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TAR Lombardia, Milano, sez. III, 6/5/2004 n. 1622
Sulla necessità che i contenuti degli statuti comunali siano conformi alla disciplina legislativa in materia di organi di governo e di funzioni fondamentali.

Le modifiche agli articoli dello statuto comunale con le quali il consiglio comunale ha riservato alla competenza della Giunta comunale la determinazione di variazioni o di dismissioni di quote di partecipazioni non determinanti ai fini del controllo delle società partecipate, incide in senso negativo sulla esplicazione del mandato dei singoli consiglieri, traducendosi in una limitazione delle loro prerogative. In tale quadro non può ritenersi sussistente la preclusione, che tradizionalmente si rileva in caso di conflitto interorganico, derivante dalla considerazione che la tutela dovrebbe spettare all'organo nel suo complesso e non ad alcuni membri.
Deve ritenersi quindi sussistente la legittimazione al giudizio da parte di singoli consiglieri comunali per l'impugnazione di atti che essi assumano essere stati adottati in violazione di prerogative consiliari, trattandosi di lesione del diritto all'ufficio, che non appartiene soltanto all'organo collegiale nel suo insieme, ma anche personalmente e separatamente a ciascun consigliere, in relazione alla titolarità dei rispettivi uffici.
Ne discende che, per la disciplina delle competenze degli organi di governo e dello svolgimento delle funzioni locali, la riforma di cui alla legge costituzionale n. 3 del 2001 ha confermato un esteso ambito di intervento della legge statale, istituzionalmente titolare della regolazione dell'esercizio delle funzioni amministrative; da qui la necessità che i contenuti degli Statuti comunali, i quali per i profili qui considerati conservano la loro natura di fonti secondarie, siano conformi alla disciplina legislativa in materia di organi di governo e di funzioni fondamentali.
La pretesa che lo Statuto comunale possa costituire fonte esclusiva dell'ordinamento locale si pone in contrasto con il principio di legalità che costituisce tuttora il fondamento dello Stato di diritto nel sistema costituzionale delle fonti di diritto.
L'art. 42, secondo comma, del D.L.gs. n.267/2000, come modificato dall'art. 35 della l. n. 448/01, attribuisce alla competenza del Consiglio comunale gli atti di "organizzazione dei pubblici servizi, costituzione di istituzioni e aziende speciali, concessione dei pubblici servizi, partecipazione dell'ente locale a società di capitali, affidamento di attività o servizi mediante convenzione".
Il Consiglio ha, dunque, competenza limitatamente agli atti fondamentali. E' pacifico che detta competenza debba essere intesa in modo biunivocamente rigido, sia nel senso che il Consiglio non possa invadere ambiti diversi da quelli ad esso assegnati con indicazione tassativa, come pure nel senso che le determinazioni sugli argomenti compresi nel catalogo normativo riservato all'attività consiliare non possano essere assunte da altri organi, stante l'espresso divieto sancito nella parte finale della disposizione.
Il che porta incontestabilmente ad escludere la possibilità di configurare spazi di intervento dell'autorità amministrativa, cui non compete, nemmeno nell'esercizio della potestà normativa sub primaria, la facoltà di definire i requisiti perché un determinato atto possa ritenersi compreso o al contrario escluso dalla competenza riservata al Consiglio.
Ammettere il contrario significherebbe riconoscere alla fonte secondaria il potere di limitare l'ambito di applicazione della disciplina di rango superiore.

Materia: enti locali / attività

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

 

il Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia, sezione 3a ha pronunciato la seguente

 

SENTENZA

sul ricorso n. 1944/03, proposto da

Alessandro ANTONIAZZI, Emilia BOSSI, Giuliana CARLINO, Emanuele FIANO, Alberto MATTIOLI, Giovanni OCCHI, Basilio RIZZO, Marilena ADAMO, Fabrizio SPIROLAZZI e Valter MOLINARO, rappresentati e difesi dagli avv.ti Ezio Antonini, Felice Besostri, Ettore Martinelli e Vittorio Angiolini, con domicilio eletto presso lo studio di quest’ultimo in Milano, via G. Serbelloni 8

 

contro

COMUNE DI MILANO

in persona del Sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dagli avv.ti Carlo Malinconico, Maria Rita Surano, Maria Rosa Sala e Angelo Vitali, con domicilio eletto presso gli uffici dell’avvocatura comunale in Milano, via della Guastalla 8

per l’annullamento

della delibera del Consiglio comunale n.32 del 9 giugno 2003, con cui sono stati modificati gli artt. 36 e 43 dello Statuto del Comune di Milano, nonché di ogni altro atto antecedente, presupposto, esecutivo, consequenziale e comunque connesso;

visto il ricorso notificato in data 4 luglio 2003 e depositato in data 9 luglio 2003;

visto l’atto di costituzione in giudizio del comune di Milano;

viste le memorie difensive delle parti;

uditi alla pubblica udienza del 22 gennaio 2004, relatore il cons. Domenico Giordano, gli avv.ti Antonini, Besostri e Angiolini per i ricorrenti e gli avv.ti Malinconico e Surano per il Comune resistente;

visti gli atti tutti della causa;

ritenuto quanto segue in:

 

FATTO

Con il ricorso in epigrafe è stata impugnata, unitamente agli atti ad essa connessi, la deliberazione n.32 del 9 giugno 2003, con la quale il Consiglio comunale di Milano, con il voto favorevole della maggioranza assoluta dei suoi componenti, ha approvato modifiche agli artt. 36 e 43 dello Statuto comunale, riservando alla competenza della Giunta comunale la determinazione di variazioni o di dismissioni di quote di partecipazioni non determinanti ai fini del controllo delle società partecipate.

I ricorrenti, che agiscono nella loro qualità di consiglieri comunali (risultati dissenzienti, assenti o astenuti), sostengono che la delibera concreti un’illegittima menomazione delle competenze consiliari e, di riflesso, delle loro stesse funzioni, privandoli della possibilità di prendere parte a decisioni di importanza strategica in settori di intervento comunale.

A sostegno dell’impugnazione deducono le seguenti censure:

1) violazione e falsa applicazione degli artt. 54, primo comma, 23, 97, 117, 118 e 136 Cost., anche in relazione al D.Lgs.n. 267/2000, erroneità dei presupposti e illogicità manifesta. La delibera muove dal presupposto, affatto erroneo, secondo cui, per effetto delle modifiche introdotte con la L.C. n.3/01, non sussisterebbe più alcun rapporto di gerarchia tra leggi e statuti e questi ultimi sarebbero quindi affrancati da vincoli legislativi in materia di organizzazione e ordinamento. In realtà, anche dopo la modifica legislativa, la Costituzione non contiene alcuna riserva di potere statutario comunale a superamento del ruolo esclusivo della legge, né autorizza lo Statuto a disapplicare i vincoli legislativi vigenti.

2) Violazione e falsa applicazione dell’art.42 D.Lgs. n.267/2000, eccesso di potere. La modifica statutaria si pone in contrasto frontale con l’assetto delle competenze delineato dalla norma in rubrica, che riserva al Consiglio l’organizzazione dei servizi pubblici e la partecipazione dell’ente locale a società di capitali. Anche in un’ottica orientata a riconoscere maggiori spazi di intervento alla funzione gestionale della Giunta, in nessun caso il Consiglio potrebbe essere estromesso dall’esercizio delle proprie competenze in materia di partecipazione dell’ente locale a società di capitali, nemmeno alla stregua del criterio quantitativo riferito al valore non determinante della cessione ai fini del controllo della società; da ciò l’illegittimità della scelta di devolvere alla Giunta la facoltà di variare o dismettere liberamente le quote di partecipazione comunale nelle società miste.

3) Violazione e falsa applicazione degli artt.42, primo comma, in relazione agli artt.113 e segg. D.Lgs. n.267/2000 e all’art.2359 c.c., eccesso di potere per illogicità manifesta e sviamento. Contrariamente alle intenzioni dichiarate dai promotori della delibera, le modifiche statutarie con essa approvate non costituiscono attuazione della disciplina raccolta nel T.U.E.L., in quanto depotenziano il ruolo di indirizzo e di controllo che la legge assegna in materia al Consiglio comunale. In particolare, con riguardo alle partecipazioni in società non funzionalizzate alla gestione di servizi pubblici locali, il Consiglio sarebbe privato di qualunque potere di intervento anche in settori strategici, come la gestione dei servizi aeroportuali (SEA s.p.a) o di autostrade e tangenziali (Serravalle s.p.a.); inoltre, in materia di servizi pubblici, al Consiglio residuerebbe la possibilità di esprimersi solo su variazioni e dismissioni di quote determinanti ai fini del controllo delle società partecipate, mentre ogni altro atto comunale inerente a vincoli statutari di nomina alle cariche sociali ovvero a particolari vincoli contrattuali, per quanto incidente sul controllo della società a norma dell’art.2359 c.c., sarebbe devoluto alla competenza della Giunta, con depauperamento del potere consiliare di indirizzo e controllo.

Il Comune di Milano si è costituito in giudizio, controdeducendo con memorie. In esse la difesa comunale ha sostenuto:

-l’inammissibilità del ricorso per difetto di legittimazione attiva dei consiglieri comunali ad impugnare, per motivi diversi dai vizi in procedendo, la delibera adottata dall’organo di appartenenza, non potendosi trasferire nella sede giurisdizionale conflitti interorganici, che devono trovare composizione in sede amministrativa;

-l’inammissibilità delle censure volte a denunciare profili di eccesso di potere, che non sono configurabili in relazione ad un atto che ha natura di fonte di diritto;

-l’infondatezza nel merito dell’impostazione complessiva del ricorso. Ciò per il rilievo che la delibera non ha inteso modificare, ma solo specificare, in coerenza con il diverso ruolo assegnato agli organi collegiali del Comune, l’assetto legislativo delle competenze con riferimento agli atti fondamentali riservati al Consiglio, nel novero dei quali non potrebbero ricomprendersi gli atti di mera gestione delle partecipazioni azionarie, mediante variazioni della quota che non rivestano valore determinante ai fini del controllo della società. Muovendo da tali premesse, la difesa resistente ha concluso per l’infondatezza delle censure formulate dai ricorrenti.

Questi hanno replicato con memoria, nella quale osservano che la partecipazione dell’ente locale a società di capitali (anche diverse da quelle che gestiscono servizi pubblici locali) è sempre strumentale al perseguimento di fini pubblici e al soddisfacimento di interessi della generalità dei cittadini; per tale ragione la legge ha riservato all’organo di indirizzo e di controllo politico - amministrativo ogni decisione in merito non solo all’assunzione o alla dismissione della partecipazione, ma anche alle variazioni di essa pur se non incidenti sul controllo maggioritario; dal che l’erroneità dell’interpretazione limitativa dell’art.42, secondo comma lett.e), D.Lgs.n.267/2000, sottesa alla deliberazione impugnata e alle tesi difensive comunali. Gli esponenti  hanno quindi insistito nelle conclusioni già rassegnate.

All’udienza, dopo la discussione delle parti, il ricorso è stato trattenuto dal Collegio per la decisione.

 

DIRITTO

1) I ricorrenti, tutti componenti del Consiglio comunale di Milano, impugnano la delibera n.32 adottata, a maggioranza qualificata, dall’organo consiliare nella seduta del 9 giugno 2003, con cui sono state approvate modifiche all’art.36 secondo comma lett.e) e all’art.43, terzo comma lett.e) dello Statuto comunale, nel senso di devolvere alla competenza della Giunta comunale “la determinazione di variazioni o dismissioni di quote di partecipazione non determinanti ai fini del controllo della società” (art.36, secondo comma lett.e) e di attribuire alla competenza dello stesso organo “la determinazione di variazioni o di dismissioni di quote di partecipazione non determinanti ai fini del controllo delle società partecipate che gestiscono servizi pubblici” (art.43, terzo comma lett.e).

I ricorrenti (risultati nell’occasione dissenzienti, astenuti o assenti)  assumono che tali modifiche statutarie spogliano, a tempo indefinito, il Consiglio comunale di competenze ad esso assegnate dalla legge (art.42 D.Lgs. n.267/2000) e, impedendo loro di prendere parte a decisioni della massima importanza riguardanti la partecipazione comunale in società di capitali, ledono il diritto al proprio ufficio, che si sostanzia nell’attivare l’esercizio delle competenze del Consiglio e rappresentare in tale sede le ragioni proprie e degli elettori, nel chiedere la convocazione dell’organo e l’inserimento all’ordine del giorno delle questioni da trattare.

La difesa comunale sostiene invece che il provvedimento impugnato non incide direttamente sullo ius ad officium dei singoli consiglieri comunali, i quali non sono legittimati a contestare la riduzione delle prerogative consiliari operata dallo stesso organo collegiale cui essi appartengono, non potendosi per tale via risolvere conflitti interorganici e non potendosi far valere in giudizio una posizione legittimante derivante da un’attribuzione dell’organo e non del singolo consigliere, che si troverebbe ad agire in situazione di conflitto con il titolare dell’interesse primario.

2) Il Collegio giudica infondata l’eccezione.

Deve ammettersi che, in linea di principio, non possa riconoscersi al componente di un organismo collegiale la legittimazione ad impugnare le deliberazioni assunte dal plesso di appartenenza, perché, altrimenti, risulterebbero alterati i principi della collegialità dell’organo deliberante e del rispetto, da parte della minoranza, della volontà della maggioranza regolarmente formatasi, le cui deliberazioni sono imputabili all’organo unitariamente considerato.

Per tale ragione i consiglieri comunali non sono in genere legittimati, in quanto tali, ad agire contro l’amministrazione d’appartenenza, dal momento che, come ricorda la difesa comunale,  il processo amministrativo non è di regola aperto alle controversie tra organi o componenti di organi di uno stesso ente, ma è diretto a risolvere controversie intersoggettive, dovendo i conflitti interorganici trovare composizione in via amministrativa.

In linea con tali principi, la giurisprudenza ha costantemente affermato che i consiglieri comunali non hanno una propria legittimazione ad impugnare gli atti dell’amministrazione locale (cfr., ex multis, TAR Lazio, Sez. I, 26 giugno 2001 n. 5716; TAR Basilicata 27 maggio 1999 n. 191), non differenziandosi la posizione dei medesimi da quella della generalità dei cittadini, e basandosi di conseguenza le loro azioni giudiziarie sul mero interesse al rispetto della legalità dell’azione amministrativa (cfr. TAR Lombardia, Milano, Sez. II, 2 marzo 1994 n. 70).

Si ammette, tuttavia, che il componente del consiglio possa impugnare in sede giurisdizionale la deliberazione collegiale, per denunciare vizi propri del procedimento di formazione dell’atto deliberativo (cfr. TAR Umbria 31 agosto 2000 n.727), che si siano concretati in violazioni procedurali direttamente lesive del munus rivestito dal consigliere comunale, in quanto interferenti sul corretto esercizio del mandato (ad es. irritualità della convocazione dell’organo, violazione dell’ordine del giorno, difetto di costituzione del collegio, inosservanza del termine di deposito della documentazione), oltre che, ovviamente, nei casi in cui gli atti approvati riguardino direttamente e personalmente il consigliere comunale (cfr. TAR Puglia, Lecce 7 ottobre 1988 n.580).

In casi del genere, infatti, non è messo in discussione il principio, sopra citato, del rispetto della volontà della maggioranza, ma viene invece in risalto il diverso postulato in base al quale il titolare di una posizione soggettiva può subire la modificazione in peius di tale posizione nei soli casi e con l’osservanza delle procedure prescritte dalla legge (cfr., CdS, V, 28 luglio 1978, n.891; TAR Milano, 6 maggio 1982, n.328).

Allo stesso tempo si riconosce che il componente del collegio possa impugnare la deliberazione collegiale per far valere la pretesa allo svolgimento dell’incarico, che si assuma vulnerato proprio dall’atto deliberativo. Il che avviene quando il c.d. ius ad officium, inteso come interesse, giuridicamente protetto, a permanere nella carica rivestita e ad esercitare le funzioni ad essa connesse, sia messo in qualche misura in discussione (cfr. CdS Sez. V, 31 gennaio 2001 n. 358; TAR Basilicata 24 ottobre 2001 n. 768).

In tale evenienza i consiglieri non assumono, infatti, la veste del quivis de populo, perché rispetto alle asserite lesioni dei poteri che loro rinvengono dalla partecipazione all’organo collegiale essi sono investiti di un interesse qualificato (cfr. TAR Lombardia, II 28 febbraio 2002 n.868).

Va allora considerato che, secondo la prospettazione dei ricorrenti, con la deliberazione consiliare di modifica dello Statuto, avente come tale portata sostanzialmente normativa, sono state trasferite alla Giunta, a tempo indefinito e per una pluralità dunque di casi futuri, le competenze del Consiglio in materia di partecipazione comunale a società di capitali. Ed invero, lo Statuto comunale, nel testo precedente l’adozione delle contestate modifiche, prevedeva la competenza esclusiva dell’organo consiliare in materia di “partecipazione a società di capitali”, laddove a seguito dell’innovazione normativa sono state trasferite alla Giunta “le variazioni o dismissioni di quote di partecipazione non determinanti ai fini del controllo della società”.

In precedenza, quindi, la riserva della materia alla competenza consiliare comportava, com’è ovvio, che la minoranza assembleare fosse posta in condizione di interloquire con la maggioranza sulle scelte proposte per la deliberazione, dal momento che il testo da approvare era assoggettato al dibattito tipico dell’assemblea consiliare, con i connessi poteri dei rappresentanti della minoranza di esercitare nel modo più esteso le loro funzioni istituzionali. Cosa che, evidentemente, non può più accadere per gli atti ora attribuiti alla competenza della Giunta.

Siffatta modifica statutaria, quindi,  incide in senso negativo sulla esplicazione del mandato dei singoli consiglieri, traducendosi in una limitazione delle loro prerogative, che si sostanziano nel diritto di partecipare alle sedute consiliari, di esprimere le proprie opinioni nell’ambito dell’organo collegiale, di prendere visione degli atti che concernono le deliberazioni da assumere e di esercitare le altre connesse funzioni previste dalla legge.

In tale quadro non può ritenersi sussistente la preclusione, che tradizionalmente si rileva in caso di conflitto interorganico, derivante dalla considerazione che la tutela dovrebbe spettare all’organo nel suo complesso e non ad alcuni membri, dal momento che “l’investitura democratica, cioè a suffragio, di un ufficio pubblico nell’ambito di un organo collegiale consente ad ognuno degli eletti la tutela delle prerogative proprie dell’organo”: in sostanza, il riconoscimento di dette prerogative “è il presupposto in base al quale può realizzarsi il mandato elettivo ricevuto” (così TAR Lombardia  Milano 2 aprile 1993, n. 261).

Come è stato già osservato “non può negarsi che il restringimento degli spazi operativi dell’organo collegiale di cui i ricorrenti fanno parte – conseguente alla sottrazione di materie ad esso ipoteticamente riservate dalla legge – si riflette direttamente ed in chiave pregiudizievole sull’ampiezza, quantitativa e qualitativa, del potere di concorrere alla formazione delle decisioni collegiali, che inerisce strettamente alla sfera personale di interessi dei suddetti quali componenti del Consiglio comunale - concretizzando il contenuto del legame funzionale sussistente tra essi e l’organo consiliare - e ne misura il valore giuridico e, quel che più (per essi) conta, politico” (cfr. TAR Calabria Catanzaro, sez.II 13 dicembre 2001 n .2085).

E invero, i consiglieri comunali, nella loro posizione giuridica, sono titolari in seno al collegio stesso di situazioni soggettive personali, la cui lesione può essere denunciata innanzi al giudice amministrativo (v. anche, sempre di questo Tribunale, la sentenza 28 giugno 1996 n. 884 -annullata in appello ma per profili diversi da quello qui considerato-, secondo cui i consiglieri comunali sono legittimati a proporre ricorso giurisdizionale per reclamare competenze del Consiglio in materie che essi assumono essere state illegittimamente disciplinate da altri organi comunali).

Deve ritenersi quindi sussistente la legittimazione al giudizio da parte di singoli consiglieri comunali per l’impugnazione di atti che essi assumano essere stati adottati in violazione di prerogative consiliari, trattandosi di lesione del diritto all’ufficio, che non appartiene soltanto all’organo collegiale nel suo insieme, ma anche personalmente e separatamente a ciascun consigliere, in relazione alla titolarità dei rispettivi uffici.

Il ricorso quindi è ammissibile e deve essere esaminato nel merito.

3) Come già annotato, la deliberazione impugnata reca due previsioni: con il nuovo testo dell’art.36, secondo comma lett.e) prima parte, essa riserva alla competenza del Consiglio “la partecipazione a società di capitale per la (sola) gestione di servizi pubblici locali”; con il combinato disposto degli artt.36, secondo comma lett.e) ultima parte e dell’art.43, essa devolve alla Giunta le determinazioni circa “le variazioni o dismissioni di quote di partecipazione non determinanti ai fini del controllo” delle società di capitali non operanti nel settore dei servizi pubblici (art.36), nonché le analoghe determinazioni con riguardo alle “società partecipate che gestiscono servizi pubblici” (art.43).

Nella relazione che accompagna e illustra le modifiche statutarie approvate con la deliberazione impugnata, si sostiene che la riforma costituzionale del titolo V attuata con la legge costituzionale n.3 del 2001 avrebbe esaltato l’autonomia normativa degli enti locali, al punto che il fondamento della potestà statutaria andrebbe individuato direttamente nella Costituzione e troverebbe nei principi da essa desumibili l’unico limite alla sua esplicazione, con la conseguenza che le disposizioni statutarie potrebbero legittimamente derogare alle leggi ordinarie dello Stato, non aventi valore di principio.

Ad avviso del Collegio, tuttavia, l’opinione appena riportata, per quanto non del tutto priva di riscontri nei primi commenti alla riforma costituzionale, non pare in linea con le regole che presiedono al sistema delle fonti dell’ordinamento giuridico italiano, fondato, com’è noto, sul principio di tassatività delle fonti normative primarie e, per le fonti di rango secondario, su quello di legalità, il quale implica che il potere di emanare norme giuridiche, comunque innovative dell’ordinamento, richiede l’interposizione di apposita copertura legislativa.

In primo luogo, il sistema vigente, per intuibili esigenze di unitarietà, non riconosce alle fonti di autonomia locale alcuna riserva di competenza in materia di assetto e competenze degli organi comunali.

In proposito, occorre invero osservare che la legge costituzionale n. 3 del 2001 (recante “Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione”), pur ispirandosi al rafforzamento del sistema delle autonomie territoriali e al correlativo depotenziamento del centralismo che ha costituito una decisiva tappa del processo di trasformazione dello Stato nazionale post-unitario, ha modificato, per quel che qui interessa, l’art. 117 Cost. riservando comunque alla legislazione esclusiva dello Stato, in base al 2° comma, lett. p), la materia relativa alla “legislazione elettorale, agli organi di governo e alle funzioni fondamentali di Comuni, Province e Città metropolitane”.

Nella stessa direzione, l’art.4 della legge 5 giugno 2003 n.131, pur affidando alla fonte statutaria la funzione di stabilire i principi di organizzazione e funzionamento dell’ente, prevede tuttavia che detto potere debba esplicarsi “nel rispetto di quanto stabilito dalla legge statale in attuazione dell’articolo 117, secondo comma, lettera p), della Costituzione”; in tal modo, come è incontestabile allorquando vi sia concorrenza di disciplina sul medesimo oggetto, la previsione conferisce quindi agli statuti una posizione di secondarietà rispetto alla legge statale in materia di organizzazione pubblica.

Ne discende che, per la disciplina delle competenze degli organi di governo e dello svolgimento delle funzioni locali, la riforma ha confermato un esteso ambito di intervento della legge statale, istituzionalmente titolare della regolazione dell’esercizio delle funzioni amministrative; da qui la necessità che i contenuti degli Statuti comunali, i quali per i profili qui considerati conservano la loro natura di fonti secondarie, siano conformi alla disciplina legislativa in materia di organi di governo e di funzioni fondamentali.

In tale quadro la pretesa che lo Statuto comunale possa costituire fonte esclusiva dell’ordinamento locale si pone in contrasto frontale con il principio di legalità che costituisce tuttora il fondamento dello Stato di diritto nel sistema costituzionale delle fonti di diritto.

Il valore imperativo del principio di legalità, sancito dall’art. 97 della Costituzione, nel pretendere, in armonia con i principi di imparzialità e buona amministrazione, che la fonte del potere pubblico debba sempre e solo rinvenirsi nella legge, non può consentire che un organo pubblico, nei casi non previsti dalla normativa di rango primario, si arroghi il potere di trasferire le proprie funzioni istituzionali ad un diverso soggetto, così risolvendosi a non esercitare le competenze, e a non assumere le corrispondenti responsabilità, che l’ordinamento gli attribuisce.

Si tratta di principi tanto noti, che davvero non sembra necessario indugiare ulteriormente sul punto.

Piuttosto, la circostanza che si sia ritenuto necessario spingersi a sostenere la tesi, non a caso del tutto trascurata nelle memorie difensive depositate in giudizio dal Comune (che anzi riconosce “la competenza esclusiva del legislatore statale in materia di organi di governo”), dell’insussistenza di un rapporto di gerarchia tra leggi e statuti comunali, sembra avvalorare il convincimento dei ricorrenti circa la consapevolezza -negli autori della contestata riforma- del contrasto della modifica proposta con i principi desumibili dalla legislazione vigente e rinvenibili nel D.L.gs. n.267/2000.

 4) L’art.42, secondo comma lett.e), di detto decreto, come modificato dall’art.35 della l.n.448/01, attribuisce infatti alla competenza del Consiglio comunale gli atti di “organizzazione dei pubblici servizi, costituzione di istituzioni e aziende speciali, concessione dei pubblici servizi, partecipazione dell’ente locale a società di capitali, affidamento di attività o servizi mediante convenzione”.

La legge quindi ha riservato alla competenza esclusiva dell’organo consiliare ogni determinazione circa la partecipazione comunale in società di capitali, senza alcuna limitazione e, anzi, con la precisazione, contenuta nella parte finale della norma, che le deliberazioni in ordine agli argomenti enumerati nella disposizione non possono essere adottate nemmeno in via d’urgenza da altri organi del comune.

Il tenore inequivoco di tale disciplina sembra al Collegio da solo sufficiente ad evidenziare l’illegittimità della modifica statutaria che è stata approvata con la deliberazione impugnata.

Meritano, tuttavia, di essere confutati gli argomenti con i quali la difesa comunale ha sostenuto che la contestata modifica non ha inteso ridurre l’ambito di competenza consiliare con riferimento agli atti fondamentali enunciati nella disposizione in esame.

5) Si assume, in primo luogo, che l’asserito contrasto con la legge è “escluso per definizione”, dal momento che lo Statuto “si apre con la puntuale attribuzione al Consiglio comunale” delle competenze ad esso spettanti per legge; in forza di tale rinvio alle funzioni fissate dalla fonte primaria, verrebbe quindi in evidenza “un’assoluta corrispondenza tra disposizioni di legge e disposizioni statutarie”.

L’argomento “di tipo formale” palesa un’evidente tautologia, che è racchiusa nell’affermazione secondo cui “le previsioni statutarie collimano perfettamente con la legge” perché “richiama(no) la legge stessa nella definizione delle competenze di Consiglio e Giunta”.

Senonché, non è dubbio che la deliberazione impugnata, dopo il dichiarato ossequio al regime delle attribuzioni previsto dalla legge, abbia inteso devolvere alla Giunta la competenza a disporre le variazioni, non determinanti ai fini del controllo, delle quote di partecipazione comunale nelle società miste. Le contestate previsioni statutarie non trovano nella legge un immediato riscontro testuale e rivestono quindi un’indiscutibile portata innovativa, che si concreta nell’individuazione di una soglia (l’incidenza sul controllo societario) al di sotto della quale le attribuzioni consiliari in materia di partecipazione alle società di capitali sono destinate a cedere in favore della  competenza dell’organo esecutivo.

Ciò posto, non sembra che l’indagine sulla effettiva legittimità di detta previsione statutaria possa appagarsi di un’indicazione autoreferenziale, né che possa esaurirsi nel registrare l’affermazione di principio contenuta in apertura dell’art.36 dello Statuto, secondo cui “il Consiglio esercita le funzioni attribuite dalla legge”; neppure può fondatamente ritenersi che, per effetto di tale richiamo, il giudizio sulla correttezza delle determinazioni comunali debba essere rinviato agli atti applicativi, per verificare la conformità di questi ultimi al riparto di competenze delineato dalle previsioni statutarie, posto che siffatto modo di procedere condurrebbe al risultato, invero inammissibile, di sottrarre l’assetto configurato dalle modifiche statutarie allo scrutinio di legittimità invocato dai ricorrenti.

6) L’argomento “di natura sostanziale” è più sofisticato, ma non per questo è meno infondato.

La difesa comunale, dopo aver ricordato che la legge statale affida al Consiglio comunale la competenza ad adottare gli atti che definiscono l’architettura del sistema, sostiene che la modifica statutaria si limita a specificare le caratteristiche perché una determinata serie di atti possa ricondursi alla categoria degli “atti fondamentali” e, in particolare, a fissare in via astratta e generale il limite per considerare ricompresa la variazione di partecipazione nel novero degli atti fondamentali riservati al Consiglio.

Ebbene, ad avviso del Collegio, è proprio in siffatta impostazione che si annida il vizio di fondo della deliberazione impugnata, che pretende di consegnare alla fonte statutaria un potere di definizione delle attribuzioni consiliari, in tal modo invadendo un ambito custodito da riserva di legge.

Come può evincersi dal combinato disposto di cui agli artt.48 e 107 del T.U.E.L., la Giunta è un organo di governo dell’ente locale e, in tale qualità, concorre unitamente al Consiglio, all’esercizio dei poteri di indirizzo e controllo politico amministrativo. Tuttavia a questa condivisione di funzioni non corrisponde alcuna confusione nelle rispettive attribuzioni, dal momento che, al secondo comma dell’art.48, la delimitazione delle competenze dell’organo esecutivo è chiaramente segnata dalla riserva di legge che qualifica le attribuzioni consiliari.

L’art.42 stabilisce, al suo secondo comma, che il Consiglio ha competenza limitatamente agli atti fondamentali che sono di seguito enumerati. E’ pacifico che detta competenza debba essere intesa in modo biunivocamente rigido, sia nel senso che il Consiglio non possa invadere ambiti diversi da quelli ad esso assegnati con indicazione tassativa, come pure nel senso che le determinazioni sugli argomenti compresi nel catalogo normativo riservato all’attività consiliare non possano essere assunte da altri organi, stante l’espresso divieto sancito nella parte finale della disposizione.

Il che porta incontestabilmente ad escludere la possibilità di configurare spazi di intervento dell’autorità amministrativa, cui non compete, nemmeno nell’esercizio della potestà normativa sub primaria, la facoltà di definire i requisiti perché un determinato atto possa ritenersi compreso o al contrario escluso dalla competenza riservata al Consiglio.

Ammettere il contrario significherebbe riconoscere alla fonte secondaria il potere di limitare l’ambito di applicazione della disciplina di rango superiore, attraverso un’operazione che, sub species di definizione qualitativa o quantitativa della categoria degli atti fondamentali, depotenzi il ruolo di indirizzo e controllo che la legge ha inteso assegnare al Consiglio comunale in ambiti determinati e tassativi.

Nella direzione segnata dalla deliberazione impugnata, e con riguardo, ad esempio, alla competenza consiliare in materia di programmazione (lett.b), nulla invero potrebbe impedire di qualificare come non riconducibili alla categoria degli atti fondamentali, e di sottrarre quindi alla competenza del Consiglio, le varianti urbanistiche che interessino ambiti territoriali limitati e circoscritti o i piani attuativi, o ancora un piano finanziario di ridotto respiro e così in genere tutti quegli atti i quali, ancorché compresi nell’elenco normativo, presentino tuttavia un rilievo che la maggioranza consiliare valuti marginale.

Ora non sembra al Collegio che possa affidarsi ai mutevoli rapporti di forza, che connotano gli assetti degli organi elettivi, la facoltà di variare il registro delle competenze degli organi comunali, che si traduce in vincoli legislativi posti a presidio dello stesso principio democratico, il quale esige che le scelte sugli argomenti, che secondo il disegno del Legislatore rivestono rilevanza primaria per gli interessi dell’intera collettività insediata nel territorio comunale, scaturiscano dal confronto tra tutte le componenti rappresentative degli interessi medesimi.

Ed invero, il nuovo sistema del riparto di competenze tra Giunta e Consiglio comunale è retto dal principio secondo cui l’organo elettivo è chiamato ad esprimere gli indirizzi politici ed amministrativi di rilevo generale, che si traducono negli “atti fondamentali” tassativamente elencati all’articolo 42 del testo unico.

In tale quadro deve ritenersi, contrariamente a quanto sostenuto nella deliberazione impugnata e nella sentenza del TAR Campania (I sez. 9 aprile 1998 n.1138) cui essa si richiama, che la definizione della categoria degli atti fondamentali riservati alla competenza del Consiglio comunale sia stata compiuta direttamente dalla legge e non possa formare oggetto di interventi manipolativi mediante atti aventi natura amministrativa.

Ciò sta a significare che, nel sistema delineato dall’art.42 T.U.E.L., tutti gli atti che compongono il catalogo delle attribuzioni consiliari, tra cui la partecipazione -in qualsiasi forma e misura- dell’ente locale nelle società di capitali, sono per definizione “fondamentali”, senza che in proposito possa predicarsene l’ascrizione ad una diversa categoria in applicazione di un criterio finalistico fondato sulla non incidenza della dismissione sul controllo della società.

Come giustamente osservano i ricorrenti, tale criterio porterebbe ad escludere in radice ogni competenza consiliare con riguardo alle società miste nelle quali il Comune detenga una quota di minoranza insufficiente ad assicurarne il controllo, fino a consentire alla Giunta di deliberare in completa autonomia la totale dismissione della partecipazione comunale indipendentemente dal rilievo strategico che l’intervento pubblico in quel determinato settore possa in ipotesi rivestire nei programmi consiliari per la sua rilevanza sociale o per altre finalità di ordine collettivo. Il che finisce non solo per deprimere, a vantaggio della Giunta, il potere di indirizzo che la legge affida all’organo elettivo, ma compromette più in generale lo stesso ruolo di vertice che questo riveste nell’organizzazione comunale, spettando a tale organo rappresentativo dell’intero corpo elettorale il compito di deliberare gli atti fondamentali dell’ente locale.

In contrario non giova il richiamo all’art.6, secondo comma, T.U.E.L., il quale affida allo Statuto il compito di specificare le attribuzioni degli organi comunali, posto che tale funzione deve esplicarsi pur sempre “nell’ambito dei principi fissati dal testo unico”, il che riconduce alla già rassegnata lettura dell’art.42.  Deve quindi ritenersi che la previsione sia finalizzata al solo scopo di disciplinare le modalità di esercizio delle funzioni, essendo le relative titolarità già stabilite dalla fonte primaria e coperte da specifica riserva di legge.

7) Nella deliberazione impugnata si sostiene che la modifica statutaria ha inteso adeguare le attribuzioni degli organi collegiali alle modifiche introdotte dall’art.35 della l. 28 dicembre 2001 n.448, che avrebbe introdotto la possibilità di attribuire alla Giunta competenze di gestione in materia di servizi pubblici. In tale quadro, le variazioni della quota non determinanti ai fini del controllo assumerebbero portata di atti di gestione della partecipazione non riservati alla competenza consiliare.

Il Collegio ritiene che nemmeno questa via valga a conferire legittimità alle scelte comunali.

Il tenore testuale della modifica statutaria attribuisce alla Giunta il potere di cedere una quota rilevante ai fini del possesso della maggioranza azionaria, se a tale dismissione non si accompagni la perdita del controllo della società partecipata. Ciò può ben verificarsi, dal momento che i due elementi non sono tra loro necessariamente interdipendenti. Nel panorama offerto dal mercato azionario non è infrequente il fenomeno per cui la detenzione del pacchetto di minoranza è da solo sufficiente a garantire il comando della società; come riconosce la stessa pronuncia richiamata dalla deliberazione in esame, “l’esperienza dimostra come percentuali di interessenza anche modeste possono, di fatto, consentire un penetrante controllo sulle strategie azionarie”, il che può verificarsi, ad esempio, quando la quota di maggioranza sia diluita tra un azionariato diffuso o, ancora, quando particolari previsioni dello statuto societario contemplino limiti quantitativi all’acquisizione di quote sociali per evitarne la concentrazione.

E’ tuttavia indiscutibile il rilievo strategico che riveste il passaggio dal possesso della quota di maggioranza alla detenzione di un pacchetto minoritario, anche nel caso in cui questo si riveli comunque sufficiente a conservare il controllo della società.

La misura di ciò è data dalla stessa disposizione cui la delibera pretende di dare applicazione.

Nella sua parte finale, il comma secondo dell’art.35 l.n.448/01 dispone(va) che “a far data dal termine di cui al primo periodo, è comunque vietato alle società di capitali in cui la partecipazione pubblica è superiore al 50%, se ancora affidatarie dirette, di partecipare ad attività imprenditoriali al di fuori del proprio territorio” (tale disposto normativo è stato successivamente abrogato con l’art.14 terzo comma d.l. n.269/03, ma era comunque vigente all’epoca di adozione della deliberazione impugnata).

La previsione contenuta nell’art.35.2 ultimo periodo segna la necessità per gli enti locali di compiere una decisa opzione tra due possibili scenari: le singole amministrazioni possono decidere di mantenere la maggioranza del capitale sociale, conservando così la possibilità di procedere all’affidamento diretto (secondo il modello dei servizi in house di matrice comunitaria), in tal modo funzionalizzando la società pubblica al perseguimento delle esigenze proprie della collettività insediata nel territorio di riferimento, ma rinunciando a ogni prospettiva di espansione extraterritoriale; ovvero possono dismettere la quota di maggioranza e affidare alle società partecipate il ruolo di operatori attivi nel mercato, senza i vincoli funzionali derivanti dall’assetto organizzativo caratterizzato dalla dominanza pubblica.

L’effettuazione di tale scelta si consuma mediante la cessione di una minima quota percentuale di partecipazione (al limite, quella necessaria a ridurre la partecipazione medesima dal 50% al 49%); operazione questa che la modifica statutaria consente di compiere con delibera di Giunta, nonostante il suo rilevantissimo rilievo strategico per gli assetti della società partecipata e dello stesso servizio pubblico in cui essa opera.

Il che contribuisce ad evidenziare finalmente l’illegittimità delle scelte adottate, per violazione dell’art.42, secondo comma lett.e, T.U.E.L. e dell’art.35 l.n.448/01.

8) In conclusione il ricorso è fondato e deve quindi essere accolto, con le conseguenti statuizioni di cui al dispositivo.

Sussistono comunque giustificati motivi per disporre la compensazione delle spese tra le parti.

 

P.Q.M.

il Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia, terza Sezione, definitivamente pronunciando sul ricorso n. 1944/03 così dispone:

-accoglie il ricorso in epigrafe e per l’effetto annulla la deliberazione impugnata e le modifiche statutarie con essa approvate;

-compensa integralmente le spese tra le parti.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’Autorità amministrativa.

Così deciso in Milano il 22 gennaio 2004 in camera di consiglio con l’intervento dei magistrati:

Domenico Giordano - pres. est.

Gianluca Bellucci - ref.

Daniele Dongiovanni - ref.

 

DEPOSITATA IN SEGRETERIA

IL 6 MAGGIO 2004

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