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I SERVIZI PUBBLICI LOCALI DOPO LA DELEGA MADIA
di Bruno Spadoni 21 giugno 2017
Materia: servizi pubblici / disciplina

I SERVIZI PUBBLICI LOCALI DOPO LA DELEGA MADIA

(Bruno Spadoni)

I servizi pubblici locali e la Delega Madia

Con l’approvazione da parte del Consiglio dei Ministri del Decreto legislativo recante il Testo unico sui servizi pubblici locali di interesse economico generale, dopo i pareri favorevoli della Conferenza unificata, del Consiglio di Stato e delle Commissioni parlamentari competenti, sembrava essere finalmente pervenuti al termine della lunga fase di incertezza e di instabilità che ha caratterizzato l’assetto normativo del settore. Questo Testo unico, infatti, come si vedrà, si configurava come una stabilizzazione in forma organica delle disposizioni in essere, in particolare di quelle intervenute nell’ultimo quinquennio a seguito sia dell’emanazione delle direttive europee in materia di appalti e concessioni (le Direttive 23 e 24 del 2014), sia del varo del nuovo Codice dei Contratti pubblici (D.Lgs 50/2016 integrato e corretto con il D.Lgs 56/2017), sia di una serie di disposizioni sul tema tra cui, in particolare, quelle contenute nelle leggi di stabilità 2014 e 2015 (L. 147/2013 e L. 190/2014). La pronuncia di incostituzionalità da parte della Consulta (Sentenza n. 251/2016), che ha censurato parte delle disposizioni della c.d. “Delega Madia” (L. 124/2015), ha prodotto un’interruzione di questo processo. La Corte, infatti, in relazione al ricorso presentato dalla Regione Veneto, ha rilevato che le norme oggetto della delega, pur incidendo in ambiti riconducibili alla competenza dello Stato, riguardano anche materie di competenza regionale residuale o concorrente e quindi presentano un vizio di legittimità costituzionale riconducibile alla lesione del “principio di leale collaborazione”. Ciò in quanto la procedura prevista nella delega per l’adozione dei relativi decreti attuativi richiede l’acquisizione di un parere anziché di un’intesa in sede di Conferenza unificata. La pronuncia di incostituzionalità, peraltro – come ha chiarito la medesima sentenza – è circoscritta alle disposizioni di delega della legge 124/2015 e non si estende alle relative norme attuative. Quindi devono considerarsi pienamente vigenti i decreti già in essere, tra cui il TU in materia di società a partecipazione pubblica (D.Lgs 175/2016), entrato in vigore il 23 settembre 2016. Al contrario il Testo unico sui servizi pubblici locali di interesse economico generale non è stato inviato alla Gazzetta Ufficiale per la conseguente pubblicazione. A fronte di questa situazione, secondo il parere del Consiglio di Stato (Parere 83/2017), le possibili strade per salvaguardare le disposizioni contenute nel TU possono essere, o l’adozione di una nuova legge delega conforme ai vincoli procedurali sanciti dalla Corte costituzionale, o un disegno di legge avente, almeno in parte, il contenuto del decreto delegato che andrebbe a sostituire.

Questa debacle nelle vicende normative relative ai servizi pubblici locali non è stata l’unica né la prima. Si possono rammentare al riguardo – per citare gli episodi più significativi – l’abrogazione dell’articolo 23-bis del DL 112/2008 per effetto del Referendum del Giugno 2011 e poi quella dell’articolo 4 del DL 138/2011 (che riproduceva contenuti largamente analoghi a quelli dell’articolo 23-bis) a seguito della pronuncia di incostituzionalità della Consulta (Sentenza 199/2012). Si sottolinea che le norme abrogate erano caratterizzate da un’accentuata impronta liberalizzatrice ereditata dall’impostazione di precedenti disegni di legge, entrambi decaduti per il termine delle rispettive legislature (il cd “DDL Vigneri” e il cd “DDL Lanzillotta”) e si ponevano in discontinuità rispetto alla precedente disciplina (contenuta nell’articolo 35 della Legge 448/2001, in parte sostituito dall’articolo 14 del DL 269/2003) molto meno orientata alla concorrenza. La pronuncia di incostituzionalità della Consulta relativa all’articolo 4 del DL 138/2011, pur determinando la non reviviscenza delle disposizioni abrogate, come affermato dalla stessa Corte, non ha tuttavia provocato un vuoto normativo in quanto il punto di riferimento è restato comunque costituito dall’insieme della disciplina europea e dalle norme settoriali in vigore.

A partire da questa situazione, come si diceva, è iniziata una fase di intenso cambiamento che ha caratterizzato l’attività normativa del successivo quinquennio in particolare sui versanti della disciplina degli affidamenti, della politica industriale e della spending review.

 

La disciplina degli affidamenti

In tema di affidamento dei servizi il riferimento è la disciplina europea, in particolare quella contenuta nelle Direttive in materia di appalti e concessioni, recepita nel nuovo Codice dei Contratti pubblici e ripresa nel TU sulle società partecipate. Le modalità di affidamento possono ricondursi a:

a) esternalizzazione a terzi del servizio, attraverso l’espletamento di procedure ad evidenza pubblica;

b) costituzione di una società mista, mediante una gara finalizzata alla scelta del socio privato ed alla contestuale attribuzione allo stesso di specifici compiti operativi connessi alla gestione (c.d. “gara a doppio oggetto”);

c) in house providing.

Le direttive europee e le norme che le hanno recepite hanno introdotto alcuni significativi cambiamenti in materia di in house e, in parte, di società mista. Per l’in house la novità maggiore consiste nella possibilità di forme di partecipazione di capitali privati a condizione che ciò sia previsto da norme di legge e che non comporti controllo o potere di veto, né l’esercizio di un’influenza determinante sulla società; inoltre un altro requisito prescritto dalla disciplina europea per l’in house, vale a dire quello della prevalenza dell’attività della società per lo svolgimento di compiti affidatigli dall’ente controllante, è stato quantificato nella misura di almeno l’80% del suo fatturato; al riguardo nel TU in materia di società a partecipazione pubblica si è stabilito (in aggiunta a quanto prescritto dalle direttive e dal Codice dei Contratti pubblici) che la produzione ulteriore rispetto a tale limite sia consentita solo per il conseguimento di economie di scala o per recuperi di efficienza. Per la società mista nel TU sulle partecipazioni pubbliche  è stato previsto che la quota di partecipazione del soggetto privato non possa essere inferiore al 30% del capitale.

Si è sviluppato un dibattito in ordine ai criteri di scelta da parte dell’ente locale affidante delle forme di gestione tra quelle previste dalla disciplina europea. Secondo alcune opinioni le tre possibili modalità di affidamento vanno considerate su un piano di parità. L’ente affidante, quindi, potrebbe limitarsi a motivare questa scelta nella Relazione prodromica all’affidamento disciplinata dall’articolo 34 del DL 179/2012 come modificato dalla legge di Stabilità 2015 (L. 190/2014). In tali norme, in particolare, si stabilisce che la Relazione, oltre a dare conto della conformità ai requisiti previsti dall’ordinamento europeo per la forma di affidamento prescelta e a definire i contenuti specifici degli obblighi di servizio pubblico e servizio universale indicando le relative eventuali compensazioni economiche, rechi le motivazioni relative alla scelta della forma di affidamento. Essa, infatti, deve esplicitare le ragioni di tale scelta con riferimento agli obiettivi di universalità e socialità, di efficienza e di economicità e di qualità del servizio. Con riferimento alla motivazione dell’efficienza e dell’economicità la norma prevede che la relazione comprenda un Piano economico-finanziario, asseverato da un soggetto abilitato, con la proiezione, per il periodo di durata dell’affidamento (aggiornata a cadenza triennale), dei costi e dei ricavi, nonché degli investimenti e dei relativi finanziamenti e con la specificazione, nell’ipotesi di affidamento in house, dell’assetto economico-patrimoniale della società, del capitale proprio investito e dell’ammontare dell’indebitamento. Al fine, poi, di responsabilizzare gli enti locali che optano per la gestione in house la norma stabilisce in capo agli Enti locali proprietari l’obbligo di accantonare, di triennio in triennio, una somma pari all’impegno finanziario corrispondente al capitale proprio come indicato nel Piano economico-finanziario.

Secondo altre opinioni, più aderenti alla disciplina europea, la scelta dell’ in house, e quindi la sottrazione alla concorrenza “per il mercato”, deve essere giustificata in modo specifico. In effetti, le possibili modalità di affidamento, come si è detto, comprendono sia la gara (inclusa quella “a doppio oggetto” per la selezione del partner privato di una società mista), sia la gestione in house conforme ai requisiti per essa stabiliti. E’ tuttavia da ribadire che l’articolo 106 del TFUE ammette l’affidamento diretto solo quando l’applicazione della concorrenza ostacoli la “speciale missione” dell’ente pubblico. Questa impostazione è seguita anche dal Codice dei Contratti pubblici in cui (all’articolo 192) si stabilisce che, per l’affidamento in house di servizi disponibili sul mercato in regime di concorrenza, deve essere effettuata preventivamente la valutazione della congruità dell’offerta economica dei soggetti in house, motivando le ragioni del mancato ricorso al mercato, dei benefici per la collettività anche in relazione agli obiettivi di universalità e socialità, efficienza, economicità, qualità del servizio e ottimale impiego di risorse pubbliche. In caso di scelta dell’in house, quindi, le Relazioni dovrebbero esplicitare le condizioni del servizio e del mercato di riferimento che non rendono percorribile o conveniente il ricorso alla gara. Su questo punto si rammenta anche che, in base a quanto stabilito dall’articolo 13 comma 25-bis del DL 145/2013, gli enti affidanti, sono tenuti a pubblicare le Relazioni sul proprio sito internet e devono trasmetterle all’Osservatorio per i servizi pubblici locali, istituito presso il Ministero dello Sviluppo Economico, che provvede a pubblicarle nel proprio portale telematico. Con ciò non solo si favorisce la trasparenza delle decisioni e delle motivazioni delle scelte degli Enti locali e la possibilità di eventuali ricorsi sul piano giurisdizionale, in particolare da parte dell’Autorità garante della Concorrenza e del Mercato, ma si creano i presupposti per confronti di benchmarking e quindi per l’esercizio di una forma comparativa di concorrenza. L’Osservatorio, infatti, è previsto che metta a disposizione degli enti locali e degli operatori, non solo le Relazioni prodromiche all’affidamento, ma anche una banca dati aggiornata recante sia le norme europee, nazionali e regionali organizzate per settore e per materia, sia i dati economici tratti dai bilanci delle società operanti in questi settori suddivisi per cluster territoriali e dimensionali (come stabilito dal Decreto del Ministero dello Sviluppo Economico dell’8 Agosto 2014).

La politica industriale

Dal punto di vista della politica industriale le norme succedutesi negli ultimi anni hanno introdotto rilevanti misure di promozione e incentivazione delle aggregazioni organizzative e gestionale al fine di conseguire economie di scala e di scopo. La frammentazione gestionale, in effetti, costituisce una delle principali remore allo sviluppo di questo settore e al conseguimento di sufficienti livelli di efficienza e di economicità. Inoltre, anche sul piano ambientale e su quello dello sviluppo territoriale la separazione delle diverse componenti del ciclo produttivo e la dispersione territoriale delle gestioni non consente di garantire adeguati standard di servizio e di qualità delle aree abbassando in tal modo l’attrattività delle stesse. In particolare nelle regioni meridionali e soprattutto nei settori idrico e dei rifiuti, la frammentazione è molto accentuata e produce sensibili squilibri sia sul piano infrastrutturale che su quello collegato dei livelli di prestazione. Occorrerebbe, quindi, una politica di investimenti di vaste proporzioni, alimentata sia da finanziamenti pubblici ed europei (in particolare quelli compresi nelle politiche di coesione), sia da capitali privati. Il presupposto è la presenza di condizioni economiche, produttive e gestionali tali da garantire la sostenibilità degli investimenti. In altri termini, una volta colmato il gap di economicità dovuto alla presenza di oneri di servizio pubblico e di universalità tramite finanziamenti agevolati (a fronte dei fallimenti del mercato), occorre assicurare adeguati livelli di redditività e sufficienti garanzie per gli investitori privati. Perché ciò sia possibile sono indispensabili diverse condizioni: sia la sicurezza, sia l’adeguatezza e stabilità del quadro normativo e regolatorio, sia soglie dimensionali che consentano una gestione imprenditoriale dei servizi.

A partire dalla fine del secolo scorso le norme di riforma dei settori idrico e di rifiuti (rispettivamente la Legge 36 del 1994, nota come “Legge Galli” e il D.Lgs 22 del 1997, meglio conosciuto come “Decreto Ronchi”, successivamente trasfuse nel cosiddetto “Codice dell’ambiente”, vale a dire il D.Lgs 152 del 2006), hanno introdotto misure volte a realizzare l’integrazione orizzontale e verticale dei servizi. Senza entrare nel merito di tali disposizioni è sufficiente osservare che in entrambe le norme coesisteva un duplice ordine di obiettivi: sia quello di garantire un uso appropriato delle risorse naturali e di tutelare l’ambiente, sia quello di promuovere gestioni efficienti. A tal fine si prevedeva l’aggregazione territoriale, tramite la costituzione di Ambiti territoriali ottimali (ATO) e di ricomposizione della filiera dei servizi in cicli integrati. In effetti i processi di aggregazione, in entrambi i settori, hanno stentato a produrre i risultati voluti. Gli Ambiti territoriali ottimali e gli Enti di governo degli stessi (definiti Autorità d’ambito fino alla loro soppressione ad opera dell’articolo 2 comma 186-bis della legge 191/2009) sono stati costituiti con grande ritardo e soprattutto si è registrata una forte resistenza degli enti locali ad aderire ad essi. Al fine di colmare i ritardi è intervenuto, per il settore idrico, l’articolo 7 del DL 133/2014 (il c.d. “Sblocca Italia”) che ha modificato e integrato le disposizioni del Codice dell’Ambiente, sia imponendo alle Regioni di individuare gli Enti di governo degli ambiti entro un termine perentorio con attivazione di poteri sostitutivi da parte del Presidente del Consiglio in caso di inerzia, sia obbligando gli enti locali ad aderire agli ambiti pena l’esercizio di poteri sostitutivi da parte delle Regioni (e del Presidente del Consiglio nell’ipotesi di inattività delle Regioni stesse), sia prevedendo il principio della unicità della gestione a livello di ambito.

Un approccio fondato su analoghi presupposti ha costituito la base di riferimento delle misure contenute nell’articolo 3-bis del DL 138/2011 (sopravvissuto alla pronuncia di incostituzionalità, circoscritta al solo articolo 4 del provvedimento) come modificato dalla Legge di Stabilità 2015, orientate a promuovere e incentivare politiche di aggregazione. Con riferimento al tema del superamento della frammentazione si è previsto, in particolare, che le Regioni organizzino lo svolgimento dei servizi pubblici locali a rete di rilevanza economica in ambiti o bacini territoriali ottimali e omogenei di dimensione non inferiore al territorio provinciale, istituendo o designando enti di governo degli stessi e prevedendo, in caso di inerzia, l’esercizio di poteri sostitutivi da parte del Consiglio dei Ministri. Come si è precedentemente sottolineato le politiche di aggregazione della domanda e dell’offerta, sebbene prescritte dalla legge, hanno stentato a decollare per le resistenze che si manifestano ai diversi livelli istituzionali. Rilevano, in particolare, i ritardi e la non ottemperanza delle Regioni, degli Enti di governo degli ambiti e degli Enti locali alle norme che prevedono la perimetrazione degli ambiti territoriali ottimali (Regioni), l’istituzione degli Enti di governo degli ambiti (Regioni), l’adesione dei Comuni agli Enti di governo degli ambiti, gli affidamenti su scala d’ambito (Enti di governo degli ambiti). E’ evidente che il collegamento degli adempimenti da parte dei diversi enti è stretto e che dunque i ritardi si susseguono a cascata. Uno degli ostacoli principali è costituito dalle resistenze dei Comuni a superare l’attuale assetto costituito, ancora diffusamente in alcuni settori, da affidamenti diretti all’interno dei confini amministrativi dei Comuni stessi. Non di rado questi affidamenti, prevalentemente quelli di piccole dimensioni, non sono neanche conformi alla disciplina europea sull’in house (ma in alcune circostanze anche a quella sulla società mista). Al fine di superare questa impasse la Legge di Stabilità 2015 ha previsto una serie di misure (contenute nel comma 609) le quali hanno modificato in più punti il citato articolo 3-bis. Nello specifico è stato previsto l’obbligo generalizzato per gli Enti locali di aderire agli Enti di governo degli ambiti prevedendo, in caso di mancata adesione entro sessanta giorni dall’istituzione o designazione dell’Ente d’ambito, l’esercizio di poteri sostitutivi da parte del Presidente della Regione. Come si è detto il superamento delle resistenze dei Comuni è una condizione necessaria ai fini della concreta operatività degli Enti di governo degli ambiti a cui la legge (comma 1-bis dell’articolo 3-bis) assegna l’esercizio di funzioni di organizzazione dei servizi pubblici locali a rete di rilevanza economica, di scelta della forma di gestione, di determinazione delle tariffe all’utenza, di affidamento della gestione e relativo controllo. Al riguardo è stato ribadito anche che a tali enti, proprio in quanto titolari degli affidamenti su scala d’ambito, spetta la redazione della Relazione la quale, ai sensi dell’articolo 34 del DL 179/2012, come si è detto, costituisce un atto prodromico all’affidamento del servizio e che le loro deliberazioni sono validamente assunte senza necessità di ulteriori deliberazioni da parte degli Enti locali.

Le politiche di aggregazione vengono variamente incentivate. Innanzitutto, sempre nel citato comma della Legge di Stabilità 2015, è stata prevista la possibilità di prosecuzione delle concessioni, assentite in conformità alla normativa europea, quando ad un operatore economico ne succeda un altro a seguito di operazioni societarie (acquisizioni, fusioni, ecc.) effettuate con procedure trasparenti e fermo restando il rispetto dei criteri qualitativi stabiliti inizialmente. Tale disposizione, occorre precisare, è la trasposizione di norme presenti nell’ordinamento sovranazionale poi acquisite in quello nazionale; infatti la possibilità di proseguire nella gestione è espressamente sancita dall’articolo 43 della Direttiva 2014/23/UE sull’aggiudicazione dei contratti di concessione (rubricato “Modifica di contratti durante il periodo di validità”) e nell’articolo 175 del Codice dei Contratti pubblici. L’ente affidatario è tenuto ad accertare la persistenza di detti requisiti qualitativi e inoltre dovrà verificare la permanenza delle condizioni di equilibrio economico-finanziario in modo da poter procedere, ove necessario, alla rideterminazione di tale equilibrio anche tramite l’aggiornamento del termine di scadenza di tutte o alcune delle concessioni in essere. Da sottolineare che quest’ultima decisione è rimessa alla valutazione di merito dell’Autorità di regolazione ove istituita o dell’Ente di governo dell’ambito.

Per quanto riguarda le incentivazioni finanziarie alle aggregazioni è stato previsto che i finanziamenti pubblici possano essere attribuiti esclusivamente agli Enti di governo degli ambiti territoriali o ai relativi gestori, in luogo dei singoli Enti locali, a condizione che tali risorse siano aggiuntive o a garanzia dei piani di investimento approvati dagli Enti di governo degli ambiti. Tali risorse, inoltre, dovranno essere assegnate in via prioritaria a gestori selezionati tramite gara ad evidenza pubblica o per i quali sia stata comunque attestata l’efficienza gestionale e la qualità del servizio e a quelli che abbiano deliberato operazioni di aggregazione. Infine si sono introdotti incentivi economici per gli Enti locali proprietari che procedano a dismissioni di partecipazioni, ai quali è stata riconosciuta la possibilità di escludere dai vincoli del patto di stabilità interno (peraltro ormai superato) le spese di investimento finanziate con i proventi delle dismissioni.

La spending review

Un'importante novità che ha caratterizzato la politica dei servizi pubblici locali negli anni più recenti è il suo collegamento con la revisione della spesa pubblica e con la razionalizzazione delle partecipazioni pubbliche. Tale strategia, elaborata nell’ambito della Commissione presieduta dal Commissario straordinario per la revisione della spesa ed esplicitata nel “Programma di razionalizzazione delle partecipate locali”, si propone sostanzialmente di ridurre drasticamente il numero delle partecipazioni, di aumentarne l’efficienza e di contenerne le spese. Senza entrare nel merito delle articolate analisi condotte in seno alla c.d. “Commissione Cottarelli” e contenute nel suddetto documento è sufficiente, ai nostri fini, mettere in evidenza che gli indirizzi prospettati sono stati declinati in una duplice direzione: da un lato quelli relativi a partecipate pubbliche esercitanti servizi cosiddetti strumentali o funzioni pubbliche esternalizzate, dall’altro quelli riferiti a società di gestione di servizi pubblici. Per la prima categoria l’obiettivo, in estrema sintesi, è riconducibile alla riduzione del loro numero prevalentemente tramite alienazioni oppure dismissioni per i servizi strumentali e reinternalizzazioni in caso di esercizio esternalizzato di funzioni pubbliche. Per i servizi pubblici locali la finalità della riduzione del numero delle partecipate prevede politiche di superamento della frammentazione mediante aggregazioni gestionali.

Le misure relative alla spending review sono comprese nel D.Lgs 175/2016 che, come si è detto, disciplina le società a partecipazione pubblica e reca un Testo unico in materia. Questo decreto, al fine di tenere conto delle censure della Sentenza 251/2016 della Corte Costituzionale, è stato sottoposto a un processo di revisione. Al riguardo è stata predisposta una bozza di decreto contenente integrazioni e correzioni al TU. Questo documento è stato trasmesso alla Conferenza unificata ai fini dell’intesa, acquisita nella seduta del 16 marzo 2017, nonché al Consiglio di Stato e alle Commissioni parlamentari competenti per i rispettivi pareri. Al termine di tale iter il decreto integrativo e correttivo (di cui si tiene conto nell’illustrazione che segue) è stato approvato dal Consiglio dei Ministri.

Molte disposizioni del TU costituiscono una sistematizzazione organica di misure già presenti in norme succedutesi negli ultimi anni; ciò in armonia con i principi e i criteri comuni contenuti nell’articolo 16 della Delega Madia che, in particolare, prevede:

- la “elaborazione di un testo unico delle disposizioni in ciascuna materia con le modifiche strettamente necessarie per il coordinamento delle disposizioni stesse”, salvo le deroghe esplicitate;

- il “coordinamento formale e sostanziale del testo delle disposizioni legislative vigenti, apportando le modifiche strettamente necessarie per garantire la coerenza giuridica, logica e sistematica della normativa e per adeguare, aggiornare e semplificare il linguaggio normativo”;

- la “risoluzione delle antinomie in base ai principi dell'ordinamento e alle discipline generali regolatrici della materia”.

Senza entrare nel merito delle numerose e articolate disposizioni contenute nel TU ci si limita ad alcune sottolineature sui punti di maggiore interesse attinenti direttamente o indirettamente ai servizi pubblici locali.

Rileva, innanzitutto, la definizione dei perimetri comprendenti, rispettivamente, le tipologie di società ammesse e le attività che esse possono svolgere. Sotto il primo aspetto la norma prevede che le partecipazioni possano consistere esclusivamente in società, anche consortili, per azioni o a responsabilità limitata anche in forma cooperativa. Si sottolinea che le disposizioni del decreto si applicano solo se espressamente previsto alle società quotate, quelle cioè che emettono azioni quotate in mercati regolamentati o che hanno emesso, alla data del 31 dicembre 2015, strumenti finanziari diversi dalle azioni quotati in mercati regolamentati e le società partecipate dalle une o dalle altre, salvo che le stesse siano anche controllate o partecipate da Amministrazioni pubbliche non per il tramite di società quotate.

Sotto il secondo aspetto il principio di riferimento è quello già previsto nell’articolo 3 della Legge finanziaria per il 2008 (Legge 244/2007), ribadito nel sopra citato “Programma di razionalizzazione” prodotto in seno alla “Commissione Cottarelli” e poi contenuto nella Legge di Stabilità per il 2015. In base a tale principio le Amministrazioni pubbliche non possono, direttamente o indirettamente, costituire società o acquisire o mantenere partecipazioni, anche di minoranza, aventi per oggetto attività di produzione di beni o servizi non strettamente necessari per il perseguimento delle proprie finalità istituzionali. A partire da questo assunto generale la norma (all’articolo 4) indica un elenco tassativo di attività che possono essere svolte tramite società partecipate: a) la produzione di servizi di interesse generale, b) la realizzazione e la gestione di un’opera pubblica sulla base di un accordo di programma tra Amministrazioni pubbliche, c) l’organizzazione e la gestione di un’opera pubblica o di un servizio di interesse generale tramite un contratto di partenariato, d) l’autoproduzione di beni o servizi strumentali o lo svolgimento delle funzioni degli enti partecipanti, e) servizi di committenza a supporto di enti senza scopo di lucro e di Amministrazioni aggiudicatrici. Rileva, al riguardo, una modifica prospettata in sede di intesa con la Conferenza unificata nella quale si consente esplicitamente alle Amministrazioni pubbliche di detenere partecipazioni in società che producono servizi di interesse generale a rete (di cui all’articolo 3-bis del D.L 138/2011 sopra esaminato) anche oltre l’ambito territoriale della collettività di riferimento, fatta salva la previsione di liquidazione della società in caso di risultato negativo in quattro esercizi su cinque (disposizione che, al di fuori di questa ipotesi, non si applica ai servizi di interesse generale). Per tenere conto delle condizioni poste dalla Commissione Affari costituzionali del Senato nell’espressione del proprio parere è stato stabilito che l’acquisizione dei servizi extra moenia debba avvenire tramite procedure ad evidenza pubblica e che la società affidante sia essa stessa stata selezionata tramite gara. Tali ultime condizioni comportano dunque - di fatto - un duplice ordine di obblighi:

a)     che l’affidamento dei servizi in corso sia avvenuto con procedure ad evidenza pubblica;

b)    che i servizi extra moenia siano acquisiti con procedure ad evidenza pubblica.

Sulla condizione sub b), in effetti, non c’è nulla da eccepire in quanto è interamente rispondente alle discipline europea e nazionale.

La condizione sub a) rischia, invece, di produrre una serie di problemi:

1)    non risulta chiaro se tra gli affidamenti ad evidenza pubblica siano compresi anche quelli a società a partecipazione pubblico-privata conformi alle direttive europee e al nuovo Codice dei contratti pubblici (in cui il partner privato sia stato selezionato tramite una gara cd. “a doppio oggetto”). Questa assenza di chiarezza rischia di escludere le società a partecipazione mista da questa opportunità creando condizioni di disparità nel mercato.

2)    la gestione extra moenia non potrebbe essere esercitata dalle società in house in quanto titolari di affidamenti diretti. Ciò è incoerente e contrasta con la disciplina sull’in house prevista sia dalle direttive europee e dal Codice dei contratti pubblici, sia dall’articolo 16 dello stesso TU sulle partecipazioni pubbliche. In essi, infatti, viene confermato il principio della “prevalenza” (già affermato nella giurisprudenza) in virtù del quale si impone a questo tipo di società di operare prevalentemente per gli enti affidanti, stabilendo che almeno l’80% del fatturato sia effettuato nello svolgimento di compiti a esse affidati dagli enti pubblici soci. E’ conseguente che la restante frazione di fatturato (fino al 20%) possa riguardare altre attività che dovrebbero comprendere anche quelle extra moenia.

E’ dunque evidente che la condizione sopra indicata sub a) risulta in palese contraddizione interna e con la disciplina europea e nazionale. Né vale il fatto che nella disposizione in esame si precisi che “resta fermo quanto previsto dall’articolo 16” (quello che disciplina la gestione in house) in quanto, stando a quanto prescritto dalla norma, la facoltà di operare (nei limiti del 20% del fatturato) in attività non dirette a favore degli enti controllanti non potrebbe riguardare quelle extra moenia.

Al fine di superare incertezze e incongruenze andrebbe esplicitato che l’acquisizione e il mantenimento da parte delle Amministrazioni pubbliche di società che producono servizi di interesse economico generale a rete oltre gli ambiti territoriali degli enti affidanti deve rispettare due condizioni.

a)     Che i nuovi affidamenti avvengano con procedure ad evidenza pubblica,

b)    Che gli affidamenti in essere siano stati conseguiti con procedure ad evidenza pubblica, comprese le gare cd “a doppio oggetto” delle società miste pubblico-privato o tramite affidamenti diretti in house conformi alle direttive europee ed entro il limite del 20% del fatturato con l’obiettivo di conseguire economie di scala o altri recuperi di efficienza.

 Nel medesimo articolo 4 si specifica che le società in house devono avere come oggetto sociale esclusivo una o più delle attività ammesse e che ad esse, ove producano servizi strumentali o svolgano funzioni pubbliche, è fatto divieto di costituire nuove società e di acquisire nuove partecipazioni (con l’eccezione delle società esercenti funzioni di holding, ammesse anche se catalogabili come strumentali). Infine nello stesso articolo si prevede la possibilità, in base ad un DPCM o ad un decreto del Presidente della Regione, opportunamente motivati, di escludere singole società a partecipazione pubblica dal rispetto dei vincoli tassativi circa le attività ammesse. In ogni caso l’atto deliberativo di costituzione di una società o di acquisto di una partecipazione, anche attraverso un aumento di capitale, deve essere analiticamente motivato con riferimento sia alle finalità istituzionali da perseguire tramite la partecipazione pubblica, sia alla convenienza economica e alla sostenibilità finanziaria. L’atto deliberativo deve essere sottoposto dagli enti locali a forme di consultazione pubblica secondo modalità da essi stessi disciplinate e deve essere trasmesso, per fini conoscitivi, alla Corte dei Conti e all’Autorità garante della concorrenza e del mercato. che può intervenire in sede giurisdizionale.

Le società che esercitano attività non comprese nell’elenco tassativo di cui sopra dovranno essere soppresse anche tramite la messa in liquidazione o la cessione. A tale riguardo il decreto legislativo in esame prevede processi di razionalizzazione da condurre periodicamente (articolo 20) e in via straordinaria (articolo 24). Le Amministrazioni, quindi, dovranno condurre ogni anno, tramite un apposito provvedimento, un’analisi dell’assetto complessivo delle partecipazioni predisponendo ove necessario, un piano di razionalizzazione, corredato da un’apposita relazione tecnica e prevedendo la soppressione tanto delle partecipazioni non conformi alle attività ammesse, quanto di quelle che rientrano in una definita casistica (strettamente attinente a quella contenuta nel “Programma di razionalizzazione delle partecipate locali” poi ripresa nel comma 611 della legge di Stabilità per il 2015) comprendente:

- società che risultino prive di dipendenti o abbiano un numero di amministratori superiore a quello dei dipendenti;

- partecipazioni in società che svolgono attività analoghe o similari a quelle svolte da altre società partecipate o da enti pubblici strumentali:

- partecipazioni in società che, nel triennio precedente, abbiano conseguito un fatturato medio non superiore a un milione di euro. Al riguardo, in base alle modifiche apportate in sede di decreto correttivo, si prevede che il primo triennio rilevante ai fini dell’applicazione di questa misura sia quello 2017-2019 e che in fase transitoria si applica una soglia di fatturato medio non superiore a 500 mila euro calcolato nel triennio precedente l’entrata in vigore del TU;

- partecipazioni in società, diverse da quelle costituite per la gestione di un servizio di interesse generale, che abbiano prodotto un risultato negativo per quattro dei cinque esercizi precedenti (si ricorda che, come si è visto, tale disposizione viene estesa anche alle società che svolgono servizi di interesse economico generale a rete oltre l’ambito territoriale della collettività di riferimento);

Inoltre la medesima disposizione prescrive la necessità di contenimento dei costi di funzionamento e quella di aggregazione delle società aventi per oggetto le attività ammesse.

La ricognizione e i conseguenti piani di razionalizzazione, da predisporre entro il 31 dicembre di ogni anno, dovranno essere trasmessi sia alla struttura che il decreto prevede venga istituita presso il Ministero dell’Economia e delle Finanze ai fini dell’indirizzo, del controllo e del monitoraggio dell’attuazione del decreto stesso (articolo 15), sia alla competente sezione di controllo della Corte dei Conti. Dopo un anno le Amministrazioni sono tenute ad approvare una relazione sull’attuazione dei piani e sui risultati conseguiti.

In via transitoria, come si diceva, deve essere predisposta una revisione straordinaria prevedendo che, entro il 30 Settembre 2017 (data indicata nell’intesa con la Conferenza unificata), le Amministrazioni effettuino, con un provvedimento motivato, la ricognizione di tutte le partecipazioni possedute individuando quelle che devono essere alienate (entro un anno dalla conclusione della ricognizione) in base ai medesimi criteri della razionalizzazione annuale. Questa disposizione si sovrappone, per le Amministrazioni locali, a quanto prescritto nel comma 612 della Legge di Stabilità 2015 che prevede l’approvazione entro il 31/3/2015 di un piano operativo di razionalizzazione e nell’anno successivo (entro il 31/3/2016) la predisposizione di una relazione recante i risultati conseguiti Al fine di evitare adempimenti ridondanti è stato stabilito che la revisione straordinaria delle partecipazioni costituisca aggiornamento del piano operativo di razionalizzazione.

A queste misure, volte esplicitamente al contenimento del numero e dell’impatto finanziario delle partecipazioni, se ne collegano altre in cui le medesime finalità vengono promosse in via, per così dire, mediata. Ci si riferisce, in particolare, alla norma (mutuata dal comma 551 della legge di Stabilità per il 2014) in cui viene stabilito che le Amministrazioni locali partecipanti di società con risultati di esercizio negativi (definiti, per i servizi a rete di rilevanza economica, come la differenza tra valore e costi della produzione) debbano accantonare pro quota un importo pari al valore delle perdite non immediatamente ripianate, da conferire ad un apposito fondo vincolato e recuperabile esclusivamente al ricorrere di definite condizioni (ripianamento delle perdite, dismissione delle partecipazioni o liquidazione delle società). Nella medesima disposizione è stato anche indicato il percorso di applicazione degli accantonamenti che inizia a partire dal 2015 e ha un andamento crescente (in termini di percentuale di perdita da accantonare) per entrare a regime nel 2017.

Un aspetto rilevante del TU in esame concerne l’esplicitazione del principio della fallibilità delle società a controllo pubblico; principio che, sebbene desumibile sul piano normativo e giurisprudenziale, è stato oggetto, in questi anni, di interpretazioni diverse riguardo alle società in house. Nel decreto, intatti (articolo 14), si ribadisce che tutte le società a partecipazione pubblica sono assoggettate alle disposizioni sul fallimento e sul concordato preventivo nonché, ove ne ricorrano i presupposti, a quelle in materia di amministrazione straordinaria. A tale riguardo il decreto prevede che, ove dai programmi di valutazione del rischio aziendale che le società a controllo pubblico sono tenute a predisporre (articolo 6 del decreto) emergano situazioni di crisi, l’organo amministrativo della società debba adottare un piano di risanamento che preveda idonei provvedimenti, escludendo che questi ultimi possano consistere in meri ripianamenti delle perdite, anche se adottati tramite aumenti di capitale, trasferimenti straordinari di partecipazioni, rilasci di garanzie ecc.

Sempre in una logica di spending review il TU ha adottato una nuova disciplina relativa alla composizione e ai compensi degli organi di amministrazione. Senza entrare nel dettaglio di tali disposizioni (contenute nell’articolo 11) ci si limita a sottolineare un duplice ordine di aspetti. Innanzitutto, circa la composizione, viene previsto, di regola, un amministratore unico, ferma restando la facoltà da parte dell’Assemblea della società di deliberare un consiglio di amministrazione composto da tre o cinque membri per specifiche e motivate ragioni di adeguatezza organizzativa. Per quanto concerne i compensi, è stata uniformata la disciplina per la determinazione delle retribuzioni degli amministratori di tutte le società a controllo pubblico. Nel quadro normativo previgente, invece, il tetto ai compensi degli amministratori delle società partecipate dalle Amministrazioni nazionali era fissato nel trattamento economico del primo presidente della Corte di Cassazione, mentre per le società locali i limiti (più ridotti) erano commisurati ad una percentuale massima delle indennità del sindaco o del presidente della Provincia (il 70% il presidente, il 60% gli altri componenti il Consiglio di amministrazione). Nel TU, in particolare, si stabilisce che, con un decreto del Ministero dell’Economia e delle Finanze, vengano identificate fino a cinque fasce societarie sulla base di indicatori dimensionali quantitativi e qualitativi ed in proporzione i limiti dei compensi da corrispondere agli amministratori, ai componenti degli organi di controllo, ai dirigenti e ai dipendenti con un tetto massimo di 240.000 euro lordi annui.

 

Per quanto riguarda il personale il TU (all’articolo 19) ribadisce che la disciplina dei rapporti di lavoro dei dipendenti delle società a controllo pubblico fa riferimento alle norme civilistiche e alle leggi sul lavoro subordinato nell’impresa, incluse quelle sugli ammortizzatori sociali. Quanto al reclutamento, alle assunzioni e alle retribuzioni vengono riprese gran parte delle regole codificate nella normativa previgente (con particolare riferimento ai commi 1, 2, 2-bis e 3 dell’art. 18 del DL 112/2008). In estrema sintesi le citate società, in materia di reclutamento, dovranno rispettare i principi di pubblicità, trasparenza, parità di trattamento previsti dall’articolo 35 del D.Lgs 165/2001 da tradurre in provvedimenti aziendali. Circa le assunzioni e le spese del personale non vengono previsti limiti direttamente applicabili ma viene definito un percorso in cui le Amministrazioni pubbliche fissano, con propri provvedimenti, obiettivi relativi alle spese di funzionamento e del personale delle società controllate (comprendenti il contenimento delle assunzioni e degli oneri contrattuali), mentre le società controllate si impegnano a conseguire tali obiettivi tramite propri provvedimenti da recepire, ove possibile, in sede di contrattazione di secondo livello. In fase transitoria viene stabilito che entro il 30 settembre 2017 le società a controllo pubblico effettuino una ricognizione del personale individuando le eventuali eccedenze, anche in relazione agli esiti della revisione straordinaria delle partecipazioni di cui si è detto in precedenza. L’elenco del personale eccedente deve essere trasmesso alle Regioni (con criteri da definire con decreto del Ministro del Lavoro e delle Politiche sociali, di concerto con il Ministro della Semplificazione e la Pubblica Amministrazione e con il Ministro dell’Economia e delle Finanze) le quali costituiscono e gestiscono l’elenco dei lavoratori eccedenti agevolando processi di mobilità (dopo sei mesi tali elenchi dovranno essere trasferiti all’Agenzia Nazionale per le Politiche Attive del Lavoro). Fino al 30 giugno 2018 le società a controllo pubblico non possono procedere a nuove assunzioni a tempo indeterminato se non attingendo ai suddetti elenchi, salvo che non si tratti di personale infungibile per le sue specifiche competenze che non sia disponibile negli elenchi medesimi (tale divieto, peraltro, decorre dalla data di entrata in vigore del decreto di cui sopra). A questi disposizioni sono sottratte le società partecipate a prevalenza privata in utile nei tre esercizi precedenti che producono servizi di interesse generale.

 

 

 

Una breve conclusione

Da questa sintetica e tutt’altro che completa rassegna dell’evoluzione del quadro istituzionale in materia di partecipazioni e di servizi pubblici locali emergono alcuni aspetti di portata generale che conviene, in conclusione, sottolineare. Innanzitutto il mutamento di segno delle discipline europee e nazionali in materia di liberalizzazione. Come si è avuto modo di evidenziare, per oltre un quindicennio gli orientamenti prevalenti alla base dei numerosi tentativi di riforma organica dei servizi pubblici locali erano ispirati all’obiettivo dell’apertura dei mercati alla concorrenza superando i sistemi di affidamento che ne ostacolavano il conseguimento. Le misure a tal fine prospettate consistevano in prevalenza in prescrizioni di obblighi e divieti rivolte all’intero universo di tali servizi a prescindere dalle specificità territoriali, produttive e di mercato e, non di rado, dalle appartenenze settoriali. L’applicazione di tali norme non ha prodotto i risultati voluti, vuoi per le diffuse resistenze degli enti locali, assai restii a rompere prassi consolidate che garantivano interessi diffusi e consentivano poco impegnative modalità di esercizio dei propri poteri, vuoi anche per le funzioni di reazione degli operatori a fronte di misure rigide e non coerenti rispetto ai loro sistemi di convenienza.

Il mutamento di segno a cui ci si riferiva non può essere considerato, come alcuni interpreti ritengono, nei termini di un superamento o addirittura di una negazione delle finalità liberalizzatrici, bensì come una loro lettura più duttile, più aderente alle specificità dei contesti a cui le norme si applicano e più conforme all’autonomia di scelta degli enti locali. Ciò vale anche per gli obiettivi di politica industriale non realizzabili “per decreto” ma da promuovere tramite adeguate incentivazioni alle aggregazioni organizzative e gestionali. In altri termini le norme succedutesi negli anni più recenti, sull’uno e sull’altro terreno, hanno teso a superare il passato approccio di stampo autoritativo, rilevatosi inefficace, per privilegiare misure volte a orientare il comportamento dei diversi protagonisti del sistema decisionale condizionando i loro sistemi di convenienza. Il cambiamento di segno, quindi, non ha riguardato gli obiettivi, bensì le strategie e i percorsi per conseguirli.

L’altro aspetto da sottolineare fa riferimento ad un ulteriore tratto di discontinuità rispetto al passato. Con la Delega Madia, infatti, non ci si è proposti di realizzare un’ennesima riforma dei servizi pubblici locali che avrebbe contribuito a destabilizzare ancora il quadro normativo, ma a sistematizzare in forma organica le numerose disposizioni succedutesi nel tempo, in particolare quelle degli ultimi anni le quali, pur collocate in strumenti legislativi diversi, presentano comunque un indirizzo comune e sono tra loro conseguenti. Inoltre si è inteso collegare e coordinare gli assetti istituzionali relativi ai servizi di interesse economico generale con quelli delle società a partecipazione pubblica. Questi due mondi, infatti, pur non coincidendo, presentano tra loro numerose intersezioni e sovrapposizioni. Il TU sui servizi di interesse economico generale, come si è detto, non è stato varato e ciò costituisce un vulnus rispetto alla logica e all’architettura complessiva della “delega Madia” che occorre tempestivamente sanare, vuoi perché in tal modo si può ricomporre un sistema normativo estremamente frammentato, scarsamente intellegibile e di ardua interpretazione, vuoi al fine di colmare alcuni vuoti rendendo quindi l’assetto istituzionale, non solo più organico, ma anche più coerente e completo. Nel TU, in particolare, si precisavano gli ambiti di competenza e di responsabilità relativamente alle funzioni di indirizzo e governo, di regolazione e di gestione indicando i principali contenuti degli strumenti per il loro esercizio. Con esso, infine, si completava il processo di trasferimento della regolazione ad autorità indipendenti prevedendo l’assegnazione di tale attività in materia di rifiuti all’attuale Autorità di regolazione dell’energia elettrica, del gas e dei sistemi idrici.

 

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