HomeSentenzeArticoliLegislazionePrivacyRicercaChi siamo
Consiglio di Stato, Sez. VI, 12/1/2023 n. 428
E' rimessa all’Adunanza plenaria la questione relativa al regime giuridico del decreto decisorio del Presidente della Repubblica reso erroneamente su ricorso straordinario ormai trasposto

Materia: giustizia amministrativa / ricorso
Pubblicato il 12/01/2023

N. 00428/2023 REG.PROV.COLL.

N. 00545/2018 REG.RIC.           

REPUBBLICA ITALIANA

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Sesta)

ha pronunciato la presente

ORDINANZA DI RIMESSIONE ALL'ADUNANZA PLENARIA

sul ricorso numero di registro generale 545 del 2018, proposto da


-OMISSIS-, rappresentato e difeso dall’Avvocato Oreste Morcavallo, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso il suo studio, in Roma, via Arno n. 6;


contro

Comune di Rossano, non costituito in giudizio;

per la riforma

della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Calabria (Sezione Seconda) n. -OMISSIS-/2017, resa tra le parti;


Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell'udienza pubblica del giorno 24 novembre 2022 il Cons. Marco Poppi e uditi per le parti gli Avvocati presenti come da verbale;


L’odierno appellante, con atto notarile mai trascritto, acquistava nell’anno 1983 un fondo in località Zolfara del Comune di Rossano Calabro ricadente in zona demaniale marittima realizzandovi, in difetto di qualsivoglia titolo edilizio, un manufatto in muratura «facente parte di un fabbricato di maggiore consistenza» adibito ad «abitazione primaria», nonché, «un piccolo corpo di fabbrica adibito ad autoclave».

In data 26 settembre 1986, relativamente a quanto abusivamente realizzato, l’appellante presentava istanza di condono ai sensi della L. n. 47/1985 omettendo l’indicazione del titolo in base al quale era legittimato a presentarla e dichiarando che il manufatto, non ancora accatastato, non ricadeva su aree di proprietà pubblica.

Nelle more del procedimento di condono, la Capitaneria di Porto del Compartimento Marittimo di Crotone, con ingiunzione n. 333/94 del 13 ottobre 1994, notificata alla coniuge dell’appellante, -OMISSIS-, disponeva lo sgombero e il ripristino dell’area contestando l’occupazione di «una zona demaniale marittima della superficie di mq. 296.00 sulla quale è stato realizzato n° 2 manufatti in muratura ordinaria ad un piano fuori terra con annessa recinzione».

La descritta abusiva realizzazione determinava l’avvio di un procedimento penale i cui sviluppi vengono di seguiti riassunti a fini di completezza espositiva.

A seguito di sopralluogo effettuato a cura del personale del Nucleo Operativo Difesa Mare del Compartimento Marittimo di Crotone in data 12 marzo 1991, con informativa del giorno successivo l’appellante veniva deferito alla Procura della Repubblica di Rossano ex artt. 54 e 1161 cod. nav. e 633 e 639 bis c.p. per «avere occupato suolo demaniale marittimo, mediante opere edilizie, in prossimità della linea doganale, senza la prescritta autorizzazione».

La Pretura circondariale di Rossano, con sentenza n. 192/92 depositata il 3 ottobre 1992, riteneva «sufficientemente provata la penale responsabilità penale de -OMISSIS-» in ordine alla contravvenzione di cui all’art. 1161 «Abusiva occupazione di spazio demaniale» condannando il trasgressore all’ammenda di £ 500.000.

La sentenza veniva impugnata innanzi alla Corte d’Appello di Catanzaro che, il 6 luglio 1993, qualificava l’impugnazione quale «ricorso per Cassazione» provvedendo alla trasmissione degli atti al giudice competente.

La Corte di Cassazione, in data 1 dicembre 1993, dichiarava inammissibile il ricorso.

Con sentenza n. 672/02 depositata il 22 luglio 2002, il Tribunale di Rossano – Sezione penale, dichiarava «non doversi procedere nei confronti dell’imputato per intervenuta prescrizione» in relazione ai reati ascritti, e «per intervenuta abolitio criminis» con riferimento alla fattispecie di cui all’art. 1161 cod. nav..

Tuttavia, in detta sede, «il giudice», ritenendo «che dagli atti di causa non emergono, con evidenza, gli elementi per una pronuncia assolutoria», disponeva «la restituzione dell’area in sequestro all’autorità competente per il demanio marittimo».

L’appellante, con istanza dell’8 agosto 2002 avanzava richiesta di dissequestro e restituzione dell’area.

Con ordinanza del 31 agosto 2002, il Tribunale di Rossano respingeva l’istanza ritenendo «evidente che il carattere demaniale del sito ricavabile dalla perizia espletata non consente alcun provvedimento di revoca del sequestro in corso e di restituzione dell’area all’istante, restituzione che legittimerebbe una nuova condotta occupativa costituente di per sé reato» (pronunzia fondata sul richiamo della motivazione della citata sentenza n. 672/02).

La perizia richiamata veniva disposta nell’ambito di un diverso procedimento penale a carico di altro soggetto che aveva edificato un fabbricato sulla battigia nella medesima località e su area avente la medesima identificazione catastale: foglio 12, particella 1, qualificata dal giudice come «Demanio Marittimo a tutti gli effetti, catastali e di fatto».

La vicenda amministrativa si riattivava con atto del 31 agosto 2004 con il quale il Comune disponeva un’integrazione documentale richiedendo all’appellante, per quanto di interesse in questa sede:

- il «titolo di proprietà del suolo»;

- le «visure catastali recenti»;

- l’atto notorio «indicante la data di ultimazione dell’opera».

Contestualmente veniva precisato che in caso di omessa produzione di quanto richiesto, la pratica sarebbe stata definita allo stato degli atti.

Con provvedimento n. 1817 del 30 marzo 2005, il Comune, richiamate la già citata ingiunzione della Capitaneria di Porto e preso atto dell’omessa integrazione documentale, rilevava che l’immobile insisteva su area catastalmente demaniale (localizzazione accertata con verificazione straordinaria dell’Agenzia del Territorio di Cosenza del 20 settembre 2002) e, non risultando presentata la «dichiarazione di disponibilità dell’Ente proprietario» all’edificazione della stessa, negava il condono poiché l’istanza «era priva»:

1. della «Autorizzazione paesistico ambientale in sanatoria (vincolo di cui all’art. 142 comma 1 lettera a) del D.L.vo 42/2004»;

2. del «Titolo di proprietà»;

3. dell’«Atto di residenza storico»;

4. della «Dichiarazione sullo stato dei lavori»;

5. del «Certificato di residenza storico»;

6. del «Convenzionamento stipulato ai sensi degli artt. 7 e 8 della legge 10777»;

7. della «perizia giurata sullo stato e dimensioni» dell’opera.

Detto diniego, dapprima impugnato con ricorso straordinario al Presidente della Repubblica, veniva successivamente riassunto innanzi al Tar Calabria ex art. 10 del d.P.R. n. 1199/1971 e iscritto al n. 1258/2005 R.R..

Il relativo giudizio, il cui sviluppo si sovrapporrà al giudizio definito innanzi al Tar con la sentenza oggetto del presente giudizio di appello, si concludeva con sentenza di rigetto n. 383 dell’8 febbraio 2006, confermata in appello con decisione n. 5517 del 12 ottobre 2011 sul presupposto:

che non fosse contestato che l’immobile abusivo ricadesse in area sottoposta a vincolo paesaggistico;

che non sussistesse alcuna autorizzazione paesaggistica;

che ciò fosse sufficiente a sorreggere sotto il profilo motivazionale il diniego censurato nonostante si fondasse anche su ulteriori profili ostativi.

Il giudice di appello, in particolare, rilevava che l’appellante non aveva «mai affermato che il manufatto, per la sua oggettiva collocazione sul suolo, doveva ritenersi ubicato al di fuori del limite, di trecento metri, fissato dalla lettera a) del comma 1 del d.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42, norma espressamente richiamata nel provvedimento impugnato. L’amministrazione quindi ben poteva negare l’autorizzazione per la sola circostanza che l’immobile ricadeva in detta fascia, a prescindere dalla natura demaniale della medesima».

Nelle more della definizione del contenzioso da ultimo illustrato, interveniva l’adozione da parte del Comune dell’ordinanza di demolizione n. 754 del 7 febbraio 2006 con la quale il Comune:

- richiamava la citata ordinanza di sgombero e ripristino della Capitaneria di porto n. 333/2994;

- contestava la realizzazione dell’opera «in assenza di titolo autorizzativo»;

- richiamava la comunicazione di avvio del procedimento dell’8 luglio 2005 che, a sua volta, richiamava il rigetto dell’istanza di condono presentata dall’appellante (atto n. 1817 del 30 marzo 2005).

La nuova ingiunzione veniva impugnata con ricorso straordinario al Presidente della Repubblica, trasposto in sede giurisdizionale a seguito di opposizione dell’amministrazione ex art. 10 del d.P.R. n. 1199/1971 e iscritto al n. 1240/2006, deducendo che:

«a) l’ordinanza-ingiunzione si baserebbe essenzialmente sul rigetto della domanda di condono edilizio prot. n.1817 del 24 marzo 2005, diniego fondato esclusivamente sulla presunta demanialità del terreno utilizzato;

b) vi sarebbe una situazione di incertezza sulla demanialità dell’area e non sarebbe stato effettuato alcun accertamento ai sensi degli artt. 32 cod. nav. e 58 reg. cod. nav.;

c) il T.A.R. Lazio (sent. n.593 del 1996), a seguito del ricorso presentato da uno dei proprietari di un immobile sito nella località Zolfara, dichiarava l’illegittimità dell’ingiunzione di sgombero della Capitaneria di Porto;

d) nessuna forza dirimente potrebbe assumere la verificazione straordinaria disposta dall’Ufficio provinciale di Cosenza dell’Agenzia del territorio, il cui esito è stato oggetto di reclamo da parte dello stesso Comune;

e) il Comune avrebbe da lungo tempo manifestato acquiescenza alla conservazione dell’immobile;

f) sussisterebbe la potestà edificatoria in capo al ricorrente».

Venivano dedotte in giudizio, nello specifico, la situazione di incertezza circa la natura demaniale dell’area e l’omessa attivazione, da parte dell’amministrazione, del relativo procedimento di accertamento ex art. 32 cod. nav. da concludersi con la redazione di un verbale di delimitazione da approvarsi a cura della Direzione Marittima che definisce la linea di confine tra il demanio Marittimo e le limitrofe proprietà private: unico procedimento, si afferma, utile all’accertamento della demanialità del sito ed alla definitiva apposizione dei termini lapidei ad opera dell’Ufficio Tecnico Erariale e del Genio Civile Opere Marittime.

Il Comune si costituiva in giudizio eccependo il difetto di giurisdizione del giudice adito non competendo al Tar l’accertamento della demanialità dell’area.

Veniva, altresì, eccepita l’inammissibilità del ricorso in ragione:

I. della perdurante efficacia della più volte citata ordinanza della Capitaneria di Porto che disponeva la demolizione dell’immobile sul presupposto della demanialità dell’area;

II. dell’omessa notifica del ricorso al Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti;

III. della mancata contestazione degli ulteriori motivi assunti a presupposto dell’ordinanza impugnata da rinvenirsi:

- nella mancata dimostrazione del titolo di proprietà;

- nel difetto di autorizzazione paesaggistica;

- nella mancata produzione atto notorio attestante l’ultimazione della realizzazione;

- nella mancanza dell’autorizzazione ex art. 55 cod. nav., da ritenersi necessaria ricadendo l’immobile in prossimità del demonio marittimo.

Quanto al merito, l’amministrazione eccepiva che il ricorso al procedimento di accertamento della demanialità di cui all’art. 32 cod. nav. non sarebbe imposto dalla normativa che lo prevedrebbe unicamente in presenza di una obiettiva incertezza circa i confini dell’area demaniale, ritenuta non sussistere nel caso di specie.

La norma in questione, rubricata «Delimitazione di zone del demanio marittimo», infatti, dispone che «il capo del compartimento quando sia necessario o se comunque ritenga opportuno promuovere la delimitazione di determinate zone del demanio marittimo, invita, nei modi stabiliti dal regolamento, le pubbliche amministrazioni e i privati che possono avervi interesse a presentare le loro deduzioni e ad assistere alle relative operazioni»: formulazione che a parere dell’amministrazione, deporrebbe in favore della affermata facoltatività del descritto procedimento.

Nelle more del giudizio, il Comune, richiamando l’impugnata ordinanza n. 754/2006, ingiungeva nuovamente la demolizione delle stesse opere con ordinanza n. 43 del 15 aprile 2008 (che faceva seguito alla medesima comunicazione dell’8 luglio 2005 di avvio del procedimento concluso con l’adozione dell’ingiunzione n. 754/2006).

La nuova ingiunzione n. 43 del 2008 veniva impugnata innanzi al Tar con ricorso iscritto al n. 528/2008 R.R., respinto con sentenza n. 584 del 5 giugno 2009 (come si preciserà, confermata in appello con statuizione che – in dipendenza della soluzione della questione che viene con questo provvedimento rimessa alla Plenaria - potrebbe essere influente sul ricorso in esame solo nel caso in cui l’Adunanza Plenaria non condivida la tesi della nullità del D.P.R. decisorio di ricorso straordinario ormai trasposto che assume quindi valore logicamente pregiudiziale perché suscettibile di risolvere in radice la causa ).

Nel caso in cui infatti tale D.P.R. reso a ricorso straordinario trasposto non sia ritenuto nullo potrebbe nella specie configurarsi un vero e proprio conflitto fra giudicati ove si ritenga che il predetto il D.P.R. che - si ribadisce – è stato reso su ricorso straordinario nonostante la trasposizione un provvedimento abbia valore di giudicato.

Impregiudicata si ritiene la possibilità di valutare – nel prosieguo eventuale del giudizio - l’eventuale improcedibilità del ricorso in esame perché relativo ad un atto ormai venuto meno con l’adozione della successiva ordinanza di demolizione di cui è stata confermata la legittimità in sede giurisdizionale (con decisione tuttavia di segno contrario a quella intervenuta in sede straordinaria ma relativa ad un atto superato ) .

Tale improcedibilità eventuale non osta alla rimessione alla Plenaria, sia per l’importanza della questione di diritto, sia perché essa emerge solo una volta definito il regime giuridico del D.P.R. reso su ricorso straordinario ormai trasposto (ossia la sua qualificazione come mero atto amministrativo ).

Nel frattempo, nonostante l’avvenuta trasposizione dell’impugnazione dell’ingiunzione n. 754/2006 in sede giurisdizionale, con decreto del 18 novembre 2010 veniva accolto il ricorso straordinario proposto avverso il l’ingiunzione n.754/2006 recependo il parere reso dal Consiglio di Stato (Adunanza Sez. II del 13 gennaio 2010) fondato sul solo presupposto della mancata prova della localizzazione del manufatto su area demaniale e del mancato esperimento del dell’illustrato procedimento ex art. 32 cod. nav., senza affrontare gli evidenziati ulteriori profili di non conformità.

Detto decreto veniva impugnato dall’amministrazione con ricorso iscritto al n. 871/2011 R.R., dichiarato perento con decreto 1149 del 17 novembre 2015.

Giungeva, infine, a definizione in primo grado il giudizio n. 1240/2006 relativo all’ordine di demolizione n. 754/2006.

Il Tar, con sentenza n. 1141 del 18 luglio 2017, oggetto di impugnazione nel presente giudizio, respingeva il ricorso rilevando:

che «il decreto presidenziale, da ultimo prodotto da parte ricorrente, è intervenuto dopo la rituale trasposizione del contenzioso innanzi a questo giudice in cui si era radicata definitivamente la giurisdizione e, pertanto, esso non preclude una decisone sul merito nel presente giudizio (TAR Veneto, sez. I, n.1157/2014), peraltro esplicitamente richiesta dal ricorrente con la memoria del 7 giugno 2017, atteso che con essa si insiste per l’accoglimento del ricorso»;

che, quanto al merito della controversia, «l’ordinanza comunale impugnata si fonda su due presupposti di per sé autonomamente idonei a sorreggere l’atto controverso; il che consente al Collegio, anche in ipotesi di ravvisata legittimità di uno solo, di respingere il ricorso, con assorbimento delle censure dedotte avverso gli altri capi del provvedimento (Consiglio di Stato, sez. IV, 12 maggio 2016, n. 1917): l’occupazione di suolo demaniale, di cui all’ingiunzione della Capitaneria di Porto del Compartimento Marittimo di Crotone (giudizio innanzi al Tar Lazio), e l’assenza di un titolo autorizzativo (“accertato da parte di questo Ufficio che l’opera è stata realizzata comunque in assenza di titolo autorizzativo”)».

Quanto al richiamato difetto di un titolo abilitativo legittimante la realizzazione dell’opera, il Tar riteneva dirimente la circostanza che «esiste agli atti il provvedimento reiettivo di una domanda di condono presentata dal ricorrente, che vale senza dubbio a suffragare la correttezza della motivazione, quanto meno nella parte relativa all’assenza (iniziale e sopravvenuta, rispetto alla realizzazione dell’opera) di un titolo abilitativo edilizio».

Detta sentenza, veniva appellata con atto depositato il 23 gennaio 2018 articolando tre capi d’impugnazione.

Con il primo motivo, l’appellante introduce la questione che origina la presente rimessione, deducendo «ERROR IN PROCEDENDO E/O IUDICANDO – VIOLAZIONE E/O FALSA APPLICAZIONE DELL’ART. 10 D.P.R. 1199/1971 – ELUSIONE DEL DECRETO DEL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA DEL 18.11.2010 N. AFFARE 4921/2006».

Con il secondo motivo deduce «ERROR IN IUDICANDO – INCERTEZZA DELLA DEMANIALITA’ DELL’AREA, INGIUSTIZIA MANUFESTA, TRAVISAMENTO DEI FATTI» censurando la decisione di primo grado nella parte in cui conferisce rilievo all’esistenza degli evidenziati ulteriori presupposti, di per sé autonomamente idonei a sorreggere la misura demolitoria sotto il profilo motivazionale poiché «inammissibili e infondati».

Con il terzo motivo deduce «ERROR IN IUDICANDO – DIFETTO DI MOTIVAZIONE VIOLAZIONE E/O FALSA APPLICAZIONE DELL’ART. 3 D. LGS. 104/2010 E ART. 111 COST» affermando l’erroneità della sentenza nella parte in cui ritiene l’infondatezza del ricorso richiamando la preesistenza dell’ingiunzione demolitoria della Capitaneria di Porto (mai impugnata) e l’assenza di un titolo edificatorio che sarebbe «non provata agli atti» (nonostante il relativo onere gravi sul ricorrente).

L’amministrazione non si costituiva in giudizio.

Giungeva a decisione nelle more anche l’appello n. 6486/2009 proposto avverso la citata sentenza del Tar n. 584/2009 con la quale, come già esposto, veniva rigettato il ricorso proposto avverso l’ordinanza di demolizione n. 43/2008, ripetitiva dei contenuti della precedente ordinanza n. 754/2006 di interesse nel presente giudizio.

In detta sede, veniva riconosciuto, in estrema sintesi:

che è evidente «la natura abusiva del fabbricato» e che il fatto risultava «di per sé risolutivo per il sostanziale esito del presente giudizio, stante che ciò integra ex se il conseguente dovere dell’Amministrazione di irrogare la sanzione della demolizione delle opere abusive»;

che, ai fini della decisione assunta, è indifferente la circostanza che le opere «insistano su di un terreno privato, ovvero su di una pubblica proprietà, come nel caso del demanio marittimo» atteso «il criterio generale che informa il nostro ordinamento, il quale attualmente contempla la necessità del rilascio del competente titolo edilizio da parte delle amministrazioni pubbliche per tutte le opere poste in essere dai privati anche sulle aree demaniali (cfr. art. 8 del d.P.R. n. 380 del 2001)».

All’esito della pubblica udienza del 24 novembre 2022, la causa veniva trattenuta in decisione.

L’odierno appellante, come già illustrato, edificava in difetto di titolo, su un’area posta in prossimità della battigia acquistata con atto non trascritto, un fabbricato ad uso abitativo.

L’abusività del manufatto, poiché insistente su area ritenuta appartenere al demanio marittimo, veniva affermata:

- dalla Capitaneria di Porto che ne ordinava la demolizione;

- dal Comune che, sulla base di tale presupposto (ma non solo), respingeva l’istanza di condono presentata dal proprietario (anche con provvedimento ritenuto legittimo, da ultimo, con la citata decisione della Sezione n. 5517/2020) ordinandone la demolizione;

- dal giudice penale che, pur dichiarando la prescrizione del reato di abusiva occupazione di suolo demaniale, non riteneva sussistessero elementi per precedere ad una decisione assolutoria, disponendo la restituzione dell’area all’autorità competente per il demanio marittimo.

L’ordine di demolizione n. 754/2006 (replicato con successiva ordinanza n. 43/2008 avente il medesimo contenuto, ritenuta legittima all’esito di due gradi di giudizio), adottato successivamente al rigetto dell’istanza di condono, come già evidenziato, veniva impugnato con ricorso straordinario al Presidente della Repubblica notificato al Comune di Rossano il 16 giugno 2006 e, a seguito di opposizione notificata il 10 agosto 2006, riassunto con atto notificato il 7 novembre 2006 innanzi al Tar che definiva il giudizio con sentenza n. 1141 del 18 luglio 2017 oggetto di impugnazione nel presente appello.

Nelle more del giudizio interveniva, tuttavia, anche la decisione del ricorso straordinario con decreto del 18 novembre 2010 che recepiva il parere reso in Adunanza di Sezione del 13 gennaio 2010 con il quale il gravame veniva accolto.

Deve evidenziarsi a tal proposito:

- che l’Adunanza prendeva atto dall’intervenuta proposizione innanzi al Tar Calabria del ricorso avverso il diniego di condono (ancorché indicato erroneamente come iscritto al 285/2005 anziché n. 1258/2005), a quella data già respinto in primo grado con sentenza n. 383 del 10 aprile 2006;

- che la controversia veniva definita affrontando il solo profilo della «asserita demanialità del terreno utilizzato» sul rilievo dell’omesso accertamento della stessa mediante il procedimento di cui all’art. 32 cod. nav.;

- che il parere veniva espresso nonostante la mancata produzione (espressamente rilevata) della «relazione ministeriale, prescritta da un obbligo di legge e richiesta come necessaria nella richiamata precedente adunanza generale [del 9 aprile 2008, ndr] al fine dell’espressione del parere».

La decisione del ricorso straordinario viene dal Signor -OMISSIS- invocata in appello a sostegno della dedotta erroneità della sentenza di primo grado laddove ritiene che la trasposizione del gravame in sede giurisdizionale, inibirebbe la decisione dello stesso nella sede originariamente adita (1° motivo).

La tesi dell’appellante si fonda sulla riconosciuta «natura sostanzialmente giurisdizionale» del ricorso straordinario «e dell’atto terminale della relativa procedura» derivante dal conferito carattere vincolante al parere espresso dal Consiglio di Stato (Cons. Stato, Ad. plen. 6 maggio 2013, n. 9) e desumibile, altresì, dall’art. 10 del d.P.R. n. 1199/1971 che, una volta notificato l’atto di opposizione, dispone che «il giudizio prosegue in sede giurisdizionale».

Dal richiamato dato normativo, l’appellante deduce che «l’efficacia, o quantomeno l’influenza, del Decreto Presidenziale, sul processo di convincimento del giudice cui è trasposto il giudizio, avente, peraltro, ad oggetto la medesima vicenda sostanziale» sarebbe «lapalissiana».

Ne deriverebbe l’impossibilità, per i «giudici di prime cure», di disattendere il parere recepito nel decreto presidenziale, pena la violazione della regola dell’alternatività tra i due mezzi di gravame espressa dall’art. 8 del d.P.R. n. 1199/1971.

La controversia dovrebbe pertanto ritenersi definita in virtù della decisione del ricorso straordinario che affermava l’estraneità del terreno di proprietà dell’appellante al demanio marittimo, indicata dall’appellante come «unico presupposto su cui si fondava l’ordine di demolizione» (pag. 5 dell’appello: affermazione quest’ultima non veritiera come già evidenziato): esito, come già esposto, impugnato dal Comune con ricorso dichiarato perento dallo stesso Tar Calabria.

Premesso quanto sopra, non possono che rilevarsi le criticità che caratterizzano la presente fattispecie:

- il ricorso straordinario proposto avverso la misura demolitoria veniva deciso, in senso favorevole all’appellante, successivamente all’avvenuta trasposizione dello stesso in sede giurisdizionale;

- il Tar si determinava, invece, in senso sfavorevole con sentenza intervenuta successivamente alla definizione del ricorso straordinario;

- in ordine alla medesima fattispecie, e per le medesime motivazioni, interveniva una identica misura demolitoria (la comunicazione di avvio del procedimento teso all’adozione della misura demolitoria è la medesima) la cui legittimità veniva accertata all’esito, peraltro conforme, dei due gradi di giudizio.

In disparte ogni considerazione circa i profili pregiudiziali, già eccepiti dal Comune in primo grado, in punto di giurisdizione [il decreto presidenziale si fonda sull’esclusivo rilievo della mancata prova della demanialità dell’area: accertamento rientrante nella giurisdizione del giudice ordinario (Cass. Civ., Sez. Un., 1 aprile 2020, n.7639) così come il vaglio di legittimità del relativo procedimento di delimitazione (Cass. Civ., Sez. I, 21 maggio 2021, n. 14048)], l’odierna controversia pone all’attenzione del Collegio la questione della definizione del rapporto esistente fra la decisione del ricorso straordinario e quella del ricorso giurisdizionale nell’ipotesi in cui intervengano entrambe con esiti contrastanti.

La questione richiede un preliminare e sintetico richiamo alla natura del rimedio giustiziale alla luce delle emergenze normative e giurisprudenziali che ne hanno ridefinito la natura in tempi relativamente recenti.

Il ricorso straordinario al Presidente della Repubblica è disciplinato dal d.P.R. n. 1199/1971, recante «Semplificazione dei procedimenti in materia di ricorsi amministrativi» che riordina la normativa già dettata dal R.D. n. 1024/1924.

Ai sensi dell’art. 8, comma 1, del citato d.P.R., «contro gli atti amministrativi definitivi è ammesso ricorso straordinario al Presidente della Repubblica per motivi di legittimità da parte di chi vi abbia interesse».

La generalità del rimedio trova, tuttavia, un limite nella stessa disciplina normativa che lo subordina ad una condizione di ammissibilità e ad una condizione di procedibilità.

Va rilevato, sotto un primo profilo, che in ossequio al principio di alternatività espresso dall’art. 8, comma 2, del d.P.R. n. 1199/1971, la proposizione del ricorso straordinario è, infatti, inammissibile qualora lo «stesso interessato» abbia impugnato il medesimo atto con ricorso giurisdizionale (Cons. Stato, Sez. III, 18 gennaio 2019, n. 1413).

Sotto altro profilo, deve evidenziarsi che la rituale proposizione del gravame consente la definizione della controversia nelle forme proprie del rimedio a condizione che, come prescritto dall’art. 10, comma 1, del medesimo d.P.R. «i controinteressati, entro il termine di sessanta giorni dalla notificazione del ricorso» non richiedano «con atto notificato al ricorrente e all'organo che ha emanato l'atto impugnato, che il ricorso sia deciso in sede giurisdizionale» determinando in tal modo l’obbligo, per il ricorrente, di riassumere il giudizio innanzi al giudice amministrativo competente nel termine di 60 giorni.

Ai presenti fini sono da considerarsi equiparati ai controinteressati (legittimati ad opporsi a seguito della pronunzia della Corte Costituzionale n. 1 del 1° febbraio 1964 che dichiarava l’illegittimità dell’art. 26 del R.D. n. 1054/1924 nella parte in cui limitava l’esperibilità del ricorso ai soli destinatari del provvedimento amministrativo) anche le amministrazioni e gli enti pubblici diversi dallo Stato che hanno emanato l’atto impugnato (estensione soggettiva affermata dalla Corte Costituzionale con sentenza n. 148 del 29 luglio 1992).

La regola dell’alternatività tra ricorso straordinario e il ricorso ordinario al giudice amministrativo trova cittadinanza anche nel Codice del processo amministrativo che, all’art. 48, richiamata la possibilità della «parte nei cui confronti sia stato proposto ricorso straordinario» di proporre opposizione, dispone che «il giudizio segue dinanzi al tribunale amministrativo regionale se il ricorrente» provvede tempestivamente alla riassunzione in detta sede.

Le perplessità suscitate dall’enunciato principio di alternatività, che contribuivano a configurare il ricorso straordinario come un rimedio eccezionale in quanto ritenuto essere limitativo del principio costituzionale di tutela giurisdizionale, sono oggi superate sul rilievo che la facoltà di avvalersi del rimedio in questione è frutto di una scelta del titolare della posizione sostanziale che in alcun modo limita i diritti della controparti (amministrazione e controinteressati) cui l’art. 10 riconosce il diritto di opporsi determinando la riassunzione del giudizio in sede giurisdizionale (Corte. Cost., 19 dicembre 2006, n. 432).

In parallelo al progressivo riconoscimento della compatibilità costituzionale del rimedio, si è andato affermando il carattere giurisdizionale dello stesso.

Dapprima si è superata la concezione che il Consiglio di Stato, nella definizione del procedimento decisorio, operasse come mero organo consultivo dell’amministrazione sull’evidenza che nell’esercizio della funzione operi, invece, in una posizione di autonomia, indipendenza e terzietà tipica della funzione giurisdizionale (Cons. Stato, Sez. I, 28 giugno 2000, n. 576).

Un’ulteriore caratterizzazione in senso giurisdizionale del rimedio si è successivamente determinata grazie alla progressiva riconfigurazione dello stesso operata dal legislatore.

Un primo, timido intervento nei suindicati sensi si rinviene nell’art. 3, comma 44, della L. n. 205/2000 che, nell’ambito del procedimento decisorio, riconosceva al Ministero competente, sentito il Consiglio di Stato, la possibilità di sospendere l’atto impugnato ricorrendo il tradizionale presupposto cautelare della gravità e irreparabilità del pregiudizio incombente sul ricorrente in ragione della perdurante efficacia del provvedimento gravato.

Una più significativa caratterizzazione interveniva a seguito della novella introdotta con L. n. 69/2009 e del riordino del processo amministrativo attuato con D. Lgs. n. 104/2010.

L’art. 68 della L. n. 69/2009, integrava il primo comma dell’art. 13 del d.P.R. n. 1199/1971, prevedendo che il Consiglio di Stato, in fase decisoria, «se ritiene che il ricorso non possa essere deciso indipendentemente dalla risoluzione di una questione di legittimità costituzionale che non risulti manifestamente infondata, sospende l'espressione del parere e, riferendo i termini e i motivi della questione, ordina alla segreteria l'immediata trasmissione degli atti alla Corte costituzionale, ai sensi e per gli effetti di cui agli articoli 23 e seguenti della legge 11 marzo 1953, n. 87, nonché la notifica del provvedimento ai soggetti ivi indicati».

Contestualmente veniva modificato l’art. 14 del medesimo testo normativo prevedendo che la decisione, da adottarsi nelle forme del decreto presidenziale, dovesse essere «conforme al parere» espresso dal Consiglio di Stato, escludendo la possibilità, precedentemente riconosciuta al Ministero competente, di «proporre una decisione difforme dal parere del Consiglio di Stato» previa deliberazione del Consiglio dei Ministri.

La conformità della decisione presidenziale al parere reso dal Consiglio di Stato, come riconosciuto in giurisprudenza, mutua da quest’ultimo il carattere di atto giurisdizionale in senso sostanziale, come tale impugnabile in cassazione per motivi di giurisdizione (Cass. civ., Sez. un., 19 dicembre 2012, n. 23464).

Una ulteriore caratterizzazione in senso giurisdizionale del rimedio si determinava, come anticipato, ad opera del Codice del processo amministrativo che all’art. 112, comma 2, dispone che «l'azione di ottemperanza può essere proposta per conseguire l'attuazione: … b) delle sentenze esecutive e degli altri provvedimenti esecutivi del giudice amministrativo» fra i quali è annoverabile la decisione del ricorso straordinario.

Depone, infine, a favore della tesi in disamina il testo dell’art. 7 c.p.a. che, nel definire l’ambito della giurisdizione amministrativa, stabilisce al comma 8 che «il ricorso straordinario è ammesso unicamente per le controversie devolute alla giurisdizione amministrativa», elevando la giurisdizione a presupposto di ammissibilità del rimedio, assimilandolo, in tal modo, al ricorso giurisdizionale quanto ad ambito di esperibilità.

L’impatto delle illustrate sopravvenienze normative sulla riconfigurazione del ricorso straordinario è stato riconosciuto dalla Corte di Cassazione che, rivedendo il proprio tradizionale orientamento contrario al riconoscimento della natura giurisdizionale del decreto decisorio (Cass. civ., Sez. un., 18 dicembre 2001, n. 15978 che disattendeva la posizione, invece, espressa dalla Corte di Giustizia il 16 ottobre 1997, in cause riunite C-69/96 e 79/96 che, dando ingresso alle questioni di interpretazione di norme comunitarie sollevate dal Consiglio di Stato in sede di parere su ricorso straordinario al Capo dello Stato ne riconosceva la natura di giudice nazionale), affermava che «con questi presupposti, la nuova regolamentazione normativa intesa alla "assimilazione" del rimedio straordinario a quello giurisdizionale, pur nella diversità formale del procedimento e dell'atto conclusivo, non può non assicurare una tutela effettiva del tutto simile, poiché, come queste Sezioni unite hanno precisato in materia di "autodichia", una volta che si riconoscano poteri decisori, su determinate controversie, formalmente diversi, ma analoghi, rispetto a quelli della giurisdizione, infrangerebbe la coerenza del sistema una regolamentazione affatto inidonea alla tutela effettiva dei diritti e tale da condurre, in spregio al dettato dell'art. 2 Cost., comma 1, e art. 3 Cost., a creare una tutela debole (cfr. Cass., sez. un., n. 6529 del 2010)» (Cass. civ., Sez. un., 28 gennaio 2011, n. 2065).

Circa la natura «sostanzialmente giurisdizionale del decreto presidenziale» si esprimeva anche il Consiglio di Stato (Cons. Stato, Ad. plen, 6 maggio 2013, n. 9) che, richiamate le illustrate sopravvenienze normative, e valorizzata la richiamata disposizione di cui all’art. 7 c.p.a., fondava la propria posizione sul carattere meramente dichiarativo del decreto presidenziale di un parere «formulato da un organo giurisdizionale in modo compiuto e definitivo».

Chiarita nei suesposti sensi la natura del ricorso straordinario resta non pienamente definita, in assenza di sicuri riferimenti normativi e giurisprudenziali, la sorte del decreto decisorio ogni qualvolta, come nel caso di specie, in violazione del principio di alternatività di cui all’art. 8 del d.P.R. n. 1199/1971, il procedimento straordinario pervenga a decisione nonostante la rituale trasposizione ai sensi del successivo art. 10.

Il tema coinvolge la questione relativa all’esistenza di rimedi esperibili in presenza di una decisione intervenuta in violazione delle sopra richiamate disposizioni, avuto riguardo alla preferenza che l’ordinamento accorda alla definizione della controversia in sede giurisdizionale, ricavabile dalla previsione di cui al più volte richiamato art. 10 che rimette alla parte convenuta o controinteressata la decisione circa la sede di definizione della controversia.

Se, infatti, è possibile inibire la definizione della controversia in sede straordinaria mediante atto di opposizione, è pacifico che l’impugnazione dell’atto in sede giurisdizionale determina l’inammissibilità dell’eventuale successiva impugnazione innanzi al Presidente della Repubblica (Cons. Stato, Sez. III, 18 gennaio 2019, n. 1413)

Per contro, è altrettanto pacifico che in difetto di una rituale opposizione il procedimento straordinario perviene a definizione con l’adozione di un decreto decisorio suscettibile di consolidarsi componendo in via definitiva la controversia.

Sul punto si è espressa la giurisprudenza amministrativa affermando l’inammissibilità del ricorso giurisdizionale in presenza di una già maturata decisione in sede straordinaria riconoscendo al decreto decisorio un carattere vincolante per il giudice «pur non assumendo formalmente i caratteri della cosa giudicata» (Cons. Stato, sez. V, 27 aprile 2010, n. 2358).

In termini più espliciti si è espressa la Corte di Cassazione rilevando che «con il nuovo codice e in particolare con l’art. 7, comma 8, si è completato il processo di giurisdizionalizzazione del ricorso straordinario e quindi le decisioni successive al 16 settembre 2010 data di entrata in vigore del d. Lgs. n. 104/2010, le decisioni presidenziali sono suscettibili di passare in giudicato» (Cass. civ. Sezione III, 2 settembre 2013, n. 20054).

L’affermata attitudine a consolidarsi della decisione resa in sede straordinaria non esclude, tuttavia, l’impugnabilità della stessa, ammessa in giurisprudenza (Consiglio di Stato, Sez. V, 3 agosto 2018, n. 4801), anche con ricorso per revocazione (Cons. Stato, Sez. II, 9 marzo 2011, n. 4421), ma tale possibilità è limitata ai soli vizi di forma restando escluso un sindacato di legittimità rimesso al giudice amministrativo che si porrebbe in palese violazione del principio di alternatività di cui all’art. 8 del d.P.R. n. 1199/1971.

Tale limitazione, tuttavia, non dovrebbe ricorrere, a parere del Tar, nel caso di specie atteso che la decisione in sede straordinaria interveniva a valle della rituale notificazione dell’atto di opposizione ex art. 10.

Ciò introduce una ulteriore questione, logicamente pregiudiziale alla definizione della sorte del decreto decisorio, identificabile nella individuazione della forma di invalidità che affligge il provvedimento, dipendendo dalla soluzione di tale questione l’apprezzamento della tempestività di un ipotetico rimedio.

Qualora, infatti, il vizio rilevato determinasse l’annullabilità del decreto, la contestazione dello stesso non potrebbe che conseguire all’esperimento dei relativi rimedi (ricorso giurisdizionale o per revocazione) soggiacendo alla regola tipica del giudizio impugnatorio che impone la proposizione del ricorso nel rispetto dei relativi termini.

Nell’ipotesi in cui il vizio in questione dovesse integrare una causa di nullità del provvedimento, l’invalidità dello stesso potrebbe essere fatta, invece, valere in ogni tempo.

In primo grado la questione non veniva affrontata e il Tar definiva il giudizio limitandosi ad affermare, uniformandosi alla posizione espressa dal Tar Veneto con sentenza n. 1157 del 4 agosto 2014 in presenza di una analoga fattispecie, che la rituale trasposizione del contenzioso in sede giurisdizionale avrebbe radicato «definitivamente la giurisdizione» innanzi al Tar non precludendo al Tar la decisione di merito.

Il Tar Veneto, nell’occasione, affermava che, in ossequio al principio di alternatività di cui all’art. 8 del d.P.R. m. 1199/1971, la rituale riassunzione del giudizio in sede giurisdizionale a seguito di opposizione, determinerebbe una «preclusione assoluta» alla decisione del ricorso straordinario.

Coerentemente con tale assunto, riteneva, pertanto, che «considerato che a tale decreto deve essere riconosciuta natura amministrativa – malgrado le tendenze più recenti dell’ordinamento ad accentuare le affinità del ricorso straordinario con il ricorso giurisdizionale (soprattutto in considerazione della vincolatività dei “pareri” espressi dal Consiglio di Stato) – esso risulta adottato in carenza assoluta di potere» con conseguente nullità del decreto presidenziale ex art. 21 septies della L. 241/1990 per difetto assoluto di attribuzione.

Le suesposte conclusioni sono condivise dal Collegio, ancorché il Tar vi pervenga sul rilievo di una riconosciuta natura amministrativa della decisione resa in sede straordinaria che nella sua assolutezza risulta non pienamente coerente con l’illustrato percorso normativo e giurisprudenziale che, come ampiamente evidenziato, conferisce al decreto decisorio una netta caratterizzazione in senso giurisdizionale.

Il tema, tuttavia, non rileva ai presenti fini atteso che, la questione della natura amministrativa o giurisdizionale della decisione si pone su di un piano logicamente successivo al pregiudiziale accertamento relativo all’esistenza del potere di adottarla in capo all’organo decidente a seguito della rituale opposizione ai sensi dell’art. 10.

Il parere reso su ricorso straordinario ormai trasposto non può atteggiarsi mai a provvedimento giurisdizionale a pena di violare il principio di alternatività.

Da ciò consegue l’applicabilità delle norme che regolano le invalidità del provvedimento amministrativo.

Pertinente, in questa prospettiva, si ritiene il richiamo all’art. 21 septies della L. n. 241/1990, a norma del quale «é nullo il provvedimento amministrativo … che è viziato da difetto assoluto di attribuzione» stante la natura indiscutibilmente amministrativa sotto il profilo soggettivo della decisione in questione (giurisdizionale in senso sostanziale per quanto prima detto ma nel solo caso di mancata trasposizione).

Quanto alla configurazione dell’evocato vizio di nullità, come recentemente riaffermato in giurisprudenza, «il difetto assoluto di attribuzione, quale causa di nullità del provvedimento amministrativo, ricorre solo in caso di cosiddetta carenza di potere in astratto, vale a dire quando l'Amministrazione esercita un potere che in realtà nessuna norma le attribuisce, essendo tale vizio configurabile solo nei casi "di scuola" in cui un atto non può essere radicalmente emanato da una autorità amministrativa» (Cons. Stato, Sez. II, 14 gennaio 2022, n.272).

Nel caso di specie, a parere della Sezione, l’intervenuta opposizione ex art. 10 e la successiva rituale riassunzione del giudizio in sede giurisdizionale dovrebbero spogliare l’amministrazione del potere di definire la controversia (e il Consiglio di Stato del potere di esprimersi sul ricorso) come reso chiaro dall’inciso contenuto nella norma «e il giudizio segue in sede giurisdizionale».

La posizione pare, inoltre, coerente con la già illustrata preferenza accordata dall’ordinamento alla definizione delle controversie amministrative innanzi al giudice.

Tanto considerato, stante gli evidenziati profili di incertezza circa la effettiva portata del principio di alternatività fra il ricorso straordinario al Presidente della Repubblica e il ricorso giurisdizionale enunciato all’art. 8 del d.P.R. n. 1199/1971, suscettibili di generare contrasti giurisprudenziali, la Sezione ritiene di rimettere il presente ricorso all'esame dell'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, ai sensi dell'art. 99, comma 1, c.p.a..

Il quesito che si sottopone all’attenzione dell’Adunanza Plenaria è volto a chiarire il regime di invalidità, e quindi la sorte, del decreto presidenziale che decide il ricorso straordinario al Presidente della Repubblica in un momento successivo alla riassunzione del giudizio innanzi al giudice amministrativo per effetto dell’opposizione ex art. 10 del d.P.R. n. 1199/1971 e, nello specifico, l’applicabilità alla fattispecie - ossia al decreto del Presidente della Repubblica erroneamente pronunciato in presenza di ricorso ormai trasposto - della norma sulla nullità di cui all’art. 21 septies, comma 1, sul rilievo della natura soggettivamente amministrativa del provvedimento che definisce il ricorso straordinario.

In caso diverso ove il decreto sia ritenuto annullabile esso – nella specie - deve ritenersi consolidato in via definitiva.

Giova ricordare che il decreto erroneamente pronunciato è stato impugnato, sul presupposto della sua annullabilità, ma con ricorso poi dichiarato perento, circostanza che si ritiene irrilevante e non preclusiva di una decisione dissonante dalle statuizioni del parere erroneamente reso nel caso in cui si ritenga applicabile l’art. 21 septies della legge n. 241 del 1990 (indipendentemente dalla strategia processuale delle parti la nullità rileva ex officio ).

Si rimette la seguente questione ai sensi dell’art. 99 comma 1 sottolineando che essa, per la crucialità del rapporto fra i rimedi del ricorso straordinario e del ricorso giurisdizionale, è anche, sostanzialmente, di evidente massima importanza per il sistema di giustizia amministrativa:

Si chiede quindi all’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato di definire il regime giuridico del decreto decisorio del Presidente della Repubblica reso erroneamente su ricorso straordinario ormai trasposto ossia :

se ad esso sia o non sia riferibile l’insegnamento consolidatosi che considera la decisione di un ricorso straordinario non trasposto avente valore di cosa giudicata (la Sezione ritiene che non sia riferibile ) e ,

nel caso in cui tale decreto decisorio del Presidente della Repubblica non abbia valore di cosa giudicata se debba essere considerato nullo ai sensi dell’art. 21 septies della legge n. 241 del 1990 perché reso in astratta e totale carenza di potere per violazione del principio di alternatività dei rimedi (la Sezione ritiene che sia nullo ).

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta) non definitivamente pronunciando sul ricorso in epigrafe, ne dispone il deferimento all’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato per le casuali di cui in parte motiva.

Manda alla Segreteria della Sezione per gli adempimenti di competenza, e, in particolare, per la trasmissione del fascicolo di causa e della presente ordinanza al Segretario incaricato di assistere all’Adunanza plenaria.

Ritenuto che sussistano i presupposti di cui all'articolo 52, commi 1 e 2, del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196, e dell’articolo 10 del Regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio del 27 aprile 2016, a tutela dei diritti o della dignità della parte interessata, manda alla Segreteria di procedere all'oscuramento delle generalità delle parti, nonché, di qualsiasi altro riferimento al procedimento penale relativo alla medesima vicenda.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 24 novembre 2022 con l'intervento dei magistrati:

Giancarlo Montedoro, Presidente

Alessandro Maggio, Consigliere

Stefano Toschei, Consigliere

Davide Ponte, Consigliere

Marco Poppi, Consigliere, Estensore

 
 
L'ESTENSORE IL PRESIDENTE
Marco Poppi Giancarlo Montedoro
 
 
 

IL SEGRETARIO



 

HomeSentenzeArticoliLegislazioneLinksRicercaScrivici