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Consiglio di Stato, Adunanza della Commissione speciale, 26/10/2018 n. 2427
La LUMSA può procedere alla stipula di contratti di lavori, servizi e forniture senza necessità del previo esperimento di procedure di evidenza pubblica.

Il combinato disposto degli articoli 51 e 199 del r.d. n. 1592 del 1933 deve ritenersi abrogato implicitamente per incompatibilità con il vigente sistema normativo di disciplina dei contratti pubblici, con riferimento in particolare alle nozioni di amministrazione aggiudicatrice e di organismo di diritto pubblico.
La LUMSA non è un ente pubblico non economico, ma è un ente di diritto privato.
La LUMSA non è un organismo di diritto pubblico, poiché difetta il terzo dei tre requisiti cumulativi necessari per la configurabilità di tale tipologia soggettiva, ossia il requisito della influenza pubblica dominante, poiché riceve un contributo finanziario pubblico di minima entità, registra la presenza di un solo componente pubblico sugli undici membri dell'organo di amministrazione, non presenta nessun componente pubblico nell'organo di vigilanza, non è soggetto al controllo statale della gestione, poiché la vigilanza ministeriale e gli altri poteri previsti dalla legge speciale costituiscono un potere di vigilanza estrinseca e formale e non integrano quel controllo intrinseco e sostanziale sulla gestione che è richiesto ai fini della sussistenza di questa particolare modalità di manifestazione del requisito della dominanza pubblica.
La LUMSA può pertanto procedere alla stipula di contratti di lavori, servizi e forniture senza necessità del previo esperimento di procedure di evidenza pubblica.

Materia: appalti / disciplina

Numero 02427/2018 e data 26/10/2018 Spedizione

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REPUBBLICA ITALIANA

Consiglio di Stato

Adunanza della Commissione speciale del 25 settembre 2018


NUMERO AFFARE 01588/2018

OGGETTO:

Autorità nazionale anticorruzione.


richiesta di parere - LUMSA - Libera Università SS. Assunta - sottoposizione al d.lgs. n. 50 del 2016;

LA COMMISSIONE SPECIALE del 25 settembre 2018

Vista la nota di trasmissione della relazione prot. n. 67409/18 in data 20 agosto 2018 con la quale il Autorità nazionale anticorruzione ha chiesto il parere del Consiglio di Stato sull'affare consultivo in oggetto;

Visto il decreto n. 122 dell’11 settembre 2018 con il quale il Presidente del Consiglio di Stato, “stanti la generalità e rilevanza della questione che investe tutte le università non statali legalmente riconosciute”, ha deferito l’affare ad un’apposita Commissione speciale, ai sensi dell’art. 21, comma 1, lett. c), della delibera del Consiglio di Presidenza della Giustizia amministrativa del 18 gennaio 2013;

Esaminati gli atti e uditi i relatori Paolo Carpentieri e Italo Volpe;


Premesso:

1. L’Autorità Nazionale Anticorruzione (di seguito “ANAC”) ha chiesto, con nota n. 67409/18 dell’1 agosto 2018 (cui ha fatto seguito la sua nota n. 70922 del 20 agosto 2018, di trasmissione di allegati), il parere del Consiglio di Stato sul quesito se la LUMSA-Libera Università SS. Assunta (di seguito “LUMSA”) debba ritenersi tenuta all’osservanza del codice dei contratti pubblici di cui d.lgs. n. 50 del 2016 in quanto ‘amministrazione aggiudicatrice’. La richiesta nasce da analoga richiesta di parere rivolta dalla LUMSA all’ANAC e dall’interlocuzione avuta successivamente da quest’ultima con il Ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca (di seguito “MIUR”) il quale, con nota n. 19158 del 2 luglio 2018, riferendo di avere registrato elementi suscettibili di condurre, in proposito, a risposte di segno opposto, ha infine rimesso all’ANAC la valutazione dell’opportunità di acquisire dal Consiglio di Stato un parere al riguardo.

2. Riferisce l’ANAC che la LUMSA ha illustrato le modalità con le quali il MIUR svolge su di essa il controllo previsto dalla disciplina di riferimento, il quale, in particolare, si esplicherebbe con le seguenti modalità:

- sulla base della legge n. 243 del 1991 (recante la disciplina delle Università non statali legalmente riconosciute) e del decreto interministeriale 1 marzo 2007 (recante Criteri per l'omogenea redazione dei conti consuntivi delle università), la LUMSA – annualmente, entro il 30 settembre –, nell’ambito di un’apposita procedura informatica del Ministero (c.d. “omogenea redazione dei conti consuntivi”), trasmette al MIUR alcuni quadri del bilancio approvato dall’Ateneo (bilancio consuntivo), al fine della determinazione del contributo ordinario per le università non statali che, per la LUMSA, incide in misura del 3,86% rispetto al computo delle entrate totali;

- il consigliere di amministrazione nominato dal MIUR ha gli stessi poteri degli altri consiglieri, non competendogli specifici poteri di vigilanza sulla gestione dell’Ateneo;

- le università non statali, legalmente riconosciute, non sono sottoposte a controllo di organi pubblici, come confermato dall’art. 203 del r.d. n. 1592 del 1933 (Approvazione del testo unico delle leggi sull'istruzione superiore) e dalla legge n. 168 del 1989 (Istituzione del Ministero dell'università e della ricerca scientifica e tecnologica), che ha definito le università statali e non statali riconosciute quali soggetti dotati di piena autonomia, anche ordinamentale;

- l’unico controllo del MIUR, rispetto alla gestione delle università statali e non statali, riguarda la sottoposizione alle regole dell’ANVUR (d.lgs. n. 19 del 2012, Valorizzazione dell'efficienza delle università e conseguente introduzione di meccanismi premiali nella distribuzione di risorse pubbliche sulla base di criteri definiti ex ante anche mediante la previsione di un sistema di accreditamento periodico delle università e la valorizzazione della figura dei ricercatori a tempo indeterminato non confermati al primo anno di attività) finalizzato alla verifica degli standard minimi di qualità per l’accreditamento delle sedi e dei corsi di studio.

3. L’ANAC prosegue con un riepilogo (per quanto di diretto interesse) della disciplina di riferimento riguardante le università non statali legalmente riconosciute. In particolare viene riferito che, giusta un rinvio interno contenuto nel testo unico di cui al r.d. n. 1592 del 1933, per effetto dell’art. 51 di quel testo unico, vale quanto segue per il novero di Atenei cui la LUMSA appartiene:

- fino al limite di lire 20 milioni le spese possono essere eseguite in economia, secondo le norme stabilite dal regolamento interno di cui all’art. 44 del testo unico;

- tutte le spese eccedenti il limite anzidetto sono effettuate “in seguito a gara pubblica o a licitazione privata”, su deliberazione del Consiglio di amministrazione;

- in casi eccezionali o di urgenza, il Consiglio può, con deliberazione motivata, prescindere dalla gara o dalla licitazione anche per spese superiori alle lire 20 milioni, ma non eccedenti le lire 100 milioni;

- per le spese eccedenti le lire 100 milioni la omissione di tali formalità deve essere autorizzata dal Ministro dell’educazione nazionale;

- tutte le deliberazioni dei Consigli di amministrazione concernenti alienazioni o trasformazioni del patrimonio o contrattazione di mutui sono esecutive quando abbiano riportato l’approvazione del Ministro dell'educazione nazionale.

Si ricaverebbe da ciò, dunque, un generale obbligo per le università statali e non statali legalmente riconosciute di affidare contratti con procedure ad evidenza pubblica nei termini stabiliti nelle suindicate disposizioni.

4. Aggiunge l’ANAC – in virtù del tenore di ulteriori disposizioni richiamate – che:

- “può quindi affermarsi che le Università libere sono pienamente inserite e sono parte integrante del sistema universitario statale nazionale, concorrendo all'offerta formativa di istruzione superiore. Infatti, tali università sono sottoposte, ove compatibile, alla medesima disciplina delle università statali, con particolare riferimento alla disciplina contenuta nel r.d. 31 agosto 1933 n. 1592, nella 1. 9 maggio 1989 n. 168, nella 1. 2 luglio 1991 n. 243 e nella 1. 30 dicembre 2010 n. 240.”;

- “dalle norme richiamate emergono indici rivelatori del carattere pubblico dell'attività svolta dalle università non statali legalmente riconosciute; indici che hanno indotto l'Autorità e parte della giurisprudenza a ritenere annoverabili tali università nella categoria delle amministrazioni aggiudicatici, tenute in quanto tali al rispetto della disciplina in materia di contratti pubblici ai fini dell'affidamento di contratti di lavori, servizi e forniture”.

Del resto, sulla base di questo generale ordine di idee, la stessa ANAC, con deliberazione n. 30 del 22 aprile 2015, riferita peraltro al corpo normativo di cui al d.lgs. n. 163 del 2006 (applicabile ratione temporis), ha ritenuto – in relazione ad una gara per l’affidamento della progettazione definitiva ed esecutiva e la costruzione della nuova biblioteca dell’Università degli Studi di Enna “Kore”, libera università appartenente alla categoria di cui al punto 2 dell’art. 1 del r.d. n. 1592 del 1933 – che dal riconoscimento della personalità giuridica di detto Ateneo non deriva una chiara e netta natura privata dello stesso. “Anzi, una precisa indicazione in senso contrario si trae dal consolidato orientamento della Suprema Corte, secondo cui alle università e, dunque, non solo a quelle statali dev’essere riconosciuta la natura giuridica di enti pubblici non economici, considerato l’esplicito riconoscimento di personalità giuridica e l'espresso conferimento di compiti di interesse pubblico” (Cass. ss.uu., n. 5054 del 2004, relativa alla Libera Università degli Studi Sociali Guido Carli).

Conforme – prosegue l’ANAC – è quella giurisprudenza che ha enfatizzato, come indici sintomatici di pubblicità degli atenei in questione, alcuni elementi, quali il fine pubblico perseguito dalle libere università, la sottoposizione delle stesse a controllo ministeriale, il rilascio di titoli di studio avente il medesimo valore legale di quelli rilasciati da università statali, onde le libere università andrebbero ricondotte nell’alveo degli enti pubblici (in tal senso Cons. Stato, sez. VI, 16 febbraio 2010, n. 841, ed analogamente Corte dei conti, sez. giur. Lazio, n. 477 del 2010).

5. Tuttavia – riferisce altresì l’ANAC, sulla scorta delle osservazioni formulatele dal MIUR –, più di recente la giurisprudenza si è espressa in senso inverso, escludendo i connotati pubblici per le libere università. Così il Tar Lazio (sez. III-quater, sentenza n. 11733 del 2017), quando ha dichiarato il difetto di giurisdizione del giudice amministrativo in relazione ad una controversia relativa all’espletamento di una gara d’appalto da parte della Fondazione Policlinico Universitario “Agostino Gemelli”, indetta senza l’applicazione del d.lgs. n. 163 del 2006 (all’epoca vigente). In particolare, nell’occasione s’è ritenuto che la soluzione della controversia ruotasse attorno alla natura della Fondazione, nei termini di un organismo di diritto pubblico o meno, per indurne la qualità di amministrazione aggiudicatrice e il conseguente assoggettamento sia alle regole dell’evidenza pubblica (di cui al codice dei contratti pubblici) sia alla giurisdizione amministrativa. Per poter configurare un organismo di diritto pubblico – s’è detto nell’occasione – devono coesistere in capo ad un medesimo soggetto tutti i requisiti di cui all’art. 3, comma 26, del codice e, nella specie, s’è ritenuto che l’Università Cattolica non potesse essere considerata né un organismo di diritto pubblico, per i fini che qui interessano, né un ente pubblico non economico, in quanto difettava il c.d. requisito dell’influenza dominante (pubblica). Condurrebbero altresì a tale conclusione anche le direttrici fornite dal Consiglio di Stato con la sentenza 11 luglio 2016, n. 3043, che ha escluso la qualifica di ente pubblico non economico proprio in capo a tale Università, ai fini dell'applicazione della disciplina in materia di obblighi di trasparenza e pubblicità di cui al d.lgs. n. 33 del 2013. Ricorda poi l’ANAC che non è dato sapere quale sarebbe stato, nel ricordato giudizio, l’orientamento del giudice d’appello, in quanto il gravame avverso la citata sentenza di primo grado n. 11733 del 2017 s’è risolto con una pronuncia di improcedibilità. Osserva perciò l’ANAC che, sulla scorta dell’orientamento giurisprudenziale più recente, sembrerebbe doversi escludere la riconducibilità della LUMSA e, in genere, delle libere università, nell’alveo degli enti pubblici, anche ai fini dell’applicabilità delle norme sull’evidenza pubblica.

6. Ciò nondimeno – aggiunge l’ANAC – quanto precede non parrebbe escludere che l’Ateneo in discorso possa essere qualificato quale organismo di diritto pubblico (ai sensi dell’art. 3, comma 1, lett. d), del d.lgs. n. 50 del 2016), sussistendo nella fattispecie tutti i necessari requisiti [a) istituzione per soddisfare specificatamente esigenze di interesse generale, aventi carattere non industriale o commerciale; b) personalità giuridica pubblica o privata; c.1) attività finanziata in modo maggioritario dallo Stato, dagli enti pubblici territoriali o da altri organismi di diritto pubblico; oppure - c.2) gestione soggetta al controllo di questi ultimi; oppure - c.3) presenza di un organo di amministrazione, di direzione o di vigilanza costituito da membri dei quali più della metà è designata dallo Stato, dagli enti pubblici territoriali o da altri organismi di diritto pubblico]. Secondo l’ANAC, più nel dettaglio, nel caso della LUMSA si può concordare, anche in ragione delle funzioni da essa svolte (di evidente interesse pubblico), sul fatto che paiono soddisfatti i due requisiti di cui alle lettere a) e b) sopra ricordati, ferma la circostanza che (come chiarito dall’ANAC nel suo parere AG n. 41 del 2010, alla luce della sentenza della Corte di giustizia UE 15 maggio 2003, in causa C-214/00) non osta al riconoscimento dell’organismo di diritto pubblico la natura privata di un determinato soggetto.

7. Non sottace tuttavia l’ANAC (illustrandone le possibili ragioni) che, invece, più incerto può risultare l’esito della valutazione, nel caso di specie, della sussistenza del requisito della “dominanza pubblica”, nelle forme alternative del finanziamento maggioritario, del controllo della gestione o della nomina dei componenti degli organismi di amministrazione, direzione o vigilanza in misura non inferiore alla metà da parte dello Stato o di altri enti pubblici.

Ed è proprio, in particolare, tale fattore di incertezza che ha spinto a chiedere l’avviso del Consiglio di Stato.

Considerato:

1. La risposta al quesito richiede la soluzione delle seguenti tre questioni:

1) se sia ancora in vigore l’art. 51 del r.d. n. 1592 del 1933 (recante il testo unico delle leggi sull'istruzione superiore), richiamato dall’art. 199 stesso decreto, che, nei primi due commi, impone (in forza del detto richiamo) anche alle università e agli istituti superiori liberi l’effettuazione di procedure di evidenza pubblica per le spese eccedenti Lit. 20 milioni (“Fino al limite di lire 20 milioni le spese possono essere eseguite in economia, secondo le norme stabilite dal regolamento interno di cui all'art. 44. Tutte le spese eccedenti il limite anzidetto sono effettuate in seguito a gara pubblica o a licitazione privata, su deliberazione del Consiglio di amministrazione”; il limite di spesa è stato poi via via innalzato, dapprima dall'art. 9-bis, comma 1, del decreto-legge 24 ottobre 1969, n. 701, convertito, con modificazioni, dalla legge 22 dicembre 1969, n. 952, poi dall'art. 11, comma 9, del decreto-legge 1 ottobre 1973, n. 580, convertito, con modificazioni, dalla legge 30 novembre 1973, n. 766, successivamente mediante appositi decreti ministeriali, a ciò autorizzati dall’art. 6, primo comma, della legge 6 marzo 1976, n. 50; da ultimo con decreto ministeriale 28 agosto 1989, in G.U. 6 agosto 1991, n. 183, che ha elevato la soglia a Lit. 1 miliardo e 777 milioni);

2) in caso di risposta negativa alla prima domanda, se, cioè, sia dimostrata l’intervenuta abrogazione della norma speciale dell’art. 51 del r.d. n. 1592 del 1933, se la LUMSA sia un ente pubblico non economico;

3) in caso di risposta negativa alla seconda domanda, se la LUMSA sia un organismo di diritto pubblico.

2. La Commissione speciale ritiene che, secondo un corretto ordine logico-giuridico di trattazione delle suddette questioni, debba prendersi in esame per primo il quesito relativo alla perdurante e attuale vigenza della citata norma contenuta nell’art. 51 del r.d. n. 1592 del 1933, mai espressamente abrogata. Se, infatti, si dovesse pervenire alla conclusione affermativa di tale perdurante vigenza, l’assoggettamento della LUMSA all’obbligo di effettuazione dell’evidenza pubblica per gli acquisti di lavori, beni, servizi, almeno al di sopra di una determinata soglia di spesa, troverebbe in tal modo una sua sicura e specifica base giuridica, autonoma e di per se sufficiente a risolvere (in senso affermativo) il quesito di cui trattasi, senza che occorra procedere alla disamina delle altre due questioni, inerenti alla natura giuridica della LUMSA, se inquadrabile (o non) nelle categorie tipologiche dell’ente pubblico non economico o dell’organismo di diritto pubblico (alla stregua della disciplina contenuta nel vigente codice dei contratti pubblici del 2016).

2.1. L’art. 15 delle disposizioni sulla legge in generale anteposte al codice civile prevede due tipi di abrogazione inespressa: per incompatibilità tra le nuove disposizioni e le precedenti o perché la nuova legge regola l'intera materia già regolata dalla legge anteriore. Il primo tipo (abrogazione tacita) implica un raffronto “norma a norma”, nel senso che la verifica di incompatibilità deve essere effettuata nel raffronto tra la norma – o le norme – introdotte dalle nuove disposizioni e quella – o quelle – precedenti; il secondo tipo (da taluni detta “abrogazione implicita”) implica un raffronto “legge a legge”, nel senso che la verifica di incompatibilità (ritenuta necessaria anche in questo caso) deve avere riguardo alla disciplina di un’intera materia. Pur nella distinzione tra le due figure ora dette, il fenomeno dell’abrogazione inespressa è sostanzialmente unitario e il suo nucleo essenziale è costituito dalla incompatibilità (non solo logico-formale, ma sostanziale e valoriale) tra la norma (o il complesso normativo) successivo e quello precedente. L’interprete dovrà, pertanto, avere presenti entrambi gli schemi valutativi, sia quello che prende in esame il rapporto tra norma e norma, sia quello più ampio che considera nel suo insieme il significato complessivo del mutato quadro giuridico di contesto nel quale la disciplina della cui applicazione si tratta si inscrive. Da un diverso, ma convergente punto di vista, il giudizio di compatibilità/incompatibilità tra disciplina precedente speciale e disciplina successiva generale, nel dubbio sulla apparente antinomia tra le relative previsioni, mira a stabilire se la disciplina precedente sia ancora o non sia più espressiva di una voluntas legislativa autonoma tuttora attuale e autosufficiente, dovendosi fare applicazione, solo in caso affermativo, del principio lex posterior generalis non derogat priori speciali (principio, come è noto, non consacrato in una previsione positiva e derogabile nel caso in cui, viceversa, la disciplina anteriore, benché speciale, risulti sostanzialmente assorbita in quella generale successiva e non esprima più un valore giuridico autonomo e distinto che ne giustifichi la perdurante vigenza). In tal senso, l’adunanza plenaria di questo Consiglio, nella sentenza 27 luglio 2016, n. 17, ha avuto modo di evidenziare come la regola generale per cui lex posterior generalis non derogat priori speciali debba essere valutata di volta in volta in concreto, poiché, come bene puntualizzato da tradizionale, ma tuttora valida Dottrina, «la questione che essa intende risolvere si traduce in quella della esatta determinazione della voluntas legis, cioè in una questione di interpretazione».

2.2. A un primo esame del tema, sembrerebbe sostenibile la tesi secondo la quale non sussista alcuna incompatibilità tra la norma del 1933, che impone l’effettuazione della gara anche a soggetti privati in qualche modo “equiparati” alle università pubbliche, e le norme successive, da ultimo quelle contenute nel codice dei contratti pubblici del 2016, che definiscono, in senso ampliativo e non restrittivo, la platea dei soggetti pubblici e assimilati sottoposti alla regola dell’evidenza pubblica. Poiché la disciplina dei contratti pubblici, nazionale ed europea, esprimerebbe un favor per la messa a gara di appalti e commesse (pubblici), le nuove disposizioni (la nuova disciplina della materia dei contatti pubblici) non osterebbero alla “sopravvivenza” della norma del 1933, che a sua volta sancisce espressamente il dovere di effettuazione delle procedure di gara degli Istituti universitari di istruzione superiore, pubblici e privati, indipendentemente dall’indagine sulla verace natura giuridica di questi soggetti. La norma del 1933, in quest’ottica, lungi dall’essere incompatibile con il nuovo sistema di disciplina dei contratti pubblici, si inserirebbe armonicamente in esso, salvi alcuni profili (non essenziali) riguardanti la definizione delle soglie e delle procedure, risolvibili in termini di deroga o abrogazione parziale.

2.3. Non meno proponibile appare, tuttavia, sempre a un primo approccio, l’opposta impostazione diretta invece a evidenziare come la norma del 1933 non sembri essere fondata su specifiche ragioni di specialità degli Istituti di istruzione superiore ed appaia piuttosto come un mero caso applicativo della disciplina generale di contabilità di Stato allora vigente (r.d. n. 2440 del 1923 e regolamento attuativo del 1924, ora entrambi superati, se non per una residua applicabilità per i soli casi per i quali non trova applicazione il codice dei contratti pubblici); che, conseguentemente, guardando (non solo al rapporto tra norma e norma, ma) alla ridisciplina dell’intera materia, la norma speciale del 1933 risulti a questo punto priva di una sua attuale ragion d’essere (non essendo in se coessenziale al buon andamento dell’istruzione superiore) e debba essere quindi riportata entro l’alveo del nuovo sistema introdotto dal codice dei contratti pubblici, la cui disciplina della platea soggettiva di applicabilità delle procedure di gara, anche in considerazione della natura di quel testo di “codice” di razionalizzazione della materia, dovrebbe considerarsi tendenzialmente esaustiva e onnicomprensiva. È in questo codice di settore, dunque, in quanto tale, che dovrebbe ricercarsi la regola per stabilire quale tipologia di soggetti deve svolgere le gare e quale invece non deve porre in essere tali adempimenti. In questa impostazione, dunque, parrebbe agevole affermare l’operatività del meccanismo dell’abrogazione implicita prefigurato dall’ultima parte del secondo comma dell’art. 15 delle “preleggi”. La norma introdotta dall’art. 51, ancorché contenuta nel complesso della disciplina dell’istruzione superiore e universitaria (che è la materia del testo unico del 1933), si pone e rileva comunque come afferente alla materia della disciplina dei contratti pubblici, trattandosi non già di una norma di diretta incidenza sulle finalità di interesse generale e pubblicistico dell’istruzione superiore, bensì di una norma che concorre alla definizione della platea dei soggetti, pubblici e privati, che sono obbligati all’effettuazione delle procedure selettive di evidenza pubblica, con ciò ponendosi dunque a raffronto con la nuova normativa del codice dei contratti pubblici che tale platea provvede, oggi, innovativamente a definire. Non è un caso, si può ulteriormente osservare, che l’adeguamento quantitativo della soglia limite di spesa oltre la quale le università e gli istituti di istruzione superiore privati erano tenuti all’effettuazione delle gare, in base alla norma del 1933, ha cessato di operare a partire dall’introduzione nel sistema positivo della nozione di organismo di diritto pubblico, avvenuta, come è noto, con la direttiva 89/440/CE, recepita nell’ordinamento italiano con l’art. 2, comma 1, del d.lgs. n. 404 del 1991 (l’ultimo decreto ministeriale di adeguamento della suddetta soglia, come si è visto, è il d.m. 8 agosto 1989, pubblicato nella G.U. 6 agosto 1991, n. 183).

2.4. D’altra parte il favore della disciplina dell’Unione europea per l’allargamento dei casi applicativi dell’evidenza pubblica rinviene il suo presupposto fondativo e giustificativo nella spendita di risorse pubbliche, mentre, ove si tratti di investimenti privati, non vi sarebbe spazio, in un sistema di economia sociale di mercato, per l’imposizione di procedure concorrenziali restrittive della libertà contrattuale dei privati (ad altra e diversa logica obbedendo, come è noto, la disciplina antitrust volta a favorire un mercato concorrenziale mediante la prevenzione e il contrasto dell’abuso di posizioni dominanti e il costituirsi di oligopoli o monopoli, che dunque ben è abilitata ad inserire restrizioni alla libertà contrattuale e d’impresa). Il fine perseguito dalla normativa europea sui contratti pubblici è quello di evitare il rischio di indifferenza degli enti committenti per le logiche di mercato e di obbedienza, negli acquisti, a logiche extraeconomiche influenzate dal condizionamento “politico” dell’amministrazione di riferimento. Una tale finalità – una volta accertato che il contributo finanziario pubblico è minimale e che, dunque, gli acquisti avvengono con risorse private - sarebbe del tutto esclusa nel caso in esame.

Infatti, giova ricordare che i casi in cui soggetti di diritto privato sono sottoposti alla disciplina del codice dei contratti sono di stretta eccezione, rispetto al codice stesso e al suo principio di onnicomprensività, e quindi di stretta interpretazione è l’applicabilità del codice a soggetti privati. I privati soggetti sono infatti contemplati in fattispecie chiuse espressamente previste in alcune lettere dell’artt. 3, comma 1 del d.lvo n. 50 del 2016, e precisamente: lettera e), gli «enti aggiudicatori», ai fini della disciplina di cui alla parte II del codice, cioè gli enti che pur non essendo amministrazioni aggiudicatrici né imprese pubbliche, esercitano una o più attività tra quelle di cui agli articoli da 115 a 121 e operano in virtù di diritti speciali o esclusivi concessi loro dall'autorità competente; gli enti che svolgono una delle attività di cui all'allegato II ed aggiudicano una concessione ; gli enti anche privati operanti sulla base di diritti speciali o esclusivi ai fini dell'esercizio di una o più delle attività di cui all'allegato II.

Lettera f):i «soggetti aggiudicatori», ai soli fini delle parti IV e V, cioè soggetti pubblici o privati assegnatari dei fondi, di cui alle parti IV e V.

Lettera g): gli «altri soggetti aggiudicatori», cioè soggetti privati tenuti espressamente all'osservanza delle disposizioni del codice, tra cui i titolari di permesso di costruire per quanto concerne le opere di urbanizzazione a scomputo.


2.5. Ma anche a questo argomento può tuttavia controbattersi rilevando che, al di là delle direttive europee, il diritto interno ha dichiaratamente voluto rivestire la disciplina in esame, in sede di recepimento, di finalità ulteriori, quali quelle di pubblicità-trasparenza (cfr. art. 29 del codice di settore, Principi in materia di trasparenza) e prevenzione della corruzione (cfr. art. 1, comma 1, lettera q) della legge di delega n. 11 del 2016: “q) armonizzazione delle norme in materia di trasparenza, pubblicità, durata e tracciabilità delle procedure di gara e delle fasi ad essa prodromiche e successive, anche al fine di concorrere alla lotta alla corruzione, di evitare i conflitti d'interesse e di favorire la trasparenza nel settore degli appalti pubblici e dei contratti di concessione”, nonché art. 213 del codice del 2016), finalità ulteriori che sono entrate ormai a pieno titolo a far parte dei valori che informano questa disciplina e che devono dunque orientare l’interprete. Di contro, però, proprio la disciplina della trasparenza è stata esclusa per le libere università (C. d. S. sez. VI, n. 3043 del 2016) come meglio si vedrà avanti, il che corrobora l’assunto della estraneità di tali soggetti alla disciplina del codice.

2.6. Ma è soprattutto allargando la visuale alla logica complessiva di sistema sottesa all’un complesso normativo – la disciplina dell’istruzione superiore del 1933 – rispetto all’attuale sistema che regola le procedure di gara per l’acquisto di lavori, beni e servizi da parte delle pubbliche amministrazioni, che si coglie una sostanziale incompatibilità tra le discipline poste a raffronto, tale da indurre al convincimento dell’operatività del meccanismo abrogativo inespresso della norma del 1933 ad opera della successiva legislazione del settore dei contratti pubblici. In altri termini e guardando alla sostanza delle questioni, se la norma impositiva delle gare per i soggetti formalmente privati che operano nel campo dell’istruzione superiore aveva un senso nella logica del sistema del 1933, anteriore alla Costituzione del 1948, improntato a un rigido e pervasivo controllo statale anche e soprattutto sui contenuti dell’insegnamento e quindi sul reperimento e allocazione delle risorse che indirettamente ne condizionano l’erogazione, tale norma risulta ormai priva di un suo senso coerente se collocata nel vigente sistema, informato a principi e criteri affatto diversi, propri di una economia sociale di mercato, come delineata dalla Carta fondamentale, nella quale non pare più proponibile un sistema di totale pubblicizzazione del sistema dell’istruzione superiore e di piena equiparazione di tutti i soggetti, pubblici o formalmente privati, che vi operano e vi concorrono. Evoluzione confermata anche dalla autonomia riconosciuta dall’attuale sistema universitario non solo alle università private ma anche a quelle statali.

2.7. Emerge tuttavia dalle considerazioni sin qui svolte, innegabilmente, un margine di opinabilità riguardo alla questione applicativa dell’art. 15 delle “preleggi” alla fattispecie sottoposta all’esame di questa Commissione, questione che evidentemente richiede un ulteriore approfondimento.

3. La Commissione rileva dunque che, se è vero che la prima questione, relativa alla sopravvivenza nel vigente ordinamento giuridico della norma speciale dell’art. 51 del r.d. n. 1592 del 1933, si pone come logicamente prioritaria, a un più attento esame risulta tuttavia che le tre questioni delineate sub par. 9. sono tra loro strettamente interdipendenti e non possono essere trattate separatamente l’una dall’altra: ed infatti, ove si concludesse sulla seconda e sulla terza questione nel senso affermativo della natura di ente pubblico non economico o di organismo di diritto pubblico della LUMSA, si perverrebbe nel contempo ad ammettere una non incompatibilità sul piano pragmatico delle norme sopra poste a raffronto, siccome entrambe impositive della previa gara, vuoi per un comando giuridico diretto (nella norma dell’art. 51 del regio decreto del 1931), vuoi per derivazione effettuale dalla suddetta qualificazione pubblicistica o parapubblicistica delle “libere” università (nel sistema del codice dei contratti pubblici del 2016). In tal caso il tema della attuale vigenza dell’art. 51 perderebbe la sua centralità e finirebbe per assumere una rilevanza più teorica che pratico-effettuale. Se, invece, si dovesse pervenire all’opposta conclusione, negativa della natura pubblicistica o parapubblicistica degli enti in esame, allora tornerebbe attuale in tutta la sua evidenza e portata la centralità pregiudiziale della questione della abrogazione (o non abrogazione) della norma speciale del 1933.

3.1. Ritiene pertanto la Commissione che, sospendendo per ora il giudizio sulla prima questione, relativa alla successione delle norme nel tempo, e posticipandone l’ulteriore approfondimento alla parte conclusiva del presente parere, convenga comunque affrontare prioritariamente le questioni sostanziali legate alla natura giuridica degli istituti liberi di istruzione superiore.

4. Viene in primo luogo in discussione la possibilità, affermata da plurime pronunce a sezioni unite della Cassazione, prevalentemente in sede di riparto della giurisdizione su controversie giuslavoristiche (ad es., Cass, ss.uu., ord. n. 5054 del 2004), e da alcune sentenze di questo Consiglio in sede giurisdizionale (Cons. Stato, sez. III, 16 febbraio 2010, n. 841 e 20 ottobre 2012, n. 5522, confermate da Cass., ss.uu., 30 giugno 2014, n. 14742), di qualificare gli Istituti liberi di istruzione superiore come enti pubblici non economici.

4.1. Riguardo alla possibile qualificazione delle “libere” università private come enti pubblici non economici la Commissione condivide e fa proprio l’approccio ricostruttivo (negativo) delineato dalla sentenza della sez. VI di questo Consiglio 11 luglio 2016, n. 3043 (nonché dalla sentenza della stessa sezione 26 maggio 2015, n. 2660), ripreso dalla sentenza del Tar del Lazio, sez. III-quater, 27 novembre 2017, n. 11733 (riferita specificamente al tema dell’applicabilità della disciplina dei contratti pubblici), che ha escluso la suddetta qualificazione sulla base di una pluralità di argomentazioni approfondite e condivisibili che, ancorché riferite (nella sentenza di questo Consiglio, sez. VI, n. 3043 del 2016) alla diversa questione della applicabilità anche alle università c.d. “libere” della disciplina in materia di obblighi di trasparenza e pubblicità di cui al decreto legislativo 14 marzo 2013, n. 33, appaiono senz’altro utili e risolutive anche per la questione, qui oggetto di trattazione, dell’applicabilità a tali soggetti del regime dell’evidenza pubblica (la sentenza di questo Consiglio 26 maggio 2015, n. 2660 ha svolto argomenti analoghi al fine di escludere la natura di enti pubblici delle università non statali partecipanti al consorzio interuniversitario Cineca, così da negare la sussistenza in tale consorzio del requisito – allora necessario – della partecipazione totalitaria pubblica ai fini della sua configurazione come soggetto in house, ribadendo il concetto per cui la presenza di alcuni indici e regimi di tipo pubblicistico «non può, di per sé, fondare una completa equiparazione tra Università private ed enti pubblici»).

4.2. È vero, come bene chiarito nella sentenza n. 3043 del 2016, che la nozione di ente pubblico deve essere costruita in base a criteri non “statici” e “formali”, ma “dinamici” e “funzionali” e che «il criterio da utilizzare per tracciare il perimetro del concetto di ente pubblico muta a seconda dell’istituto o del regime normativo che deve essere applicato», sicché «Si ammette senza difficoltà che uno stesso soggetto possa avere la natura di ente pubblico a certi fini e rispetto a certi istituti, e possa, invece, non averla ad altri fini, conservando rispetto ad altri istituti e regimi normativi la natura privatistica». Ma è altrettanto vero che la ricostruzione di una nozione giuridica – in questo caso quella di ente pubblico non economico - deve comunque, per quanto possibile, tendere a una sua (se non unitarietà, almeno) omogeneità e coerenza sistematico-ricostruttiva. Il metodo induttivo analitico, nel quale l’indagine muove dagli effetti e dai regimi giuridici speciali, deve comunque mirare alla sintesi di una nozione unitaria, di un concetto giuridico compiuto e definito dal quale potere poi dedurre conseguenze applicative utili. Se, dunque, muovendo induttivamente dalla non applicabilità degli obblighi di trasparenza e pubblicità di cui al decreto legislativo 14 marzo 2013, n. 33, si perviene all’esclusione della classificabilità delle “libere” università nella classe tipologica degli enti pubblici non economici, allora deve ipotizzarsi che una tale qualificazione debba essere rifiutata anche avendo riferimento al diverso regime dell’evidenza pubblica per la selezione del contraente nel campo contrattuale. A maggior ragione, deve dirsi, tale deduzione è necessaria, poiché, nel settore della disciplina dei contratti pubblici è stata appositamente introdotta una figura, ampia ed elastica, quella di organismo di diritto pubblico, pensata proprio allo scopo di “catturare” quelle figure “ibride” della cui natura soggettiva si discute e che presentano, anche nel raffronto tra i diversi ordinamenti giuridici interni degli Stati membri dell’Unione, una eterogeneità di declinazioni e di configurazioni. Insomma, se partendo dalla domanda se alle università e agli istituti di istruzione superiore “liberi” fosse applicabile il regime di pubblicità-trasparenza dettato dal decreto legislativo n. 33 del 2013, si è dimostrata – con plurimi, approfonditi e condivisibili argomenti – la non riconducibilità di questi enti “ibridi” (o che, perlomeno, appaiono di dubbia classificazione) nella classe degli enti pubblici non economici, non si comprende perché quegli stessi argomenti non debbano valere partendo dalla diversa domanda se ai predetti soggetti sia o non sia applicabile il regime (peraltro connesso) dell’evidenza pubblica in materia contrattuale, tanto più che, in questo ultimo settore, l’ordinamento dispone di uno strumento classificatorio “in più”, quello di “organismo di diritto pubblico”, appositamente introdotto proprio per risolvere i casi dubbi. Sotto un diverso, ma convergente profilo, assume rilievo, nella stessa direzione di non differenziare i regimi giuridici posti a raffronto, la considerazione del parziale allineamento finalistico riscontrabile tra la disciplina degli obblighi di pubblicità-trasparenza introdotti dal d.lgs. n. 33 del 2013 (di cui si è occupato questo Consiglio nella sentenza n. 3043 del 2016) e gli obblighi di evidenza pubblica imposti dal codice dei contratti pubblici (ad es., sotto il comune profilo della prevenzione di fenomeni di corruzione, cfr. artt. 29 e 213 del codice dei contratti pubblici, e art. 1, comma 1, lettera q) della legge di delega n. 11 del 2016, già richiamati sub par. 2.5). Se il concetto di “ente pubblico non economico”, pur nella variabilità della sua declinazione, deve conservare una sua qualche qualità euristica, allora è necessario che l’eventuale differenziazione qualificatoria dell’ente, in relazione ai diversi settori e regimi applicativi, si fondi su ragioni di diversificazione sostanziali, oggettive ed evidenti, dovendosi, viceversa, di regola preferire, per salvaguardare il nucleo essenziale della definizione, l’omogeneità e la convergenza delle soluzioni ricostruttive, in specie quando ci si trovi dinanzi a settori e regimi giuridici analoghi.

4.3. La motivazione della ripetuta sentenza di questo Consiglio n. 3043 del 2016 esamina, come detto, in modo puntuale tutti gli argomenti posti dalla precedente giurisprudenza a sostegno della classificabilità delle università e degli istituti superiori liberi come enti pubblici non economici. In primo luogo essa opera un fondamentale riferimento all’art. 33 della Costituzione, nella cui cornice evidentemente il tema della natura giuridica di questi soggetti deve essere collocato, osservando come la norma costituzionale «comporta non solo che i privati possano promuovere l’istituzione di centri di istruzione, ma anche che a questi centri istituiti da privati debba essere garantita una natura sostanzialmente privata, per rispettare il principio di “autonomia ordinamentale” e di “libertà” che ad essi la Costituzione garantisce», in quanto enti di «natura sostanzialmente privata». Viene dunque correttamente richiamato a sostegno di questa impostazione anche il disposto dell’art. 1 della legge 29 luglio 1991, n. 243, che stabilisce che le università non statali legalmente riconosciute “operano nell’ambito delle norme dell’art. 33, ultimo comma, della Costituzione e delle leggi che le riguardano, nonché dei principi generali della legislazione in materia universitaria in quanto compatibili”, dal che il rilievo per cui «L’applicazione ad esse della disciplina prevista per le Università statali può avvenire alla duplice condizione che si tratti di disciplina espressione di un principio generale della legislazione in materia universitaria (condizione positiva) e che il relativo principio sia compatibile con il rispetto del principio costituzionale del pluralismo e della libertà di iniziativa privata nel campo dell’istruzione (condizione negativa)». Come rilevato dalla sentenza n. 3043 del 2016 per la materia della pubblicità e trasparenza, anche per la materia del regime della contrattazione per l’acquisto di lavori, beni e servizi può senz’altro affermarsi che «entrambe le citate condizioni non risultano integrate»: da un lato, infatti, la disciplina dei contratti pubblici «non è espressione di un principio generale specificamente afferente alla materia universitaria (si tratta semmai di un principio generale riferito all’intero settore dell’attività amministrativa); e dall’altro, e soprattutto, tale disciplina implica l’introduzione di forme controllo (pubblicistico e collettivo) che contraddicono il principio costituzionale della libertà di iniziativa dei privati nel settore dell’insegnamento».

4.4. Parimenti del tutto condivisibile viene giudicata dalla Commissione speciale la trattazione (negativa) svolta nella sentenza del 2016 dei c.d. indici di pubblicità richiamati dalla tesi che afferma la natura di enti pubblici non economici delle università e degli istituti superiori liberi, di cui alla lettera b) del secondo comma dell’art. 1 del r.d. n. 1592 del 1933. Circa la legittimazione di tali soggetti a rilasciare titoli di studio aventi valore legale, o a esercitare un limitato e circoscritto potere certificativo, è pacifica la tesi che nega a tale profilo alcun valore risolutivo sul piano della classificazione soggettiva pubblicistica, essendo diffusa e stabilizzata nell’ordinamento giuridico la presenza di poteri del genere delegati dall’amministrazione a soggetti privati concessionari di servizi pubblici o di pubblica utilità, che operano spesso anche in regime di impresa commerciale, in diversi ordinamenti settoriali (dal servizio sanitario ai trasporti, al campo degli accertamenti fiscali, etc.), ma anche a soggetti puramente privati non concessionari perché agenti in regime di mercato, come ad esempio i professionisti (medici, ingegneri e architetti, avvocati, notai) nell’ambito della loro professione, ove incidente su interessi pubblici tutelati attraverso una attività certificatoria. Basti in proposito il richiamo dell’art. 1 della legge generale sul procedimento amministrativo n. 241 del 1990 che, nel comma 1-ter, stabilisce che “I soggetti privati preposti all'esercizio di attività amministrative assicurano il rispetto dei criteri e dei principi di cui al comma 1, con un livello di garanzia non inferiore a quello cui sono tenute le pubbliche amministrazioni in forza delle disposizioni di cui alla presente legge”. È inoltre noto, molto diffuso e dibattuto il fenomeno delle “amministrazioni pubbliche in forma privatistica” e degli “enti privati costituiti per la cura di interessi generali”, come nel caso delle fondazioni di tipo associativo (si veda il Codice del Terzo settore, introdotto dal d.lgs. 3 luglio 2017, n. 117, dove l’essenza definitoria degli enti del Terzo settore è – art. 4 - il “carattere privato” e l’essere “costituiti per il perseguimento, senza scopo di lucro, di finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale mediante lo svolgimento, in via esclusiva o principale, di una o più attività di interesse generale in forma di azione volontaria o di erogazione gratuita di denaro, beni o servizi, o di mutualità o di produzione o scambio di beni o servizi”). Il perseguimento (o il concorso nel perseguimento) di finalità di interesse generale da parte di enti di diritto privato, nel quadro del principio di sussidiarietà orizzontale sancito nell’ultimo comma dell’art. 118 della Costituzione, assume ormai forme diversificate e sempre più estese nel nostro ordinamento giuridico, senza che ciò possa o debba consentire una ripubblicizzazione di aree di azione e di forme giuridiche soggettive di intervento ormai fuoriuscite dall’ambito pubblico in senso formale.

4.5. Neppure l’esistenza di poteri statali di vigilanza può assumere un rilievo decisivo «in quanto si tratta di poteri comunque specificamente previsti da puntuali disposizioni legislative preordinate ad assicurare il corretto assolvimento, nel rispetto di adeguati standard qualitativi, del servizio di interesse generale cui le stesse Università sono preposte». Come giustamente affermato nella sentenza n. 3043 del 2016 a proposito della disciplina dettata dal decreto legislativo n. 33 del 2013, «preordinata ad assicurare più che la qualità dell’istruzione universitaria, una generale esigenza di trasparenza e pubblicità che connota specificamente l’ente pubblico e trascende, non trovando in essa adeguata giustificazione la missione specifica assegnata alle libere Università», altrettanto può analogamente e coerentemente sostenersi riguardo alla disciplina dettata dal codice dei contratti pubblici in materia di gare per la selezione del privato contraente, preordinata a fini generali diversi da quello di «assicurare . . . la qualità dell’istruzione universitaria . . . non trovando in essa adeguata giustificazione la missione specifica assegnata alle libere Università». «L’impossibilità di desumere dalla mera esistenza di poteri di controllo e di vigilanza amministrativa la pubblicizzazione del soggetto vigilato e, dunque, la sua equiparazione all’ente pubblico - aggiunge la pronuncia n. 3043 del 2016 - trova conferma nella considerazione che forme di controllo anche più significativo sono variamente previste nei confronti di enti la cui natura privatistica . . . non è in discussione (si pensi, per fare solo qualche esempio, ai penetranti poteri di controllo amministrativo sulle fondazioni di diritto privato, o ai soggetti privati che operano nei c.d. mercati regolati, specie in materia di credito, risparmio ed assicurazione)». Con altrettanti argomenti, condivisi da questa Commissione speciale, la sentenza n. 3043 del 2016 ha poi esaminato partitamente gli altri profili ed elementi o indici rivelatori di un’asserita natura pubblica delle università libere private (scopi, struttura organizzativa e poteri amministrativi ritenuti analoghi a quelli delle università statali, presenza negli organi di governo delle università non statali di soggetti designati dal MIUR, esistenza di fonti di finanziamento di natura pubblicistica, reclutamento del personale docente delle università non statali secondo criteri analoghi a quelli del personale docente delle università statali, riparto della giurisdizione sulle controversie concernenti il rapporto di impiego o della sussistenza della giurisdizione della Corte dei conti per le controversie aventi ad oggetto la responsabilità di amministratori e dipendenti, potere del Ministro di irrogare la censura ai rettori o direttori e di iniziativa dei procedimenti disciplinari), argomenti cui può in questa sede per sintesi rinviarsi. La precedente giurisprudenza, in definitiva, tendeva ad affermare la natura pubblicistica delle università e degli istituti superiori non statali sulla base del postulato della sostanziale unitarietà (pubblicistica) del sistema dell’istruzione superiore, per cui “in presenza di compiti e funzioni del tutto simmetrici rispetto a quelli demandati alle Università statali” (Cons. Stato, sez. VI, sentenza n. 841 del 2010) e di una “tendenziale identità dei due tipi di atenei, collegati nella regolamentazione giuridica e forniti del medesimo potere di rilasciare titoli aventi valore legale” (Cass., ss.uu., ord. n. 5054 del 2004), dovesse ritenersi “naturale” attrarre al dominio pubblico la stessa natura giuridica degli enti (privati) non statali facenti parte del sistema dell’istruzione superiore. Questa impostazione, oltre che in contrasto con il modello voluto dall’art. 33 della Costituzione, che esclude il monopolio pubblico della ricerca scientifica e dell’insegnamento di ogni ordine e grado, anche, dunque, superiore, ed esalta i fattori di autonomia e libertà di questo comparto, così fondamentale per una democrazia liberale, confonde il coordinamento (pubblico) o la direzione (pubblica) dell’attività di interesse generale con la natura intrinseca dei soggetti che vi partecipano; tale impostazione, inoltre, pecca per eccesso, poiché condurrebbe, se svolta coerentemente, ad attribuire natura pubblica a tutti gli enti privati che, analogamente, operano in settori di interesse generale (ad es., nella ricerca scientifica o nella sanità) e sono in qualche modo finanziati dallo Stato o dalle Regioni e agiscono in un sistema connotato da un forte coordinamento pubblico.

4.6. Né può ritenersi risolutiva (o utile) nel senso dell’affermazione della natura pubblicistica delle università e degli istituti superiori liberi la lettera del comma 2 dell’art. 1 del d.lgs. n. 165 del 2001, che sembra includere nel novero delle “amministrazioni pubbliche”, al terzo rigo del comma, “le istituzioni universitarie”, senza aggettivi o specificazioni; non solo, quindi, sembrerebbe, quelle statali o degli altri enti pubblici, territoriali e non, ma le istituzioni universitarie tout court, indistintamente, incluse quelle private. La lettera della disposizione non è mai stata, tuttavia, in nessuna sede valorizzata e interpretata in questa chiave radicale, che la porrebbe in contrasto sia con l’art. 1 del testo unico delle leggi sull'istruzione superiore del 1933, che è la sede propria della materia, sia con lo stesso art. 33 della Costituzione, per come correttamente interpretato dalla più volte richiamata decisione di questo Consiglio n. 3043 del 2016.

4.7. Per completezza di esame della fattispecie, si rappresenta, infine, che né lo statuto della LUMSA (approvato con decreto rettorale n. 920 del 1° agosto 2011 e pubblicato sulla G. U. n. 207 del 6 settembre 2011), né il regio decreto istitutivo 26 ottobre 1939, n. 1760 (peraltro abrogato dal “taglia-leggi”, d.P.R. 13 dicembre 2010, n. 248), offrono elementi ulteriori e diversi che possano in qualche modo deporre nel senso della qualificabilità della LUMSA come ente pubblico non economico. Dallo statuto si evince che la LUMSA è una università italiana non statale, di ispirazione cattolica, istituita in Roma con regio decreto 26 ottobre 1939, n. 1760, su iniziativa della Santa Sede per mezzo del Vicariato di Roma come ente fondatore, ha personalità giuridica ed è retta dalle vigenti disposizioni sull'istruzione universitaria, in quanto compatibili con la sua peculiarità e rilascia titoli di studio con valore legale; che la Santa Sede, anche per mezzo dell'ente fondatore, assicura il perseguimento delle finalità istituzionali della LUMSA e concorre, con l'Associazione Luigia Tincani per la promozione della cultura, a fornire i mezzi e i servizi necessari al suo funzionamento e al suo sviluppo, anche sulla base di apposite convenzioni; che l'Ente morale «Unione S. Caterina da Siena delle Missionarie della Scuola», in prosecuzione del ruolo svolto sin dalla fondazione, ha il compito di curare l'organizzazione e la gestione amministrativa della LUMSA con la quale collabora per il conseguimento dei suoi fini specifici; che la LUMSA gode di autonomia didattica, scientifica, amministrativa, organizzativa e disciplinare, secondo i principi stabiliti dalla Costituzione, dalla normativa vigente e dalle norme dello Statuto, non persegue fini di lucro e impiega le proprie risorse per lo sviluppo dell'università e per le finalità previste dallo statuto, sotto la vigilanza dello Stato, esercitata dal Ministero dell'Istruzione, dell'università e della ricerca; ha sede legale in Roma, via della Traspontina n. 21, nell'immobile appositamente costruito e dalla Santa Sede destinato al perseguimento delle finalità dell'università.

4.8. La Commissione si persuade pertanto della esclusione della qualificazione in termini di enti pubblici non economici della LUMSA e ritiene che per la soluzione del problema debba più utilmente a appropriatamente guardarsi alla nozione di “organismo di diritto pubblico”.

5. Occorre a questo punto interrogarsi sulla riconducibilità delle università e degli istituti superiori liberi nella categoria, di matrice europea, dell’ “organismo di diritto pubblico”.

5.1. Dall’esposizione in fatto delle posizioni e delle tesi che al riguardo si contrappongono emerge che vi è una sostanziale condivisione sulla sussistenza, per gli enti in esame, dei primi due dei tre requisiti necessariamente concorrenti (personalità giuridica e costituzione per soddisfare esigenze di interesse generale, aventi carattere non industriale o commerciale), mentre seri dubbi si appuntano sul terzo requisito, quello dell’influenza pubblica dominante. E, più in particolare, delle tre possibili modalità alternative in cui quest’ultimo requisito si suddivide – contributo finanziario pubblico maggioritario, oppure controllo pubblico della gestione, oppure prevalenza pubblica nella governance -, mentre parrebbe agevole escludere la ricorrenza della prima e della terza modalità, più complessa e problematica sembrerebbe la disamina relativa alla seconda modalità, non essendo peraltro del tutto chiaro in diritto cosa debba esattamente intendersi, ai fini della qualificabilità di un ente come “organismo di diritto pubblico”, con la locuzione “la cui gestione sia soggetta al controllo di questi ultimi (Stato o altri enti pubblici)”.

5.2. Ricorrono i primi due dei tre requisiti concorrenti per la qualificazione dell’ente in termini di organismo di diritto pubblico, poiché la LUMSA è sicuramente persona giuridica, anche se di diritto privato, ed è appositamente costituita, in quanto inserita nel sistema dell’istruzione superiore, per soddisfare specificatamente esigenze di interesse generale (“L'istruzione superiore ha per fine di promuovere il progresso della scienza e di fornire la cultura scientifica necessaria per l'esercizio degli uffici e delle professioni”, come recita l’art. 1 del r.d. n. 1592 del 1933). Il carattere non industriale o commerciale di queste esigenze di interesse generale – i fini dell’istruzione superiore, in sé considerati – sarebbe acquisito, seguendo la giurisprudenza prevalente (ad es. Corte di Giustizia CE, 10 maggio 2001, in cause riunite C-229/99 e C-260/99, Ente Fiera di Milano; Cons. Stato, sez. VI, n. 4711 del 2002) che riferisce tale predicato non già all’attività svolta e alle sue modalità, bensì ai bisogni di interesse generale il cui soddisfacimento si ha di mira, sicché la circostanza che l’attività possa essere svolta in tutto in parte anche in un regime concorrenziale, se può costituire un indice rilevante ai fini di tale valutazione, non rappresenterebbe un dato risolutivo e dirimente (si veda anche, da ultimo, Cons. Stato, sez. V, 12 febbraio 2018, n. 858, che ha ritenuto organismo di diritto pubblico la Fondazione I Teatri di Reggio Emilia escludendo, per il profilo che qui interessa, che lo svolgimento di attività teatrali con modalità anche commerciali potesse escludere la finalizzazione al perseguimento di scopi di interesse generale; in tal senso anche Corte di Giustizia UE, sentenza 5 ottobre 2017, C-567/15, UAB LitSpecMet UAB). La Commissione speciale evidenzia, peraltro, riguardo a quest’ultimo aspetto, per completezza di trattazione delle questioni coinvolte nell’affare, che questa impostazione, volta a porre in maggior rilievo la natura intrinseca delle finalità perseguite e a dequotare le modalità (imprenditoriali) e il contesto (di mercato concorrenziale) in cui il soggetto opera, andrebbe probabilmente approfondita e ridiscussa, in specie in casi, quali quello all’odierno esame, in cui emerge una notevole caratterizzazione imprenditoriale e concorrenziale dell’attività svolta (è noto che, oramai, gli istituti di istruzione superiore, soprattutto quelli privati, ma entro certi limiti anche quelli pubblici, operano in una logica di vera e propria competizione di mercato, articolando un’offerta formativa e logistica sempre più attraente – percorsi formativi, programmi, disponibilità ricettive, campus, selezione di docenti di vaglia, etc. – per contendersi la platea degli studenti, dalle cui iscrizioni derivano peraltro, di regola, la propria prevalente alimentazione economica). Si deve, infatti, a questo proposito osservare, che anche le università pubbliche sono tenute ormai a gestire il servizio con criteri di economicità, in base ai quali modulano perfino l’ampiezza e il contenuto dello stesso servizio (istituzione o soppressione di dipartimenti e corsi di laurea in relazione al piano finanziario e alle potenzialità del mercato dello studio, investitemi strutturali e calcolo del break even point etc.), per cui si può a ben ragione ritenere che il servizio dell’istruzione universitaria non sia per sé, ontologicamente, di natura non industriale o commerciale, e diventi tale solo ove, a causa della sua meritevolezza, sia gestito dal pubblico con criteri non economici, o dal privato con sostanziosi contributi pubblici.

In sostanza sembra doversi escludere la natura non industriale e commerciale sia quando tale esclusione non sia espressamente postulata dalle norme, sia soprattutto quando l’ordinamento di settore sottoponga l’attività non solo al mercato e alla concorrenza, ma soprattutto agli ordinari criteri economici aziendali, come nel caso di specie.

Tuttavia, senza entrare nel merito della questione, che esula dai limiti del richiesto parere, per maggiore sintesi, conviene postulare sussistente, nella fattispecie, il suddetto carattere non industriale e commerciale delle finalità di interesse generale e concentrare l’attenzione sul profilo assorbente della così detta “influenza pubblica dominante”, per un test sostanziale di riconducibilità della LUMSA nel tipo giuridico “organismo di diritto pubblico”.

5.3. Si dubita, dunque, della sussistenza del terzo requisito, quello della così detta “influenza pubblica dominante”. Si è detto che tale terzo requisito si frange al suo interno in tre possibili modalità in cui esso può alternativamente presentarsi e sussistere: il contributo finanziario pubblico maggioritario (inteso in termini quantitativi, come “più della metà” rispetto al volume complessivo di bilancio annuale dell’ente), o il controllo pubblico della gestione, o la presenza maggioritaria di rappresentanti pubblici negli organi di amministrazione, di direzione o di vigilanza.

5.4. Nel caso della LUMSA non sussistono le modalità prima e terza (l’ANAC, nella richiesta di parere, dà atto che i contributi pubblici – del Ministero vigilante – non superano il 3,86 per cento rispetto al computo delle entrate totali e che, su undici componenti l’organo di amministrazione, solo un consigliere, senza deleghe speciali, è nominato dal predetto Ministero; i membri del Collegio dei revisori contabili - art. 23 dello statuto - sono nominati dal Consiglio di amministrazione tra gli iscritti al registro dei revisori contabili, esterni all'università, senza la partecipazione di alcun rappresentante pubblico).

5.5. Si dubita, invece, della possibile sussistenza, nella fattispecie, della seconda (possibile) modalità alternativa di presentazione del requisito della così detta “dominanza pubblica”, ed esattamente nelle forme della “gestione . . . soggetta al controllo di questi ultimi (Stato o altri enti pubblici)”. Si adducono a sostegno della tesi affermativa della sussistenza di questo terzo requisito, nella ora detta modalità o forma di manifestazione, quegli stessi elementi di “controllo” pubblico già presentati per dimostrare la pretesa natura di ente pubblico non economico della LUMSA: approvazione ministeriale dello statuto (e delle sue modifiche), sottoposizione alla vigilanza ministeriale, comunicazione del bilancio preventivo e del conto consuntivo, con possibilità, in caso di finanziamento pubblico, di richiesta di chiarimenti da parte del Ministero; potere ispettivo ministeriale, sempre in presenza di finanziamenti pubblici; approvazione ministeriale delle designazioni nelle commissioni di concorso; potere statale di soppressione in caso di insufficienza di mezzi.

5.6. Ora, per comprendere se questi indici siano sufficienti a integrare il presupposto della “dominanza pubblica” nella sua modalità del controllo pubblico della gestione (gestione . . . soggetta al controllo di questi ultimi - Stato o altri enti pubblici), occorre domandarsi quale sia la nozione utile nel diritto dell’Unione di “controllo della gestione”: si tratta di una nozione aziendalista e sostanziale (ossia, in sintesi, implicante la capacità del controllore di incidere sulle scelte gestionali più importanti), o di una nozione di tipo formale-pubblicistico, assimilabile alla (peraltro molto complessa e a tratti confusa) nozione di “vigilanza” in uso nel diritto interno? Occorrerà comunque interrogarsi sulla natura di questa “vigilanza” ministeriale, prevista dal regio decreto del 1933 e dalla legge 29 luglio 1991, n. 243, per cercare di capire se ci si trova di fronte a una vigilanza in senso “forte” (controllo sulla legittimità degli atti e/o riconducibilità alla responsabilità del vertice politico del Ministero vigilante dell’andamento complessivo dell’ente privato vigilato), oppure se si abbia a che fare con una figura più generica, sfuocata ed elastica di vigilanza, quale peraltro è ben conosciuta nella prassi, in specie nei rapporti tra amministrazione pubblica e soggetti privati del Terzo settore o che comunque operano in sussidiarietà orizzontale nel perseguimento (o nel concorso al perseguimento) di finalità di interesse generale (si pensi ai campi della cultura e dell’assistenza sociale in senso ampio, dove la vigilanza ministeriale su enti privati, spesso di natura fondazionale, si concretizza in una mera sorveglianza sulla stabilità strutturale ed economico finanziaria della fondazione e sulla coerenza dell’attività con i fini di interesse generale convergenti con lo scopo della fondazione o dell’associazione). In questi casi il tipo di vigilanza esercitata dall’amministrazione sembra riconducibile al modello della vigilanza prefettizia sugli enti morali di cui al Libro I del codice civile, piuttosto che alla vigilanza in senso pubblicistico nel suo significato tecnico (per quanto, si ripete, anch’esso, piuttosto vago e incerto e multiforme). Significativa in tale direzione risulta anche la lettera della norma del 1933, dove l’art. 1, secondo comma, del r.d. n. 1592 stabilisce che la vigilanza ministeriale è espressamente riferita all’autonomia amministrativa, didattica e disciplinare delle “libere” università private (“Le Università e gli Istituti hanno personalità giuridica e autonomia amministrativa, didattica e disciplinare, nei limiti stabiliti dal presente testo unico e sotto la vigilanza dello Stato esercitata dal Ministro dell'educazione nazionale”), a rimarcare che tale vigilanza non deve intaccare l’autonomia amministrativa e gestionale dell’ente privato, né può ad essa sovrapporsi o sostituirsi, ma deve rispettare quell’autonomia amministrativa, didattica e disciplinare che costituisce la ragion d’essere di questo autonomo tipo di università e istituti superiori “liberi”, distinti da quelli statali e pubblici. Ad avviso della Commissione un elemento di valutazione decisivo al fine di distinguere i casi di “vigilanza” in senso forte, intrinseco e sostanziale, rispetto ai casi di vigilanza generica, se si vuole “debole” e solo formale ed estrinseca, è costituito dall’attribuzione (o meno) all’amministrazione vigilante del potere di approvazione dei bilanci e dei principali atti organizzatori dell’ente vigilato (regolamenti interni, pianta organica, partecipazioni in altri enti, etc.). In presenza di tali poteri di approvazione, che condizionano l’efficacia degli atti principali dell’ente vigilato, è evidente che la vigilanza si traduce in un potere di ingerenza diretta e sostanziale nella vita gestionale. La previsione della sola comunicazione dei bilanci (con un correlativo e naturale potere di eventuale interlocuzione – non ostativa e condizionante, ma collaborativa e propositiva – su di essi) e l’assenza di qualsivoglia potere di controllo di legittimità sugli atti di principale importanza dell’ente vigilato, quali quelli esemplificativamente sopra indicati, depongono invece nel senso della natura solo esterna e puramente formale della vigilanza stessa, inidonea, ad avviso della Commissione speciale, a integrare la modalità di esistenza del requisito della dominanza pubblica costituta dal controllo pubblico sulla gestione. Del resto, nella nozione tradizionale di “vigilanza” propria del diritto interno si è sempre incluso un nucleo significativo di controllo di legittimità sugli atti dell’ente vigilato.

5.7. La direttiva 2014/24/UE riprende la definizione di “organismo di diritto pubblico” delle precedenti direttive e fornisce talune precisazioni solo riguardo alla nozione di “esigenze di interesse generale, aventi carattere non industriale o commerciale” e a quella di finanziamento pubblico maggioritario, nozioni sulle quali aveva avuto modo di intervenire la Corte di giustizia, ma nulla dice riguardo alla nozione di “gestione posta sotto la vigilanza di autorità o organismi” pubblici (è qui da notare, ciò che contribuisce ad alimentare il dubbio sulla esatta consistenza e configurazione di questo rapporto di “dominanza” pubblica nella modalità della incidenza sulla gestione, che la traduzione italiana ufficiale dell’art. 2, comma 1, n. 4), della direttiva 2014/24/UE parla di “vigilanza” - “gestione posta sotto la vigilanza di autorità o organismi”-, mentre il codice dei contratti pubblici, sia nella versione del 2006, sia nel testo vigente del 2016, nell’art. 3, comma 1, lettera d), numero 3), parla di “controllo” – “la cui gestione sia soggetta al controllo di questi ultimi”).

Il Considerando n. 10 della direttiva dà conto del fatto che «La nozione di «amministrazioni aggiudicatrici» e, in particolare, quella di «organismi di diritto pubblico» sono state esaminate ripetutamente nella giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione europea»; dichiara perciò la volontà di «mantenere le definizioni su cui si è basata la Corte e [di] inserire alcune precisazioni fornite da detta giurisprudenza quale chiave di lettura delle definizioni stesse, senza l’intenzione di alterare la comprensione di tale concetto quale elaborato dalla giurisprudenza». In tal modo il 10° Considerando si limita a precisare che «un organismo che opera in condizioni normali di mercato, mira a realizzare un profitto e sostiene le perdite che risultano dall’esercizio delle sue attività non dovrebbe essere considerato un «organismo di diritto pubblico», in quanto è lecito supporre che sia stato istituito allo scopo o con l’incarico di soddisfare esigenze di interesse generale che sono di natura industriale o commerciale», e che «Analogamente, la giurisprudenza ha anche esaminato la condizione relativa all’origine del finanziamento dell’organismo in questione, precisando, tra l’altro, che per «finanziati in modo maggioritario» si intende per più della metà e che tale finanziamento può includere pagamenti da parte di utenti che sono imposti, calcolati e riscossi conformemente a norme di diritto pubblico». Ma nulla ha detto sul controllo pubblico della gestione. L’uso, nella traduzione italiana dell’art. 2, comma 1, n. 4), della direttiva 2014/24, del termine “vigilanza” («[la loro] gestione è posta sotto la vigilanza di tali autorità o organismi») non può ritenersi risolutivo, sia per la non perfetta corrispondenza con le altre lingue ufficiali dell’Unione, sia per la già rilevata ambiguità e incertezza del significato che il termine “vigilanza” riveste effettivamente in diritto italiano. Nella versione inglese ricorre la locuzione «or are subject to management supervision by those authorities or bodies»; in quella francese la formula «soit sa gestion est soumise à un contrôle de ces autorités ou organismes»; in quella tedesca «oder unterstehen hinsichtlich ihrer Leitung der Aufsicht dieser Gebietskörperschaften oder Einrichtungen»; in quella spagnola «ocuya gestión esté sujeta a la supervisión de dichas autoridades u organismos». In particolare la versione inglese e quella spagnola, ove si parla di “supervisione”, evidenziano come in diritto europeo la nozione di “controllo di gestione” pertinente al disposto dell’art. 2, comma 1, numero 4), della direttiva sembra essere quella sostanziale-aziendalistica. Nel medesimo senso muove l’uso, nel testo tedesco, del termine Aufsicht invece che Kontrolle o Ueberpruefung. Inoltre, come detto, significativamente il codice dei contratti pubblici ha abbandonato il termine “vigilanza” e ha optato per il termine “controllo”.

5.8. Né a conclusioni di segno diverso può consentire di giungere la previsione del già citato art. 3 della legge 29 luglio 1991, n. 243, che, nell’ammettere al finanziamento pubblico le università non statali legalmente riconosciute (ciò che non era previsto nel regio decreto del 1933, che, anzi, tale possibilità escludeva espressamente: art. 4), ha in effetti rafforzato il controllo pubblico sulle università e istituti superiori non statali che intendono avvalersi del contributo dello Stato (oltre al già detto obbligo di presentazione annualmente al MIUR dei bilanci preventivo e consuntivo, obbligo di presentazione di “una relazione sulla struttura e sul funzionamento dell'università stessa, con l'indicazione di dati statistici e informativi riguardanti: il numero degli studenti; le facoltà, i corsi di laurea, le scuole, i corsi di dottorato di ricerca, i dipartimenti e gli istituti; l'organico del personale docente e non docente; la dotazione di strumentario scientifico, tecnico e di biblioteca; la consistenza e il grado di disponibilità delle strutture immobiliari adibite alle attività universitarie; le condizioni finanziarie con specificazione delle entrate derivanti dalle tasse e dai contributi studenteschi”, con potere ministeriale di chiedere chiarimenti sui dati forniti e di disporre ispezioni al fine di accertare la sussistenza dei requisiti richiesti e dichiarati, con dovere, infine, del Ministro di riferire il Parlamento annualmente sui criteri e le procedure adottate nell'erogazione dei contributi). È evidente che questa previsione – essa sì introduttiva di penetranti poteri di controllo, che catturano anche aspetti squisitamente gestionali – è strettamente preordinata a (e commisurata su) l’esigenza di controllo della corretta spendita del contributo pubblico, ma (proprio perciò) non si estende a 360 gradi a investire l’intera vita e attività dell’ente.

Viene a tal proposito in rilievo la nota questione – molto dibattuta in giurisprudenza e in dottrina, a partire dalla sentenza della Corte di giustizia del Lussemburgo 10 novembre 1998 in causa C-223/1999, Mannesmann – se sia o meno possibile ipotizzare una qualificazione parziale di un ente in termini di organismo di diritto pubblico (la LUMSA, in questa logica, sarebbe “organismo di diritto pubblico” solo limitatamente all’uso dei fondi di provenienza pubblica e per la spendita di tali fondi dovrebbe seguire le procedure di evidenza pubblica). È altrettanto noto che questa tesi – esclusa dalla citata sentenza Mannesmann, poi ammessa in parte da successiva giurisprudenza (Corte di giustizia 22 maggio 2003, in causa C-18/2001, Taitotalo Oy) – presenta gravi inconvenienti pratici nell’applicazione, prima ancora che seri dubbi teorici sul piano della logica ricostruttiva dell’istituto: il diritto, come bene chiarito sin dall’inizio di questo dibattito nella sentenza Mannesmann, deve per quanto possibile fornire soluzioni univoche e utili per la prassi, in quanto scienza orientata alla ragion pratica, che deve perciò evitare soluzioni che, se pur possano reggere sul piano teorico, si rivelino poi ingestibili sul piano pratico. Occorre fare una scelta e dare un’identità precisa al soggetto della cui definizione si tratta, altrimenti si svuota di ogni utilità lo stesso sforzo di sintesi definitoria. Ad ogni modo, anche a voler ammettere, sia pur in linea solo teorica, che una tale frammentazione definitoria dell’ente possa essere configurabile allorquando il medesimo ente svolga diverse tipologie oggettive di attività, alcune delle quali squisitamente commerciali (si pensi, ad esempio, al caso in cui un ente non profit, come eccezione rispetto alla sua attività altruistica fondamentale prevista come scopo statutario, svolga anche talune attività commerciali strumentali), sembra evidente che tale possibilità di una qualificazione in parte qua come organismo di diritto pubblico risulta invece impossibile o ingestibile nel diverso caso, quale quello in esame, in cui il controllo di gestione sussisterebbe in tesi solo per la parte in cui l’istituto di istruzione superiore svolga (non già un’attività “altra” e diversa rispetto a quella di formazione, ma) quella stessa attività di formazione e di insegnamento che costituisce il suo scopo istituzionale, ma usando soldi pubblici e non fondi privati. In altri termini, una qualificazione dell’ente come “organismo di diritto pubblico” solo in parte qua appare in tesi possibile solo quando si abbia a che fare con tipologie di attività diverse, non già quando la pretesa qualificazione parziale debba essere fondata solo sulla diversa fonte (statale) di finanziamento dell’unica attività – finalizzata al perseguimento di interessi generali – posta in essere dall’ente.

5.9. La Commissione si persuade, infine, della prevalenza degli elementi che depongono a favore nella non sussistenza, nel caso della LUMSA, di quel controllo di gestione, in senso forte e sostanziale, da parte del Ministero vigilante, che è necessario al fine di qualificare un ente di diritto privato come “organismo di diritto pubblico”, qualificazione che deve investire in modo unitario l’ente nel suo complesso e non può essere predicata e attribuita solo con riferimento a quella parte dell’ (unica) attività dell’ente che sia finanziata con fondi pubblici. Soccorrono in tale direzione anche le condivisibili considerazioni svolte nella più volte richiamata sentenza di questo Consiglio, sez. VI, n. 3043 del 2016 (si veda supra, par. 4.5), intese ad evidenziare come le numerose forme di vigilanza estrinseca e formale che lo Stato esercita su svarianti soggetti di diritto privato, che operano usando il diritto privato in campi di utilità sociale convergenti con i fini di interesse generale dell’amministrazione, non possono assumere un valore decisivo di indice della natura pubblica di tali soggetti, essendo preordinate in realtà non già ad attrarre nel perimetro del regime pubblicistico tali soggetti (che si collocano nell’alveo della sussidiarietà orizzontale), bensì esclusivamente «ad assicurare il corretto assolvimento, nel rispetto di adeguati standard qualitativi, del servizio di interesse generale cui . . » gli enti vigilati sono votati in base alla propria missione statutaria. Diversamente opinando si perverrebbe a una generalizzata e indiscriminata “pubblicizzazione” di una moltitudine di enti privati, anche del Terzo settore, ma anche di soggetti commerciali, ad esempio nel settore sanitario o assistenziale, o anche in talune attività artigianali, nei quali sono sicuramente presenti interessi generali diffusi, con regresso dell’ordinamento allo stato anteriore alla Costituzione del 1948 e al principio ora detto della sussidiarietà orizzontale (che era già contenuto in nuce nel testo originario della Carta fondamentale, anche se vi è stato enunciato in modo esplicito solo con la riforma del Titolo V introdotta nel 2001), oltre che della libertà di intrapresa di cui all’art. 41 Cost.

5.10. Né pare sostenibile la possibilità che la verifica circa la sussistenza del terzo presupposto, quello della così detta “dominanza pubblica”, che si articola al suo interno, come detto, in tre diverse modalità esistenziali (ciascuna delle quali peraltro da sola sufficiente, se sussistente, a determinare la qualificazione in termini di “organismo di diritto pubblico”), possa o debba ricavarsi dalla “sommatoria” delle tre modalità (contribuzione pubblica maggioritaria, controllo pubblico della gestione, presenza pubblica dominate negli organi di amministrazione e vigilanza), quasi come se tre insufficienze (ossia l’insufficienza di ciascuna delle diverse modalità singolarmente considerata) possano, sommate insieme, dare comunque corpo alla “dominanza pubblica”, altrimenti insussistente, così da fare, insieme, una sufficienza. Anzi, come si chiarirà nel successivo par. 5.11, è caso mai vero il contrario, ossia che le insufficienze evidenti delle altre due modalità possono avere un loro rilievo nella valutazione della terza modalità (di dubbia consistenza). La norma è chiara nell’isolare i tre aspetti e nell’imporre, per ciascuno di essi, una determinata soglia “quantitativa” di rilevanza, impedendo in tal modo la sommatoria o sintesi tra di essi al fine di sopperire alla carenza dimensionale di ciascuno singolarmente considerato. In ogni caso, nel caso concreto in esame, non pare comunque che una siffatta sommatoria sia in grado di condurre a un giudizio affermativo della sussistenza del presupposto della “dominanza pubblica”: ciascuno dei tre aspetti si presenta, nel caso della LUMSA, talmente fievole e minimale da non consentire, nemmeno nella sommatoria tra di essi, di assurgere a quel livello dimensionale minimo a integrare il concetto di “dominanza” che, come dice la parola stessa, implica una prevalenza dell’elemento pubblico. Altrimenti opinando si finirebbe illogicamente per confondere la “dominanza” con la mera partecipazione pubblica.

5.11. È vero, d’altro canto, che nella realtà delle cose spesso questi tre aspetti convergono e/o sono di fatto tra loro interrelati, nel senso che la contribuzione pubblica giustifica l’ingerenza nella governance e l’ingerenza nella governance serve ad attuare il controllo pubblico sulla gestione e sulla spendita di danaro pubblico. Le annotazioni ora svolte, se messe a raffronto con le più recenti indicazioni in materia di “organismi di diritto pubblico” derivabili dalla giurisprudenza dell’Unione, paiono utili per sottolineare un criterio, che resta comunque centrale ai fini dell’indagine di qualificazione degli enti sotto il profilo esaminato: l’esigenza di una considerazione di sintesi di tutti i profili rilevanti. Corte di giustizia UE, sentenza 5 ottobre 2017, C-567/15, UAB LitSpecMet, ad esempio, ha ribadito (punto 31 della motivazione) che «Alla luce degli obiettivi delle direttive in materia di aggiudicazione degli appalti pubblici, volte a escludere sia il rischio che gli offerenti o candidati nazionali siano preferiti nell’attribuzione di appalti da parte delle amministrazioni aggiudicatrici, sia la possibilità che un ente finanziato o controllato dallo Stato, dagli enti pubblici territoriali o da altri organismi di diritto pubblico si lasci guidare da considerazioni diverse da quelle economiche, la nozione di «amministrazione aggiudicatrice», ivi compresa quella di «organismo di diritto pubblico», deve essere interpretata in modo funzionale ed ampio (v., in tal senso, sentenza del 15 maggio 2003, Commissione/Spagna, C-214/00, EU:C:2003:276, punto 53 e giurisprudenza citata)». Conseguentemente, in definitiva, guardando al fine della direttiva e al senso più profondo dell’introduzione della nozione di “organismo di diritto pubblico”, occorre in conclusione formulare un giudizio sintetico che, tenendo conto di tutti i profili rilevanti, miri a capire «se l’organismo di cui trattasi opera in condizioni normali di mercato, persegue uno scopo di lucro e subisce le perdite collegate all’esercizio di dette attività», spettando «al giudice del rinvio verificare, sulla base di tutti gli elementi di diritto e di fatto del caso di specie, se, al momento dell’aggiudicazione dell’appalto di cui trattasi nel procedimento principale, le attività esercitate» dall’ente della cui qualificazione si tratta, «dirette al soddisfacimento delle esigenze di interesse generale, fossero effettuate in situazione di concorrenza, e in particolare» se l’ente «potesse, alla luce delle circostanze della specie, lasciarsi guidare da considerazioni diverse da quelle economiche». Ciò che massimamente rileva e conta, in definitiva, nel giudizio sintetico conclusivo, è la considerazione se, nell’esercizio delle sue attività finalizzate a soddisfare esigenze di interesse generale, il soggetto «si lasci guidare da considerazioni diverse da quelle economiche, circostanze che spetta al giudice del rinvio verificare» (citazioni dalla richiamata sentenza della Corte di giustizia UE 5 ottobre 2017, C-567/15, UAB LitSpecMet). La verifica del giudice del caso di specie, dunque, tenendo conto del concorso di tutti e tre i requisiti necessari e del modo quali-quantitativo in cui ricorrono e si atteggiano, deve formulare un giudizio sintetico orientato dalla considerazione del fine della direttiva e dell’introduzione nell’ordinamento della figura dell’ “organismo di diritto pubblico”: se l’ente esaminato, nella selezione delle imprese fornitrici, si possa lasciar guidare – per la forte ingerenza pubblica nella sua vita e nella sua organizzazione - da considerazioni diverse da quelle economiche, potendo in tal modo discriminare gli operatori economici del mercato di riferimento, dovendo rispondere piuttosto a criteri di tipo politico, dettati dall’autorità di controllo, che non da criteri propriamente concorrenziali, allora sarà possibile la sua qualificazione come “organismo di diritto pubblico”; se, invece, nella considerazione di sintesi di tutti gli elementi fattuali e giuridici rilevanti nel caso concreto, si debba pervenire a una conclusione contraria, negativa di tale possibilità, allora la qualificazione dovrà essere esclusa, essendo già nei fatti assicurato quel rispetto dei principi di concorrenza che sono salvaguardati dal diritto eurounitario. In quest’ottica, l’incertezza della seconda modalità esistenziale del terzo requisito (il controllo pubblico della gestione) deve infine essere considerata anche alla luce della consistenza delle altre due possibili modalità, nel senso che non è senza rilievo, in una visione correttamente di sintesi del profilo in esame e in un’ottica teleologica, come sopra evidenziata, la considerazione del grado di insufficienza delle altre due modalità, la cui dimensione aiuta a comprendere il complessivo atteggiarsi del rapporto con l’amministrazione vigilante e getta in qualche modo una luce sulla comprensione della terza modalità: se l’ente sotto osservazione riceve un contributo pubblico, più che minoritario, del tutto esiguo; se la presenza di rappresentanti pubblici negli organi di amministrazione e di vigilanza è anch’essa, più che minoritaria, minima e quasi irrilevante, allora tutto questo non può essere senza significato nella valutazione del rapporto con l’amministrazione vigilante e nella valutazione se tale rapporto possa davvero configurarsi in termini di “dominanza pubblica”; soprattutto, la considerazione complessiva delle altre due modalità – minimale contributo economico-finanziario, irrilevante presenza di rappresentanti pubblici negli organi – aiuta a comprendere e correttamente qualificare la natura e la consistenza della vigilanza esercitata dal Ministero, che va dunque qualificata in termini solo estrinseco-formali e non intrinseco-sostanziali.

Viene in proposito in rilievo il recente precedente costituito dalla sentenza del Tar del Lazio, sez. I, 13 aprile 2018, n. 4100, che, su un ricorso proposto contro la FIGC avverso la lettera di invito a una procedura negoziata plurima per l'affidamento dei servizi di trasporto e facchinaggio, ha ritenuto la giurisdizione amministrativa sulla base della qualificazione della Federazione sportiva come “organismo di diritto pubblico”, imperniando tale decisione proprio sulla rilevazione del terzo requisito (la “dominanza pubblica”) nella modalità del controllo pubblico sulla gestione (“è incontestato – ha rilevato il T.A.R. - che non si versi nell’ipotesi del finanziamento maggioritario di provenienza pubblica, in quanto il finanziamento in favore della FIGC da parte del CONI è inferiore al 50% dei fondi dalla stessa posseduti”; il T.A.R. ha quindi esaminato il controllo effettuato dal CONI sulla Federazione: “Dal quadro complessivo così delineato emerge che, pur essendo espressamente riconosciuta dalla legge e dallo Statuto del CONI l'autonomia delle Federazioni, il controllo esercitato dal Comitato Olimpico si concretizza nella titolarità di poteri salienti nella vita e nell'attività delle stesse (e, quindi, della FIGC), a cominciare dal riconoscimento, ancorato all'analisi dei requisiti sopra elencati, per continuare con l'approvazione dello statuto e del bilancio di tali enti, fino alla verifica complessiva in ordine allo svolgimento dell'attività di promozione sportiva in armonia con le deliberazioni e gli indirizzi del CIO e del CONI”). Nel caso delle Federazioni sportive, dunque, emerge, in più rispetto alle libere università private, che lo stesso riconoscimento della personalità giuridica è concesso a seguito del controllo del Consiglio Nazionale del CONI e, in caso successiva mancanza dei requisiti, la concessione è revocata dallo stesso organo; i bilanci della Federazione, inoltre, non sono solo comunicati, ma sono sottoposti all’approvazione da parte della Giunta Nazionale del CONI. Alla luce delle considerazioni in proposito svolte nella parte finale del par. 5.6, dove si è evidenziato come l’attribuzione del potere di approvazione dei bilanci (e non di mera conoscenza) rivesta un significato decisivo ai fini della qualificazione del tipo di vigilanza esercitata, anche il raffronto con questo caso, diverso, ma analogo, delle Federazioni sportive nazionali, in ragione della rilevata differenza sostanziale sul tipo e sul grado del controllo esercitato dall’organo di governo, rafforza, dunque, la conclusione negativa della natura di “organismo di diritto pubblico” delle università e degli istituti di istruzione privati.

5.12. Orbene, nel caso di specie in esame, uno sguardo d’insieme sui tre requisiti necessariamente concorrenti, ossia la mera personalità giuridica di diritto privato della LUMSA (primo requisito), il perseguimento istituzionale di finalità, convergenti con quelle pubbliche, di istruzione superiore di interesse generale non aventi carattere industriale e commerciale, ancorché svolte anche in un regime concorrenziale (secondo requisito, secondo la tesi sopra illustrata ma non pienamente condivisa dalla Sezione come dianzi illustrato e quindi dubitativamente ammesso), il “controllo pubblico sulla gestione”, ma relativo solo a una quota di gran lunga minoritaria dell’attività, quella finanziata dallo Stato, e fievole e solo formale riguardo al resto dell’attività dell’ente (terzo requisito di assai dubbia sussistenza), dimostra che la LUMSA, nell’affidamento di lavori, nell’acquisto di beni e servizi strumentali alla sua attività formativa non corre alcun rischio effettivo di fuoriuscire da quei criteri economici del mercato concorrenziale, per obbedire a logiche e indirizzi imposti dal Ministero vigilante, tale da giustificare, nella logica del diritto europeo, il suo assoggettamento agli oneri e alle incombenze dell’evidenza pubblica.

6. Esclusa, dunque, la qualificazione della LUMSA in termini di ente pubblico non economico e di organismo di diritto pubblico, sciogliendo la riserva formulata sul punto nel par. 3.1, torna attuale e necessaria la definizione della prima delle tre questioni in cui, come detto nel par. 1, si articola la soluzione del quesito oggetto di trattazione, ossia la questione della attuale vigenza e non abrogazione dell’art. 51 del r.d. n. 1592 del 1933 che, richiamato dall’art. 199 stesso decreto, rende applicabile alle università e agli istituti di istruzione superiori liberi l’obbligo di effettuazione delle gare per le spese superiori alla soglia ivi stabilita (da ultimo definita in Lit. 177 milioni). Le ampie considerazioni svolte nei paragrafi precedenti, soprattutto, in particolare, quelle, contenute nei parr. 2.6 e da 4.3 a 4.5, riguardanti il doveroso inquadramento della disciplina delle università e degli istituti di istruzione superiore non statali nella cornice dell’art. 33 Cost. e nel mutato sistema ordinamentale e socio-culturale, che vede, oggi, un ordinamento liberale con un’economia sociale di mercato improntata al principio della sussidiarietà orizzontale, in cui l’autonomia dei privati è riconosciuta e tutelata dalla Costituzione e può concorrere, senza perdere la sua connotazione di autonomia e libertà, al perseguimento di fini sociali anche mediante la delega dello svolgimento di attività amministrative, inducono la Commissione speciale a concludere nel senso dell’intervenuta abrogazione implicita della sopra richiamata norma recata dal combinato disposto delle disposizioni degli artt. 51 e 199 del r.d. n. 1592 del 1933. La norma ora detta, di assoggettamento all’obbligo di gara, più che espressiva di un autonomo valore giuridico che possa essere valutato ancora vivo e attuale, non era altro che un riflesso applicativo dei principi dell’allora vigente sistema della contabilità generale dello Stato, di cui al r.d. n. 2440 del 1923, sistema ormai superato e in tutto sostituito dal vigente codice dei contratti pubblici del 2016, che deve dunque costituire l’unico testo di riferimento per stabilire e definire il perimetro di applicabilità soggettiva dell’obbligo di enti formalmente privati di adottare procedure di tipo pubblicistico per la contrattazione. Merita condivisione, in questa direzione, la conclusione raggiunta dalla richiamata pronuncia del Tar del Lazio, sez. III-quater, n. 11733 del 2017, che ha ribadito che la norma sulle procedure di gara «non è espressione di un principio generale specificamente afferente alla materia universitaria (si tratta semmai di un principio generale riferito all’intero settore dell’attività amministrativa); e dall’altro, e soprattutto», che «tale disciplina implica l’introduzione a carico di un soggetto privato di una conformazione dell’attività di reperimento di beni e servizi che contraddice il principio costituzionale della libertà di iniziativa dei privati nel settore dell’insegnamento». Sarebbe d’altra parte problematico ipotizzare la sopravvivenza della norma speciale del 1933 per il solo obbligo di gara, dovendo poi fare (contraddittoriamente) applicazione al codice dei contratti pubblici, in sé non applicabile al tipo di soggetto privato in esame, solo per la definizione delle soglie di valore a partire dalle quali ammettere l’operatività di siffatto obbligo, nonché per le procedure, che dovrebbero evidentemente essere quelle applicabili oggi, non certo quelle applicabili in base alla disciplina della contabilità dello Stato allora vigente.

7. In conclusione:

Il combinato disposto degli articoli 51 e 199 del r.d. n. 1592 del 1933 deve ritenersi abrogato implicitamente per incompatibilità con il vigente sistema normativo di disciplina dei contratti pubblici, con riferimento in particolare alle nozioni di amministrazione aggiudicatrice e di organismo di diritto pubblico.

La LUMSA non è un ente pubblico non economico, ma è un ente di diritto privato.

La LUMSA non è un organismo di diritto pubblico, poiché difetta il terzo dei tre requisiti cumulativi necessari per la configurabilità di tale tipologia soggettiva, ossia il requisito della influenza pubblica dominante, poiché riceve un contributo finanziario pubblico di minima entità, registra la presenza di un solo componente pubblico sugli undici membri dell’organo di amministrazione, non presenta nessun componente pubblico nell’organo di vigilanza, non è soggetto al controllo statale della gestione, poiché la vigilanza ministeriale e gli altri poteri previsti dalla legge speciale costituiscono un potere di vigilanza estrinseca e formale e non integrano quel controllo intrinseco e sostanziale sulla gestione che è richiesto ai fini della sussistenza di questa particolare modalità di manifestazione del requisito della dominanza pubblica.

La LUMSA può pertanto procedere alla stipula di contratti di lavori, servizi e forniture senza necessità del previo esperimento di procedure di evidenza pubblica.

P.Q.M.

esprime il parere richiesto nei sensi di cui in motivazione.


 
 
GLI ESTENSORI IL PRESIDENTE
Paolo Carpentieri, Italo Volpe
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