testo unico delle leggi sullo stato degli impiegati civili» del 22 novembre 1908, n. 693.

La tradizionale regola della riserva ai «cittadini» dell’ammissione agli impieghi pubblici è stata poi ribadita dall’art. 2 del «Testo unico sul pubblico impiego», approvato con il d.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3.

§ 36. Nella Costituzione, il richiamo ai «cittadini» non ha riguardato l’ammissione al «pubblico impiego» in quanto tale, ma l’esercizio degli «uffici pubblici», le «cariche elettive» e le «funzioni pubbliche»

§ 36.1. Per l’art. 51, «Tutti i cittadini dell'uno o dell'altro sesso possono accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge» (primo comma) e «La legge può, per l'ammissione ai pubblici uffici e alle cariche elettive, parificare ai cittadini gli italiani non appartenenti alla Repubblica» (secondo comma).

Per l’art. 54, «Tutti i cittadini hanno il dovere di essere fedeli alla Repubblica e di osservarne la Costituzione e le leggi» (primo comma) e «I cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina ed onore, prestando giuramento nei casi stabiliti dalla legge» (secondo comma).

§ 36.2. Tali articoli vanno intesi nel senso che deve esservi «l’uguaglianza dei cittadini senza discriminazioni e limiti» (Cons. Stato, Sez. II, parere 20 gennaio 1990, n. 234; Sez. VI, 24 luglio 2017, n. 3666).

Infatti, essi – nel riferirsi, come si è rilevato, non al «pubblico impiego» in quanto tale, ma, più limitatamente, agli «uffici pubblici», alle «cariche elettive» e alle «funzioni pubbliche» - hanno consentito che le leggi non richiedano lo status civitatis per l’accesso a posizioni di pubblico impiego non caratterizzate dall’esercizio di poteri pubblici o dallo svolgimento di cariche elettive.

§ 37. Con specifico riferimento all’ammissione al «pubblico impiego», la tradizionale regola generale di rango legislativo – ancora riportata nell’art. 2 del testo unico n. 3 del 1957 - è stata parzialmente modificata (come consentito dallo stesso testo degli articoli 51 e 54 Cost.), in conseguenza dell’ingresso dello Stato italiano nell’Unione europea, le cui norme hanno acquisito nell’ordinamento nazionale un rango superiore a quello delle leggi ordinarie.

§ 38. L’art. 20, § 1, prima parte, del Trattato sul funzionamento dell’Unione – T.F.U.E. (già art. 17 del Trattato sulla Comunità europea – T.C.E.) ha disposto che «È istituita una cittadinanza dell'Unione. È cittadino dell'Unione chiunque abbia la cittadinanza di uno Stato membro».

La disposizione va coordinata con l’art. 45 T.F.U.E. (già art. 39 T.C.E.), secondo il quale:

- «La libera circolazione dei lavoratori all'interno dell'Unione è assicurata» (§ 1);

- «Essa implica l'abolizione di qualsiasi discriminazione, fondata sulla nazionalità, tra i lavoratori degli Stati membri, per quanto riguarda l'impiego, la retribuzione e le altre condizioni di lavoro» (§ 2);

- «Fatte salve le limitazioni giustificate da motivi di ordine pubblico, pubblica sicurezza e sanità pubblica, essa importa il diritto: a) di rispondere a offerte di lavoro effettive; b) di spostarsi liberamente a tal fine nel territorio degli Stati membri; c) di prendere dimora in uno degli Stati membri al fine di svolgervi un'attività di lavoro, conformemente alle disposizioni legislative, regolamentari e amministrative che disciplinano l'occupazione dei lavoratori nazionali; d) di rimanere, a condizioni che costituiranno l'oggetto di regolamenti stabiliti dalla Commissione, sul territorio di uno Stato membro, dopo aver occupato un impiego» (§ 3);

- «Le disposizioni del presente articolo non sono applicabili agli impieghi nella pubblica amministrazione» (§ 4).

Il lavoro nella «pubblica amministrazione» - rispetto al quale la legislazione nazionale può prevedere il requisito dello status civitatis - è quindi configurato come eccezione alla regola generale, che consente ad ogni cittadino dell’Unione di lavorare ovunque preferisca all’interno dell’Unione stessa.

§ 39. L’ordinamento interno si è adeguato alle disposizioni europee e alle sentenze della Corte di Giustizia dopo richiamate, con una normativa di per sé compatibile anche con i dati testuali degli articoli 51 e 54 Cost.

§ 39.1. L’art. 37 del decreto legislativo n. 29 del 1993 (sull’«Accesso dei cittadini degli Stati membri della Comunità Europea») ha previsto:

- «1. I cittadini degli Stati membri della Comunità Economica Europea possono accedere ai posti di lavoro presso le amministrazioni pubbliche che non implicano esercizio diretto o indiretto di pubblici poteri, ovvero non attengono alla tutela dell’interesse nazionale»;

- «2. Con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, ai sensi dell’articolo 17 della legge 23 agosto 1988, n. 400, sono individuati i posti e le funzioni per i quali non può prescindersi dal possesso della cittadinanza italiana, nonché i requisiti indispensabili all’accesso dei cittadini di cui al comma 1».

In attuazione dell’art. 37, comma 2, del decreto legislativo n. 29 del 1993, è stato emanato il d.P.C.M. 7 febbraio 1994, n. 174 («Regolamento recante norme sull'accesso dei cittadini degli Stati membri dell'Unione europea ai posti di lavoro presso le amministrazioni pubbliche»), il quale all’art. 1 ha previsto che:

- «1. I posti delle amministrazioni pubbliche per l'accesso ai quali non può prescindersi dal possesso della cittadinanza italiana sono i seguenti:

a) i posti dei livelli dirigenziali delle amministrazioni dello Stato, anche ad ordinamento autonomo, individuati ai sensi dell'art. 6 del decreto legislativo 3 febbraio 1993, n.29, nonché i posti dei corrispondenti livelli delle altre pubbliche amministrazioni;

b) i posti con funzioni di vertice amministrativo delle strutture periferiche delle amministrazioni pubbliche dello Stato, anche ad ordinamento autonomo, degli enti pubblici non economici, delle province e dei comuni nonché delle regioni e della Banca d'Italia;

c) i posti dei magistrati ordinari, amministrativi, militari e contabili, nonché i posti degli avvocati e procuratori dello Stato;

d) i posti dei ruoli civili e militari della Presidenza del Consiglio dei Ministri, del Ministero degli affari esteri, del Ministero dell'interno, del Ministero di grazia e giustizia, del Ministero della difesa, del Ministero delle finanze e del Corpo forestale dello Stato, eccettuati i posti a cui si accede in applicazione dell'art. 16 della l. 28 febbraio 1987, n. 56».

Conseguentemente, il d.P.C.M. 9 maggio 1994, n. 487, all’art. 2, comma 1, n. 1, pur prevedendo il requisito della cittadinanza italiana come requisito generale per l’accesso ai pubblici impieghi, ha aggiunto che «Tale requisito non è richiesto per i soggetti appartenenti alla Unione europea, fatte salve le eccezioni di cui al D.P.C.M. 7 febbraio 1994, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale del 15 febbraio 1994, serie generale n. 61».

§ 39.2. I primi due commi del sopra riportato art. 37 del decreto legislativo n. 29 del 1993 (il primo con diverse espressioni lessicali, estese anche ai «familiari») sono stati trasfusi nell’art. 38 del testo unico approvato con il decreto legislativo n. 165 del 2001:

- «1. I cittadini degli Stati membri dell'Unione europea e i loro familiari non aventi la cittadinanza di uno Stato membro che siano titolari del diritto di soggiorno o del diritto di soggiorno permanente possono accedere ai posti di lavoro presso le amministrazioni pubbliche che non implicano esercizio diretto o indiretto di pubblici poteri, ovvero non attengono alla tutela dell'interesse nazionale»;

- «2. Con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, ai sensi dell'articolo 17 della legge 23 agosto 1988, n. 400, e successive modificazioni ed integrazioni, sono individuati i posti e le funzioni per i quali non può prescindersi dal possesso della cittadinanza italiana, nonché i requisiti indispensabili all'accesso dei cittadini di cui al comma 1».

§ 39.3. Pur dopo l’entrata in vigore del decreto legislativo n. 165 del 2001, non vi sono state modifiche del d.P.C.M. 7 febbraio 1994, n. 174, il quale continua dunque ad essere in vigore, in quanto sostanzialmente richiamato dall’art. 38, comma 2, del medesimo decreto legislativo.

§ 40. Di tale d.P.C.M., nel presente giudizio rileva la lettera a), che ha richiesto la cittadinanza italiana indistintamente per tutti i «posti dei livelli dirigenziali» dello Stato.

Per quanto riguarda gli incarichi conferiti all’esito della procedura bandita in data 7 gennaio 2015 e, in particolare, quello conferito al signor Pe. As., va richiamato l’art. 14, comma 2 bis, del d.l. n. 83 del 2014, il quale ha individuato i poli museali e gli istituti della cultura statali «di rilevante interesse nazionale che costituiscono uffici di livello dirigenziale».

Non è in contestazione che l’incarico in questione riguardi un ufficio dirigenziale (ai sensi dell’art. 30 del d.P.C.M. n. 171 del 2014, per il quale le «procedure di selezione pubblica» in esame riguardano il conferimento di «posti di livello dirigenziale»).

§ 41. In coerenza con il «livello dirigenziale» dell’ufficio, si pone il regolamento di organizzazione degli «Istituti centrali e dotati di autonomia speciale», emanato con il già citato d.P.C.M. n. 171 del 2014.

L’art. 34, comma 2, di tale d.P.C.M. prevede in dettaglio le funzioni del direttore di museo (quello ‘pubblico’ e per il quale vi è la gestione statale, non rilevando ovviamente la questione della cittadinanza quando si tratti di un museo di proprietà privata):

- «Il direttore del polo museale regionale … svolge, in particolare, le seguente funzioni:

a) programma, indirizza, coordina e monitora tutte le attività di gestione, valorizzazione, comunicazione e promozione del sistema museale nazionale nel territorio regionale; …

e) … stabilisce … l'importo dei biglietti di ingresso unici, cumulativi e, previo accordo con i soggetti pubblici e privati interessati, integrati dei musei e dei luoghi della cultura di propria competenza…;

l) autorizza il prestito dei beni culturali delle collezioni di propria competenza per mostre od esposizioni sul territorio nazionale o all'estero…;

m) autorizza, sentito il soprintendente di settore, le attività di studio e di pubblicazione dei materiali esposti e/o conservati presso i musei del polo;

n) dispone … l'affidamento diretto o in concessione delle attività e dei servizi pubblici di valorizzazione di beni culturali, ai sensi dell'articolo 115 del Codice…;

p) elabora e stipula accordi con le altre amministrazioni statali eventualmente competenti, le Regioni, gli altri enti pubblici territoriali e i privati interessati, per regolare servizi strumentali comuni destinati alla fruizione e alla valorizzazione di beni culturali…;

q) approva, su proposta del segretario regionale, e trasmette alla Direzione generale Bilancio gli interventi da inserire nei programmi annuali e pluriennali e nei relativi piani di spesa; …

u) svolge le funzioni di stazione appaltante».

§ 42. Il quadro normativo si completa, infine, con il riferimento alla norma dichiaratamente interpretativa dell’art. 22, comma 7 bis, del d.l. 24 aprile 2017, n. 50, convertito nella l. 21 giugno 2017, n. 96, per il quale «L'articolo 14, comma 2-bis, del decreto-legge 31 maggio 2014, n. 83, convertito, con modificazioni, dalla legge 29 luglio 2014, n. 106, si interpreta nel senso che alla procedura di selezione pubblica internazionale ivi prevista non si applicano i limiti di accesso di cui all'articolo 38 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165».

§ 43. La complessiva disciplina sopra riportata è stata esaminata da questa Sezione con la sentenza 24 luglio 2017, n. 3666, pronunciata su un caso analogo a quello ora in esame, in cui era stata impugnata in primo grado - proponendo lo stesso motivo sulla necessità della cittadinanza italiana - la nomina del direttore di un altro istituto museale statale, disposta all’esito della procedura bandita il 7 gennaio 2015.

§ 43.1. Sulla base di una approfondita motivazione, tale sentenza ha ritenuto non conforme alla normativa europea - sull’accesso dei cittadini degli Stati membri al lavoro nella «pubblica amministrazione» - la disposizione regolamentare di cui all’art. 1, comma 1, lettera a), del d.P.C.M. n. 174 del 1994, nella parte in cui essa prevede che «i posti dei livelli dirigenziali delle amministrazioni dello Stato» siano riservati ai soli cittadini italiani.

Essa ha osservato che:

- l’attività posta in essere dai dirigenti dello Stato in generale è molto ampia e diversificata, potendo comprendere sia attività che si esplicano mediante provvedimenti amministrativi, contratti, accordi e comportamenti espressione di poteri pubblici, sia attività che si concretano in meri comportamenti materiali;

- la normativa europea va interpretata secondo un criterio non «strutturale-statico», ma «funzionale-dinamico», sicché l’amministrazione che intenda attribuire un incarico dirigenziale deve verificare se questo comporti o no in concreto attività che sono espressione di pubblici poteri, e solo nel caso di risposta positiva deve riservare l’incarico stesso ad un cittadino italiano;

- l’attività non si potrebbe qualificare come «espressione di pubblici poteri» per il solo fatto che essa comporti l’adozione di un atto amministrativo, poiché occorrerebbe guardare al regime e alla natura dell’attività che a tale atto consegue.

§ 43.2. Tanto premesso, la sentenza n. 3666 del 2017, rilevando il primato del diritto europeo, ha disapplicato l’art. 2, comma 1, lettera a), del d.P.C.M. n. 174 del 1994, «senza che sia necessario, per l’evidenza del contrasto, disporre il rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia» ed ha deciso la controversia al suo esame, nel senso di «analizzare la natura dell’attività e dunque dei compiti attribuiti» al direttore dell’istituto museale dello Stato, «per valutare se gli stessi si inseriscano nell’ambito di funzioni pubbliche, che giustificano la previsione della cittadinanza italiana, ovvero di funzioni aventi carattere tecnico o di gestione economica», per le quali la cittadinanza italiana non è richiesta.

All’esito di tale approfondita indagine, la sentenza n. 3666 del 2017 ha ritenuto che l’attività posta in essere dal direttore del museo statale sarebbe «prevalentemente rivolta alla gestione economica e tecnica» dell’istituto, nonché «essenzialmente finalizzata» ad una migliore utilizzazione e valorizzazione di beni pubblici.

In particolare, la sentenza ha escluso che si possano considerare come «espressione di potere pubblico» alcuni specifici compiti attribuiti al direttore dall’art. 35 del d.P.C.M. n. 171 del 2014, che, seguendo l’ordine dell’articolo stesso, sono quelli per cui «programma, indirizza, coordina e monitora tutte le attività di gestione, valorizzazione, comunicazione e promozione del sistema museale nazionale nel territorio regionale» (lettera a), «autorizza il prestito dei beni culturali delle collezioni di propria competenza per mostre od esposizioni sul territorio nazionale o all'estero» (lettera l), «dispone … l'affidamento diretto o in concessione delle attività e dei servizi pubblici di valorizzazione di beni culturali» (lettera n), «svolge le funzioni di stazione appaltante» (lettera u).

La stessa sentenza ha infine escluso che si possano considerare «espressione di potere pubblico» ulteriori compiti di amministrazione e di controllo dei beni in consegna, esplicitati nel bando del 7 gennaio 2015 e non espressamente previsti dall’art. 35 del d.P.C.M. n. 171 del 1994: essa ha ritenuto che le attività di programmazione, indirizzo e controllo riguarderebbero «ambiti di rilevanza non autoritativa» nella gestione dell’istituto, che l’autorizzazione al prestito dei beni sarebbe sporadica, e comunque, pur in presenza di un atto amministrativo, si inserirebbe «nell’ambito di rapporti economici e tecnici» e che le attività di affidamento e di stazione appaltante, anch’esse marginali, riguarderebbero la «gestione economica».

In conclusione, la sentenza n. 3666 del 2017 ha ritenuto che l’attività di direttore del museo statale non potrebbe intendersi riservata a cittadini italiani e che sarebbero di per sé legittimi gli atti che hanno consentito la partecipazione di cittadini dell’Unione e la loro nomina fra i vincitori.

La sentenza n. 3666 del 2017 ha completato l’esame, soffermandosi sulla portata dell’art. 22, comma 7 bis, del d.l. 50 del 2017 e rilevando che esso avrebbe una «sua utilità per il futuro contribuendo a fornire chiarezza alle pubbliche amministrazioni e agli operatori del settore evitando incertezze applicative anche nella fase della risoluzione delle controversie di competenza della giustizia amministrativa».

§ 44. Il Collegio ritiene che si possa dare una interpretazione diversa del sopra richiamato quadro normativo e che:

- si possa affermare il principio per il quale l’art. 1, comma 1, lettera a), del regolamento emanato con il d.P.C.M. n. 171 del 1994 – mai successivamente abrogato, neppure dall’art. 14, comma 2 bis, del d.l. n. 83 del 2014 – richieda imprescindibilmente la cittadinanza italiana per il conferimento di incarichi di livello dirigenziale, sia applicabile nel presente giudizio e non si ponga in contrasto con la normativa della Unione Europea;

- quanto meno, il contrasto del medesimo art. 1, comma 1, lettera a), con la normativa della Unione Europea non risulta «evidente»;

- dovendosi prevenire contrasti giurisprudenziali, occorre deferire all’esame dell’Adunanza Plenaria di questo Consiglio le questioni di seguito affrontate.

§ 44.1. Come si è sopra rilevato (ed è stato già riscontrato dal TAR con la sentenza impugnata e da questo Consiglio, con la sentenza n. 3666 del 2017), l’interprete non può che rilevare un espresso e testuale divieto normativo – contenuto nel d.P.R. n. 174 del 1994, nonché nel d.P.R. n. 487 del 1994, che al precedente ha fatto riferimento - per i cittadini dell’Unione europea di partecipare alla procedura di cui all’art. 14, comma 2 bis, del d.l. n. 83 del 2014.

Tale divieto è stato però escluso dalla sentenza n. 3666 del 2017, mediante la disapplicazione dell’art. 1, comma 1, lettera a), del d.P.C.M. n. 171 del 1994, in quanto questo sarebbe in contrasto con la normativa dell’Unione Europea.

§ 44.2. Si rimettono però all’esame dell’Adunanza Plenaria di questo Consiglio ulteriori considerazioni, che potrebbero far condurre all’opposta conclusione di considerare conforme al diritto europeo l’art. 1, comma 1, lettera a), del regolamento emanato con il d.P.C.M. n. 174 del 1994, come richiamato dal d.P.R. n. 487 del 1994.

Tali considerazioni riguardano non solo aspetti concernenti il quadro normativo nazionale, ma anche quelli riguardanti i limiti entro i quali è prospettabile – sulla questione - un contrasto tra la normativa nazionale e quella della Unione Europea.

§ 45. Quanto agli aspetti concernenti il quadro normativo nazionale, vanno richiamati:

gli articoli 51 e 54 della Costituzione, che – come rilevato ai §§ 36.1 e 36.2. - hanno fatto riferimento ai «cittadini» non per quanto riguarda l’ammissione in genere al «pubblico impiego» in quanto tale, ma – più specificamente – per l’esercizio degli «uffici pubblici», per le «cariche elettive» e per le «funzioni pubbliche»;

l’art. 11 della Costituzione, per il quale l’Italia «consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità»;

l’art. 37, comma 1, del decreto legislativo n. 29 del 1993, per il quale lo status civitatis non è necessario quando si tratti di posti di lavoro «che non implicano esercizio diretto o indiretto di pubblici poteri, ovvero non attengono alla tutela dell’interesse nazionale»;

l’art. 1, comma 1, lettera a), del regolamento approvato con il d.P.C.M. n. 171 del 1994 (ai sensi del medesimo art. 37, comma 2), per il quale «non può prescindersi dal possesso della cittadinanza italiana» per l’accesso ai «posti dei livelli dirigenziali delle amministrazioni dello Stato, anche ad ordinamento autonomo, individuati ai sensi dell'art. 6 del decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29»;

l’art. 2, comma 1, del medesimo d.P.C.M. n. 171 del 1994, per il quale «Le tipologie di funzioni delle amministrazioni pubbliche per il cui esercizio si richiede il requisito della cittadinanza italiana sono le seguenti: a) funzioni che comportano l'elaborazione, la decisione, l'esecuzione di provvedimenti autorizzativi e coercitivi; b) funzioni di controllo di legittimità e di merito»;

- l’art. 2, comma 1, n. 1, del regolamento approvato con il d.P.R. n. 487 del 1994, che in parte qua ha recepito il contenuto del d.P.C.M. n. 171 del 1994;

- l’art. 30 del d.P.C.M. n. 171 del 2014, per il quale le «procedure di selezione pubblica», previste dall’art. 14 bis del d.l. 31 maggio 2014, n. 83, convertito nella l. 29 luglio 2014, n. 104, riguardano il conferimento di «posti di livello dirigenziale».

§ 46. Sul piano testuale, dunque, la disciplina costituzionale richiede lo status civitatis per lo svolgimento di pubbliche funzioni e consente limitazioni di sovranità «in condizione di parità con gli altri Stati».

Quanto alla legislazione primaria, l’art. 37 del decreto legislativo n. 29 del 1993 e l’art. 38 del testo unico 165 del 2001 hanno delegificato la materia, prevedendo - espressamente e testualmente - il divieto di assunzione per chi non sia cittadino italiano, quando si tratti:

a) della assunzione a posti dei «livelli dirigenziali delle amministrazioni dello Stato» (v. l’art. 1, comma 1, lettera a), del d.P.C.M. n. 171 del 1994, come richiamato dall’art. 2, comma 1, n. 1, del d.P.R. n. 487 del 1994);

b) della assunzione di chi svolga «funzioni che comportano l'elaborazione, la decisione, l'esecuzione di provvedimenti autorizzativi e coercitivi» (v. l’art. 2, comma 1, del medesimo d.P.C.M. n. 171 del 1994, anch’esso richiamato dal d.P.R. n. 487 del 1994).

Quanto al rapporto tra tali disposizioni del d.P.C.M. n. 171 del 1994, vale quanto segue:

- l’art. 2, comma 1, ha inteso affermare la regola generale per la quale si debba verificare di volta in volta se l’esercizio in concreto (in base alla normativa di settore) di poteri autoritativi implichi la necessità del possesso della cittadinanza italiana (trattandosi di «organi» abilitati ad incidere unilateralmente sulle altrui sfere giuridiche, sulla base dei principi e delle regole specifiche riguardanti le articolazioni delle competenze);

- l’art. 1, comma 1, lettera a), come le altre previsioni del comma 1, una volta per tutte ha identificato le «qualifiche formali» per le quali – in ragione del particolare spessore dei poteri esercitati – è necessario il possesso della cittadinanza italiana.

§ 47. Quanto alla specifica posizione dei dirigenti statali, il sopra richiamato art. 2, comma 1, lettera a), risulta coerente non solo con gli articoli 51 e 54 della Costituzione, ma anche con il complessivo vigente quadro normativo sul loro status e sulle loro funzioni, dal momento che ad essi sono infatti riferibili i poteri tipici ‘di vertice’ del potere esecutivo.

Rilevano al riguardo le disposizioni generali del decreto legislativo n. 165 del 2001 (nel quale sono state trasfuse le disposizioni del decreto legislativo n. 29 del 1993, con le successive modificazioni):

- per l’art. 4, «2. Ai dirigenti spetta l'adozione degli atti e provvedimenti amministrativi, compresi tutti gli atti che impegnano l'amministrazione verso l'esterno, nonché la gestione finanziaria, tecnica e amministrativa mediante autonomi poteri di spesa di organizzazione delle risorse umane, strumentali e di controllo. Essi sono responsabili in via esclusiva dell'attività amministrativa, della gestione e dei relativi risultati» e «3. Le attribuzioni dei dirigenti indicate dal comma 2 possono essere derogate soltanto espressamente e ad opera di specifiche disposizioni legislative»;

- per l’art. 14, «3. Il Ministro non può revocare, riformare, riservare o avocare a sé o altrimenti adottare provvedimenti o atti di competenza dei dirigenti», «salvo il potere di annullamento ministeriale per motivi di legittimità».

In sintesi, ai sensi dell’art. 4 di tale decreto legislativo:

- il Ministro – quale organo politico dell’amministrazione e compartecipe dell’attuazione del programma di governo - è titolare esclusivamente di «funzioni di indirizzo politico-amministrativo» e quindi ha il compito di definire «gli obiettivi ed i programmi da attuare» e di adottare «gli altri atti rientranti nello svolgimento di tali funzioni», nonché di verificare «la rispondenza dei risultati dell'attività amministrativa e della gestione agli indirizzi impartiti»;

- il dirigente – nell’esercizio di poteri di per sé insindacabili dal Ministro ex art. 14 - ha il potere di emanare «atti e provvedimenti amministrativi, compresi tutti gli atti che impegnano l'amministrazione verso l'esterno», si occupa della «gestione finanziaria, tecnica e amministrativa mediante autonomi poteri di spesa, di organizzazione delle risorse umane, strumentali e di controllo» e risponde «in via esclusiva dell'attività amministrativa, della gestione e dei relativi risultati».

Risultano dunque coerenti – anche nel loro reciproco rapporto – le lettere b) ed a) dell’art. 1, comma 1, del d.P.C.M. n. 174 del 1994 (sopra riportate al § 45): così come la lettera b) ha attribuito rilievo allo svolgimento di «funzioni di vertice amministrativo delle strutture periferiche delle amministrazioni pubbliche dello Stato, anche ad ordinamento autonomo, degli enti pubblici non economici, delle province e dei comuni nonché delle regioni e della Banca d'Italia», la lettera a) ha indicato sic et simpliciter i «i posti dei livelli dirigenziali delle amministrazioni dello Stato», perché i dirigenti statali costituiscono il «vertice amministrativo» del potere esecutivo dello Stato (nella massima espressione, quando non vi sia alcuna autorità dirigenziale intermedia tra essi ed il Ministro di riferimento).

§ 48. Oltre ad essere annoverati tra i dirigenti (ai sensi e per gli effetti dell’art. 1, comma 1, del d.P.C.M. n. 171 del 1994), i direttori dei musei – quali autorità di «vertice amministrativo» - esercitano, inoltre e per di più, gli specifici poteri riconducibili all’espressione contenuta nell’art. 2, comma 1, del medesimo d.P.C.M. (che ha attribuito rilievo alle «tipologie di funzioni delle amministrazioni pubbliche per il cui esercizio si richiede il requisito della cittadinanza italiana», tra cui quelle che «comportano l'elaborazione, la decisione, l'esecuzione di provvedimenti autorizzativi e coercitivi»).

Rilevano al riguardo proprio le ulteriori disposizioni dell’art. 14 bis del d.l. 31 maggio 2014, n. 83, convertito nella l. 29 luglio 2014, n. 104, e del d.P.C.M. n. 171 del 29 agosto 2014.

In particolare, l’art. 34, comma 2, lettere l), m) ed u) di tale d.P.C.M. ha attribuito al direttore del museo, tra gli altri, i poteri valutativi e decisori (insindacabili anche in sede ministeriale) concernenti il prestito di opere d’arte «sul territorio nazionale o all'estero» e l’esercizio delle «funzioni di stazione appaltante».

§ 49. Dalla normativa sopra richiamata non emerge, invece, il criterio secondo cui la rilevanza dello spessore dei poteri pubblici esercitabili sia recessivo rispetto all’attività del direttore del museo «rivolta alla gestione economica e tecnica» ed «essenzialmente finalizzata» ad una migliore utilizzazione e valorizzazione di beni pubblici.

Il «criterio di prevalenza» inoltre non risulta neanche desumibile dall’art. 1, comma 1, lettera a), del d.P.C.M. n. 171 del 1994 (che ha attribuito rilevanza allo status in sé di dirigente statale).

Esso non è menzionato neppure nell’art. 2, comma 1, del medesimo d.P.C.M., per il quale occorre la cittadinanza italiana quando si tratti dell’esercizio di funzioni che «comportano l'elaborazione, la decisione, l'esecuzione di provvedimenti autorizzativi e coercitivi» (tra cui de plano rientrano i poteri concernenti l’autorizzazione al prestito di opere d’arte «sul territorio nazionale o all'estero» e l’esercizio delle «funzioni di stazione appaltante»).

Come si osserverà al successivo § 54.3., il «criterio di prevalenza» neppure risulta rilevante per il diritto europeo, quando si tratti di autorità che esercitano funzioni pubbliche e che facciano parte dei vertici del potere esecutivo.

Risulta dunque condivisibile la sentenza appellata, nella parte in cui ha constatato l’applicabilità delle sopra richiamate disposizioni regolamentari del 1994, nonché la loro mancata applicazione in sede di emanazione degli atti impugnati in primo grado.

§ 50. A questo punto, si deve verificare se le testuali disposizioni costituzionali e dei sopra richiamati regolamenti (del d.P.C.M. n. 171 del 1994 e del d.P.R. n. 487 del 1994) si possano porre in discussione in questa sede e se, nel caso di soluzione affermativa, esse siano in parte qua difformi dal diritto europeo.

§ 50.1. La sentenza della Sezione n. 3666 del 2017, per le ragioni sopra riassunte ai §§ 43, 43.1, 43.2., ha ritenuto che si debba disapplicare la norma regolamentare risultante in contrasto con il diritto europeo (come ricostruito dalla medesima sentenza).

§ 50.2. A parte ogni considerazione sulla questione della corrispondenza sostanziale tra le disposizioni regolamentari così disapplicate e i principi costituzionali (aspetto dopo approfondito), per quanto riguarda la questione processuale se il giudice amministrativo possa disapplicare una norma regolamentare risultante in contrasto con una norma di rango superiore, dalla complessiva giurisprudenza di questo Consiglio (cfr. per tutte Cons. Stato, Sez. III, 6 settembre 2016, n. 3820) emerge che – fermi i principi sull’onere di impugnare un regolamento lesivo (cioè ostativo alla pretesa fatta valere) unitamente all’atto autoritativo applicativo, di cui si sia chiesto l’annullamento - la disapplicazione (in coerenza col principio iura novit curia) può essere disposta dal giudice amministrativo:

- quando il ricorrente chieda la tutela di diritti soggettivi (ad es. in materia di restituzione di oneri di urbanizzazione) e la pretesa risulti fondata su una disposizione di legge, rispetto alla quale risulti illegittimo il regolamento lesivo per il medesimo ricorrente (cfr. Cons. Stato, Sez. V, 24 luglio 1993, n. 799);

- quando il ricorrente chieda la tutela di un interesse legittimo e l’annullamento di un provvedimento (deducendo la violazione di un regolamento e non che questo sia ostativo alla pretesa), ma la domanda vada respinta, perché il regolamento invocato risulta illegittimo (cfr. Cons. Stato, Sez. V, 26 febbraio 1992, n. 154, in un caso in cui – in riforma della sentenza di primo grado - il ricorso originario è stato respinto, nella parte in cui deduceva l’illegittimità di un atto negativo di controllo, che risultava sì in contrasto con un regolamento provinciale, ma che era conforme alla legge provinciale rispetto alla quale il regolamento affermava una regola incompatibile e recessiva).

La sentenza n. 3666 del 2017 di questa Sezione, in coerenza con il principio sostanziale enunciato dalla citata sentenza n. 154 del 1992, ha dunque accolto l’appello allora proposto ed ha respinto il ricorso di primo grado, poiché – malgrado la fondatezza della censura originaria rivolta contro gli atti risultati contrastanti con il regolamento statale del 1994 – ha ravvisato il contrasto di tale regolamento col diritto europeo.

§ 50.3. Sennonché, osserva il Collegio che con il quarto motivo dell’appello principale il Ministero non ha chiesto che siano disapplicati in parte qua l’art. 1, comma 1, del d.P.C.M. n. 172 del 1994 e l’art. 2, comma 1, del d.P.R. n. 487 del 1994.

Va sottolineata la peculiarità di quanto accaduto, che sotto il profilo processuale differenzia la presente vicenda, da quella decisa con la già citata sentenza n. 154 del 1992.

Con tale sentenza, questo Consiglio ha sì ritenuto disapplicabile il regolamento risultato illegittimo (col risultato di riformare la sentenza del TAR e di respingere il ricorso di primo grado), ma ha statuito ciò solo in accoglimento di uno specifico ed espresso motivo d’appello, che aveva rimarcato proprio l’illegittimità del regolamento, sul cui testo si era basata (ed era stata accolta) la domanda di annullamento di primo grado.

Nella specie, invece, il Ministero col quarto motivo d’appello non ha prospettato alcuna illegittimità delle disposizioni regolamentari statali e non ne ha nemmeno chiesto la disapplicazione.

Va sottolineata la singolarità della situazione verificatasi, non risultando precedenti di questo Consiglio, o di un’altra giurisdizione superiore, in cui una Amministrazione statale (per di più non con l’atto d’appello, ma con le successive difese) abbia chiesto che vada disapplicato un regolamento statale, per ottenere la riforma di una sentenza la cui motivazione si sia basata su un regolamento del quale non era stata prospettata dalle parti l’illegittimità nel corso del precedente grado del giudizio.

Al contrario, con il quarto motivo d’appello il Ministero ha chiesto che il motivo di primo grado dovrebbe essere respinto, poiché l’art. 1, comma 1, lettera a), del d.P.C.M. n. 174 del 1994 – di cui ha rimarcato il vigore, sia pure determinandone erroneamente la portata - sarebbe stato legittimamente applicato con gli atti impugnati in primo grado, tanto che ha chiesto che in questa sede il regolamento dovrebbe essere interpretato in senso opposto a quello fatto proprio dal TAR.

§ 50.4. Stando così le cose, in sede d’appello si potrebbe preliminarmente ravvisare una preclusione di ordine processuale.

Infatti, col quarto motivo il Ministero non ha prospettato l’illegittimità delle disposizioni regolamentari del 1994 (di cui ha chiesto la disapplicazione solo nel corso della discussione finale, col richiamo al decisum della sentenza n. 3666 del 2017) e non ha dunque nemmeno indicato – nell’atto d’appello - i possibili vizi che si dovrebbero ravvisare in questa sede.

Previo esame della portata del principio di corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato (specie in sede d’appello), va dunque valutato se si possa accogliere in questa sede un motivo della Amministrazione statale, di per sé infondato (perché ha dato una lettura di una disposizione regolamentare, opposta a quella corretta), quando con esso non sia stata prospettata alcuna censura contro un regolamento, mentre poi nel corso del giudizio di secondo grado l’Amministrazione chieda la riforma della sentenza impugnata sulla base di una ratio decidendi diversa e di una impostazione opposta (secondo cui sarebbe illegittima e disapplicabile la norma regolamentare, all’opposto inizialmente invocata con l’atto d’appello).

Del resto, anche per i principi di cui agli articoli 101 e 104 del codice del processo amministrativo, non sembra possibile che a vantaggio del soccombente si possa disapplicare una norma regolamentare, in assenza di uno specifico motivo d’appello.

§ 51. Salva questa questione processuale (che si rimette in via preliminare alla valutazione dell’Adunanza Plenaria), ad avviso del Collegio vi sono peraltro argomenti di ordine sostanziale, in base ai quali si può giungere alla conclusione che non sussistano i presupposti per disapplicare in parte qua il d.P.C.M. n. 174 del 1994 ed il d.P.R. n. 487 del 1994, potendosi ritenere che la normativa secondaria nazionale sia coerente non solo con gli articoli 51 e 54 della Costituzione, ma anche con la sopra richiamata normativa europea e che dunque abbia ben potuto riservare ai cittadini italiani i posti dirigenziali in questione.

Per questa ragione, si sottopone anche la relativa questione sostanziale all’esame dell’Adunanza Plenaria.

§ 52. Giova riportare ancora una volta l’art. 45 del T.F.U.E. (già art. 39 del T.C.E.), secondo il quale:

- «La libera circolazione dei lavoratori all'interno dell'Unione è assicurata» (§ 1);

- «Essa implica l'abolizione di qualsiasi discriminazione, fondata sulla nazionalità, tra i lavoratori degli Stati membri, per quanto riguarda l'impiego, la retribuzione e le altre condizioni di lavoro» (§ 2);

- «Fatte salve le limitazioni giustificate da motivi di ordine pubblico, pubblica sicurezza e sanità pubblica, essa importa il diritto: a) di rispondere a offerte di lavoro effettive; b) di spostarsi liberamente a tal fine nel territorio degli Stati membri; c) di prendere dimora in uno degli Stati membri al fine di svolgervi un'attività di lavoro, conformemente alle disposizioni legislative, regolamentari e amministrative che disciplinano l'occupazione dei lavoratori nazionali; d) di rimanere, a condizioni che costituiranno l'oggetto di regolamenti stabiliti dalla Commissione, sul territorio di uno Stato membro, dopo aver occupato un impiego» (§ 3);

- «Le disposizioni del presente articolo non sono applicabili agli impieghi nella pubblica amministrazione» (§ 4).

§ 53. Osserva il Collegio che sono ben distinte le fattispecie previste dal § 3 e dal § 4 dell’art. 45 del T.F.U.E.

§ 53.1. Il § 3, nell’ammettere le «limitazioni giustificate da motivi di ordine pubblico, pubblica sicurezza e sanità pubblica», si riferisce alle limitazioni sostanziali che la normativa nazionale anche nei settori privati può prevedere in tema di «libera circolazione dei lavoratori».

Tale § 3 consente ad esempio che la normativa nazionale vieti l’ingresso nel territorio dello Stato membro a chi abbia determinati precedenti penali ovvero sia comunque pericoloso o vi siano preminenti ragioni di sanità pubblica (sul principio fissato dal § 3 si basano molteplici disposizioni del testo unico n. 286 del 1998, «sulla disciplina dell’immigrazione e sulla condizione dello straniero», ad es. in tema di diniego di permesso di soggiorno).

§ 53.2. Quando si tratti invece del lavoro nella «pubblica amministrazione», e dei casi in cui vi sia l’esercizio di pubblici poteri, il § 4 dell’art. 45 del T.F.U.E. (così come il precedente art. 39, § 4, del Trattato CE, e ancor prima l’art. 48, § 4, del Trattato del 1957) ha escluso l’applicazione del principio della libera circolazione dei lavoratori, riaffermando la regola della «riserva di sovranità» degli Stati nazionali («riserva di sovranità» di cui già risultano espressione gli articoli 51 e 54 della Costituzione, oltre alle disposizioni regolamentari del 1994).

§ 54. Per quanto riguarda il significato da attribuire alla nozione di «amministrazione pubblica» (e dunque l’ambito di applicazione dell’art. 45, § 4, e, ancor prima, dei richiamati art. 39, § 4, del Trattato CE e art. 48, § 4, del Trattato del 1957), rileva la giurisprudenza della Corte di Giustizia, che ne ha chiarito più volte la specifica portata.

Occorre tener conto di tale giurisprudenza, per verificare se risultino ad essa compatibili le disposizioni degli articoli 51 e 54 della Costituzione, oltre che dell’art. 1, comma 1, del d.P.C.M. n. 171 del 1994 (e del corrispondente art. 1, comma 1, d.P.R. n. 487 del 1994, che richiama quelle del D.P.C.M.).

§ 54.1. La Corte di giustizia ha dato una lettura dell’art. 45, § 4 (e delle disposizioni del Trattato), limitata a «quanto strettamente necessario» a salvaguardare gli interessi da essa protetti (ex multis, Corte giustizia UE 10 settembre 2014, in C-270/13, Haralambidis c. Casilli, e 3 luglio 1986, in C-66/85, Lawrie Blum).

La Corte in proposito è partita da due considerazioni.

In primo luogo, per la Corte non possono gli Stati membri liberamente determinare se un dato «impiego» sia svolto «nella pubblica amministrazione», poiché una tale regola sottrarrebbe all’Unione la delimitazione del principio della libertà di circolazione dei lavoratori (ex multis, le sentenze 12 febbraio 1974, in C-152/73, Sotgiu, e 3 luglio 1986, in C-66/85, Lawrie Blum, citata).

La Corte ha poi osservato che le Amministrazioni pubbliche a volte svolgono anche attività sostanzialmente di carattere economico, le quali come tali potrebbero essere svolte da qualunque privato e rientrano quindi nell’ambito di applicazione del Trattato: anche da questo punto di vista, demandare agli Stati membri di stabilire ‘liberamente’ quando una data attività rientri fra gli «impieghi nella pubblica amministrazione» significherebbe renderli arbitri della concreta portata del Trattato stesso (Corte di giustizia UE, 17 dicembre 1980 e 26 maggio 1982, in C-149/79, Commissione c. Regno del Belgio).

§ 54.2. Con queste precisazioni, la Corte di Giustizia ritiene che la normativa nazionale possa imporre il requisito della nazionalità in presenza di due presupposti, dovendosi trattare di accesso a quei posti che:

a) implicano la partecipazione, diretta o indiretta, all’esercizio – sia pure indiretto - di «pubblici poteri»;

b) riguardano la tutela degli interessi generali dello Stato o di altre «pubbliche collettività» (Corte di Giustizia UE, 27 novembre 1991, in C-4/91, Bleis c. Repubblica francese).

§ 54.3. In applicazione di tali principi, hanno un diverso regime giuridico le attività di soggetti estranei all’apparato statale, rispetto a quelle proprie dei pubblici poteri, tra le quali rientrano tipicamente quelle dei vertici del potere esecutivo.

Quando si tratti di soggetti estranei all’apparato statale, non rileva l’esercizio «sporadico» di compiti autoritativi marginali, nell’ambito della complessiva attività svolta (Corte di Giustizia, 26 maggio 1982, in C-149/79, Commissione c. Regno del Belgio, che ha affermato il principio in relazione a dipendenti di società, ma ha significativamente ammesso che si possa richiedere la cittadinanza per lo svolgimento dei lavori di «ispettore dei lavori» o di «guardiano notturno» di una amministrazione comunale; 10 settembre 2014, in C-270/13, Haralambidis c. Casilli, in relazione al caso – di seguito approfondito - di un presidente di una autorità portuale).

Ove invece si tratti di un pubblico potere, non rileva il criterio dell’«esercizio sporadico»: il pubblico potere va ricondotto all’esercizio «di un potere decisionale che esorbita dal diritto comune e si traduce nella capacità di agire indipendentemente dalla volontà di altri soggetti o anche contro la loro volontà» (Corte di Giustizia, 22 ottobre 2009, in C-438-08, Commissione c. Portogallo).

§ 54.4. Tale conclusione trova conferma nella indicazione esemplificativa esposta nella «comunicazione» della Commissione europea n. 88/C-72/02 (in GUCE 18 marzo 1988).

Come ha correttamente rimarcato la difesa dell’appellata a p. 9 della sua memoria depositata in data 28 settembre 2017, la Commissione, nell’intraprendere azioni positive per promuovere la libera circolazione dei lavoratori, in un paragrafo denominato «Le attività specifiche della funzione pubblica nazionale formanti oggetto di deroga», ha ritenuto escluse dal relativo ambito (ostandovi la regola della possibilità che la norma nazionale richieda la cittadinanza):

- «le funzioni specifiche dello Stato e delle collettività ad esso assimilabili, quali le forze armate, la polizia e le altre forze dell'ordine pubblico, la magistratura, l'amministrazione fiscale e la diplomazia»;

- «inoltre, … gli impieghi dipendenti dai ministeri statali, dai governi regionali, dalle collettività territoriali e da altri enti assimilati e infine dalle banche centrali, quando si tratti del personale (funzionari e altri) che eserciti le attività coordinate intorno ad un potere pubblico giuridico dello Stato o di un'altra persona morale di diritto pubblico, come l'elaborazione degli atti giuridici, la loro esecuzione, il controllo della loro applicazione e la tutela degli organi dipendenti».

La Commissione ha ribadito tale orientamento con la più recente «comunicazione» 11 dicembre 2002, COM (2002) 694.

Dunque, per la Commissione – che ha sintetizzato la giurisprudenza della Corte di Giustizia - la normativa nazionale può richiedere la cittadinanza per «gli impieghi dipendenti dai ministeri statali…, quando si tratti del personale (funzionari e altri) che eserciti le attività coordinate intorno ad un potere pubblico giuridico dello Stato…, come l’elaborazione degli atti giuridici, la loro esecuzione, il controllo della loro applicazione».

§ 54.5. Anche tali espressioni si attagliano senz’altro ai dirigenti in considerazione dei loro poteri disciplinati dagli articoli 51 e 54 della Costituzione, nonché dagli articoli 4 e 14 del decreto legislativo n. 165 del 2001, dall’art. 14 del d.l. n. 83 del 2014 e dalle relative norme applicative, per quanto sopra evidenziato ai §§ 47 e 48: il dirigente statale è titolare di un «potere decisionale che esorbita dal diritto comune» (adoperando l’espressione utilizzata da Corte di Giustizia, 22 ottobre 2009, in C-438-08, Commissione c. Portogallo, cit.) ed esercita funzioni pubbliche in posizione di vertice.

§ 54.6. Un particolare rilievo è stato attribuito dal Ministero appellante (nonché dalla sentenza della Sezione n. 3666 del 2017) alla citata sentenza della Corte di giustizia 10 settembre 2014, in C-270/13, Haralambidis c. Casilli, che ha ritenuto precluso ad uno Stato dell’Unione (proprio alla Repubblica italiana) di riservare a propri cittadini l’esercizio delle funzioni di presidente di una autorità portuale.

Nella motivazione, tale sentenza ha ritenuto in particolare non rilevante che tale autorità eserciti «poteri di imperio», nella specie con ordinanze a salvaguardia dei beni demaniali e della navigabilità del porto, poiché si tratta di poteri «esercitati solo in modo sporadico, o addirittura eccezionalmente».

Ad avviso del Collegio, tale considerazione va rapportata alla posizione istituzionale della autorità portuale, cioè di un ente pubblico avente una personalità giuridica diversa dallo Stato (e posta sotto la sua vigilanza), che dunque non fa parte degli apparati ministeriali statali e non costituisce una delle articolazioni con le quali neppure si attua il relativo indirizzo politico.

Viceversa, il dirigente statale, e anche il direttore di un museo statale, nominato all’esito della procedura prevista dall’art. 14, comma 7 bis, del d.l. del 2014, è l’immediata espressione del potere esecutivo e costituisce l’organo amministrativo di vertice del Ministero, con il quale si attua l’indirizzo politico del Governo.

§ 54.7. Rilevano anche l’«esercizio dell’autorità pubblica» e la responsabilità di gestire ciò che riguarda la salvaguardia degli «interessi generali dello Stato».

Il rilievo di tale responsabilità è stato richiamato dalla Corte di giustizia (11 dicembre 2002, in C-225/85, Commissione c. Italia, § 9), nel senso che l’ordinamento nazionale può legittimamente riservare ai cittadini i «posti comportanti funzioni direttive o di consulenza dello Stato su questioni scientifiche e tecniche», ciò che pure costituisce una delle peculiarità delle funzioni attribuite ai direttori dei musei statali.

§ 55. Sulla base della giurisprudenza della Corte di Giustizia e delle comunicazioni della Commissione, si può così affermare che la normativa nazionale – quella di rango regolamentare oggetto della delegificazione, ed avente uno specifico supporto negli articoli 51 e 54 Cost. - ben può prevedere il requisito della cittadinanza quando si tratti della selezione che comporta l’attribuzione dello status e delle funzioni dei più alti dirigenti dello Stato, per i quali si applicano le disposizioni sopra riportate ai §§ 47 e 48.

§ 55.1. Risulta dunque rientrare per tabulas, e quale fattispecie tipica di «riserva della sovranità», proprio lo status del dirigente statale, il cui spessore dei poteri si caratterizza per il fatto che incardina le funzioni del potere esecutivo, quale organo dello Stato le cui scelte di merito sono per di più insindacabili dal Ministro.

Egli - oltre ad esercitare importanti funzioni autoritative – è il referente naturale ed esclusivo dell’organo politico per attuare il programma di governo nello specifico settore di amministrazione ad esso affidato, e in tal senso risulta anche responsabile della «salvaguardia degli interessi generali dello Stato» in quel settore.

§ 55.2. Neppure si possono distinguere - tra i dirigenti presi in quanto tali in considerazione dall’art. 1, comma 1, lettera a), del d.P.C.M. n. 171 del 1994 – quelli cui sono conferiti gli incarichi di direttore dei musei statali, ai sensi dell’art. 14, comma 7 bis, del decreto legge del 2014.

Le disposizioni del d.P.C.M. n. 171 del 2014 non hanno ‘ridotto’ i poteri dei direttori dei musei statali rispetto a quelli attribuiti in generale alla dirigenza, ma hanno ‘adattato’ ad essi le regole applicabili, in ragione della delicatezza dei compiti loro affidati (concernenti la gestione di una parte del «patrimonio della Nazione», tutelato dall’art. 9 della Costituzione).

§ 56. Le considerazioni sostanziali che precedono - sulla compatibilità comunitaria delle norme regolamentari del 1994 che richiedono la cittadinanza italiana per acquisire lo status di dirigente dello Stato – risultano ulteriormente corroborate dalla constatazione che non risultano (né sono state richiamate dal Ministero appellante o dai controinteressati in primo grado) norme o prassi amministrative o giurisprudenziali di altri Stati della Unione Europea che abbiano consentito ai cittadini italiani – ovvero ai cittadini della Unione Europea in quanto tale – di acquisire lo status di dirigenti aventi una posizione di «vertice» all’interno del loro ordinamento.

Solo una tale apertura ai cittadini italiani, infatti, può far ravvisare «le condizioni di parità con gli altri Stati», tali da giustificare la possibilità che acquistino lo status di dirigente di vertice dello Stato coloro che non abbiano la cittadinanza italiana.

§ 57. A questo punto, va sottolineato come i principi affermati dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia risultano sostanzialmente coincidenti con quelli desumibili dagli articoli 51 e 54 della Costituzione, i quali – come sopra evidenziato al § 36.2 - si sono riferiti non al «pubblico impiego» in quanto tale, ma, più limitatamente, agli «uffici pubblici», alle «cariche elettive» e alle «funzioni pubbliche».

Sia per la giurisprudenza della Corte di Giustizia, sia per i principi costituzionali, l’art. 37 del d.lgs. n. 29 del 1993 e le disposizioni regolamentari del 1994 in questione, lo status civitatis non è necessario quando si tratti dell’accesso a posizioni di pubblico impiego non caratterizzate dall’esercizio di poteri pubblici o dallo svolgimento di cariche elettive.

Invece, quando si tratti della prima nomina nella qualifica di dirigente di «vertice» dello Stato, come quella in esame, non può che ravvisarsi la sussistenza dell’«esercizio diretto … di pubblici poteri» e, in particolare, delle più alte «funzioni pubbliche» riferibili al potere esecutivo.

§ 58. Concludendo sul punto, non risulta disapplicabile l’art. 2, comma 1, lettere a) e b), del d.P.C.M. n.174 del 1994, poiché queste disposizioni hanno previsto la necessità della cittadinanza italiana:

- per «i posti dei livelli dirigenziali delle amministrazioni dello Stato, anche ad ordinamento autonomo, individuati ai sensi dell'art. 6 del decreto legislativo 3 febbraio 1993, n.29, nonché i posti dei corrispondenti livelli delle altre pubbliche amministrazioni» (lett. a);

- per «i posti con funzioni di vertice amministrativo delle strutture periferiche delle amministrazioni pubbliche dello Stato, anche ad ordinamento autonomo, degli enti pubblici non economici, delle province e dei comuni nonché delle regioni e della Banca d'Italia» (lett. b).

Tali disposizioni si basano sul presupposto – effettivamente sussistente - che tali autorità sono poste al «vertice amministrativo» e sono titolari di consistenti poteri autoritativi, il cui esercizio è idoneo ad incidere unilateralmente sulle altrui sfere giuridiche, con l’applicazione di «regole esorbitanti dal diritto comune».

§ 59. A parte le questioni processuali segnalate ai §§ 50-50.4., in assenza del contrasto tra il diritto europeo e le sopra richiamate disposizioni del d.P.C.M. n. 171 del 2014 (come richiamato dall’art. 2, comma 1, del d.P.R. del 2014), dovrebbe essere respinto il quarto motivo dell’appello del Ministero, rivolto contro l’annullamento – disposto dal TAR - dell’atto che ha condotto al conferimento dell’incarico di direttore del «Palazzo Ducale di Mantova».

§ 60. Sennonché, a questo punto va esaminata la rilevanza da attribuire all’art. 22, comma 7 bis, del decreto legge 24 aprile 2017, n. 50, convertito nella l. 21 giugno 2017, n. 96, per il quale «L'articolo 14, comma 2-bis, del decreto-legge 31 maggio 2014, n. 83, convertito, con modificazioni, dalla legge 29 luglio 2014, n. 106, si interpreta nel senso che alla procedura di selezione pubblica internazionale ivi prevista non si applicano i limiti di accesso di cui all'articolo 38 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165».

§ 61. Qualora si affermi che, alla data di entrata in vigore di tale decreto legge, era vigente (ed era conforme alla normativa della Unione Europea) la disciplina nazionale preclusiva per i non cittadini italiani della partecipazione alla procedura in questione, si porrebbe la seguente alternativa:

- o il sopra riportato art. 22, comma 7 bis, ha disposto solo per il futuro (e cioè per le nomine disposte successivamente alla sua entrata in vigore), per rimuovere incertezze interpretative, ed allora esso – anche per le relative questioni di legittimità costituzionale - non rileva nel presente giudizio;

- oppure esso, se avente effetti retroattivi, per il suo carattere di ‘solo apparente’ interpretazione autentica si porrebbe in contrasto con l’art. 117 della Costituzione e con gli articoli 6 e 13 della CEDU, che precludono l’entrata in vigore di leggi che incidano sui giudizi in corso e sull’esercizio della funzione giurisdizionale (articoli che in concreto risulterebbero violati, poiché il medesimo comma 7 bis avrebbe imposto una soluzione opposta a quella seguita dalla qui impugnata – e condivisibile - sentenza del TAR, in assenza di una equivoca disciplina nazionale e in assenza di oscillazioni giurisprudenziali da superare).

§ 62. Sul punto, vanno richiamati i principi enunciati dalla Corte Costituzionale con la sentenza 4 luglio 2014, n. 191, § 4, per la quale «la Corte di Strasburgo ha più volte ribadito che ‘in linea di principio non è vietato al potere legislativo di stabilire in materia civile una disciplina innovativa a portata retroattiva dei diritti derivanti da leggi in vigore, ma il principio della preminenza del diritto e la nozione di processo equo sanciti dall'art. 6 della Convenzione, ostano, salvo che per motivi imperativi di interesse generale, all'ingerenza del potere legislativo nell'amministrazione della giustizia al fine di influenzare l'esito giudiziario di una controversia’ (sentenze 11 dicembre 2012, De Rosa contro Italia; 14 febbraio 2012, Arras e altri contro Italia; 7 giugno 2011, Agrati e altri contro Italia; 31 maggio 2011, Maggio e altri contro Italia; 10 giugno 2008, Bortesi e altri contro Italia; 29 marzo 2006, Scordino e altri contro Italia). La medesima Corte ha altresì rimarcato che le circostanze addotte per giustificare misure retroattive devono essere «trattate con la massima circospezione possibile» (sentenza 14 febbraio 2012, Arras e altri contro Italia), in particolare quando l'intervento legislativo finisca per alterare l'esito giudiziario di una controversia (sentenza 28 ottobre 1999, Zielinski e altri contro Francia)».

§ 63. Qualora si debba affermare la retroattività (e l’apparente natura interpretativa) del sopra riportato art. 22, comma 7 bis, il conseguente contrasto con la consolidata giurisprudenza della Corte di Strasburgo e della Corte Costituzionale comporta una ulteriore questione processuale, che si rimette anch’essa all’esame dell’Adunanza Plenaria.

§ 63.1. A partire dalle sentenze nn. 348 e 349 del 2007, la Corte Costituzionale ha chiarito che – nel caso di contrasto tra una disposizione legislativa e le previsioni della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali – il giudice nazionale può sollevare una questione di costituzionalità, deducendo la violazione dell’art. 117 della Costituzione, col richiamo al ‘parametro interposto’, costituito proprio da una disposizione della CEDU.

§ 63.2. Sennonché, con riferimento al caso di specie, se si afferma la necessità dello status civitatis per acquisire lo status di dirigente dello Stato, ove fosse applicabile il citato art. 22, comma 7 bis vi sarebbe il differimento della definizione della controversia, qualora si dovesse necessariamente sollevare una questione di costituzionalità, il cui esito, verisimilmente, sarebbe nel senso della constatazione del contrasto con l’art. 117 Cost.

§ 63.3. In tale prospettiva, per evitare tale differimento, si potrebbe effettuare la seguente distinzione.

Qualora l’antinomia tra la disposizione legislativa nazionale e la previsione della Convenzione del 1950 non risulti «chiara ed evidente» (ed occorra effettuare un «bilanciamento» tra valori in conflitto), va comunque riaffermata la competenza esclusiva della Corte Costituzionale, per eventualmente rimuovere dall’ordinamento la medesima disposizione legislativa.

Invece, qualora vi sia un «chiaro ed evidente» contrasto tra la norma nazionale e quella della Convenzione (come costantemente interpretata sia dalla Corte di Strasburgo che dalla Corte Costituzionale), si potrebbe affermare che il giudice della controversia possa non applicare la medesima disposizione nazionale, che non trovi fondamento in alcun valore meritevole di essere posto a confronto con quello rilevante per la Convenzione.

A sostegno di tale principio e del conseguente potere del giudice nazionale (fondato sulla necessità di una ‘valvola di sicurezza’ del sistema, a tutela dei diritti fondamentali, e limitato a tale assenza di «contrasto di valori» ed ad una contemporanea violazione ictu oculi della Convenzione del 1950 e della Costituzione), possono rilevare considerazioni di diritto nazionale e di diritto europeo.

Quanto al diritto nazionale, dall’art. 117, primo comma, della Costituzione, emerge che la disposizione convenzionale – pur se non è equiparata a quella costituzionale - ha pur sempre un ‘rango superiore’ alla legge ordinaria che risulti con essa in palese contrasto: in tal senso milita la stessa giurisprudenza costituzionale sulla rilevanza del ‘parametro interposto’.

Quanto al diritto europeo, possono rilevare il principio di uguaglianza e quello di non discriminazione, applicabili anche in una visione complessiva degli ordinamenti degli Stati membri (art. 21, § 2, della Carta di Nizza sui diritti fondamentali dell’Unione Europa).

Infatti, negli altri Paesi dell’Unione Europea (anche in quelli nei cui sistemi sono state istituite le Corti o i Consigli Costituzionali: cfr. Consiglio Costituzionale francese, 21 ottobre 1988, n. 1082), il giudice della controversia può verificare se vada applicata direttamente la disposizione della CEDU, escludendo l’operatività della legge nazionale che si ponga in rapporto di antinomia.

In un’ottica di parità di tutela dei diritti fondamentali nei territori di tutti gli Stati facenti parte del Consiglio d’Europa (che ben conoscono una tale ‘valvola di sicurezza’), si potrebbe affermare, dunque, che anche in Italia il giudice della controversia possa – e anzi debba - applicare direttamente la disposizione della CEDU, per la quale vi sia una consolidata interpretazione della Corte di Strasburgo, condivisa dalla Corte Costituzionale, e non applicare la legge nazionale che affermi la regola opposta, ponendosi in un rapporto di antinomia.

§ 63.4. Pertanto, per il caso in cui si ravvisasse la compatibilità tra il diritto dell’Unione Europea e gli articoli 51 e 54 della Costituzione, nonché le indicate previsioni regolamentari di cui al d.P.C.M. n. 174 del 1994, risulterebbe «chiaro ed evidente» come l’art. 22, comma 7 bis, contrasterebbe non solo con gli stessi articoli 51 e 54 Cost., ma anche con la giurisprudenza della Corte Costituzionale e con quella della Corte di Strasburgo, sulla impossibilità che una legge retroattiva incida sui giudizi in corso, in assenza dei rigorosi limiti evidenziati da entrambe le Corti.

§ 64. Si rimette dunque all’esame della Adunanza Plenaria anche la questione se possa essere – in ipotesi – immediatamente definito il giudizio, con la mancata applicazione dell’art. 22, comma 7 bis, senza la necessità che sia sollevata una questione di costituzionalità, per violazione degli articoli 3, 24, 51, 54 e 117 della Costituzione (con riferimento ai parametri interposti degli articoli 6 e 13 della Convenzione del 1950).

§ 65. Per il caso in cui non sia disapplicabile il medesimo articolo 22, comma 7 bis, dovrebbero essere conseguentemente sollevate le relative questioni di costituzionalità, per violazione degli articoli 3, 11, 24, 51, 54 e 117 della Costituzione (con riferimenti ai medesimi parametri interposti).

Inoltre, in assenza di norme dell’Unione Europea che impongano di considerare irrilevante lo status civitatis per la nomina a dirigente statale, dovrebbero essere sollevate specifiche questioni di costituzionalità anche con riferimento agli articoli 51 e 54 della Costituzione, i quali fanno riferimento al requisito della cittadinanza per l’esercizio di «funzioni pubbliche», espressione riferibile a quelle tipiche dei dirigenti dello Stato, e all’art. 11 della Costituzione, che ha sancito la regola della reciprocità, perché vi sia una corrispondente limitazione della sovranità.

§ 66. Per le ragioni che precedono, per la delicatezza delle questioni controverse ed il loro evidente carattere di massima, il Collegio rimette all’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato l’esame del quarto motivo dell’appello principale del Ministero, ai sensi del comma 4 dell’art. 99 del codice del processo amministrativo:

- per l’aspetto processuale evidenziato ai §§ 50.-50.4.;

- per gli aspetti sostanziali complessivamente sopra evidenziati ai §§ 51-58;

- per gli aspetti segnalati ai §§ 60-65, ove si debba prendere in considerazione l’art. 22, comma 7 bis, del decreto legge 24 aprile 2017, n. 50, convertito nella l. 21 giugno 2017, n. 96.

§ 67. In conclusione, decidendo sull’appello n. 3911 del 2017, la Sezione:

a) respinge il primo motivo d’appello e riafferma la sussistenza della giurisdizione amministrativa;

b) in parziale riforma della sentenza impugnata, accoglie il secondo ed il terzo motivo dell’appello principale e, previa reiezione delle censure dell’appellante incidentale, respinge la domanda di primo grado, proposta per l’annullamento degli atti che hanno conferito l’incarico di direttore della «Galleria Estense di Modena», con compensazione delle spese dei due gradi del giudizio;

c) in parziale riforma della sentenza impugnata, accoglie il secondo ed il terzo motivo dell’appello principale e respinge le censure dell’appellante incidentale, con riferimento alla domanda di primo grado, proposta per l’annullamento degli atti che hanno conferito l’incarico di direttore del «Palazzo Ducale di Mantova»;

d) rimette alla cognizione dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, ai sensi dell’art. 99 del codice del processo amministrativo, le questioni ulteriori – processuali e sostanziali, come sintetizzate al § 66 – conseguenti all’esame del quarto motivo dell’appello del Ministero, unitamente a quelle concernenti le conseguenze della eventuale reiezione del medesimo quarto motivo e sul rilievo dello ius superveniens, rilevanti ai fini del decidere in via definitiva la domanda di annullamento degli atti del conferimento dell’incarico di direttore del «Palazzo Ducale di Mantova»;

e) rileva che rimangono fermi gli effetti della propria ordinanza cautelare 15 giugno 2017, n. 2471, limitatamente al conferimento del medesimo incarico di direttore;

f) rimette alla valutazione dell’Adunanza Plenaria se sussistano i presupposti per l’applicazione dell’art. 99, comma 4, del codice del processo amministrativo.

§ 67. Le spese dei due gradi di giudizio vanno compensate per intero quanto alla controversia relativa all’incarico di «direttore della Galleria Estense di Modena»; deciderà invece l’Adunanza plenaria quanto alla controversia relativa all’incarico di direttore del «Palazzo Ducale di Mantova».

 

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta), pronunciando sull'appello n. 3911/2017, così provvede:

- in accoglimento, per quanto di ragione, dell’appello e in riforma della sentenza impugnata, respinge la domanda, proposta con il ricorso di primo grado, concernente l’annullamento degli atti indicati in epigrafe, nella parte in cui essi hanno conferito l’incarico di «direttore della Galleria Estense di Modena»;

- in accoglimento, per quanto di ragione, dell’appello e in parziale riforma della sentenza impugnata, respinge - limitatamente ai motivi indicati in motivazione - la domanda, proposta con il ricorso di primo grado, concernente l’annullamento degli atti di cui in epigrafe nella parte in cui essi hanno conferito l’incarico di direttore del «Palazzo Ducale di Mantova»;

- rimette all’esame dell’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, ai sensi dell’art. 99 c.p.a., le questioni ulteriori indicate in motivazione, rilevanti ai fini del decidere sulla domanda di annullamento riguardante il conferimento dell’incarico di direttore del «Palazzo Ducale di Mantova»;

- dà atto che continua a produrre effetti, sino alla decisione definitiva, la misura cautelare disposta con la propria ordinanza 15 giugno 2017, n. 2471, limitatamente alla posizione del dott. Peter Assmann;

- rinvia al definitivo le spese del giudizio.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del giorno 26 ottobre 2017, con l'intervento dei magistrati:

Luigi Maruotti,           Presidente

Bernhard Lageder,     Consigliere

Vincenzo Lopilato,     Consigliere

Francesco Mele,         Consigliere

Francesco Gambato Spisani,  Consigliere, Estensore

                       

L'ESTENSORE                     IL PRESIDENTE

Francesco Gambato Spisani               Luigi Maruotti

                       

IL SEGRETARIO

 

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