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La regolazione dei servizi idrici.
di Bruno Spadoni 1 giugno 2006
Materia: acqua / servizio idrico

La regolazione dei servizi idrici

 

1 La situazione di settore e lo stato di attuazione della riforma

Una riflessione circa lo stato e le prospettive della regolazione nei servizi idrici deve necessariamente partire da un quadro relativo alla situazione del settore e al grado di avanzamento della riforma avviata 12 anni or sono con la legge 36/94 (Legge Galli).

I dati sul perdurante stato di arretratezza del settore sono universalmente noti e riguardano sia gli squilibri territoriali, sia la frammentazione gestionale, sia la presenza di gravi e diffusi deficit strutturali e qualitativi. Per colmare gli squilibri territoriali e superare i più macroscopici fenomeni di arretratezza occorrerebbe attivare massicci programmi di investimento. In realtà, a fronte di questo elevato e crescente fabbisogno le spese pubbliche in conto capitale destinate al settore sono andate diminuendo in misura sensibile (da un’incidenza del 10% rispetto al totale delle opere pubbliche nel 1993 al 5,5% nel 2002). Per comprendere la dimensione del divario tra esigenze di investimento e situazione in essere, si consideri che gli investimenti pubblici in infrastrutture idriche ammontavano nel 2002 a poco più di 600 milioni di euro, mentre dai Piani d’ambito finora approvati (il 73% degli ambiti) emerge un fabbisogno pari ad una spesa annua di quasi 2 miliardi di euro. Di fronte ad un fabbisogno di risorse così massiccio è evidente che non è possibile un ricorso esclusivo alla finanza pubblica la quale, come si è visto, manifesta la tendenza a ridurre il proprio contributo. E’ inevitabile, dunque, ipotizzare un peso crescente di altre fonti, interne ed esterne, tradizionali e innovative. A tal fine lo strumento tariffario dovrebbe esercitare un ruolo crescente, sia per garantire margini di autofinanziamento sia al fine di creare le condizioni per il ricorso alla finanza privata.

Al fine proprio di dare risposta all’evidente divario tra esigenze di sviluppo e di modernizzazione e assetto infrastrutturale e produttivo in essere la Legge Galli, ha assunto come obiettivo primario il superamento della frammentazione dell’offerta prevedendo l’integrazione funzionale di tutto il ciclo dell’acqua (dalla captazione fino allo smaltimento dei reflui) e l’integrazione territoriale su area vasta.

Nell’avvio operativo della norma, come è noto, si è manifestato un notevole ritardo in tutte le fasi previste dalla legge corrispondenti agli adempimenti dei diversi soggetti istituzionali e, per effetto della loro sequenzialità, ciò ha determinato un’estrema lentezza nell’attuazione della legge. Lo stato attuale del percorso riformatore si può definire “in mezzo al guado”: per alcuni aspetti avanzato (normativa regionale, insediamento ATO, redazione Piani d’Ambito, ecc.) per altri versi arretrato (in particolare l’affidamento del SII si è avuto in poco più del 50% delle situazioni).

In parte il ritardo attuativo ha risentito della lunga fase di incertezza normativa che ha caratterizzato il comparto dei servizi pubblici locali il quale ha scoraggiato gli operatori del settore a impegnarsi in programmi di lungo respiro. In parte le difficoltà sono riconducibili a limiti interni all’architettura stessa della riforma. Questi ultimi concernono in particolare un duplice ordine di aspetti: il primo relativo all’autonomia gestionale, il secondo alle condizioni di economicità. Riguardo al primo aspetto il problema è relativo ai rapporti tra Autorità d’ambito e gestori. Da un lato, infatti,  la riforma prevede che tali rapporti vengano disciplinati su base convenzionale, in relazione alla corretta esigenza di promuovere una piena autonomia imprenditoriale; dall’altro, in contrasto con questa logica, si stabilisce che la convenzione faccia riferimento ad un Piano d’ambito definito dall’ATO in modo tale da interferire con la sfera aziendale. Il soggetto politico, insomma, non si limita a definire un quadro di esigenze relativo allo sviluppo e agli standard qualitativi e di prestazione del servizio, ma entra nel merito della pianificazione aziendale indicando sia gli assetti organizzativi, sia i percorsi gestionali sia anche i programmi di investimento e le modalità di copertura finanziaria. Anche il decreto legislativo n. 152 del 3 aprile 2006 attuativo della Delega ambientale (il cosiddetto Codice ambientale) conferma e rafforza il medesimo orientamento. In esso, infatti, si prevede che il Piano d’ambito non solo sia costituito da una serie di atti, comprendenti oltre alla Ricognizione delle strutture anche il Programma degli interventi, il Piano economico finanziario e il Modello gestionale ed organizzativo, ma che vengano specificati nel dettaglio i contenuti di ciascuno di essi.

I principali rischi di un approccio così dirigistico sono, da un lato, la prevedibile incapacità del soggetto pubblico a svolgere un ruolo estraneo alle sue competenze, con la conseguenza di indicare obiettivi e misure incoerenti o incompatibili, dall’altro, la rinuncia di fatto a sfruttare le potenzialità di innovazione tecnica, organizzativa e gestionale proprie della funzione imprenditoriale.

L’esperienza di questi anni, oltre a evidenziare la frequente inadeguatezza dei Piani d’ambito, ha anche registrato la difficoltà per i gestori di realizzare condizioni di economicità. I due aspetti, in effetti, presentano strette correlazioni. Spesso gli enti locali per scongiurare il rischio di gravare i propri amministrati di incrementi tariffari eccessivamente elevati hanno predisposto Piani d’ambito fondati su previsioni irrealistiche relative all’evoluzione dei volumi d’acqua erogati. Contemporaneamente hanno prospettato programmi di sviluppo impegnativi, volti non solo a colmare i deficit strutturali, ma anche a migliorare gli standard di prestazione. Il risultato è stato il conseguimento di tassi di rendimento interni ben al di sotto di quelli di mercato (in media intorno al 3-4% ma in molte circostanze prossimi allo zero) e il conseguente abbassamento delle capacità di produrre reddito e risorse per l’autofinanziamento. Occorre inoltre aggiungere che i criteri tariffari previsti nella legge e fondati sul “Metodo normalizzato”, oltre a risultare di incerta rispondenza alle reali situazioni e di ardua applicazione (soprattutto per la parte relativa alla definizione della “tariffa di riferimento” e agli algoritmi di calcolo dei cosiddetti “costi modellati”), spesso non hanno garantito la sostenibilità economica dei Piani d’ambito, anche in conseguenza dell’insufficienza delle tariffe di partenza ereditate dalla disciplina transitoria del CIPE. Tale disciplina, in effetti, avrebbe dovuto favorire il progressivo conseguimento delle condizioni per l’adozione della Legge Galli promuovendo, in particolare, l’avvicinamento delle tariffe ai costi comprensivi di un’adeguata remunerazione del capitale. Le manovre tariffarie del CIPE, a partire dal 1995, hanno sostanzialmente rispettato questi indirizzi e si sono progressivamente affinate; esse tuttavia non sono state sempre puntualmente adottate per effetto sia di politiche di blocco decise in sede governativa, sia per la resistenza degli enti locali, soprattutto quelli localizzati nel Mezzogiorno, a deliberare gli aumenti tariffari nei limiti consentiti dal CIPE. E’ emblematica, da questo punto di vista, l’attuale situazione. Nonostante il Nars, organo di consulenza del CIPE in materia di regolazione, abbia elaborato e approvato Linee guida per la regolazione tariffaria delle gestioni idriche in fase di transizione, i conseguenti provvedimenti non sono stati emanati, con il risultato che le tariffe sono rimaste ferme ai livelli del 2002.

L’insufficienza della tariffa di partenza accompagnata dalla frequente contraddittorietà dei Piani d’ambito e rafforzata dall’insoddisfacente funzionamento del Metodo normalizzato, rappresentano motivi sufficienti, anche se non esclusivi, per spiegare la modesta e decrescente appetibilità della gestione idrica agli occhi degli investitori. Una conferma di questa difficoltà viene dall’osservazione delle gare indette sia per l’affidamento del servizio sia per la selezione del partner privato nelle società miste. I dati relativi all’ultimo quinquennio rilevano infatti che il numero dei partecipanti alle gare non solo è molto modesto, ma è anche decrescente nel tempo. In particolare nelle 21 gare bandite per il servizio idrico integrato il 50% di esse è andata deserta e il 70% ha registrato un solo o nessun partecipante. Un rimedio, che si sta sperimentando di recente, che rischia di essere assai peggiore del male, consiste nell’abbassamento dei requisiti per la partecipazione, in termini di garanzie circa le capacità operative e la disponibilità di know-how. Misure di questo tipo, oltre a dimostrarsi inefficaci all’atto pratico, minacciano di produrre guasti non facilmente calcolabili, in relazione sia all’opacità dei reali motivi di partecipazione a gare economicamente poco convenienti, sia ai riflessi che potrebbe produrre sull’ambiente e sull’utilizzo della risorsa idrica la presenza sul mercato di soggetti inadeguati.

 

2 Le prospettive di regolazione

La regolazione deve misurarsi dunque con una situazione caratterizzata da marcati squilibri e persistenti fattori di debolezza che si presentano in forme e intensità molto diverse a seconda dei contesti territoriali. Affrontare problemi così specifici mediante misure uniformi rischia di produrre risultati controproducenti. In particolare le politiche di liberalizzazione, assunte come orientamento generale, devono essere declinate a seconda delle differenti condizioni. Sotto questo aspetto il Codice ambientale sembra ispirarsi, almeno nel settore idrico, a tale logica. Esso, infatti, pur assumendo la gara come  forma di affidamento, per così dire, “ordinaria” prevede altre possibilità consistenti nell’affidamento diretto in house e nella  società mista, in cui il socio privato sia selezionato tramite gara.

In effetti, nei casi in cui già opera un soggetto imprenditoriale pubblico di dimensioni consistenti risulta in linea di principio percorribile la prospettiva di aprire un mercato di cui esistono i presupposti organizzativi. Più arduo si presenta il processo di liberalizzazione nelle situazioni, diffuse particolarmente nel Mezzogiorno, in cui quei presupposti vanno ancora costruiti in quanto la frammentazione è elevata, la gestione in economia è prevalente, le dotazioni e lo stato delle infrastrutture sono precari, le condizioni di convenienza sono insufficienti. In questi casi può risultare opportuno, prima di procedere all’affidamento con gara del servizio, fare ricorso a un soggetto imprenditoriale pubblico che abbia il compito di unificare l’insieme polverizzato delle gestioni e di impostare progetti di investimento che comincino a colmare i deficit infrastrutturali e di prestazione. In altri termini, fermo restando che il sistema di affidamento del servizio idrico integrato deve essere fondato in via preferenziale sulla gara, occorre tuttavia considerare situazioni in cui si possa fare ricorso ad affidamenti diretti.

Occorre peraltro scongiurare il rischio che il riconoscimento di tale possibilità possa essere utilizzato per vanificare l’obiettivo della liberalizzazione tramite un rinvio sine die del suo timing. Gli enti locali che decidessero di porsi su questa via, insomma, dovrebbero per un verso motivarne rigorosamente le ragioni, per altro verso indicare un termine non superiore ad un certo limite, infine adottare un programma pluriennale, di durata corrispondente all’affidamento diretto, recante l’indicazione delle politiche e degli strumenti volti a promuovere l’apertura del mercato. La presenza di un’Autorità nazionale di regolazione potrebbe costituire un elemento di garanzia circa la coerenza della condotta degli enti locali esercitando ex ante una verifica della congruità dei loro indirizzi e valutando ex post, anche in base ad indicazioni provenienti dall’Autorità antitrust, il rispetto delle regole di concorrenza.

            In concreto i termini del problema possono essere così sintetizzati:

          l’affidamento del servizio, di regola, dovrebbe avvenire mediante procedure competitive di scelta del gestore;

          l’affidamento diretto in house costituisce un’eccezione possibile in via transitoria la cui principale motivazione consiste nel superare situazioni di elevata frammentazione e di diffusa presenza di gestioni in economia mediante la loro unificazione presso un'unità aziendale pubblica;

          la soluzione fondata sull’azienda mista con scelta del socio privato mediante gara può essere adottata al fine di promuovere l’afflusso di capitali e competenze volti sia a sviluppare gli investimenti per colmare i deficit strutturali, sia a migliorare l’efficienza e la competitività (non si entra in questa sede nel merito della disposizione prevista nel Codice secondo la quale la scelta competitiva del socio privato deve avvenire a monte dell’affidamento).

            La flessibilità dell’approccio regolatorio, consigliata dalla varietà dei problemi e dalla eterogeneità dei contesti, non esclude ma anzi rafforza l’esigenza di disporre di un quadro di riferimento certo e coerente che agevoli il completamento della costruzione del mercato e favorisca l’esercizio di attività imprenditoriali. Sotto questo aspetto la premessa fondamentale consiste nel definitivo superamento dei residui di organicità nei rapporti tra enti locali e gestori con l’affermazione di un sistema decisionale fondato su autonome aree di competenza e responsabilità. Ciò comporta la necessità di un ripensamento delle disposizioni relative al ruolo e ai contenuti dei Piani d’ambito previste tanto nella legge Galli, quanto nel Codice ambientale. In particolare occorre che gli enti locali, organizzati negli ATO, si limitino ad indicare standard quali-quantitativi di prestazione e fabbisogni di sviluppo delle reti e degli impianti in un definito quadro di compatibilità economico-finanziarie, riservando alla dimensione imprenditoriale il ruolo di proporre soluzioni sul piano gestionale. Per quanto riguarda nello specifico le infrastrutture, deve spettare al Piano d’Ambito indicare le opere da realizzare, mentre deve competere al gestore definire i conseguenti programmi di investimento.

            Anche le politiche tariffarie, collocate in un assetto regolatorio più rigorosamente delineato, potrebbero essere impostate con maggiore coerenza: per un verso garantendo il reale perseguimento del principio del full cost recovery (affermato sia nella legge 36/1994 che nella Direttiva 93/38/CEE e ribadito nel Codice ambientale), per altro verso superando metodi tariffari astratti e poco aderenti alle specifiche situazioni (come il Metodo normalizzato definito nel DM del 1° agosto 1996), infine adottando un adeguato meccanismo di aggiornamento. In sostanza il sistema tariffario dovrebbe essere basato rigorosamente sulla metodologia del price-cap e concepito in modo da garantire sia una tariffa di partenza remunerativa (prevedendo anche l’adozione di sistemi di progressivo recupero dei divari in essere tra tariffe e costi efficientati in un orizzonte temporale definito), sia l’inclusione di componenti incentivanti la produttività, la qualità e gli investimenti. Un problema che potrebbe porsi in fase di avvio di questo meccanismo riguarda il possibile divario, specie in alcune situazioni, tra tariffe in essere e tariffe economiche. Tale squilibrio, come si è visto, verrebbe interamente riassorbito in un determinato lasso di tempo mediante un adeguato sistema di recupero. Resta tuttavia il fatto che in tutta la fase di permanenza del divario la copertura dei costi rimarrebbe incompleta e si ripercuoterebbe sull’economicità della gestione. Una possibile soluzione potrebbe consistere nel prevedere a favore del gestore trasferimenti pubblici compensativi del divario, decrescenti nel tempo fino all’azzeramento al termine del periodo di recupero.

            L’approccio prospettato, dunque, si presenta molto diverso rispetto a quello attualmente in essere e a quello che viene prefigurato nel Codice ambientale: la tariffa di partenza copre interamente i costi e remunera il capitale investito (eventualmente col supporto temporaneo di un trasferimento a scendere); gli impegni in materia di investimento vengono riconosciuti ex ante, come elemento incentivante, ed ex post in relazione all’effettiva incidenza sui costi (ammortamento); infine la tariffa di partenza viene riconsiderata all’inizio di ciascun “periodo regolatorio” (corrispondente alle fasi di aggiornamento dei Contratti di servizio), tenendo conto degli effettivi costi di ammortamento e dell’eventuale modifica dei volumi erogati. In virtù di tale sistema di price cap, dunque, non ci sarebbe bisogno di quantificare le tariffe per l’intero periodo di affidamento, come invece avviene nel metodo oggi in vigore e come si prefigura nel Codice ambientale con risultati negativi che riducono l’effetto incentivante del price cap.

            In questo contesto regolatorio le gare per l’affidamento del servizio potrebbero garantire una piena valorizzazione dell’imprenditorialità privilegiando efficienza ed  innovazione. Senza entrare nel merito specifico dei meccanismi di gara è sufficiente, ai nostri fini, evidenziarne quelli che dovrebbero esserne gli aspetti principali:

          la base di partenza è il Piano d’Ambito che, come si è detto, definisce il quadro generale delle esigenze e delle compatibilità economico-finanziarie degli enti locali;

          i concorrenti (quelli ammessi in quanto in possesso dei necessari requisiti) prospettano le offerte che comprendono sia il piano di investimenti, sia gli standard qualitativi e quantitativi di prestazione, sia il progetto gestionale, sia la tariffa di partenza a cui andrà successivamente applicato il price cap;

          l’offerta del gestore aggiudicatario definisce la configurazione complessiva degli impegni proiettati sull’intero periodo di affidamento, mentre la specificazione di tali impegni è contenuta nel Contratto di servizio a cui viene assegnata anche una funzione di revisione periodica, in coincidenza con la scansione dei periodi di aggiornamento del price cap,  entro confini rigorosamente delimitati in sede di affidamento del servizio;

          la voce produttività del price cap (la cosiddetta X di riduzione della tariffa in termini reali) viene applicata in base agli impegni assunti dal gestore in sede di affidamento del servizio e aggiornata in occasione della revisione periodica del price cap.

Come è facile notare questo sintetico schema è coerente con l’approccio di regolazione prospettato ma non corrisponde del tutto a quanto disposto dal decreto del Ministero dell’Ambiente del 2 maggio scorso che disciplina le procedure  di affidamento con gara della gestione del servizio idrico integrato. Senza entrare nel merito dei contenuti di tale decreto è sufficiente ai nostri fini evidenziare un duplice ordine di aspetti. Il primo è relativo al riferimento al Piano d’ambito che nel decreto è specifico in relazione ai contenuti dei diversi atti in esso previsti, in particolare il piano economico finanziario e il piano degli interventi. E’ pur vero che in sede di aggiudicazione è previsto che le offerte vengano valutate anche in base a modifiche migliorative proposte dai concorrenti, resta tuttavia il fatto che l’oggetto della gara è strettamente ancorato all’assetto gestionale e alla proiezione di tariffe e investimenti definiti nel Piano d’ambito in rapporto all’orizzonte temporale di quest’ultimo. Nella logica regolatoria qui prospettata, come si è visto, i gradi di libertà delle offerte del gestore sarebbero molto maggiori: queste ultime, avendo come riferimento gli obiettivi del Piano d’ambito, dovrebbero definire un vero e proprio progetto gestionale e di sviluppo comprendente soluzioni tecniche e organizzative e un programma di investimenti finalizzato a realizzare il conseguimento delle opere infrastrutturali  previste nel Piano stesso.

Per quanto riguarda il secondo aspetto concernente le politiche tariffarie occorre garantire la loro piena coerenza rispetto all’affermazione  di una maggiore flessibilità programmatoria volta alla valorizzazione delle potenzialità di innovazione liberate da una più estesa  autonomia imprenditoriale. In questa logica non appare coerente definire assetti e dinamiche delle tariffe rigidamente proiettati sull’intero orizzonte temporale del Piano d’ambito. Con una tale impostazione, infatti, per un verso si deprimono gli incentivi ad applicare soluzioni innovative sul piano tecnico e gestionale volte ad abbattere i costi di esercizio e di investimento, per altro verso si tende a differire l’economicità della gestione riducendo così la convenienza alla partecipazione alle gare sia per l’erogazione del servizio, sia per la partecipazione alle società miste, infine non si è in grado di tenere adeguatamente conto del mutamento del contesto ambientale e tecnologico prevedibilmente assai rilevante nel lungo periodo di durata dei Piani d’ambito. La soluzione di price cap sopra delineata sembra più aderente alle prospettive  economiche e di mercato del settore: con essa, per un verso, si riducono le  “pesantezze” della regolazione affidando soprattutto a sistemi di incentivi il conseguimento degli obiettivi in termini di efficienza, di qualità e di sviluppo, per altro verso, per come il meccanismo è concepito, essa può tenere adeguatamente conto sia dei cambiamenti di contesto, sia del rapporto tra risultati e impegni del gestore, sia del problema di promuovere gli investimenti tentando di ridurre i rischi di sovradimensionamento (effetto Averch-Johnson). In effetti, come si è avuto modo di accennare in precedenza, gli investimenti verrebbero considerati mediante due modalità: da un lato in sede di ridefinizione della tariffa di partenza (in occasione delle periodiche revisioni del price cap) riconoscendo le spese di ammortamento effettivamente sostenute in relazione agli investimenti realizzati; dall’altro lato comprendendo nel price cap una componente incentivante commisurata ai programmi di investimento che il gestore si impegna ad attuare in base a quanto indicato nel Piano d’ambito. Al fine di rendere questi programmi  il più possibile aderenti alle esigenze del settore contrastando, per quanto possibile, effetti di sovradimensionamento il meccanismo proposto prevede due misure: mediante la prima l’effettivo riconoscimento della componente incentivante viene commisurata ai risultati conseguiti in termini di contenimento delle dispersioni; mediante la seconda la mancata realizzazione degli impegni assunti viene sanzionata con un abbattimento della tariffa di partenza dell’anno successivo proporzionale al divario tra investimenti programmati ed effettuati.

Questo sistema di price cap e, più in generale, l’intero impianto regolatorio qui delineati, sono definiti in modo da garantire un orientamento unificante e, nel medesimo tempo, vasti margini di flessibilità per tenere conto della elevata varietà delle condizioni del settore. Per quanto riguarda il tema degli assetti organizzativi e di mercato, come si è visto, le scelte degli enti locali, definite in funzione della situazione organizzativa e gestionale in essere, del grado di interconnessione delle reti e dello stato delle infrastrutture, non devono essere in contrasto con l’orientamento generale alla liberalizzazione. A tal fine si delinea un ruolo strategico dell’Autorità di regolazione volto a promuovere l’apertura del mercato e a valutare in questa luce i programmi redatti dalle Autorità d’Ambito a supporto della soluzione transitoria dell’affidamento diretto. Del pari in materia tariffaria il compito dell’Autorità di regolazione dovrebbe consistere nel definire la struttura e i criteri generali del price cap, mentre competerebbe alle Autorità d’ambito quantificarne i parametri. L’insieme di tali compiti richiama dunque l’esigenza di disporre di un’Autorità di regolazione nazionale per un verso dotata di adeguati strumenti e competenze, per altro verso caratterizzata da indipendenza e autonomia rispetto all’Esecutivo.

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