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Consiglio di Stato, Sez. IV, 5/4/2018 n. 2122
Sulla rimessione all'Adunanza plenaria di alcune questioni sula tassatività delle ipotesi di annullamento con rinvio ex art. 105 c.p.a. della sentenza del Tar.

Sono rimesse all'Adunanza plenaria, ai sensi dell'art. 99, c. 1, c.p.a., anche al fine di prevenire contrasti di giurisprudenza, nonché di precisare la portata di alcuni arresti giurisprudenziali, le seguenti questioni:
a) se alle ipotesi di annullamento con rinvio di cui all'art. 105 c.p.a. debba attribuirsi portata tassativa ovvero natura di clausola generale suscettibile di essere riempita, nel contenuto, attraverso l'elaborazione giurisprudenziale;
a.1) nel primo caso, quali siano le ipotesi di annullamento con rinvio da intendersi come tassative;
a.2) nel secondo caso, quali siano i criteri che devono guidare il giudice nell'attività di interpretazione dei fatti processuali, onde qualificarli come cause di annullamento con rinvio;
b) se, alla luce della nuova nomenclatura contenuta nel vigente art. 105 c.p.a., l'erronea declaratoria di inammissibilità del ricorso per difetto di interesse debba (o possa) essere ricompresa nella categoria della lesione dei diritti della difesa, come perdita del (normativamente previsto) doppio grado di giudizio nel merito, con conseguente annullamento della sentenza con rinvio al primo giudice;
c) anche a prescindere da tale ultima soluzione, se ed entro quali limiti e secondo quali criteri possa riconoscersi al giudice di secondo grado il potere di sindacare il contenuto della motivazione dell'impugnata sentenza, al fine di riqualificare il (formale) dispositivo di declaratoria di inammissibilità per carenza di interesse in un (sostanziale) accertamento della violazione del principio di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato (art. 112 c.p.c.) o dell'obbligo di motivazione (artt. 74 e 88 c.p.a.), intesa - questa - come elemento essenziale della sentenza, rispetto all'oggetto del processo;
b.3) se dette ultime ipotesi costituiscano (o a quali condizioni possano costituire), rispettivamente, lesione dei diritti della difesa o ipotesi di nullità della sentenza, ai sensi dell'art. 105, c. 1, c.p.a.


Materia: giustizia amministrativa / processo
Pubblicato il 05/04/2018

N. 02122/2018REG.PROV.COLL.

N. 05533/2013 REG.RIC.

N. 08589/2013 REG.RIC.

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REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Quarta)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

Sul ricorso numero di registro generale 5533 del 2013, proposto dalla signora Anna Nascimbene, rappresentata e difesa dagli avvocati Roberto Damonte e Ludovico Ferdinando Villani, con domicilio eletto presso lo studio dell’avvocato Silvia Villani in Roma, via Asiago, 8;

contro

Comune di Rapallo, in persona del Sindaco p.t., rappresentato e difeso dagli avvocati Luigi Cocchi e Gabriele Pafundi, con domicilio eletto presso lo studio dell’avvocato Gabriele Pafundi in Roma, viale Giulio Cesare, 14/4; 
Città Metropolitana di Genova, in qualità di successore ex lege della Provincia di Genova, in persona del Sindaco metropolitano p.t., rappresentata e difesa dagli avvocati Gabriele Pafundi, Carlo Scaglia e Valentina Manzone, con domicilio eletto presso lo studio dell’avvocato Gabriele Pafundi in Roma, viale Giulio Cesare, 14/4; 

nei confronti

Regione Liguria, in persona del Presidente p.t., rappresentata e difesa dagli avvocati Michela Sommariva e Gabriele Pafundi, con domicilio eletto presso lo studio dell’avvocato Gabriele Pafundi in Roma, viale Giulio Cesare 14/4; 
Società Mediterranea delle Acque Spa, in persona del l.r.p.t., rappresentata e difesa dagli avvocati Giulio Bertone, Gabriele Pafundi e Daniela Anselmi, con domicilio eletto presso lo studio dell’avvocato Gabriele Pafundi in Roma, viale Giulio Cesare 14/4; 
Società Idro Tigullio Spa, in persona del l.r.p.t., rappresentata e difesa dagli avvocati Daniela Anselmi, Giulio Bertone e Gabriele Pafundi, con domicilio eletto presso lo studio dell’avvocato Gabriele Pafundi in Roma, viale Giulio Cesare 14/4; 
Società Ireti Spa (già Società Iren Acqua Gas spa), in persona del l.r.p.t., rappresentata e difesa dagli avvocati Gabriele Pafundi, Daniela Anselmi e Giulio Bertone, con domicilio eletto presso lo studio dell’avvocato Gabriele Pafundi in Roma, viale Giulio Cesare, 14/4; 
Soprintendenza per i beni architettonici e per il paesaggio della Liguria, Ministero per i beni e le attività culturali, Comando Provinciale dei Vigili del Fuoco di Genova, Ministero dell'interno, Agenzia del Demanio, Agenzia delle Dogane, Ufficio Circondariale Marittimo di S. Margherita Ligure, Capitaneria di Porto, in persona dei rispettivi legali rappresentanti p.t., rappresentati e difesi per legge dall'Avvocatura Generale dello Stato, domiciliata in Roma, via dei Portoghesi, 12; 
Aato della Provincia di Genova, Comune di Zoagli, Asl 4 Chiavarese, Agenzia regionale per la protezione dell'ambiente (A.r.p.a.l.), Società Acque Potabili Spa, Società Telecom Spa, Società Italgas, Enel Spa, Agenzia delle Dogane di Genova, Angelo Canepa, Silvia Soppa, Enzo Luppi, Luigi Abrescia e Anna Piccirillo, tutti non costituiti in giudizio;



Sul ricorso numero di registro generale 8589 del 2013, proposto dai signori Franca Ottonello, Pierluigi Ottonello, Angelo Gobbi, Elisa Maria Devoti, Alessia Bertuzzi, Bruno Giambarrasi, Marina Assereto, Armanda Bottazzi, Salvatore Pocorobba, Nicola Pocorobba, Gianna Carla Nerazio, Raffaella Brazzini, Giacomo Maggiolo, Maria Alessandrino, Vincenzo Buonanno, Francesco Guglielmo Buonanno, Fabrizia Gneis, Santina Cataudella, Salvatore Distaso, Rina Spagni, Maria Viacava, Angela Porta, Francesco Baldi, Renata Bice Marisa Ottonella, Maria Grazia Florio, Mauro Noberini, Beatrice Noberini, Edvige Masala, Giuliano Godani, Pietro Giovanni Torosani, Anna Corvi, Matteo Vanzini, Arlene Tanael, Rosalba Maria Merlino, Fenita Malatesta, Filippo Merlino, Piero Oneto, Nicoletta Arata, Roberto Travi, Roberto Venuti, Enrica Garibotto, Giancarlo Abeli, Agnese Noce, Dina Gottardi, Vanessa Di Malta, Sara Martina, Rosalia Pizzo, Angelo Pitarresi, Salvatore Pitarresi, Letizia Temini, Nice Panisi, Maria Angela Figari, Alfio Antonio Zanforlini, Giovanni Solari, Marco Di Mattei, Rosanna Benasso, Antonella Demattei, Luciana Macchiavello, Diego Pallavicini, Isola Assereto, Paola Malpeli, Salvatore Mantelli, Maria Mosca, Olga Macchiavello, Tiziana Rosso, Germana Dondero, Salvatore Soffietto, Bruna Rossato, Paolo Co', Gabriella Fattori, Patrizia Cioli, Angelo Brambilla, Mafalda Lertora, Daniela Colman, Maria Luisa Ardito, Alessandro Bonon, Massimo Giovanelli, Antonella Roncagliolo, Liliana Barlaro, Giobatta Tassara, Tamara Vigano', Susanna Beatrice Taverna, Kalam Abu, Marco Martini, Maria Elisabetta Arpinati, Franco Garibaldi, Ahlaya Chornohach, Cosmo Lucido, Salvatore Romeo, Maria Ratto, Caterina Valenti, Dalida Iannotta, William Cucco, Giorgio Appennini, Maria Camilla Bianchi, Debora Fraccaroli, Mauro Barra, Giovanni Lattanzio, Silvana Taietti, Sergio Vanzini, Paola Camerini, Daniele Romualdo Vigorelli, Maria Angela Fasani, Patrizia Vigorelli, Claudia Camboni, Rina Cortellazzi, Iris Manzo, Luisa Chichizola, Anna Maria Begagli, Giorgio Allegri, Everardo Amati, Placido Mariani, Luisa Roncagliolo, Virgilio Mariani, Giulia Fornaciari, Rosa Grande, Rita Palmas, Giancarlo Sacchetti, Alessandro Sacchetti, Vincenza Spatafora, Maria Baldi, Maria Era, Sergio Baldi, Antonella Mascardi, Erika Vanzini, Elisa Pelosin, Carlos Humberto Popoli, Pierluigi Biagioni, Klodian Zemblaku, Ugo Achille Sampietro, Viorica Bicazan, Daniele Malmusi, Mirella De Franceschi, Maria Protti, Giuseppina Drisaldi, Donatella Deferrari, Andrea Introini, Piergiosue' Guerini, Alberto Biffi e Roberto Volvera, tutti rappresentati e difesi dagli avvocati Daniele Granara e Federico Tedeschini, con domicilio eletto presso lo studio dell’avvocato Federico Tedeschini in Roma, largo Messico, 7;

contro

Comune di Rapallo, in persona del sindaco p.t., rappresentato e difeso dagli avvocati Luigi Cocchi e Gabriele Pafundi, con domicilio eletto presso lo studio dell’avvocato Gabriele Pafundi in Roma, viale Giulio Cesare, 14/4; 
Città metropolitana di Genova, in qualità di successore ex lege della Provincia di Genova, in persona del Sindaco metropolitano, rappresentata e difesa dagli avvocati Carlo Scaglia, Gabriele Pafundi e Valentina Manzone, con domicilio eletto presso lo studio dell’avvocato Gabriele Pafundi in Roma, viale Giulio Cesare, 14/4; 

nei confronti

Regione Liguria, in persona del Presidente p.t., rappresentata e difesa dagli avvocati Michela Sommariva e Gabriele Pafundi, con domicilio eletto presso lo studio dell’avvocato Gabriele Pafundi in Roma, viale Giulio Cesare, 14/4; 
Società Mediterranea delle Acque Spa, in persona del l.r.p.t., rappresentata e difesa dagli avvocati Giulio Bertone, Gabriele Pafundi e Daniela Anselmi, con domicilio eletto presso lo studio dell’avvocato Gabriele Pafundi in Roma, viale Giulio Cesare 14/4; 
Società Idro Tigullio Spa, in persona del l.r.p.t., rappresentata e difesa dagli avvocati Daniela Anselmi, Giulio Bertone e Gabriele Pafundi, con domicilio eletto presso lo studio dell’avvocato Gabriele Pafundi in Roma, viale Giulio Cesare 14/4; 
Società Ireti Spa (già Società Iren Acqua Gas spa), in persona del l.r.p.t., rappresentata e difesa dagli avvocati Gabriele Pafundi, Daniela Anselmi e Giulio Bertone, con domicilio eletto presso lo studio dell’avvocato Gabriele Pafundi in Roma, viale Giulio Cesare, 14/4; 
Soprintendenza per i beni architettonici e per il paesaggio della Liguria, Ministero per i beni e le attività culturali, Comando Provinciale dei Vigili del Fuoco di Genova, Ministero dell'interno, Agenzia del Demanio, Agenzia delle Dogane, Ufficio Circondariale Marittimo di S. Margherita Ligure, Capitaneria di Porto, in persona dei rispettivi legali rappresentanti p.t., rappresentati e difesi per legge dall'Avvocatura Generale dello Stato, domiciliata in Roma, via dei Portoghesi, 12; 
Aato della Provincia di Genova, Comune di Zoagli, Asl 4 Chiavarese, Agenzia regionale per la protezione dell'ambiente (A.r.p.a.l.), Società Acque Potabili Spa, Società Telecom Spa, Società Italgas, Enel Spa, Agenzia delle Dogane di Genova, Angelo Canepa, Silvia Soppa, Enzo Luppi, Luigi Abrescia e Anna Piccirillo, tutti non costituiti in giudizio;

per la riforma

della sentenza in forma semplificata del T.a.r. Liguria – Genova, Sezione I, n. 585 dell’8 aprile 2013, resa tra le parti, concernente localizzazione e realizzazione di impianto di depurazione per il trattamento primario e secondario delle acque reflue – risarcimento del danno.


Visti i ricorsi in appello e i relativi allegati;

Visti gli atti di costituzione in giudizio del Comune di Rapallo, della Città metropolitana di Genova (già Provincia di Genova), della Regione Liguria, della società Mediterranea delle Acque s.p.a., della società Idro Tigullio s.p.a., della società Ireti s.p.a. (già società Iren Acqua Gas s.p.a.), della Soprintendenza per i beni architettonici e per il paesaggio della Liguria, del Ministero per i beni e le attività culturali, del Comando provinciale dei Vigili del Fuoco di Genova, del Ministero dell'interno, dell’Agenzia del Demanio, dell’Agenzia delle Dogane, dell’Ufficio circondariale marittimo di S. Margherita Ligure, della Capitaneria di Porto del Provveditorato interregionale per le opere pubbliche, Lombardia e Liguria;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell'udienza pubblica del giorno 12 ottobre 2017 il consigliere Daniela Di Carlo e uditi per le parti gli avvocati Damonte, Pafundi e Granara e l'avvocato dello Stato Marchini;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.


FATTO e DIRITTO

1. La controversia riguarda l’impugnazione degli atti della serie procedimentale preordinata alla localizzazione e alla realizzazione, nel comune di Rapallo, in località Ronco, di un impianto per la depurazione e il trattamento primario e secondario delle acque reflue. L’impianto è destinato a sostituire quello, risalente al 1938, e limitato al solo trattamento primario dei reflui, localizzato alla via Betti, in pieno centro cittadino, divenuto oramai vetusto e non conforme rispetto alla disciplina di settore di cui al D.lgs. n. 152/2006 (che ha recepito la Direttiva 91/271/CEE) e alla normativa tecnica di cui all’Allegato IV della delibera del Consiglio dei Ministri 4 febbraio 1997.

1.1. Sotto l’incombenza della procedura di infrazione europea, che aveva imposto il limite del 31 dicembre 2015 per pervenire all’adeguamento dell’impianto, l’amministrazione comunale di Rapallo aveva, dapprima, deciso di edificare l’impianto di trattamento secondario accanto a quello primario già esistente alla via Betti (deliberazione n. 48 dell’11 febbraio 2010), salvo, poi, mutare di intendimento e optare per la collocazione del sito nella diversa località Ronco, area posta sulla sponda destra del Torrente Boate, a margine dei campi da golf e in corrispondenza degli uffici e degli impianti della società Acque Potabili, siti sulla sponda opposta.

2. Tale decisione è stata avversata da parte di molti residenti del luogo e di due associazioni di tutela ambientale, attraverso tre separati giudizi, e segnatamente:

2.1. Col giudizio n. 684 del 2011, i signori Ottonello + altri hanno impugnato:

a) con ricorso principale: la delibera di consiglio comunale n. 256 del 6 aprile 2011, recante approvazione di un ordine del giorno per la localizzazione dell’impianto di depurazione delle acque fognarie del comune di Rapallo, nonché ogni altro atto connesso o presupposto;

b) con primo atto di motivi aggiunti del 26 ottobre 2011: la delibera di consiglio comunale n. 275 del 20 luglio 2011, avente ad oggetto Completamento del depuratore delle acque reflue - Adozione della variante urbanistica e il preventivo assenso all’indizione della conferenza di servizi di per l’approvazione; la delibera di consiglio regionale n. 18/2011, recante Piano Territoriale di Coordinamento Paesistico (PTCP): Variante di salvaguardia della fascia costiera, nella parte in cui ha modificato da PU a ISMA l’area marginale posta a destra del Torrente Boate, esterna al perimetro del golf; nonché atti connessi e presupposti, tra cui in particolare il verbale di conferenza di servizi in seduta referente del 27 luglio 2011; i verbali delle riunioni tenutesi nelle date del 24.1.2011, 16.2.2011, 7.3.2011 e 14.3.2011; la nota prot. IN/2011/6768 del 21 marzo 2011 del dirigente del Settore Amministrazione Generale della Regione Liguria; la nota della ASL 4 di Chiavari prot. n. 21519 del 18 maggio 2011; la nota del comune di Rapallo prot. n. 0026310 del 4 giugno 2011;

c) con secondo atto di motivi aggiunti del 13 marzo 2012: il decreto del dirigente del Dipartimento Ambiente – Regione Liguria, n. 3931 del 30 dicembre 2011, recante verifica screening ex art. 10 della Legge regionale n. 38/1998. Progetto preliminare del depuratore di Rapallo. No VIA con prescrizioni; le delibere di consiglio comunale nn. 320, 321 e 322 del 22 febbraio 2012, relative alla acquisizione dell’area, all’accettazione delle prescrizioni regionali dettate dallo screning e alle controdeduzioni alle osservazioni dei privati; ogni altro atto connesso o presupposto;

d) con terzo atto di motivi aggiunti dell’11 maggio 2012: le determinazioni assunte dalla conferenza di servizi in seduta deliberante del 29 febbraio 2012 concernente approvazione del progetto di completamento dell’impianto; la deliberazione di consiglio comunale n. 322 del 22 febbraio 2012, avente ad oggetto completamento del depuratore delle acque reflue – esame delle osservazioni;

e) con quarto atto di motivi aggiunti del 5 ottobre 2012: la determinazione dirigenziale comunale n. 600 del 25 giugno 2012 , concernente l’area in località Ronco; impianto di depurazione con sistemazioni esterne; conferenza di servizi ai sensi degli artt. 59 della legge regionale n. 26/1997 per l’approvazione della variante parziale al vigente p.r.g. e 14 della legge n. 241/1990 per l’approvazione dell’opera pubblica e conclusione del procedimento; la determinazione dirigenziale comunale n. 664 del 12 luglio 2012, concernente conclusione del procedimento in relazione al progetto di completamento dell’impianto di depurazione sito alla via Betti; nonché ogni altro atto connesso o preparatorio.

2.2. Col giudizio n. 1107 del 2011, le associazioni ambientaliste W.W.F. e V.A.S. hanno impugnato, anch’esse:

a) con ricorso principale: la delibera di consiglio comunale n. 275 del 20 luglio 2011, avente ad oggetto Completamento del depuratore delle acque reflue - Adozione della variante urbanistica e il preventivo assenso all’indizione della conferenza di servizi di per l’approvazione; la delibera di consiglio regionale n. 18/2011, recante Piano Territoriale di Coordinamento Paesistico (PTCP): Variante di salvaguardia della fascia costiera, nella parte in cui ha modificato da PU a ISMA l’area marginale posta a destra del Torrente Boate, esterna al perimetro del golf; nonché atti connessi e presupposti, tra cui in particolare il verbale di conferenza di servizi in seduta referente del 27 luglio 2011; i verbali delle riunioni tenutesi nelle date del 24.1.2011, 16.2.2011, 7.3.2011 e 14.3.2011; la nota prot. IN/2011/6768 del 21 marzo 2011 del dirigente del Settore Amministrazione Generale della Regione Liguria; la nota della ASL 4 di Chiavari prot. n. 21519 del 18 maggio 2011; la nota del comune di Rapallo prot. n. 0026310 del 4 giugno 2011;

b) con primo atto di motivi aggiunti del 13 marzo 2012: il decreto del dirigente del Dipartimento Ambiente – Regione Liguria, n. 3931 del 30 dicembre 2011, recante verifica screening ex art. 10 della Legge regionale n. 38/1998. Progetto preliminare del depuratore di Rapallo. No VIA con prescrizioni; le delibere di consiglio comunale nn. 320, 321 e 322 del 22 febbraio 2012, relative alla acquisizione dell’area, all’accettazione delle prescrizioni regionali dettate dallo screning e alle controdeduzioni alle osservazioni dei privati; ogni altro atto connesso o presupposto;

c) con secondo atto di motivi aggiunti dell’11 maggio 2012: le determinazioni assunte dalla conferenza di servizi in seduta deliberante del 29 febbraio 2012 concernente approvazione del progetto di completamento dell’impianto; la deliberazione di consiglio comunale n. 322 del 22 febbraio 2012, avente ad oggetto completamento del depuratore delle acque reflue – esame delle osservazioni.

2.3. Col giudizio n. 1052 del 2012, la signora Anna Nascimbene – anch’essa residente in loco – ha gravato: 1) la determinazione dirigenziale comunale n. 600 del 25 giugno 2012, concernente l’area in località Ronco; impianto di depurazione con sistemazioni esterne; conferenza di servizi ai sensi degli artt. 59 della legge regionale n. 26/1997 per l’approvazione della variante parziale al vigente p.r.g. e 14 della legge n. 241/1990 per l’approvazione dell’opera pubblica e conclusione del procedimento; 2) la determinazione dirigenziale comunale n. 664 del 12 luglio 2012, concernente conclusione del procedimento in relazione al progetto di completamento dell’impianto di depurazione sito alla via Betti; 3) ogni altro atto connesso, presupposto o conseguente.

3. Il T.a.r. per la Liguria, Genova, Sezione I, con la sentenza resa in forma semplificata, n. 585 dell’8 aprile 2013, ha:

a) riunito i giudizi per ragioni di connessione soggettiva (parziale) e oggettiva;

b) dichiarato l’inammissibilità dei gravami per difetto di interesse, in ragione della natura endo-procedimentale e, dunque, non autonomamente impugnabile, di una parte degli atti impugnati e, per la restante parte di essi, per l’assenza dei necessari requisiti di attualità e concretezza dell’interesse azionato, trattandosi di approvazione di progetto preliminare di opera pubblica;

c) dichiarato, sempre in via preliminare, l’inammissibilità dell’intervento svolto dalla signora Anna Nascimbene, nell’ambito del giudizio n. 684/2011, per avere, la stessa, successivamente impugnato i medesimi atti facendo valere la (distinta) legittimazione al ricorso (nel giudizio n. 1052/2012);

d) compensato, integralmente tra le parti, le spese di lite.

4. La pronuncia è stata oggetto di due separate impugnazioni.

5. Col ricorso n. 5533/2013, la signora Anna Nascimbene, per quanto di interesse rispetto all’originario ricorso n. 1052/2012 dalla stessa instaurato, ha censurato la declaratoria di inammissibilità, affidandosi ad un unico, complesso, motivo di gravame: “Erroneità della sentenza per violazione e/o falsa applicazione dell'art. 74 del c.p.a. e dell'art. 93, comma 2, del D.lgs. n. 163/06, come modificato dal d.l. n. 1/2012 - Difetto di motivazione ed istruttoria - Difetto di presupposto. Travisamento di atti e fatti decisivi”.

5.1. Espone l’appellante di avere fornito la prova, fin dal primo grado del giudizio, contrariamente a quanto ritenuto dal primo giudice, della immediata lesività alle proprie situazioni giuridiche, derivante direttamente dall’approvazione del progetto preliminare del nuovo depuratore e consistente nell’allocazione del nuovo impianto in un sito precisamente individuato e posto ad una distanza considerevolmente ravvicinata rispetto alla propria abitazione, comunque inferiore alla distanza legale prescritta.

L’impugnata determinazione dirigenziale n. 600 del 25 giugno 2012 reca, infatti, testuale ed espressa previsione del contenuto di progetto definitivo, agli effetti edilizi e paesaggistici, dell’opera approvata allo stadio di progettazione preliminare, sicché – conclude l’appellante - l’aspetto specifico della localizzazione del sito e, dunque, della sua conformità ed esatta consistenza rispetto alla disciplina edilizia, urbanistica e paesaggistica, non può più essere oggetto di modifica né con il progetto definitivo né con quello esecutivo, cristallizzandosi tali aspetti già al momento della progettazione preliminare.

5.2. La stessa ha, pertanto, espressamente riproposto ai sensi dell’art. 101, comma 2 c.p.a., le doglianze di merito non esaminate in prime cure; reiterato l’istanza istruttoria di acquisizione documentale già dedotta nel primo grado; riproposto la domanda di condanna al risarcimento del danno o, in via subordinata, di condanna generica con riserva di quantificazione in separato giudizio.

5.3. Si sono costituiti in giudizio, con separate memorie di mero stile, insistendo per la declaratoria di irricevibilità, inammissibilità o infondatezza, nel merito, dell’avverso appello, i seguenti soggetti:

1) la Soprintendenza per i beni architettonici e paesaggistici della Liguria; il Ministero per i beni e le attività culturali; il Comando provinciale dei Vigili del Fuoco di Genova; il Ministero dell’Interno; l’Agenzia del Demanio; l’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli; l’Agenzia delle Dogane – Ufficio circondariale marittimo di S. Margherita Ligure e la Capitaneria di Porto di Genova;

2) il Comune di Rapallo;

3) la Provincia di Genova;

4) la Regione Liguria;

5) la società Idrotigullio s.p.a.;

6) la società Iren Acqua GAS s.p.a.;

7) la società Mediterranea Acque s.p.a.;

5.3.1. La Città metropolitana di Genova, in qualità di successore ex lege della Provincia di Genova, ha depositato ulteriore memoria in data 27.6.2017, per confermare le conclusioni già rassegnate nel precedente atto di costituzione in giudizio.

5.4. Le parti hanno ulteriormente insistito nelle rispettive tesi difensive mediante il deposito di memorie integrative e di replica.

6. Col ricorso n. 8589/2013, i signori Ottonello e altri, hanno censurato la declaratoria di inammissibilità per carenza di interesse articolando ben sette motivi di gravame, e segnatamente:

6.1. “Violazione dell’art. 35 del c.p.a. – Erroneità della sentenza per errata declaratoria di inammissibilità dei gravami aventi ad oggetto gli atti riguardanti la fase di progettazione preliminare”.

6.1.1. Analogamente a quanto già prospettato dall’appellante Nascimbene nell’altro giudizio, anch’essi sottolineano il contenuto definitivo, agli effetti edilizi e paesaggistici, della delibera dirigenziale n. 600/2012.

6.2. “Violazione dell’art. 35 del c.p.a. – Erroneità della sentenza per errata declaratoria di inammissibilità dei gravami aventi ad oggetto gli atti riguardanti l’approvazione delle varianti al p.r.g. del comune di Rapallo e al P.T.C.P.”.

6.2.1. Rilevano che il primo giudice, senza nemmeno precisare a quale variante di piano abbia voluto riferirsi (p.r.g. ovvero p.t.c.p.), ha del tutto omesso di esaminare censure proprie e autonome (e, dunque, immediatamente scrutinabili), avverso le predette determinazioni:

a) sotto il profilo della (il)legittimità dell’iter procedurale seguito;

b) sotto il profilo dell’assoluta (in)compatibilità urbanistica dell’area Ronco a ospitare la localizzazione di un impianto di depurazione, a prescindere dal progetto in concreto approvato;

c) sotto il profilo dell’obbligo di immediata impugnabilità delle varianti ai piani, secondo i principi generali in tema di impugnazioni, nell’ordinario termine decadenziale decorrente dal giorno del perfezionamento della pubblicazione, e cioè dall’ultimo giorno di deposito nella casa comunale.

6.3. “Violazione dell’art. 132 c.p.c. – Nullità e/o erroneità della sentenza per (assoluto) difetto di motivazione in ordine alla declaratoria di inammissibilità dei gravami aventi ad oggetti singoli atti”.

6.3.1. Assumono la nullità della sentenza gravata, resa in forma semplificata ai sensi dell’art. 74 c.p.a., perché assolutamente mancante di ogni riferimento, in punto di fatto o di diritto, idoneo a risolvere la controversia e a palesare le ragioni della ritenuta “manifesta” inammissibilità dei gravami. Al di là di limitati esempi - precisano – il primo giudice non ha distinto, nel vasto numero dei singoli atti impugnati, quelli endoprocedimentali da quelli non definitivi, sebbene le ragioni della decisione riposassero proprio sulla suddetta distinzione, e ha mancato di spiegare le ragioni per le quali le restanti censure sarebbero da ritenersi “generiche”.

6.4. “Erroneità della sentenza per errata declaratoria di inammissibilità dei gravami aventi ad oggetto singoli atti”.

6.4.1. Viene ribadita l’ammissibilità del gravame avverso i singoli atti – connessi, presupposti o conseguenti - sul rilievo della diretta e immediata impugnabilità dell’approvazione del progetto preliminare e delle varianti al p.r.g. e al p.t.c.p..

6.5. “Erroneità della sentenza per errata declaratoria di inammissibilità dei gravami aventi ad oggetto la contestata compatibilità ambientale e paesistica – Primo profilo”.

6.5.1. Si assume l’immediata impugnabilità del decreto dirigenziale n. 3931/2011, nella parte in cui ha escluso la sottoposizione a v.i.a. del progetto (e ciò indipendentemente dalla natura preliminare o definitiva dello stesso), giacché tale decisione, per un verso, è immediatamente lesiva degli interessi paesistico-ambientali, e, per un altro verso, rappresenta il presupposto indefettibile per il rilascio delle successive autorizzazioni edilizie.

6.6. “Erroneità della sentenza per errata declaratoria di inammissibilità dei gravami aventi ad oggetto la contestata compatibilità ambientale – Secondo profilo”.

6.6.1. Gli appellanti deducono una ulteriore ragione a sostegno dell’immediata impugnabilità del diniego di sottoporre a v.i.a. il progetto preliminare, consistente nell’impossibilità di dedurre, in seguito, tale vizio. Se è vero, infatti, che un progetto preliminare già sottoposto a v.i.a., non deve esservi ulteriormente sottoposto, a meno che in sede di approvazione del progetto definitivo non intervengano modifiche sostanziali, nell’ipotesi inversa – qui all’esame – di un progetto preliminare del tutto mancante di v.i.a., nessun vizio proprio potrebbe imputarsi avverso l’approvazione del progetto definitivo, per intrasferibilità - a quest’ultimo - di un motivo di censura riferibile solo al primo (cd. inoppugnabilità).

6.7. “Erroneità della sentenza per errata declaratoria di inammissibilità dei gravami aventi ad oggetto la contestata compatibilità ambientale e paesistica – Terzo profilo”.

6.7.1. Si sostiene l’assoluta erroneità della decisione per avere escluso l’immediata impugnabilità di un atto – il provvedimento provinciale recante autorizzazione paesistico-ambientale – ritenuto da sempre in dottrina e in giurisprudenza atto funzionalmente autonomo.

6.8. All’esito, gli appellanti hanno reiterato l’eccezione di difetto di legittimazione ad intervenire in capo all’associazione Legambiente - Sezione Liguria Onlus, in ragione della natura regionale dell’articolazione; riproposto, infine, nel merito, tutti i motivi di gravame non esaminati in prime cure.

6.9. Si sono costituiti in giudizio, con separate memorie di mero stile, insistendo per la declaratoria di irricevibilità, inammissibilità o infondatezza, nel merito, dell’avverso appello, le seguenti parti:

1) la Soprintendenza per i beni architettonici e paesaggistici della Liguria; l’Agenzia del Demanio; l’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli; il Provveditorato interregionale opere pubbliche Lombardia-Liguria, Genova;

2) il Comune di Rapallo;

3) la Provincia di Genova;

4) la Regione Liguria;

5) la società Idrotigullio s.p.a.;

6) la società Iren Acqua GAS s.p.a.;

7) la società Mediterranea Acque s.p.a.;

6.9.1. La città metropolitana di Genova, in qualità di successore ex lege della già provincia di Genova, ha depositato ulteriore memoria (27.6.2017) per confermare le conclusioni già rassegnate nel precedente atto di costituzione in giudizio.

6.10. Le parti hanno insistito nelle rispettive tesi difensive mediante il deposito di memorie integrative e di replica.

7. All’udienza pubblica del 12 ottobre 2017 le cause sono state discusse e trattenute dal Collegio in decisione.

8. Va preliminarmente disposta la riunione, ai sensi dell’art. 96, comma 1, c.p.a., del ricorso n. 8589/2013 a quello, previamente iscritto, n. 5533/2013, trattandosi di separate impugnazioni avverso la medesima sentenza.

9. In ordine logico-giuridico, va esaminata con priorità l’eccezione, sollevata dalle parti resistenti, di improcedibilità del giudizio di appello per sopravvenuta carenza di interesse alla decisione perché – si sostiene – medio tempore è stato approvato il progetto definitivo del depuratore con la determinazione comunale n. 680 del 10 luglio 2014, anch’essa impugnata dinanzi al T.a.r. ligure, con riproposizione, da parte degli odierni appellanti, nei confronti dei nuovi atti di approvazione progettuale, delle medesime censure spese avverso quelli oggetto dell’odierno gravame, nonché, con reiterazione dell’impugnazione, anche avverso questi ultimi, in quanto atti presupposti.

9.1. L’eccezione è destituita di fondamento.

9.1.1. Va premesso, in termini generali, che l’attività di progettazione relativa alla fattispecie controversa è regolata, ratione temporis, dalle previsioni contenute nell’art. 93, comma 4, del D.lgs. n. 163/2006. L’art. 256 di questo stesso decreto ha, infatti, disposto l’espressa abrogazione, con decorrenza 1 luglio 2006, ai sensi di quanto previsto dal successivo art. 257, della norma per l’innanzi vigente, contenuta all’art. 16, della legge n. 109/1994. Oggi, invece, la fattispecie trova la sua disciplina nell’art. 23 del D.lgs. 18 aprile 2016, n. 50, avendo quest’ultimo, all’art. 217, comma 1, lettera e), previsto l’espressa abrogazione dell’art. 93 cit..

9.1.2. In disparte il profilo dell’individuazione della norma temporalmente applicabile, è da osservare che la disciplina dell’attività di progettazione è rimasta, nella sostanza, pressoché immutata, giacché la stessa si articolava e, tuttora, si articola, sul piano della sequenza procedimentale, in tre successivi livelli di progressivo approfondimento tecnico: il progetto preliminare, il progetto definitivo e il progetto esecutivo.

9.1.3. Il sistema è congegnato dal legislatore in modo che le scelte operate nella fase precedente condizionino quelle della fase successiva, sotto i profili sia della legittimità che del merito. Il nesso procedimentale che avvince le progettazioni è, infatti, di natura funzionale, mirando a realizzare un approfondimento di tipo tecnico che assicuri:

a) la qualità dell'opera e la rispondenza alle finalità relative;

b) la conformità alle norme ambientali e urbanistiche;

c) il soddisfacimento dei requisiti essenziali, definiti dal quadro normativo nazionale e comunitario.

9.1.4. L’esistenza del nesso di presupposizione tra i livelli progettuali trova conferma anche nell’ultimo periodo del comma 2 del medesimo art. 93 cit., giacché è positivamente stabilito che “E' consentita altresì l'omissione di uno dei primi due livelli di progettazione purché il livello successivo contenga tutti gli elementi previsti per il livello omesso e siano garantiti i requisiti di cui al comma 1, lettere a), b) e c)”.

9.1.5. Ciò posto, è evidente allora che, qualora si dovessero rivelare fondati i gravami esperiti avverso l’approvazione del progetto preliminare, in virtù del descritto nesso procedimentale, si produrrebbero effetti caducanti a valle, sull’approvazione del progetto definitivo, venendo a mancare – sul piano logico giuridico – il livello progettuale presupposto che, solo, può consentire il perfezionamento della fattispecie.

9.1.6. Per giurisprudenza consolidata, nell’operare il distinguo fra invalidità ad effetto caducante e invalidità ad effetto viziante, occorre valutare “l'intensità del rapporto di consequenzialità, con riconoscimento dell'effetto caducante solo ove tale rapporto sia immediato, diretto e necessario, nel senso che l'atto successivo si ponga, nell'ambito della stessa sequenza procedimentale, come inevitabile conseguenza di quello anteriore, senza necessità di nuove ed ulteriori valutazioni di interessi” (Consiglio di Stato, sez. VI, 27 novembre 2012, n. 5986).

9.1.7. La fattispecie ricorre esemplarmente nel caso di specie, ove il livello di progettazione approvato, oggetto di impugnazione, contiene – in parte – gli effetti tipici del livello successivo progettuale, sicché ove, in ipotesi, venisse a cadere l’atto presupposto (l’approvazione del preliminare), cadrebbe necessariamente quello definitivo, privato di quei contenuti (gli effetti edilizi e paesaggistici) cristallizzati al livello progettuale precedente e non rinnovati, se non in senso meramente confermativo, nel successivo livello.

9.1.7.1. La circostanza è, peraltro, avvalorata dalla (ri)proposizione delle censure nel nuovo giudizio dinanzi al Tar, avverso gli atti della progettazione definitiva, le quali non fanno altro che reiterare quelle già spese avverso gli atti della progettazione preliminare, mentre – di converso – la riproposizione dell’impugnazione avverso questi ultimi, in quanto atti presupposti, appare esperita in modo meramente tuzioristico, per evitare di incorrere in decadenze di sorta.

9.1.8. Né la mancanza del livello progettuale potrebbe essere supplita nella sede giurisdizionale, essendo il sindacato di questo giudice limitato al vaglio di legittimità degli atti impugnati e circoscritto alle censure prospettate dai ricorrenti.

La valutazione della sufficienza e dell’idoneità, a norma dell’ultimo periodo del comma 2 dell’art. 93 cit., del secondo livello progettuale (quello definitivo), ad assorbire quello (preliminare), non svolto o annullato in sede giurisdizionale, spetta – infatti - alla sola pubblica amministrazione.

Ad una pronuncia giurisdizionale in tal senso osterebbe, in ogni caso, il disposto di cui all’art. 34, comma 2, c.p.a., essendo inibito al giudice di pronunciare con riferimento a poteri amministrativi non ancora esercitati.

9.1.9. Pertanto, contrariamente all’avviso manifestato dalle parti resistenti, sussiste il pieno interesse delle parti appellanti a vedere scrutinati gli appelli, anche in ragione delle importanti ricadute, sul piano processuale, avverso gli atti da ultimo impugnati in primo grado, per quanto appena esposto.

10. La seconda questione da affrontare concerne, invece, la correttezza dell’impugnata declaratoria di inammissibilità, per carenza di interesse, dei ricorsi introduttivi e dei motivi aggiunti.

10.1. La questione, comune ad entrambe le parti appellanti, coincide appieno per la parte in cui è contestata la natura immediatamente impugnabile della deliberazione comunale n. 600 del 25 giugno 2012, sicché possono scrutinarsi congiuntamente l’unico motivo di gravame proposto dall’appellante Nascimbene e il primo mezzo esperito dai signori Ottonello e altri.

10.1.1. Entrambe le parti assumono l’erroneità del ragionamento logico-giuridico seguito dal primo giudice, sul rilievo che esse, fin dal primo grado del giudizio, avrebbero puntualmente dato conto e integralmente soddisfatto l’onere della prova circa l’immediata lesività, rispetto alle proprie situazioni giuridiche, della scelta di allocare il nuovo impianto nei pressi delle proprie abitazioni, in palese violazione del limite legale (100 metri) prescritto nelle distanze tra le costruzioni. Tale allocazione - si rimarca - non sarebbe più suscettibile di alcuna modificazione nel successivo livello di approfondimento progettuale (quello definitivo), giacché la delibera di approvazione del progetto preliminare ha chiaramente e testualmente disposto che il progetto deve intendersi come definitivo agli effetti edilizi e paesaggistici.

11. Il motivo merita assoluto apprezzamento.

11.1. Costituisce ius receptum, nella giurisprudenza amministrativa, il principio secondo cui, nell'ambito della serie procedimentale degli atti di approvazione di un progetto per la realizzazione di un'opera pubblica, devono considerarsi impugnabili solo quegli atti che siano effettivamente dotati di lesività nei confronti dei cittadini incisi dall'attività della pubblica amministrazione.

11.2. Ciò rappresenta diretta e immediata applicazione della logica generale, che sorregge l’azione davanti al giudice amministrativo, la quale - similmente al processo civile – riposa su tre condizioni fondamentali:

a) il cd. titolo (o possibilità giuridica dell’azione);

b) la legitimatio ad causam (discendente dall’affermazione di colui che agisce/resiste in giudizio di essere titolare del rapporto controverso dal lato attivo o passivo).

c) l’interesse ad agire (che deve sussistere al momento della proposizione della domanda e perdurare, a pena di improcedibilità, per tutto il corso del giudizio e sino alla pronuncia della sentenza).

c) 11.3. Con riguardo alla progettazione dell’opera di pubblica utilità, la giurisprudenza amministrativa ha enucleato, in relazione ai casi di volta in volta sottoposti all’esame, dei principi generali volti ad esemplificare le ipotesi in cui detto interesse al ricorso certamente sussiste.

11.4. Si tratta, tipicamente, di tutte quelle ipotesi in cui è certa e immediatamente individuabile la lesione che il singolo lamenta nella propria sfera giuridica, e che possono, con un certo grado di approssimazione, così riassumersi:

a) approvazione del progetto definitivo dei lavori da realizzare;

b) adozione del decreto di occupazione temporanea e d’urgenza;

c) adozione del decreto di espropriazione.

11.5. Di seguito, in sintesi, le argomentazioni a sostegno (ex multis, Consiglio di Stato, sez. II, 2 settembre 2014, n. 5035).

11.5.1. In relazione alla fattispecie sub lettera a), perlomeno nelle ipotesi in cui la realizzazione dell’opera pubblica implica espropriazione di beni privati, il progetto definitivo contiene la dichiarazione di pubblica utilità, indifferibilità ed urgenza, sicché si imprime al bene privato quella particolare qualità (o utilità pubblica) che lo rende assoggettabile alla procedura espropriativa.

11.5.2. In relazione, invece, alla fattispecie sub lettera b), è la situazione di immediato spossessamento del bene in capo al privato che ne rende attuale e concreta la reazione.

11.5.3. Infine, in relazione alla fattispecie di cui alla lettera sub c), l’interesse ad agire origina dal mutamento, dal lato soggettivo, del titolo del diritto di proprietà, oggetto di trasferimento in favore della pubblica amministrazione ovvero del soggetto espropriante.

11.6. Lasciando in disparte il profilo concernente l’espropriazione per pubblica utilità, il quale pacificamente non rileva nel caso di specie, la validità dell’anzidetto principio di diritto – quantomeno con riguardo al contenuto della progettazione definitiva rispetto a quella preliminare – è assolutamente da condividersi e da ritenersi applicabile al caso all’esame.

11.7. È stato correttamente osservato (Consiglio di Stato, sez. II, 14 aprile 2011, n. 2367), che “Soltanto nella progettazione definitiva l'opera pubblica assume il carattere dell’immodificabilità, sicché le eventuali carenze di ordine istruttorio in cui fosse eventualmente incorsa l'amministrazione possono essere sanate fino all'approvazione del progetto definitivo, anche alla luce delle osservazioni presentate dai proprietari dei terreni interessati e ciò è confermato anche dal disposto dell'art. 16, comma 4, l. n. 109/1994, secondo il quale il progetto definitivo, e non anche quello preliminare, "contiene tutti gli elementi necessari ai fini del rilascio delle prescritte autorizzazioni ed approvazioni”.

11.8. L’avvenuta abrogazione della disposizione testé richiamata, come precisato al punto 9.1.1, non toglie validità alcuna al principio di diritto ricavabile dalla norma ivi contenuta, poi trasposta con sostanziale, analogo, contenuto, nell’art. 93, comma 4 del D.lgs. n. 163/2006, ratione temporis applicabile alla fattispecie all’esame.

11.9. Sulla stessa scia interpretativa si pone anche Consiglio di Stato, sez. IV, 22 giugno 2006, n. 3949, a cui ci si richiama, anche ai sensi del disposto di cui agli artt. 74, comma 1 e 88, comma 2, lett. d) del c.p.a., per i precedenti ivi citati (in particolare, sez. VI, 6 marzo 2002, n. 1371; sez. IV, 6 giugno 2001, n. 3033; sez. IV, 22 giugno 2000, n. 3557).

11.9.1. Quest’ultimo precedente, peraltro, è particolarmente significativo, perché oltre a ribadire il principio generale della (sola) impugnabilità del progetto definitivo (“Il progetto preliminare di un'opera pubblica non è di per sé un atto autonomamente impugnabile in quanto atto endoprocedimentale; con la conseguenza che solo il progetto definitivo e quello esecutivo sono impugnabili poiché in grado di ledere la posizione giuridica soggettiva del singolo privato”), enuclea, secondo un ragionamento condotto a contrario, le ipotesi in cui possono – invece - ravvisarsi eccezioni al medesimo.

11.9.2. Le uniche eccezioni – è precisato - si verificano allorquando:

a) l'atto endoprocedimentale determini l'arresto del procedimento;

b) l'atto conclusivo non abbia reale efficacia costituiva perché non esprime una ulteriore valutazione di interesse rispetto a quella cristallizzata nell'atto precedente.

11.10. Di ciò, peraltro, si era avveduto tempo addietro anche Consiglio di Stato, sez. IV, 6 giugno 2001, n. 3033, che, nel riconfermare l’orientamento classico della non immediata impugnabilità dell’approvazione del progetto preliminare, aveva fatto salva l’ipotesi in cui si fosse prodotta un’eventuale alterazione dell'iter procedimentale, tale da incidere immediatamente e direttamente nella sfera del privato (si tratta, sostanzialmente, dell’ipotesi sopra riportata alla lettera b).

11.11. Al lume delle considerazioni che precedono, deve ritenersi verificata, nel caso di specie, l’eccezionale anomalia procedimentale: il progetto preliminare ha assunto, contenutisticamente, delle connotazioni tali da essere – anche testualmente – qualificato come definitivo agli effetti edilizi e paesaggistici, con immediata lesione delle situazioni giuridiche dei singoli quanto alla consistenza e alla collocazione edilizia e paesaggistica dell’impianto.

11.12. Pertanto, in un caso del genere, ben avrebbe dovuto (e potuto), il primo giudice, ritenere il gravame ammissibile sotto il profilo della (astratta) sussistenza dell’interesse a ricorrere e procedere allo scrutinio, nel merito, delle censure dedotte, onde verificare (in concreto) l’effettiva ricorrenza dei lamentati vizi di (il)legittimità sul piano edilizio e paesaggistico.

12. L’impugnazione n. 8589/2013 contiene, come già anticipato, oltre all’anzidetto motivo, numerose altre censure.

12.1. Col secondo motivo, in particolare, si espongono delle argomentazioni che puntano a dimostrare l’erroneità del percorso logico-giuridico, seguito dal primo giudice, con riferimento, altresì, all’impugnazione delle varianti al p.r.g. e al p.t.c.p..

12.1.1. Anche tale motivo è fondato.

12.1.2. Il primo giudice non si è avveduto che i ricorrenti hanno speso, nei confronti delle varianti urbanistiche (al piano regolatore comunale e al piano territoriale di coordinamento) censure proprie e autonome (e non già derivate), sotto plurimi profili:

a) illegittimità dell’iter procedurale seguito;

b) assoluta incompatibilità urbanistica dell’area Ronco ad ospitare la localizzazione di un impianto di depurazione, a prescindere dalla natura preliminare o definitiva del progetto approvato;

c) immediata impugnabilità delle varianti ai piani, secondo i principi generali, nell’ordinario termine decadenziale decorrente dal giorno del perfezionamento della pubblicazione.

12.1.3. Si tratta, all’evidenza, di censure che avrebbero dovuto – secondo i principi generali - essere immediatamente esaminate e che, anzi, laddove spese successivamente, avverso la progettazione definitiva, sarebbero potute facilmente, quanto ragionevolmente, incorrere in una declaratoria di inammissibilità per tardività: la natura diretta della lesione nella sfera giuridica soggettiva dei privati deriva, infatti, dall’approvazione delle varianti ai piani e risulta ulteriormente aggravata dalla circostanza che il progetto preliminare è da intendersi, definitivo, agli effetti edilizi e paesaggistici.

12.2. Meritano, pure, accoglimento, il terzo e il quarto motivo, con cui gli appellanti censurano la correttezza della pronuncia di primo grado nella parte in cui ha del tutto omesso, non dandone conto nella motivazione, delle ragioni a sostegno della declaratoria di inammissibilità per difetto di interesse nei confronti degli atti qualificati endoprocedimentali.

12.2.1. Dalla piana lettura della sentenza impugnata, infatti, non è dato evincere a quali atti si sia voluto fare riferimento, giacché – se si eccettua qualche esemplificazione – tra gli innumerevoli singoli atti impugnati, nonostante la petizione di principio, non è operato alcun puntuale distinguo tra quelli autonomamente impugnabili, ma carenti di interesse concreto e attuale all’impugnazione, e quelli, in effetti, carenti di interesse perché di natura soltanto endoprocedimentale, e dunque non autonomamente impugnabili.

12.3. Pure fondati sono i rilievi dedotti col quinto, sesto e settimo motivo di appello, con i quali si censura la declaratoria di inammissibilità per difetto di interesse finanche avverso la decisione dell’amministrazione di non sottoporre a v.i.a. il progetto, nonostante la sua definitività agli effetti edilizi e paesaggistici.

12.3.1. È consolidato, nella giurisprudenza amministrativa, il principio secondo cui la valutazione di impatto ambientale costituisce atto immediatamente impugnabile, sia nell'ipotesi in cui essa si concluda con esito negativo, sia che la medesima abbia un epilogo positivo (Consiglio di Stato, sez. IV, 13 settembre 2017, n. 4327).

Analoga conclusione deve affermarsi nell’ipotesi, ricorrente nel caso all’esame, in cui l’amministrazione abbia, invece, ritenuto di non sottoporre a v.i.a. un progetto preliminare che, tuttavia, è definitivo quanto agli effetti edilizi e paesaggistici. In questo caso, l’interesse all’impugnazione da parte dei soggetti interessati (residenti in loco e associazioni ambientaliste) è immediato e diretto, potendo (e dovendo), il vizio, a pena di inoppugnabilità, essere necessariamente speso nei confronti di tale atto (la determina di approvazione del progetto preliminare) e non già nei confronti del successivo livello di progettazione definitiva (Consiglio di Stato sez. IV, 9 gennaio 2014 n. 36).

13. Per le considerazioni che precedono va, pertanto, disposta la riforma della sentenza gravata nella parte in cui ha dichiarato l’inammissibilità, per difetto di interesse, dei ricorsi introduttivi del giudizio e dei motivi aggiunti.

14. A questo punto si tratta di valutare quali debbano essere le conseguenze di siffatta pronuncia.

15. Le ragioni della rimessione alla Plenaria.

L’oggetto della rimessione all’Adunanza plenaria riguarda le conseguenze sul piano processuale, e in relazione al disposto dell’articolo 105 c.p.a., dell’erronea declaratoria di inammissibilità del ricorso da parte del primo giudice.

Tale questione – come si vedrà - concerne un profilo di carattere generale, ma presenta aspetti di carattere particolare, specificamente rilevanti nella controversia in esame, in relazione ai casi in cui un’erronea pronuncia in rito da parte del primo giudice, idonea a definire il giudizio senza pervenire al merito, possa dar luogo a un vizio tale da imporre la rimessione della causa al tribunale amministrativo precludendo la (mera) riforma della sentenza da parte del giudice d’appello.

Va, infatti, al riguardo preliminarmente osservato – e fatti salvi gli ulteriori approfondimenti che seguono - che, a differenza del codice di procedura civile, in cui le ipotesi di rimessione al primo giudice sono non solo tassative ma anche ben definite (art. 354 c.p.c.), l’articolo 105 c.p.a., nell’enucleare le cause di rimessione al primo giudice, della cui tassatività non pare possa dubitarsi (significativo al riguardo l’uso dell’avverbio “soltanto”), utilizza una tecnica di individuazione dei casi di rinvio fondata (in parte) su clausole “aperte” che inevitabilmente il giudice è chiamato a definire sul piano dei contenuti concreti. E tale identificazione, d’altra parte, deve poter rivestire i caratteri di sufficiente chiarezza, idonei a evitare, sul piano giurisprudenziale, una incertezza e una imprevedibilità degli esiti che non paiono accettabili soprattutto in materia processuale.

16. I profili problematici sottesi sono riferibili a tre ordini di riflessioni, che sottintendono altrettante questioni:

a) il rapporto tra l’erronea declaratoria di inammissibilità del ricorso e la possibile lesione dei diritti della difesa, sub specie di privazione delle parti del doppio grado di giudizio, nel merito;

b) il rapporto tra l’erronea declaratoria di inammissibilità del ricorso e la possibile violazione del principio di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato;

c) il rapporto tra l’erronea declaratoria di inammissibilità del ricorso e la possibile violazione dell’obbligo di motivazione della sentenza.

16.1. La prima delle anzidette questioni (il rapporto tra l’erronea declaratoria di inammissibilità del ricorso e la possibile lesione dei diritti della difesa, sub specie di privazione delle parti del doppio grado di giudizio, nel merito) prescinde, in qualche misura, dal contenuto sostanziale della sentenza impugnata e si colloca su un piano generale e astratto, per così dire, di politica processuale, che peraltro impone, per le imprescindibili esigenze di prevedibilità cui si è fatto cenno, soluzioni omogenee e chiare.

Il dubbio che si pone al Collegio è se, nel trapasso dal previgente art. 35 della legge Tar all’attuale art. 105 c.p.a., gli approdi interpretativi segnati da questo Supremo Consesso, in tema di individuazione (e distinzione) delle ipotesi che danno luogo a mera riforma della sentenza impugnata e quelle che implicano annullamento della sentenza con rinvio al primo giudice, possano, diversamente rispetto al passato, essere riveduti (e ampliati) al fine di annoverare, in questo secondo ordine di effetti, pure le ipotesi di erronea declaratoria di inammissibilità, irricevibilità o decadenza del ricorso pronunciate in primo grado.

La riflessione va condotta con estrema cautela, tenendo conto sia del dato normativo sia della ratioiuris che lo stesso esprime, ossia il raggiungimento di un difficile punto di sintesi tra esigenze e principi differenti: per un verso, il principio, peraltro non assoluto e nemmeno costituzionalizzato, del doppio grado di giurisdizione di merito; per altro verso, il principio della ragionevole durata del giudizio e dell’economicità dei mezzi di impugnazione.

Si reputa utile, al riguardo, un confronto, sul piano del dato normativo, col sistema processuale civile vigente e col sistema di giustizia amministrativa previgente.

Secondo la previsione dell’art. 354 c.p.c., il giudice di appello civile può rimettere la causa al primo giudice solo se:

a) dichiari nulla la notificazione della citazione introduttiva;

b) riconosca che nel giudizio di primo grado doveva essere integrato il contraddittorio o non doveva essere estromessa una parte;

c) dichiari la nullità della sentenza di primo grado a norma dell’art. 161, 2° comma, c.p.c. e, cioè, per mancanza della sottoscrizione del giudice.

Ai sensi dell’art. 35, della l. n. 1034 del 1971, invece, il rinvio al Tar era consentito solo se il Consiglio di Stato avesse accolto il ricorso:

a) per difetto di procedura o per vizio di forma della decisione di primo grado;

b) contro la sentenza con la quale il tribunale amministrativo regionale avesse dichiarato la propria incompetenza.

In ogni altro caso – era precisato testualmente - il Consiglio di Stato decideva sulla controversia.

La previsione era stata estesa, in via pretoria, al caso di accoglimento del ricorso avverso la sentenza che avesse declinato la giurisdizione (Consiglio di Stato, Ad. plen., 8 novembre1996, n. 23).

È interessante osservare che, già sotto il previgente sistema di giustizia amministrativa, il diritto pretorio, culminato nella storica pronuncia dell’Adunanza plenaria (sentenza 27 ottobre 1987, n. 24), nel definire il rapporto tra le norme speciali del processo amministrativo e l’applicazione analogica di quelle specifiche e tassative previste per il processo civile, aveva messo in risalto la diversità della tecnica legislativa, collegata alla diversità strutturale dei due processi, e aveva affermato la natura aperta e di clausola generale della formula prevista per il giudizio amministrativo.

Il paragone con l’art. 354 c.p.c., dunque, era reputato legittimo nel quadro di un’interpretazione armonica e coordinata dell’ordinamento giuridico, ma non poteva essere rigido e meccanico.

In primo luogo, aveva osservato la Plenaria - anticipando, nella sostanza, il contenuto dell’attuale art. 39 c.p.a. – l’applicazione analogica delle norme della procedura civile, nei limiti in cui lo si voglia ritenere ammissibile, non opera quando nel sistema di giustizia amministrativa si rinviene una norma espressa. In secondo luogo, proprio la tecnica legislativa utilizzata, basata sull’utilizzo di una clausola generale e aperta, idonea a essere riempita di contenuto ad opera dell’interprete (il giudice di secondo grado), legittimava la possibilità di riconoscere, in via pretoria, ulteriori ipotesi (non nominate all’art. 354 cp.c.) di annullamento con rinvio, classificandole sub specie di difetto di procedura o di vizio di forma della decisione di primo grado.

Tradizionalmente, tali ipotesi hanno riguardato la mancata integrazione del contraddittorio (Consiglio di Stato, ad. plen. 17 ottobre1994, n. 13; Id., Sezione VI, 20 aprile 2000, n. 2459; Id., Sezione VI, 30 dicembre 2005, n. 7586; Id., Sezione VI, 25 febbraio 2003, n. 1035), la violazione del diritto di difesa di una delle parti, la mancata concessione di termine a difesa (Consiglio di Stato, ad. plen., 27 ottobre 1987, n. 24; Id., Sezione IV, 14 febbraio 2002, n. 893), la mancata comunicazione della data di udienza (Consiglio di Stato, Sezione VI, 16 gennaio 2006, n. 76; Id., Sezione IV, 12 gennaio 1999, n. 15), la violazione di termini a difesa (Consiglio di Stato, Sezione VI, 8 aprile 2002, n. 1907), l’illegittima fissazione dell’udienza nel periodo feriale (Consiglio di Stato, Sezione V, 3 giugno 1996, n. 625), la mancata concessione dell’errore scusabile (Consiglio di Stato, Sezione V, 25 novembre 1998, n. 1713; Id., Sezione V, 24 maggio 2004, n. 3358; Id., Sezione V, 1 marzo 2000, n. 1069), l’illegittima costituzione del collegio giudicante (Consiglio di Stato, ad. plen., 19 luglio 1982, n. 13), i vizi della sottoscrizione (Consiglio di Stato, Sezione IV, 6 marzo 1995, n. 157; C.G.R.S., 11 giugno 2008, n. 519; Consiglio di Stato, Sezione IV, 27 ottobre 1988, n. 832; Id., Sezione IV, 2 ottobre 2006, n. 5742).

Peraltro, tra queste ipotesi - è indiscusso - mai si è creduto di includere l’erronea declaratoria di inammissibilità, irricevibilità o decadenza del ricorso. Si riteneva, infatti, che siffatta pronuncia, benché idonea ad arrestare in punto di rito il processo, consumasse irreversibilmente quel grado di giudizio e comportasse, allo stesso tempo, la ritenzione della causa da parte del giudice di secondo grado per la definizione del merito, scrutinandosi solo in quel momento, e per la prima volta, le censure proposte.

La materia è, oggi, parzialmente trasfusa nell’art. 105 c.p.a., che al primo comma dispone: “Il Consiglio di Stato rimette la causa al giudice di primo grado soltanto se è mancato il contraddittorio, oppure è stato leso il diritto di difesa di una delle parti, ovvero dichiara la nullità della sentenza, o riforma la sentenza o l'ordinanza che ha declinato la giurisdizione o ha pronunciato sulla competenza o ha dichiarato l'estinzione o la perenzione del giudizio”.

L’art. 105 c.p.a., rispetto alla norma previgente, specifica meglio i casi di annullamento con rinvio (mancanza del contraddittorio, lesione del diritto di difesa e nullità della sentenza) e codifica casi prima dubbi (l’erronea dichiarazione di estinzione o perenzione del giudizio) o nati dall’interpretazione pretoria (l’erronea declinatoria della giurisdizione).

La nuova casistica legislativa si avvicina alla tipizzazione propria del rito civile, segnando un sensibile avvicinamento del sistema processuale amministrativo a quello civile.

Tuttavia, nella sostanza, essa continua a discostarsene profondamente, attesa la maggiore ampiezza contenutistica delle ipotesi di annullamento con rinvio e le perduranti genericità e astrattezza – nonostante la formale tipicità - delle clausole utilizzate, le quali favoriscono un grado di elasticità interpretativa non comparabile con la tassatività dell’elenco contenuto nell’art. 354 c.p.c., così consentendo una maggiore estensione delle ipotesi di rinvio al primo giudice. Esemplare, in tal senso, è la categoria della nullità della sentenza, introdotta senza ulteriore specificazione, laddove l’art. 354, comma 1, c.p.c. specifica, invece, che deve trattarsi di nullità ai sensi dell’art. 161, comma 2, c.p.c..

Sicché – occorre concludere - pure il vigente art. 105 c.p.a. non supera la vecchia lettura giurisprudenziale dell’art. 35 della legge Tar, in senso specialistico e autonomistico rispetto all’art. 354 c.p.c..

Resta da verificare, quindi, quanto dell’art. 35 della legge Tar sia sopravvissuto (o trasfuso) nel nuovo art. 105 c.p.a. e se, allo stato, siano predicabili nuove ipotesi di annullamento con rinvio al primo giudice.

Principiando dal dato giurisprudenziale, l’art. 105 c.p.a. è stato applicato nei seguenti casi:

a) mancata evocazione, nel giudizio di primo grado, di tutte le parti necessarie (ex multis, Cons. Stato, sez. IV, 7 dicembre 2015, n. 5570; Id., 1 settembre 2015, n. 4092; Consiglio di Stato, sez. IV, 22 dicembre 2014, n. 6270; Consiglio di Stato, sez. IV 2 luglio 2014, n. 3304; Cons. giust. amm. sic. 14 ottobre 2014, n. 566; Cons. Stato, sez. VI, 18 aprile 2013, n. 2139; sez. IV 10 dicembre 2010, n. 8724; nel senso, invece, della non necessità di integrare il contraddittorio quando il ricorso risulti, ai sensi dell’art. 49, comma 2, c.p.a., “manifestamente irricevibile, inammissibile, improcedibile o infondato”, v. Consiglio di Stato sez. IV, 1 giugno 2016, n. 2316; Cons. giust. amm. sic. 17 giugno 2016, n. 172; Cons. Stato, sez. IV, 22 gennaio 2013, n. 370; Cons. Stato, sez. III, 27 maggio 2013, n. 2893);

b) decisione della controversia sulla base di una questione rilevata d’ufficio, senza averla sottoposta prima alle parti ai sensi dell’art. 73 cod. proc. amm. (ex multis, Consiglio di Stato, sez. VI, 19 giugno 2017, n. 2974; Consiglio di Stato, sez. VI, 14 giugno 2017, n. 2921; Consiglio di Stato, sez. IV, 8 febbraio 2016 n. 478; Consiglio di Stato, sez. IV, 26 agosto 2015, n. 3992; Cons. Stato, sez. III, 19 marzo 2015, n. 1438; Id., sez. V, 27 agosto 2014, n. 4383; Id., 2 maggio 2013, n. 2402; Id., sez. IV, 18 aprile 2013, n. 2175; Id., sez. V, 26 luglio 2012, n. 4251; Cons. giust. amm. sic. 30 gennaio 2012, n. 85; Cons. Stato, sez. V, 8 marzo 2011, n. 1462; Cons. Stato, sez. III, 25 febbraio 2013, n. 1127;

c) omissione della comunicazione dell’avviso d’udienza ai difensori (Consiglio di Stato sez. V, 10 settembre 2014 n. 4616; Consiglio di Stato sez. V, 28 luglio 2014 n. 4019; Consiglio di Stato sez. IV 12 maggio 2014 n. 2416; Cons. Stato, sez. V, 27 marzo 2013, n. 1831; Id., sez. III 4 marzo 2013, n. 1264);

d) decisione del ricorso con sentenza in forma semplificata ai sensi dell’art. 60 c.p.a. senza che le parti fossero state previamente informate della possibilità che il collegio provvedesse in tal senso (Cons. Stato, sez. VI, 9 novembre 2010, n. 7982);

e) decisione del ricorso con sentenza in forma semplificata ai sensi dell’art. 60 cod. proc. amm. intervenuta nonostante che la parte avesse rinunciato all’istanza cautelare (Cons. Stato, sez. IV, 5 giugno 2012, n. 3317);

f) decisione del ricorso con sentenza in forma semplificata ai sensi dell’art. 60 cod. proc. amm., senza che fossero trascorsi venti giorni dalla notifica del ricorso, computato il periodo della sospensione feriale (Cons. Stato, sez. VI, 25 novembre 2013, n. 5601);

g) sentenza pronunciata senza che fosse dichiarata l’interruzione nonostante la morte del difensore (Cons. giust. amm. sic. 10 giugno 2011, n. 409);

h) sentenza che ha deciso un ricorso diverso da quello riportato, per errore di trascrizione, nel testo della pronuncia (Cons. Stato, sez. III, 2 settembre 2014, n. 4457);

i) sentenza non sottoscritta dal presidente del collegio (Cons. Stato, sez. IV, 24 ottobre 2012, n. 5441);

l) sentenza pronunciata dopo una cancellazione da ruolo e in assenza di un atto d’impulso della parte (Cons. Stato, sez. V, 7 maggio 2014, n. 2344);

m) sentenza pronunciata in seguito ad un errore nella identificazione del rito applicabile che abbia inciso sulle possibilità di difesa delle parti (Cons. giust. amm. sic. 14 marzo 2014, n. 135).

Alcune pronunce si sono contraddistinte per maggior larghezza nella identificazione delle ipotesi di rinvio:

a) omessa considerazione di una memoria difensiva (Cons. Stato, sez. VI, 20 febbraio 2014, n. 841);

b) carenza di motivazione (Cons. Stato, sez. VI, 4 ottobre 2013, n. 4914; nel senso della distinzione rispetto all’errore materiale, Consiglio di Stato, Sez. IV, 12 maggio 2014 n. 2416; Consiglio di Stato, sez. V, 28 luglio 2014, n. 401; Consiglio di Stato, sez. V, 9 settembre 2011, n. 5069);

c) totale omessa pronuncia (ante codice del processo, Consiglio di Stato, n. 1781/2008; n. 7235/2009; in seguito, Consiglio di Stato sez. IV 25 novembre 2013 n. 5595; Consiglio di Stato sez. IV, 31 luglio 2017 n. 3809);

d) insanabile contraddittorietà tra motivazione e dispositivo (Cons. Stato, Sez. IV, 12 maggio 2014 n. 2416; Consiglio di Stato sez. VI, 9 aprile 2009 n. 2190).

È stato, invece, sempre escluso, che il Consiglio di Stato dovesse procedere all’annullamento con rinvio:

a) nel caso di omesso esame di singole censure: Cons. Stato, sez. VI, 11 luglio 2016, n. 3047; sez. IV, 9 febbraio 2016, n. 846; sez. V, 27 gennaio 2016, n. 279; sez. IV, 27 gennaio 2015, n. 376; sez. IV, 3 luglio 2014, n. 3346);

b) nel caso di erronea dichiarazione di irricevibilità, inammissibilità o decadenza del ricorso: Cons. Stato, sez. IV, 20 aprile 2016, n. 1558; sez. III, 7 dicembre 2011, n. 6453; sez. VI, 23 febbraio 2011, n. 1127;

c) nel caso di omessa statuizione del giudice sulla domanda di condanna della parte soccombente alla rifusione delle spese processuali: Cons. Stato, sez. IV, 16 dicembre 2011, n. 6626.

Tutto ciò premesso e considerato, ci si domanda se l’anzidetta ipotesi sub b), alla luce del nuovo art. 105 c.p.a., possa legittimare una diversa considerazione, nel senso di sussumere anche detta fattispecie nella categoria della lesione del diritto di difesa.

Sul piano sostanziale, infatti, è innegabile che l’erronea pronuncia di primo grado, dichiarativa dell’inammissibilità del ricorso per difetto di interesse, ha impedito l’esame nel merito della domanda, ledendo il diritto delle parti, in primo luogo delle parti ricorrenti, ad una decisione, appunto, nel merito.

Sotto la vigenza dell’art. 35 legge Tar, la ratio iuris della disposizione riposava sulla distinzione, testuale, tra l’errore di giudizio (che concerneva il contenuto della decisione) e l’errore di procedura o di forma (che concerneva, invece, il rispetto di regole procedurali o formali cd. sostanziali).

Solo nel primo caso veniva consentito al giudice di appello di entrare nel merito, e per la prima volta, della controversia, ritenendosi prevalenti le esigenze di sollecita definizione della lite rispetto alla regressione della stessa al primo grado. In fondo – si sosteneva – il primo giudice non è incorso in violazioni procedurali o formali tali da giustificare una rinnovazione integrale del procedimento e una restituzione delle parti nella medesima condizione processuale di partenza, bensì ha errato, in punto di diritto, su una parte della decisione a lui demandata (il controllo di una condizione dell’azione), sulla quale ha avuto modo di esplicarsi appieno il contraddittorio tra le parti e il giudice.

Pertanto, l’errore di giudizio si espandeva tutte le volte che l’effetto devolutivo dell’appello consentiva di porre rimedio al vizio dell’attività giurisdizionale svolta in primo grado.

Di converso, nel secondo caso, la regressione del giudizio al primo grado si configurava come sanzione necessaria e proporzionata per colpire la violazione di regole formali o procedurali essenziali per il corretto dispiegarsi del procedimento, non emendabile neppure in ragione della superiorità del grado o della capacità rinnovatoria e sostitutiva del gravame. Mutuando la nomenclatura propria della dottrina civilistica, si potrebbe parlare di forma-contenuto, per rappresentare in modo emblematico e sintetico tutte quelle situazioni in cui il rispetto delle forme e delle regole procedurali non fosse fine a se stesso, ma rappresentasse, al contrario, condizione imprescindibile di garanzia sostanziale di parità delle parti nei rapporti tra di esse e tra di esse e il giudice, al fine di attuare il giusto processo.

Sicché, anche da un punto di vista semantico, si era indotti a negare efficacia rimettente, “all’indietro”, all’erronea declaratoria di irricevibilità/inammissibilità del ricorso: per un verso, infatti, anche concettualmente era difficile catalogare lo stesso fatto, allo stesso tempo, sia come errore di giudizio (il che, sostanzialmente è), che come violazione procedurale (che, invece, sostanzialmente non è); per altro verso, invece, pur volendo compiere uno sforzo esegetico, finanche l’interpretazione analogica doveva cedere il passo di fronte alla non estensibilità di una disciplina (l’annullamento con rinvio) oltre la soglia della somiglianza coi casi ivi contemplati (regole procedurali inderogabili).

E certamente – è pacifico - il principio del doppio grado di giudizio non rappresenta una regola procedurale inderogabile, ben potendo lo stesso essere compresso in favore del principio di ragionevole durata del processo.

Nell’attuale sistema, invece, scomparso ogni riferimento espresso al vizio di procedura o di forma, si menziona – accanto alla violazione del contraddittorio e alla nullità della sentenza - la violazione del diritto di difesa.

Detta categoria è – anche concettualmente – più ampia rispetto a quella del vizio formale o procedurale, e astrattamente idonea a ricomprendere nel suo campo semantico anche quegli errori di giudizio che hanno sostanzialmente privato le parti (e in particolare il ricorrente) di un grado di giudizio utile all’esercizio del diritto di difesa, così impedendo il pieno esplicarsi del principio del cd. doppio grado di merito. Siffatto principio – va doverosamente osservato – è privo di copertura di rango costituzionale, ma è comunque espressamente previsto dalla norma di legge ordinaria e, in tal modo, tende ad implementare, contenutisticamente, il diritto di difesa), .

Pertanto, ben potrebbe opinarsi che, data l’estrema ampiezza della vigente nomenclatura (diritti della difesa), mentre tutti i casi un tempo qualificabili in termini di vizio procedurale potrebbero, oggi, pacificamente essere sussunti sotto la nuova categoria, viceversa, i casi oggi contemplabili (in senso, questa volta sì, più estensivo) sotto la nozione di “diritti della difesa”, non avrebbero potuto esserlo, all’opposto, sotto la previgente disciplina, ostandovi il dato letterale.

In via interpretativa, potrebbe militare a supporto dell’opzione interpretativa favorevole all’ampliamento delle ipotesi di annullamento con rinvio, pure la circostanza dell’espressa riconduzione, nell’ambito di tali fattispecie, di casi che in passato erano controversi, come l’erronea declaratoria dell’estinzione o della perenzione del giudizio.

Le ipotesi che danno luogo all’estinzione o alla perenzione del giudizio sono identificate dall’art. 35 c.p.a., il quale distingue, nell’ambito delle pronunce di rito, le decisioni che dichiarano irricevibile, inammissibile o improcedibile il ricorso (comma 1), da quelle che dichiarano l’estinzione del giudizio per omessa prosecuzione o riassunzione nel termine perentorio fissato dalla legge o dal giudice, per perenzione e per rinuncia (comma 2).

Limitare, sulla base del combinato disposto di cui agli artt. 35, 85 e 105 c.p.a., l’annullamento con rinvio al giudice di primo grado alle sole decisioni di rito che conducono all’estinzione del giudizio per le ragioni indicate nel comma 2 del citato art. 35, con esclusione delle decisioni di rito di cui al comma 1 del medesimo art. 35 (irricevibilità, inammissibilità e improcedibilità), è operazione anche logicamente di difficile comprensione, trattandosi in entrambe le ipotesi di pronunce di rito.

Sicché, il principio della consumazione (e della ritenzione) della controversia presso il grado superiore, lo si dovrebbe ritenere o sempre operante o sempre escluso.

Laddove, invece, al contrario, dal riferimento al diritto di difesa delle parti, dovesse ritenersi di continuare ad espungere ogni considerazione concernente il principio del doppio grado, si tornerebbe a fare applicazione del consolidato principio a mente del quale il Consiglio di Stato, in sede di gravame, nei limiti dell’effetto devolutivo, decide di tutta la controversia (cd. ritenzione della causa), altro non essendo – l’erronea declaratoria di irricevibilità, inammissibilità o decadenza – che un mero errore di giudizio concernente l’esame di una questione preliminare.

Si osserva, infine, per esigenza di completezza, che nelle more della stesura della presente decisione è intervenuta in argomento la sentenza del Consiglio di Giustizia per la Regione Siciliana, n. 33 del 24 gennaio 2018.

L’arresto rappresenta un elemento di novità rispetto alla tesi tradizionale sopra riportata, giacché per la prima volta si qualifica espressamente l’erronea declaratoria di irricevibilità per tardività del ricorso come violazione dei diritti della difesa del ricorrente, esitandosi, processualmente, nell’annullamento con rinvio della sentenza al Tar, in diversa composizione.

Pertanto, anche alla luce di tale precedente specifico, appare quanto mai opportuna una pronuncia chiarificatrice dell’Adunanza plenaria.

16.2. Sotto altro e diverso profilo, meritano riflessione la seconda e la terza delle questioni sopra prospettate, concernenti – rispettivamente - il rapporto tra l’erronea declaratoria di inammissibilità del ricorso e la violazione del principio della corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato e quello tra l’erronea declaratoria di inammissibilità del ricorso e la violazione dell’obbligo di motivazione.

Entrambe le questioni, diversamente rispetto al caso prima esaminato, sono legate, concettualmente, al contenuto sostanziale della pronuncia resa, nonostante il formale dispositivo adottato.

Il ragionamento logico-giuridico si snoda attraverso i seguenti punti:

a) l’affermazione che il giudice di appello possa, al di là del dispositivo formale, volgersi al contenuto sostanziale della pronuncia;

b) la predicabilità della riqualificazione, in senso sostanziale, del contenuto effettivo del decisum, dimodoché lo stesso sia sussumibile (se talmente erroneo da violare il principio della corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato) sotto la categoria della violazione del diritto di difesa, ovvero (se talmente carente dell’elemento essenziale della motivazione) in quella della nullità della sentenza.

Fattispecie, entrambe, normate dall’art. 105 c.p.a.

La Sezione non può fare a meno di rilevare che, sia pure timidamente, più Sezioni di questo Consiglio di Stato hanno proceduto, sia sotto la vigenza dell’art. 35 della legge Tar, sia all’indomani dell’entrata in vigore dell’art. 105 c.p.a., ad un’interpretazione sostanziale dei vizi inficianti la sentenza, concludendone, in taluni casi, nel senso che questi andassero molto ben al di là dell’apparente (ed emendabile sul piano della riforma) errore di diritto o di giudizio.

Primo caso, salvo errore, storicamente documentato, è il precedente reso da questa stessa Sezione con la sentenza 21 aprile 2008, n. 1781 (dunque, sotto la vigenza dell’art. 35 legge Tar), la quale, attraverso la valorizzazione dell’art. 112 c.p.c., ritenuto applicabile anche al processo amministrativo, ha pronunciato l’annullamento della sentenza con rinvio al primo giudice, ai sensi dell'art. 37 comma 1, l. Tar. Si precisava, al riguardo: “il difetto di procedura non deve intendersi limitato alla sola violazione delle regole poste a presidio del contraddittorio fra le parti in causa, ma al contrario esteso a tutte le ipotesi di inosservanza dei precetti che presiedono al valido governo del processo, ivi compresa quella di totale omessa pronuncia sull'effettivo oggetto del contendere”.

Sopravanzava l’idea, dunque, che il giudice d’appello dovesse prendersi carico della necessità di distinguere, da un punto di vista sostanziale, e non più solo formale, le ipotesi in cui, effettivamente, ricorresse l’omessa pronuncia su una o più censure proposte col ricorso giurisdizionale (cd. omissione mera, ipotesi rispetto alla quale la giurisprudenza di questo Consiglio è sempre stata solida nel ritenere la piena operatività del tipico effetto devolutivo dell’appello, con conseguente riesame e integrazione della motivazione carente: ex multis, solo per citare le più recenti: Consiglio di Stato sez. IV, 23 ottobre 2017 n. 4860; Id., sez. IV, 20 marzo 2017 n. 1230; Id., sez. IV, 5 gennaio 2017 n. 11; Id., sez. IV, 29 novembre 2016 n. 5016¸ sez. VI, 11 luglio 2016 n. 3047), da quelle, assolutamente diverse, in cui la statuizione di merito fosse, invece, solo apparente o surrettiziamente giustapposta, perché non concernente l’oggetto del rapporto processuale dedotto in giudizio dalle parti.

Nel richiamato arresto, pertanto, la riscontrata totale omessa pronuncia esitava in una pronuncia di annullamento con rinvio, per violazione del principio della corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato, ai sensi dell’art. 112 c.p.c..

Nella stessa direzione, dell’ampliamento delle ipotesi di rimessione al primo giudice, muovono anche: Consiglio di Stato, Sezione V, 19 novembre 2009, n. 7235, anch’esso concernente un’ipotesi di totale omessa pronuncia; Consiglio di stato, Sezione IV, 25 novembre 2013 n. 5595, riguardante un caso in cui il Tar, una volta dichiarato inammissibile il ricorso avverso il silenzio della p.a., ha esteso tale declaratoria anche alla domanda di risarcimento del danno, senza rimettere la causa ad udienza pubblica per l'esame, nel merito, della suddetta distinta domanda; Consiglio di Stato, sez. VI, n. 4914 del 2013, che fa assumere rilievo alla totale assenza di motivazione. In quest’ultimo arresto, in particolare, la nullità della sentenza è stata ritenuta perché completamente priva delle ragioni di fatto e di diritto a sostegno, rispetto a quanto dedotto dalle parti nelle proprie difese: riconosciuta l’esigenza di assicurare l’«autosufficienza» della motivazione, ai sensi dell’art. 88 cod. proc. amm., si è ravvisata la violazione del diritto di difesa della parte per essere stata, la stessa, impedita nell’articolare adeguate ragioni sostanziali di critica avverso la sentenza impugnata, non essendo possibile ricostruire dalla sentenza la vicenda amministrativa e le ragioni della decisione.

Ancora in siffatto ordine di idee, l’arresto più recente è, di nuovo, di questa Sezione: Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 31 luglio 2017, n. 3809.

La decisione da ultimo richiamata si distingue, tra tutte quelle che la hanno preceduta, per la particolare accuratezza sia nel dettare il criterio discretivo che deve guidare il giudice d’appello nell’esattamente interpretare il contenuto sostanziale della decisione resa dal primo giudice rispetto all’oggetto del giudizio, sia nel prevedere le conseguenze processuali che ne derivano.

Sotto il primo profilo – si rimarca – è imprescindibile comprendere se, nonostante il formale dispositivo adottato dalla sentenza gravata (inammissibilità, irricevibilità, improcedibilità, decadenza), venga in questione un vizio tipico di errore di giudizio nello scrutinio della sussistenza dell’interesse o della tempestività del ricorso (caso rispetto al quale, come già detto, non si pone in dubbio la piena operatività dell’effetto devolutivo dell’appello), ovvero una (dissimulata) violazione del principio di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato, obliterandosi del tutto, sotto l’apparente motivazione, le ragioni addotte dal ricorrente a sostegno della propria domanda, ivi comprese, dunque, quelle riguardanti la sussistenza delle condizioni dell’azione o la sua tempestività.

La tesi – si precisa sempre ivi – “appare coerente con la peculiarità del processo amministrativo, specie per quello impugnatorio di legittimità, legato al controllo sull’esercizio della funzione pubblica, cui si collega il doppio grado di giudizio imposto dall’art. 125 Cost. (sia pure in senso solo ascendente) e declinato dagli art. 4-6 cod. proc. amm. come principio generale del processo amministrativo, oltre che con la tutela del diritto di difesa della parte coniugato con il principio dispositivo sostanziale della domanda, ai sensi dell’art. 24 Cost. (su questi temi, cfr. ad. plen. n. 5 del 2015, id., 2015, III, 265, in particolare § 7, 7.3 e 9.1, che, in quest’ottica, ha allargato lo spettro delle ipotesi di lesione del diritto di difesa capaci di determinare la regressione del giudizio innanzi al giudice di primo grado)”.

Il caso all’esame riguardava l’impugnazione di un atto con cui un comune si era rifiutato di procedere all’annullamento di un permesso di costruire: il Tar, senza qualificare l’atto impugnato come “meramente confermativo” del permesso di costruire, aveva dichiarato irricevibile il ricorso per tardività, come se le censure fossero state proposte nei confronti del permesso di costruire, non avvedendosi che solo dalla riscontrata qualificazione in tal senso avrebbe potuto trarre tale conclusione, mentre - di converso – laddove, all’esito dell’operazione di qualificazione, detto atto fosse risultato “propriamente confermativo”, il giudizio avrebbe dovuto impingere necessariamente nel merito delle censure.

Nel senso, invece, della comminatoria della sanzione della nullità della sentenza, per violazione dell’obbligo di motivazione, ai sensi dell’art. 88 c.p.a., si pone Consiglio di Stato, Sezione VI, 4 ottobre 2013, n. 4914. Il caso ha riguardato una decisione assunta in forma semplificata ai sensi dell’art. 60 c.p.a., ma il principio di diritto deve ritenersi applicabile anche alle sentenze rese in forma semplificata ai sensi dell’art. 74 c.p.a..

La Sezione ha osservato, in quell’occasione, che la sentenza si era limitata ad affermare, senza alcuna descrizione della fattispecie, una certa circostanza di fatto (tardività del parere della Soprintendenza), senza dare conto delle ragioni della decisione, mediante l’analisi degli atti del processo, con violazione del diritto di difesa della parte, la quale era stata impedita finanche di articolare adeguate ragioni sostanziali di critica avverso la sentenza impugnata.

L’obbligo di motivazione – è rimarcato - pur nel rispetto del principio generale della sinteticità, risponde all'esigenza di assicurare l'"autosufficienza" della motivazione: da ciò, la declaratoria di nullità della sentenza impugnata con rinvio al primo giudice per l’esame compiuto dei fatti di causa.

Ciò che diviene dirimente e decisivo, dunque, ai fini dell’annullamento con rinvio, non è ex se l’accertamento dell’erronea declaratoria di inammissibilità del giudizio (caso che, da sempre, si è escluso potesse dare luogo a tale esito processuale), ma quello della sostanziale omessa pronuncia (o, comunque, omessa motivazione) del giudice sulla sussistenza delle condizioni dell’azione, originanti direttamente dal merito della causa.

Pur con riferimento a una questione preliminare di merito, infatti, la motivazione – secondo i principi generali – deve contenere la concisa esposizione dei motivi in fatto e in diritto della decisione, anche con rinvio a precedenti cui intende conformarsi (art. 88, comma 2, lett. d, c.p.a.) oppure può consistere in un sintetico riferimento al punto di fatto o di diritto ritenuto risolutivo ovvero, se del caso, ad un precedente conforme (art. 74, comma 1 c.p.a.). In quest’ultimo caso, infatti, l’elemento di semplificazione non consiste nell’obliterazione della motivazione, che è elemento essenziale della sentenza, ma nella possibilità di dare conto “brevemente” delle ragioni della decisione, perché esiste un punto di fatto o di diritto in base al quale è possibile dirimere immediatamente la controversia (non a caso, il legislatore parla di “manifesta” fondatezza ovvero irricevibilità, inammissibilità, improcedibilità, infondatezza), oppure perché su identica o analoga vicenda si è già deciso e il principio di diritto elaborato, ancora condiviso, è del tutto sovrapponibile anche alla fattispecie all’esame.

Ma allora, fermo restando il tradizionale e indiscusso indirizzo sull’emendabilità e sull’integrabilità della motivazione in appello, giacché gravame rinnovatorio, è, tuttavia, doveroso, interrogarsi, sulla sorte processuale di quelle sentenze solo apparentemente fornite di motivazione, ma in realtà del tutto apoditticamente pronunciate, senza alcuna congruenza tra i fatti dedotti in giudizio e la decisione adottata, o senza che vi sia corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato.

Considerando, pertanto, l’obbligo di motivazione e l’obbligo di pronunciarsi su sola e su tutta la domanda, quali elementi essenziali della sentenza (premessa maggiore), e la loro assenza (o falsa apparenza), causa di nullità della stessa (premessa minore), se ne dovrebbe inferire, di necessità, un tipico caso di annullamento con rinvio (conclusione).

16.3. Da tutto quanto precede, pertanto, il Collegio esprime seri dubbi che una siffatta motivazione possa integrare gli estremi di quell’elemento essenziale che gli artt. 74 e 88 c.p.a. esigono ancorato, sia in fatto che in diritto, al casus all’esame, a garanzia del supremo principio della corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato (art. 112 c.p.c.).

17. La consolidata giurisprudenza di questo Supremo Consesso sui poteri integrativi dell’appello, infatti, è sorta in relazione (e sembra meglio attagliarsi) a fattispecie diverse (o che diverse dovrebbero essere), in cui il primo giudice non si è, nella sostanza, sottratto alla decisione della controversia. Sicché, ove una o più censure non fossero, per avventura, esaminate o, invece, lo fossero in modo non adeguato e sufficiente, ovvero talune assorbite, perché ravvisata la fondatezza di altre ritenute dirimenti o decisive, nessuno mai dubiterebbe, anche per esigenze di ragionevole durata del processo e di economia del mezzi processuali, della bontà (e doverosità) della soluzione di prediligere una lettura totalmente rinnovatoria del secondo grado, nei limiti – ovviamente – dell’effetto devolutivo.

Quello che viene in questione nel caso di specie, invece, e su cui si concentrano le riflessioni di questo Collegio, anche alla luce dei pochi (ma davvero significativi) precedenti giurisprudenziali specifici sopra riportati, è se e in che limiti sia consentito al giudice di appello di sindacare l’effettiva esistenza e consistenza della motivazione della sentenza impugnata, e quali siano in concreto i criteri che, nel caso, devono guidare il giudice nell’effettuare tale operazione.

Anche, soprattutto, per evitare il pericolo di soggettivismo, se non di occasionalismo, giudiziario e il rischio, possibile, di lesione del principio di uguaglianza nel trattamento, sul piano processuale, delle controversie, di modo che, in alcune, il giudice, ravvisata un’ipotesi di totale omessa pronuncia o di totale assenza di motivazione, le annulli con rinvio, mentre in altre, reputando sussistente il proprio potere di integrazione e menda, le decida immediatamente nel merito, riformando l’impugnata sentenza.

In entrambe le ipotesi, infatti, da un punto di vista logico-giuridico, la scelta giurisdizionale circa l’annullamento con rinvio al primo giudice ovvero, la ritenzione della causa, passa, necessariamente, attraverso un’attività (discrezionale) di accertamento e di qualificazione dei vizi che inficiano la sentenza. Soltanto che, in un caso, giudicati emendabili e integrabili (riforma e ritenzione della causa), nell’altro, diametralmente opposto (annullamento con rinvio), non superabili e tali da integrare ipotesi di violazione del diritto di difesa (obliterazione grave della corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato) o di nullità della sentenza per carenza di un elemento essenziale (mancanza totale della motivazione).

18. La controversia all’esame è emblematica del dubbio se la violazione dell’articolo 112 c.p.c. e la carenza totale della motivazione costituiscano o meno ipotesi di rinvio al primo giudice ai sensi dell’articolo 105 c.p.a..

18.1. Principiando, tra i numerosissimi atti impugnati, dalla deliberazione comunale n. 600 del 25 giugno 2012, concernente l’approvazione del progetto preliminare di opera pubblica, tutta la motivazione si è risolta, in sostanza, in una conclusione apodittica e totalmente sganciata sia dalla premessa in diritto che dai fatti di causa, allegati e provati in giudizio dalle parti ricorrenti. Segnatamente:

a) il primo giudice ha dato (correttamente) conto dell’indirizzo giurisprudenziale costante nel ritenere, nell'ambito della serie procedimentale degli atti di approvazione di un progetto per la realizzazione di un'opera pubblica, impugnabili solo quegli atti che siano effettivamente dotati di lesività nei confronti dei cittadini incisi dall'attività della pubblica amministrazione: generalmente, quello di approvazione del progetto definitivo, salvo che si realizzi un’anomalia procedimentale tale da anticipare la soglia della lesione allo stadio, anteriore, dell’approvazione del progetto preliminare di opera pubblica;

b) dopodiché, ha affermato che siffatta anomalia procedimentale non fosse riscontrabile nel caso all’esame e che le parti ricorrenti nulla avessero “dedotto in concreto né provato nella specie”.

A sostegno dell’affermazione non ha indicato alcun elemento, in punto di fatto o di diritto, utile a comprendere le ragioni della decisione e a ricostruire il percorso logico-giuridico seguito, e ciò in violazione dell’obbligo di motivazione posto, in via generale, dall’art. 88, comma 2, lett. d) del c.p.a., a mente del quale la sentenza deve contenere “la concisa esposizione dei motivi in fatto e in diritto della decisione, anche con rinvio a precedenti cui intende conformarsi”.

È pur vero che nella specie è stata pronunciata sentenza in forma semplificata, ai sensi dell’art. 74 c.p.a., ma ciò non esime dall’obbligo della motivazione, la quale non può essere pretermessa ma solo – al limite – “alleggerita”, mediante “un sintetico riferimento al punto di fatto o di diritto ritenuto risolutivo ovvero, se del caso, ad un precedente conforme”.

Nulla di tutto ciò è avvenuto nel caso di specie, ove non si fa alcun riferimento, nemmeno sintetico, a fatti o circostanze di causa ritenuti decisivi o risolutivi; si postilla la laconica affermazione secondo cui “nulla viene dedotto in concreto né provato nella specie”; si fa riferimento, invece, a ben cinque precedenti giurisprudenziali (Tar Calabria n. 1050/2010; Consiglio di Stato n. 3033/2001; Tar Liguria n. 327/2005; Tar Campania n. 9955/2008; Tar Liguria n. 516/2012).

Nessuno dei suddetti precedenti, tuttavia, si attaglia al caso di specie, né è dato comprendere, in assenza di qualsivoglia spiegazione circa l’(eventuale) contrario, quale possa o debba essere il nesso di collegamento logico-giuridico tale da ritenerli precedenti conformi. La forza “conformativa” del precedente, infatti, è tale solo in ragione dell’identità o dell’analogia delle situazioni di fatto trattate, altro non sostanziandosi, il principio di uguaglianza, nel trattare in modo uguale situazioni uguali e in modo dissimile situazioni dissimili.

E infatti:

a) il primo precedente riguarda un caso di contestuale impugnazione, sia dell’approvazione del progetto definitivo, che di quello preliminare, quest’ultimo solo per vizio di incompetenza e non già per lesione immediata e diretta di situazioni giuridiche soggettive;

b) il secondo arresto, invece, riguarda un’ipotesi di riapprovazione, in via di autotutela, del progetto preliminare mancante di un atto presupposto, a cui non era seguita la riapprovazione (pure) del progetto definitivo, implicante dichiarazione di pubblica utilità dell’opera;

c) il terzo pronunciamento riguarda l’impugnazione del solo progetto esecutivo, in un caso, peculiare, di salto progettuale (dell’approvazione del definitivo), in cui i contenuti di quest’ultimo erano stati assolti – nelle intenzioni dell’amministrazione - direttamente con l’approvazione del progetto preliminare;

d) la quarta e la quinta pronuncia concernono, invece, dei casi, pacifici, di impugnazione della sola progettazione preliminare, in assenza di alterazioni dell'ordinario iter procedimentale, da completarsi, in tutto, con l’approvazione del definitivo.

Quindi, nessuno dei menzionati arresti può sortire gli effetti di precedente conforme rispetto al caso all’esame, in cui, invece, il contenuto del preliminare impugnato è qualificato come definitivo, agli effetti edilizi e paesaggistici, e rappresenta il vero punto controverso su cui si sono appuntate tutte le censure dei ricorrenti.

Risultano, inoltre, versati agli atti di causa, gli elementi concreti dedotti dalle parti a sostegno dell’immediata lesività dell’approvazione del progetto preliminare, ma avente – espressamente - contenuto definitivo quanto agli effetti edilizi e paesaggistici, e segnatamente:

a) consistenza e collocazione edilizia e paesaggistica dell’impianto; in particolare, il posizionamento a distanza inferiore rispetto a quella legale prescritta (cento metri) dalle costruzioni esistenti;

b) presenza di vincoli paesistici generici e puntuali;

c) classificazione dell’area a rischio idrogeologico;

d) presenza di pozzi di captazione ad uso idropotabile;

e) presenza di due corsi d’acqua;

f) incompatibilità del progetto con la disciplina urbanistica di piano regolatore e territoriale di coordinamento.

È pur vero che, nell’ultima parte dell’atto impugnato, si fa riferimento ad una subordinazione della suddetta scelta amministrativa all’effettivo accertamento, nei successivi livelli di progettazione, delle anzidette condizioni, ma neppure di tale elemento di fatto è stato dato conto in motivazione. Né, la circostanza, è stata altrimenti posta in relazione rispetto al contenuto dell’atto, anche testualmente definito “definitivo” agli effetti edilizi e paesaggistici. Solamente, al limite, ove si fosse motivato sulla suddetta circostanza, ritenendola, in ipotesi, prevalente rispetto al contenuto dispositivo dell’atto, si sarebbe potuto sostenere la natura effettivamente preliminare dell’atto di approvazione, in ogni sua parte. Siffatta natura – invece –, per quanto consta, è stata solo apoditticamente affermata.

18.2. Si è proseguito affermando che analoghe considerazioni non possono che riguardare, altresì, gli atti a questo connessi.

18.3. L’indagine si è spostata, poi, su un altro ordine di atti impugnati, la variante urbanistica.

Qui la totale omessa pronuncia è ancora più evidente:

a) per un verso, non è dato comprendere a quale variante ci si riferisca in motivazione, visto che due sono state le varianti impugnate, quella al piano regolatore comunale e quella al piano territoriale di coordinamento;

b) per un altro verso, è stato del tutto omesso l’esame di censure proprie e autonome avverso tali atti (e non già derivate dall’impugnazione del progetto preliminare): l’illegittimità dell’iter procedurale seguito; l’assoluta incompatibilità urbanistica dell’area Ronco ad ospitare la localizzazione di un impianto di depurazione, a prescindere dalla natura preliminare o definitiva del progetto approvato; l’immediata impugnabilità delle varianti ai piani, secondo i principi generali, nell’ordinario termine decadenziale decorrente dal giorno del perfezionamento della pubblicazione.

E ciò a maggior ragione ove si consideri che il progetto preliminare ha contenuto definitivo agli effetti edilizi e paesaggistici.

18.4. Non migliore approfondimento di motivazione ha riguardato tutti gli altri (innumerevoli) singoli atti impugnati. A parte alcuni esempi pratici (“approvazione ordine del giorno consiliare”, “adozione variante condizionata ad aventi futuri ed approvazione progetto preliminare”), non si è spiegato in cosa, effettivamente, sia consistita la carenza di interesse di impugnazione, nonostante che in via di principio – secondo quanto dallo stesso primo giudice sostenuto – tale carenza fosse da addebitarsi, in parte, alla natura endoprocedimentale (e, dunque, non autonomamente impugnabile) dei singoli atti, e, in altra parte, all’assenza di attualità e concretezza dell’interesse azionato in relazione alla restante parte di essi.

18.5. Palese pretermissione ha riguardato, pure, l’impugnazione del diniego di sottoporre a valutazione di impatto ambientale il progetto preliminare. Le censure, infatti, sono state reinterpretate come contestazioni riguardanti “la contestata compatibilità ambientale, urbanistica e paesaggistica di un progetto il quale allo stato è ancora alla fase preliminare”, ignorandosi del tutto, invece, che oggetto dell’impugnazione (il chiesto) fosse proprio il diniego di sottoporre a v.i.a. il progetto, qualunque esso fosse, a prescindere dalla natura preliminare o meno dell’approvazione; e che la censura si legava alla natura di contenuto definitivo, agli effetti edilizi e paesaggistici, del progetto.

18.6 Inoltre, le censure dedotte dalle parti (senza specificare quali), sono state definite, in parte, pure “generiche”, senza però addurre elementi di fatto o di diritto risolutivi o chiarificativi in tal senso, perlomeno non nel senso voluto e preteso dall’art. 74 c.p.a., che ricollega la risolutività della motivazione all’esigenza della natura “manifesta” del decisum.

19. Di ciò si sono, evidentemente, avvedute le parti appellanti, le quali, per difendersi dalla critica di non avere nulla allegato e provato, ovvero dedotto in modo generico, non hanno potuto fare altro che ribadire quanto già chiaro fin dal primo grado, denunciando il travisamento e il grave difetto di motivazione per non essersi, il giudice, pronunciato – se non in modo assiomatico, apparente e deficitario – su quanto era stato chiesto.

20. Per tutte le considerazioni che precedono, si rimettono, pertanto, all’Adunanza plenaria, ai sensi dell’art. 99, comma 1, c.p.a., anche al fine di prevenire contrasti di giurisprudenza, nonché di precisare la portata di alcuni arresti giurisprudenziali (in particolare di quelli sopra richiamati), le seguenti questioni:

a) se alle ipotesi di annullamento con rinvio di cui all’art. 105 c.p.a. debba attribuirsi portata tassativa ovvero natura di clausola generale suscettibile di essere riempita, nel contenuto, attraverso l’elaborazione giurisprudenziale;

a.1) nel primo caso, quali siano le ipotesi di annullamento con rinvio da intendersi come tassative;

a.2) nel secondo caso, quali siano i criteri che devono guidare il giudice nell’attività di interpretazione dei fatti processuali, onde qualificarli come cause di annullamento con rinvio;

b) se, alla luce della nuova nomenclatura contenuta nel vigente art. 105 c.p.a., l’erronea declaratoria di inammissibilità del ricorso per difetto di interesse debba (o possa) essere ricompresa nella categoria della lesione dei diritti della difesa, come perdita del (normativamente previsto) doppio grado di giudizio nel merito, con conseguente annullamento della sentenza con rinvio al primo giudice;

c) anche a prescindere da tale ultima soluzione, se ed entro quali limiti e secondo quali criteri possa riconoscersi al giudice di secondo grado il potere di sindacare il contenuto della motivazione dell’impugnata sentenza, al fine di riqualificare il (formale) dispositivo di declaratoria di inammissibilità per carenza di interesse in un (sostanziale) accertamento della violazione del principio di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato (art. 112 c.p.c.) o dell’obbligo di motivazione (artt. 74 e 88 c.p.a.), intesa - questa - come elemento essenziale della sentenza, rispetto all’oggetto del processo;

b.3) se dette ultime ipotesi costituiscano (o a quali condizioni possano costituire), rispettivamente, lesione dei diritti della difesa o ipotesi di nullità della sentenza, ai sensi dell’art. 105, comma 1, c.p.a.

21. In conclusione, ed alla luce di tutte le considerazioni sin qui esposte, gli appelli devono essere accolti, in relazione ai motivi con i quali si impugna la sentenza relativamente alla declaratoria di inammissibilità dei ricorsi per difetto di interesse.

Al contempo, il Collegio riserva, all’esito della decisione dell’Adunanza Plenaria sulle questioni ad essa rimesse (e come innanzi precisate sub n. 20), ogni ulteriore decisione sugli altri motivi riproposti nel presente grado di giudizio, ovvero la rimessione della causa al giudice di primo grado, ai sensi dell’art. 105 c.p.a..

Allo stesso modo, è riservata, all’esito della decisione dell’Adunanza Plenaria, ogni decisione in ordine alle spese ed onorari del presente giudizio.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta), non definitivamente pronunciando sui ricorsi in epigrafe:

accoglie gli appelli, nei sensi e limiti di cui in motivazione;

deferisce all'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato le questioni indicate in motivazione;

manda alla segreteria della sezione per gli adempimenti di competenza e, in particolare, per la trasmissione del fascicolo di causa e della presente ordinanza al segretario incaricato di assistere all'Adunanza Plenaria;

riserva, all’esito del giudizio innanzi all’Adunanza Plenaria, ogni ulteriore decisione, ivi compresa quella in ordine alle spese ed onorari del presente giudizio.

Così deciso in Roma nelle camere di consiglio dei giorni 12 ottobre 2017,e 7 febbraio 2018, con l'intervento dei magistrati:

Oberdan Forlenza, Presidente FF

Giuseppe Castiglia, Consigliere

Daniela Di Carlo, Consigliere, Estensore

Nicola D'Angelo, Consigliere

Giovanni Sabbato, Consigliere

 
 
L'ESTENSORE IL PRESIDENTE
Daniela Di Carlo Oberdan Forlenza
 
 
 
 
 

IL SEGRETARIO


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