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Commento alla versione definitiva dell’art 13 del c.d. decreto Bersani, come convertito dalla l. 4 agosto 2006 n° 248, con particolare riferimento agli effetti sull’attività delle società pubbliche locali.
Facendo seguito alla prima analisi dell’art. 13 del D.L. 4 luglio 2006, n ° 233, pubblicata su questa Rivista (1), ci si propone, con il presente lavoro, di fornire alcuni spunti di riflessione sulla relativa disciplina, come definitivamente varata dal Parlamento con la Legge 4.8.2006 n° 248.
Come noto, si tratta della norma introdotta del Governo per limitare, onde evitare alterazioni o distorsioni della concorrenza e del mercato, il raggio d’azione delle società strumentali delle amministrazioni regionali e locali dedicate alla fornitura di beni e servizi alle amministrazioni stesse.
In sintesi, la norma sancisce il principio per cui a queste società sia totalmente (2) inibita ogni attività contrattuale con enti, pubblici o privati, diversi da quelli nei cui confronti sussista un rapporto di strumentalità; è inoltre ad esse inibita la partecipazione a società od enti. E’ previsto infine un periodo transitorio di 12 mesi entro cui le attività non consentite dovranno cessare, pena la perdita di efficacia; di contro, i nuovi affidamenti illegittimi sono sanzionati con la nullità. Così sintetizzata, parrebbe una disciplina sufficientemente chiara (3); tuttavia, se attentamente analizzata, soprattutto in relazione ai principi fondamentali della materia, la norma si rivela non sempre facilissima nell’interpretazione e nell’applicazione.
Diversi autorevoli commentatori hanno analizzato la disciplina in parola da varie angolazioni (4); pertanto, ci si limiterà qui a porre in evidenza, da un lato, qualche residuo aspetto di problematicità applicativa della norma ed, in un’ottica prettamente aziendalistica, si tenterà di evidenziare, via via nel corso della trattazione, quali opzioni – e quali dubbi - si prospettino ora alle Amministrazioni ed alle Società, pubbliche o miste, interessate.
Ciò, perlomeno, allo stato degli atti; infatti, un Ordine del Giorno approvato dal Parlamento contestualmente alla conversione della norma in commento, sembrerebbe invero preludere ad una ulteriore modifica delle nuove disposizioni (5).
1) L’ambito oggettivo e soggettivo di applicazione della norma; il caso delle Società di gestione di Servizi Pubblici Locali.
Si tratterà qui congiuntamente del campo di applicazione oggettivo e soggettivo della norma sia per brevità sia perché i due aspetti sono, in questo caso, indissolubilmente collegati, specie per quanto concerne le Società Pubbliche Locali c.d. multiutility (6), cui si intende dedicare, pur nell’ambito di un’analisi complessiva degli effetti dell’art. 13, una particolare attenzione; molte di esse, infatti, dopo essersi a lungo dedicate a complessi e costosi processi di diversificazione del business, anche sollecitate in questo dai relativi Enti Locali, a loro volta impegnati in rilevanti processi di esternalizzazione (7), in questa fase si interrogano sul da farsi alla luce delle nuove disposizioni.
La prima osservazione mossa da chi scrive alla primigenia versione dell’art. 13 concerneva il dubbio che lo stesso potesse considerarsi applicabile anche al settore dei servizi pubblici locali; nella vigenza del testo originario, pur se la maggioranza dei commentatori si è espressa in senso univocamente contrario a tale estensione (8), si sono registrate talune opinioni di segno inverso (9). Ogni dubbio al riguardo ora è fugato dall’espressa esclusione inserita nel decreto.
Ciò, tuttavia, non equivale purtroppo ad affermare che si sia ora in presenza di una chiara ed inequivoca delimitazione dell’ambito applicativo della norma.
La nuova disciplina, viene da chiedersi, va intesa in senso concettualmente unitario ed inscindibile, applicandosi esclusivamente alle “..società costituite o partecipate per la produzione di beni o servizi strumentali…”? In altre parole, ci si chiede se l’aspetto soggettivo (società caratterizzata finalisticamente dalla costituzione/partecipazione al fine dello svolgimento di date attività a favore dell’ente) rappresenti o meno un elemento costitutivo necessario della fattispecie, congiuntamente al requisito oggettivo (affidamento di “attività strumentali” a quella dell’ente pubblico di riferimento) ovvero se, in alternativa, società costituite per altri fini (ad esempio, per l’appunto, gestione di servizi pubblici locali) possano in qualche misura essere interessate dalla norma nel caso in cui abbiano successivamente assunto anche la gestione, per gli enti soci, di attività qualificabili come appalti di servizi, di lavori o di somministrazione di beni (10).
Ci si chiede, in sostanza , se attività qualificabili come meri appalti, svolte a favore degli Enti Pubblici soci da parte di società costituite, ad esempio, per la gestione di servizi pubblici locali ai sensi dell’art. 22 della Legge 142/90, debbano ritenersi attratte nel campo di attuazione della norma con conseguente applicazione delle prescrizioni di cui ai commi 3 e 4 dell’articolo 13 .
La risposta, a parere di chi scrive, sembrerebbe essere negativa, per due ordini di considerazioni.
In primo luogo, una recente evoluzione giurisprudenziale contribuisce a rendere più sfumati i confini applicativi dell’art. 13 in commento; esso infatti concerne, sotto il profilo oggettivo, con una definizione piuttosto ridondante (11) la “..produzione di beni e servizi strumentali all’attività di tali enti in funzione della loro attività, con esclusione dei servizi pubblici locali..”. E’ stato correttamente osservato come, analizzando la recente giurisprudenza amministrativa si osservi una progressiva estensione della nozione di pubblico servizio, con inquadramento in tale categoria di attività e prestazioni che non vengono svolte in favore della collettività, ma direttamente a favore dell’Ente Locale, a fronte di un corrispettivo da questi erogato (12). E’ noto, sotto questo profilo, che il servizio pubblico, nella c.d. concezione oggettiva (13), è tradizionalmente definito come attività svolta da soggetti pubblici o privati a vantaggio e nei confronti della collettività locale di riferimento, in cui le prestazioni vengono remunerate dall’utenza in un regime tariffario, nell’ambito di un rapporto trilaterale Ente Pubblico – Erogatore – Cittadini / Clienti (14).
Secondo la recente giurisprudenza cui sopra si accennava, tuttavia (ad esempio nel caso della gestione calore agli stabili comunali) anche una prestazione a favore dell’Amministrazione può assurgere al rango di pubblico servizio, laddove sussista un’utilità mediata per la collettività; è stato, infatti, affermato (la fattispecie concerneva un appalto di gestione calore) che “..sono indifferentemente servizi pubblici locali, ai sensi dell'art. 112, T.U.E.L. n. 267/2000, quelli di cui i cittadini usufruiscano uti singuli e come componenti la collettività, purché rivolti alla produzione di beni e utilità per obiettive esigenze sociali. E' evidente, infatti, che l'utenza del servizio di riscaldamento agli edifici comunali non va individuata, restrittivamente, nei dipendenti comunali, ma si estende al pubblico che si reca negli uffici, e, soprattutto, ai frequentatori delle biblioteche, delle palestre, dei centri anziani e altri servizi ospitati in immobili comunali”.
Quindi, già sotto questo profilo (e, dunque, anche ammettendo che la natura dell’attività abbia una valenza talmente preminente, nella logica della norma, da attrarre nella sua applicazione anche i casi qui analizzati, prevalendo sull’elemento soggettivo consistente nella specifica finalizzazione della società), le diverse attività svolte dovrebbero essere attentamente analizzate al fine di escluderne la natura, in via mediata, di pubblico servizio. E’ infatti chiaro che, alla luce dell’obbligo di cessione o di scorporo previsto nel decreto, in tanto gli Amministratori delle Società potranno fondatamente addivenire a soluzioni così radicali in quanto siano ragionevolmente certi della loro inevitabilità.
Ciò detto, si ritiene di dover accedere ad una interpretazione restrittiva, per cui i requisiti sopra descritti ( 1. società costituita al fine di svolgere attività strumentali e 2. svolgimento di mere prestazioni economiche a favore dell’amministrazione pubblica) debbano sussistere necessariamente entrambi.
Ciò per l’assorbente motivazione fondata sulla natura eccezionale della disposizione in commento, che ne impedisce interpretazioni estensive fondate sulla sua ratio legis (15). Il legislatore ha inteso, con l’art. 13, ad avviso di chi scrive, disciplinare unicamente il caso delle società strumentali costituite o partecipate allo specifico fine di soddisfare bisogni dell’Amministrazione non qualificabili, neppure con un’interpretazione in via mediata, come pubblico servizio (in questo senso, ragionevolmente, può esssere letto l’inciso “..in funzione della loro attività”, altrimenti non agevolmente spiegabile (16) ).
Per stabilire se una data società rientri o meno nell’ambito di applicazione della norma, occorrerà non limitarsi alle disposizioni dell’atto costitutivo e dello Statuto, ma si tratterà di analizzare il momento costitutivo della società dal punto di vista finalistico, esaminando anche gli atti prodromici, di carattere amministrativo (delibere, determine, relazioni tecniche ed economiche ecc.) (17), al fine di stabilire gli obiettivi che l’ente si è posto all’atto del costituire o partecipare la società.
Pertanto, si ribadisce, le società di gestione di servizi pubblici locali che abbiano successivamente avuto in affidamento dall’ente o dagli enti pubblici azionisti attività diverse dai servizi pubblici, ovvero da altri soggetti pubblici (con gara) o privati, non dovrebbero, per ciò solo, essere attratte nel campo di applicazione della norma.
Peraltro, anche in considerazione della formulazione piuttosto dubbia della norma, vi è spazio anche per una diversa interpretazione, fondata su un criterio di equità sostanziale, di parità di trattamento tra le diverse società pubbliche e di tutela della concorrenza, che la norma stessa indica quale proprio principio ispiratore.
Potrebbe, infatti, anche sostenersi che la ratio dell’art. 13 imponga di includere nell’ambito applicativo della stessa norma tutte le ipotesi di affidamento diretto di servizi e prestazioni strumentali, indipendentemente dalla natura soggettiva della società affidataria.
Una simile impostazione, peraltro, non parrebbe pienamente rispettosa della lettera della norma, da interpretarsi (e questo appare difficilmente confutabile) in senso restrittivo in ragione, come detto, della sua eccezionalità.
Di converso, le società create allo scopo di assicurare prestazioni alla Pubblica Amministrazione dovranno ritenersi soggette alla stretta strumentalità descritta nell’art. 13, fatto salvo quanto subito si dirà.
2) I limiti imposti alle società (commi 1 e 2) .
Il decreto prevede che le società a capitale pubblico o misto che svolgono le attività su descritte possano operare nei limiti in appresso indicati:
a) debbono operare esclusivamente con gli enti costituenti o partecipanti o affidanti;
b) non possono svolgere prestazioni a favore di altri soggetti pubblici o privati, né in affidamento diretto né con gara;
c) non possono partecipare ad altre società od enti;
d) devono avere un oggetto sociale esclusivo
e) non possono operare in violazione delle regole di cui al comma 1 dell’art. 13.
Non poche sono, anche a fronte delle modifiche apportate in sede di conversione, le perplessità, ed i dubbi applicativi, che sorgono di fronte a queste disposizioni.
Paradossalmente, alcune modifiche apportate corrono addirittura il rischio di esporre la norma a censure in relazione alla tutela della libera concorrenza (che dovrebbe invece costituire il fine primario dell’articolato), particolarmente a livello comunitario, in quanto gli stringenti vincoli presenti nella primitiva formulazione sono stati non poco attenuati, a meno di non accedere ad interpretazioni di temperamento, di cui a breve si dirà.
Per quanto attiene il limite sub a), infatti, si noti la differenza tra la formulazione precedente (debbono operare esclusivamente con gli enti costituenti ed affidanti) e l’attuale ( ..con gli enti costituenti o partecipanti o affidanti).
L’inserimento del riferimento agli enti partecipanti, prima assente, risponde all’ovvia esigenza (18) di tutelare quegli Enti Pubblici che avessero assunto partecipazioni in una società strumentale in un’epoca successiva alla sua costituzione, per affidare poi alla stessa prestazioni e servizi.
Viceversa, l’inserimento della disgiuntiva “o“ prima dell’espressione “affidanti” appare, in un’ottica di promozione della concorrenza, difficilmente comprensibile.
Il successivo comma 3) sanziona con la perdita dell’efficacia al termine del periodo transitorio le attività non consentite; dal combinato disposto dei due commi si dovrebbe dedurre che sia consentita, e quindi non soggetta a perdita di efficacia, l’attività in essere con un ente che non sia né costituente, né partecipante, ma solo “affidante” alla data di entrata in vigore del decreto.
Con la pratica conseguenza di salvaguardare, in sostanza, tutti i contratti in essere al 5 luglio 2006, e ciò a prescindere dall’esistenza di un rapporto societario con l’ente pubblico affidante. Si svuoterebbe così l’obbligo posto dal comma 3 di ogni concreto contenuto precettivo salvo, forse, per quanto riguarda il divieto di partecipazione a società. In tal guisa, non è chi non veda come vengano ad essere, per così dire, sanati, anche affidamenti non rispondenti ad alcuno dei notori tre criteri Teckal (19) e che avrebbero, quindi, dovuto essere assegnati con gara, nel rispetto della normativa comunitaria e nazionale in materia di appalti.
Anche in questo caso, peraltro, può ipotizzarsi un’esegesi della norma improntata alla tutela della libera concorrenza, che consentire di giungere ad una diversa interpretazione, onde tentare di impedirne la prevedibile disapplicazione della norma per palese contrasto con gli art. 81 e ss. del Trattato.
Ciò, tuttavia, non sembra agevole, sia in considerazione della cennata esigenza di fornire alla norma un’interpretazione restrittiva, sia in base a quanto può evincersi dallo stesso iter legislativo della disposizione, la cui primigenia formulazione aveva un significato estremamente puntuale e la cui modifica non appare invero casuale(20).
In ogni caso, l’interpretazione conservativa di cui si diceva potrebbe prendere le mosse dallo stesso criterio di “in house providing” e dai notori requisiti di legittimità del medesimo che, secondo la maggioranza dei commentatori, debbono essere comunque tutti presenti anche nella fattispecie in esame, benché non tutti menzionati dalla norma (21). In una simile prospettiva, è del tutto evidente che, ad esempio, non si vede come un ente che si ponga come mero “affidante” possa esercitare sulla società il c.d. “controllo analogo” a quello esercitato sui propri servizi.
In questo caso, nonostante l’intervenuta modifica che, si ripete, non appare casuale, si è del parere che un’interpretazione letterale finirebbe per apparire capziosa, specie se tesa a salvaguardare contratti acquisiti (magari in via diretta) presso amministrazioni pubbliche non socie; essa, pertanto, ben potrebbe non reggere al vaglio dell’Autorità Giudiziaria, tanto nazionale quanto, a maggior ragione, comunitaria, in considerazione della preminente rilevanza del principio di libertà di concorrenza.
In ordine al divieto di svolgere prestazioni a favore di altri soggetti pubblici o privati, sia in affidamento diretto sia con gara (22), di cui sopra, sub b), il particolare rigore della disposizione, nella parte in cui esclude anche la possibilità di partecipare alle gare, induce a qualche riflessione critica, particolarmente con riguardo ai principi di certezza del diritto e di tutela dell’affidamento, immanenti sia nel diritto comunitario sia nel diritto costituzionale italiano.
Dato di partenza del ragionamento qui proposto è che l’art 13 è applicabile alle società pubbliche ed a quelle miste, a nulla rilevando che il partner privato delle seconde sia stato scelto o meno con procedura ad evidenza pubblica.
Una simile impostazione, invero, sembra contrastare non solo con i principi cui è pervenuta la giurisprudenza nazionale in materia di società miste (23), ma anche, ed evidentemente, con i principi della tutela del legittimo affidamento del partner privato nella certezza della cornice giuridica nella quale si è determinato ad effettuare un determinato investimento.
Il socio privato, in particolare, che si sia aggiudicato una quota del capitale sociale della società mista ad esito di una procedura ad evidenza pubblica, ha investito il proprio capitale di rischio nella legittima prospettiva che la società avrebbe operato nel pieno perseguimento dell’oggetto sociale (presumibilmente posto a base di gara insieme agli altri elementi costitutivi del contratto sociale). Tale aspettativa, peraltro, risulta tutelata anche alla luce dei principi comunitari in materia.
Si veda al proposito, in particolare, il Libro Verde della Commissione sui Partenariati Pubblico Privati (24); dalla lettura del medesimo si evince chiaramente come, nel caso del c.d. partenariato istituzionalizzato (25), i principi in materia di concorrenza posti dalle norme comunitarie sugli appalti e dallo stesso Trattato debbano essere rispettati a monte, con la gara per la scelta del socio, successivamente alla quale ha inizio una cooperazione tra il pubblico ed il privato che trova i propri limiti esclusivamente nel contratto sociale e nella disciplina posta a base di gara.
L’art. 13 in commento, nel vietare l’assunzione di servizi – anche con gara – presso altri soggetti pubblici o privati, frustra immotivatamente ed inaspettatamente le legittime aspettative del partner privato di una ipotetica società mista costituita per fornire servizi e prestazioni, previa gara, anche ad altri soggetti pubblici rispetto al socio fondatore (26).
In tale quadro, si diceva, l’art. 13 sembra porsi in contrasto con il principio della certezza giuridica e con quello del legittimo affidamento, entrambi ritenuti principi cardine, rispettivamente, dalla Corte di Giustizia per l’ordinamento comunitario e dalla Corte Costituzionale per l’ordinamento nazionale.
Per principio dell’affidamento l’ordinamento costituzionale italiano intende (27) che “..il singolo deve poter conoscere lo stato del diritto in base al quale opera e tale stato di diritto non deve poi essere modificato retroattivamente”.
La Corte Costituzionale ha sempre più spesso fondato il proprio sindacato sul il parametro del principio di tutela dell’affidamento, specie nelle pronunce concernenti la ragionevolezza di atti normativi retroattivi, principio di cui è stato sottolineato il progressivo ampliamento, quale estrinsecazione del principio di ragionevolezza ricavato dall’art. 3 Cost. (28), giungendo ad affermare, in ordine al principio dell’affidamento del cittadino nella sicurezza giuridica, che tale principio, “..quale elemento essenziale dello Stato di diritto, non può essere leso da norme con effetti retroattivi che incidano irragionevolmente su situazioni regolate da leggi precedenti” (29) .
Anche la Corte di Giustizia pone, dal canto suo, il principio dell’affidamento tra quelli centrali dell’ordinamento giuridico comunitario; alcune attente analisi della giurisprudenza comunitaria hanno infatti posto in luce l’evoluzione verso una sempre maggiore garanzia della posizione del privato nei confronti di atti retroattivi o di revoca posti in essere dalle pubbliche autorità (30), anche comunitarie (31).
In conclusione, sul punto: sia nei confronti del divieto di partecipare alle gare posto dal comma 2) sia a fronte dell’obbligo di dismissione delle attività posto dal comma 3) dell’art. 13, non sembra di poter escludere che un eventuale ricorso del socio privato (nei confronti dell’esclusione della società da una gara o nei confronti degli atti della società tendenti a dismettere parte delle proprie attività in quanto non consentite dal decreto) potrebbe trovare accoglimento sulla base dei richiamati principi.
E ciò per tacere dell’ipotesi che una società mista straniera partecipi ad una gara presso una pubblica amministrazione nazionale e ne venga esclusa ai sensi del comma 2 dell’art. 13; in tal caso non sembra infondato ipotizzare una censura fondata sull’obbligo degli Stati di consentire la libertà di stabilimento ex art. 43 e 44 del Trattato.
Più in generale, in tema di dubbi di costituzionalità, si coglie l’occasione per evidenziare come l’immotivata esclusione delle società statali dal novero di quelle interessate dal decreto abbia destato, in attenta dottrina (32), più di una perplessità. Ciò sia con riguardo ai principi posti dagli art. 2 e 3 Cost, sia con riferimento al riparto di competenze Stato-Regioni di cui all’art. 117 Cost., sia, infine, in merito all’obbligo di rispetto dei canoni di adeguatezza e proporzionalità che la Corte Costituzionale (sentenza n° 272/04) ha imposto al legislatore allorquando eserciti una competenza trasversale (che interessi cioè anche materie di competenza regionale).
Sembra doveroso, al riguardo, sottolineare come il ricorso all’in house providing nelle Amministrazioni centrali dello Stato costituisca un fenomeno tutt’altro che secondario ed, anzi, abbia assunto di recente margini di rilevanza sempre maggiori, come recenti studi hanno evidenziato (33).
Per quanto riguarda il limite sub c) – divieto di partecipazione a società od enti - , si rinvia alle osservazioni formulate più avanti in materia di sanzioni per l’inosservanza degli obblighi posti dall’art. 13 (34).
Si evidenzia, comunque, che l’auspicio (formulato in sede di commento della prima versione della norma) che il divieto fosse da intendersi solo come antielusivo rispetto ai vincoli posti dal decreto (35), si è rivelato infondato; ciò che la norma intende impedire è, tout-court, la formazione di gruppi societari facenti capo a società strumentali del tipo di quella in esame (36).
In ordine al limite di cui sopra, sub d), ossia l’obbligo di avere un oggetto sociale esclusivo, si deve subito osservare come si sia al riguardo registrata una certa difformità di vedute tra gli osservatori (37), peraltro comprensibile, stante l’indeterminatezza della disposizione.
Da un lato, qualche autore si è mostrato decisamente propenso ad intendere il vincolo in parola come obbligo di ricondurre a società monobusiness le società multiservizi, mostrando di intendere il riferimento all’oggetto sociale come riferimento ai servizi, ossia alle attività economiche, contemplate nel medesimo. Altri hanno rivolto invece l’attenzione alla finalizzazione della società al servizio degli enti pubblici costituenti o partecipanti, individuando in tale caratteristica l’esclusività dell’oggetto sociale (38).
Come noto, la recente riforma del diritto societario operata dal D.Lgs 17.1.2003 n° 6, ha modificato, tra l’altro, gli art. 2328, comma secondo n° 3 (relativo alle S.p.A.) e 2463, comma secondo, n° 3, del Codice Civile (relativo alle srl), inerenti la disciplina – nell’ambito della disposizione concernente l’atto costitutivo - , dell’oggetto sociale.
E’ stato previsto, più in dettaglio, che nell’atto costitutivo venga indicata l’ “attività che costituisce l’oggetto sociale” in vece della precedente formulazione che richiedeva, genericamente, l’indicazione dell’”oggetto sociale”. Ciò rispecchia i contenuti della giurisprudenza maggioritaria che ha spesso rifiutato l’omologa di atti costitutivi con oggetti sociali troppo generici, o, addirittura, onnicomprensivi (39).
La specificazione dell’attività sociale rappresenta, inoltre, un limite dei poteri degli amministratori nei confronti della società, nei confronti dei terzi e della maggioranza assembleare rispetto ai soci dissenzienti, cui compete, in caso di deliberazioni di modifica dell’oggetto sociale, il diritto di recesso (art. 2437 c.c.). L’oggetto sociale, inoltre, viene definito in giurisprudenza “…come il programma dell'attività economica per la cui realizzazione è costituita la società ”(40) .
Come nota autorevole dottrina, l’indicazione dell’attività economica esercitata dalla società consiste, a ben vedere, nella specificazione del settore merceologico nel quale la società può operare, anche se, in realtà, anche questa definizione si rivela incompleta, poiché l’oggetto della società può non coincidere completamente con quello dell’impresa per il cui esercizio la società è costituita (41).
Sembrerebbe quindi, prima facie, doversi concordare, alla luce delle considerazioni ora svolte in ordine alla nozione di oggetto sociale, con l’opinione che intende l’esclusività dell’oggetto sociale imposta dalla norma come riferita al singolo tipo di servizio, o di prestazione (o, quindi, attività merceologica), che la società può fornire (42). Si tratta indubbiamente dell’esegesi giuridicamente più corretta sotto il profilo sistematico.
Tuttavia, anche data la formulazione criptica della disposizione, è possibile fornire anche un’interpretazione differente che appare, per più motivi, preferibile.
Anzitutto: scopo precipuo della norma è quello di favorire la concorrenza; una volta ammesso (comma primo dell’art. 13) che le società costituite o partecipate da amministrazioni pubbliche possono liberamente operare con le amministrazioni socie, limitarne l’oggetto ad una sola attività economica non significherebbe altro che spingere alla costituzione di una pluralità di società, monoservizio, controllate da un medesimo soggetto pubblico, in totale spregio ai canoni di efficienza, efficacia ed economicità (43) sul cui rigoroso rispetto, in questo specifico settore, la Corte dei Conti ha dimostrato di essere assai sensibile (per tacere del fatto che ciò contrasterebbe con le stesse parole del Ministro competente cfr. sopra, nota 32).
Sotto il profilo sistematico, poi, si osserva che l’obbligo di oggetto sociale esclusivo è posto nel comma due dell’art. 13, in stretta correlazione al divieto di agire in violazione delle regole di cui al comma 1). Ora, essendo la principale regola posta dal comma 1) quella dell’obbligo di operare esclusivamente con i propri soci, non è fuor di luogo assumere che la previsione dell’esclusività dell’oggetto sociale debba essere intesa come rafforzativo di questo obbligo, ossia come dovere di prevedere espressamente nell’oggetto sociale, come statutariamente cristallizzato, la possibilità di agire esclusivamente verso determinati enti.
Ciò, a ben vedere, potrebbe spiegarsi con la finalità di rendere edotti del vincolo i terzi che possano intrattenere rapporti con la società, evitando che anch’essi possano incorrere nella sanzione della nullità dei contratti prevista dal comma quarto.
Si concorda, peraltro, con l’opinione che pone l’accento sulla fondamentale improprietà giuridica di una simile stesura della norma in commento (44).
Tra l’altro, quella in esame non è la prima fattispecie in cui il legislatore ha imposto un oggetto sociale esclusivo o prevalente: basti pensare alle attività di somministrazione di lavoro, intermediazione, ricerca e selezione del personale, nell’ambito della Legge n° 196/97 ed, in modo più sfumato, del successivo D.Lgs. n° 276/2003, ovvero al d.lgs. 385/1993 (T.U.B.), secondo cui le attività ivi contemplate (assunzione di partecipazioni, concessione di finanziamenti sotto qualsiasi forma, prestazione di servizi di pagamento, intermediazione in cambi), possono essere svolte nei confronti del pubblico solo dagli intermediari finanziari che, d’altra parte, debbono avere tali attività come oggetto sociale esclusivo (45).
Tuttavia, dalla lettura delle richiamate disposizioni ci si avvede che il legislatore, laddove ha imposto l’esclusività dell’oggetto sociale riferendosi a date attività merceologiche, ha sempre precisato a quali attività si dovesse far riferimento. Nell’art 13 in commento una simile indicazione manca del tutto: un argomento di più per sostenere che il legislatore avesse, in questa ipotesi, riguardo non già all’attività merceologica, ma al destinatario della stessa.
3) Periodo transitorio, sanzioni ed alternative per le società e gli enti interessati.
Le disposizioni concernenti il periodo transitorio, gli obblighi a carico delle società e le relative sanzioni possono come segue riassumersi:
1) Ai sensi del terzo comma dell’art. 13, entro dodici mesi dall’entrata in vigore del decreto, ossia entro il 3 luglio 2007, le società interessate dovranno cessare le attività non consentite. A tal fine, potranno:
a) cedere le attività non consentire a terzi, nel rispetto delle procedure ad evidenza pubblica, ovvero
b) scorporarle, anche costituendo una società da collocare sul mercato, secondo le procedure del D.L. 332/94, entro ulteriori diciotto mesi (ossia entro il 3 gennaio 2009)
2) I contratti relativi alle attività non cedute o scorporate perdono efficacia decorsi i primi dodici mesi.
3) I contratti conclusi dopo il 4 luglio 2006 in violazione della prescrizioni dei commi 1) e 2) dell’art. 13 sono nulli; restano validi, fatte salve le prescrizioni di cui al comma 3), i contratti conclusi dopo il 4 luglio 2006, ma in esito a procedure di aggiudicazione perfezionate prima di tale data
3.1) La cessione delle attività non consentite. Le partecipazioni societarie in essere e quelle future.
Per quanto attiene l’obbligo di cessione / scorporo va, anzitutto, premesso che, al contrario di quanto (ragionevolmente e condivisibilmente) ipotizzato da alcuni autori nella vigenza della precedente versione del decreto, anche gli appalti acquisiti dalle società in commento, a seguito di gara ad evidenza pubblica, presso amministrazioni terze rispetto a quelle socie, debbono ritenersi attività non consentite e, quindi, soggette all’obbligo di cessazione, a pena di perdita di efficacia.
In tal senso, infatti, depone inequivocamente il comma 4) dell’art. 13, nella misura in cui esenta dalla nullità i contratti conclusi dopo il 4 luglio 2006, ad esito di gare perfezionate in precedenza: l’inciso “ .. fatte salve le prescrizioni di cui al comma 3” (ossia, in sostanza, l’obbligo di cessione) sembra non lasciare spazio a dubbi.
Anche qui, tuttavia, corre l’obbligo di evidenziare una evidente contraddizione all’interno dell’articolato, nella sua formulazione letterale: come si è notato più sopra, infatti, sono – prima facie – da ritenere legittimi gli appalti assegnati dalle amministrazioni che siano, rispetto alla società, mere “affidanti”(ove, chiaramente, non si ritenga di accedere all’interpretazione di adeguamento prospettata sopra, sub 2); a maggior ragione dovrebbero esser ritenuti validi quelli per i quali l’affidamento consegua ad una gara ad evidenza pubblica.
Come detto, le opzioni per le attività non consentite sono sostanzialmente due: la cessione e lo scorporo.
Il decreto parla genericamente di “cessione delle attività non consentite”. Si possono ipotizzare due distinte fattispecie:
a) la cessione del contratto;
b) la cessione del ramo d’azienda;
In via preliminare, sembra tuttavia opportuno un inciso in ordine all’eventuale necessità di cessione partecipazioni azionarie detenute dalle società pubbliche in questione, alla luce del divieto posto dal comma primo dell’art. 13, ed alle relative conseguenza.
Si tratta infatti di un problema che rientra nell’obbligo di cessazione delle attività non consentite, oltre che di argomento di estrema rilevanza, che ha generato non poche preoccupazioni tra gli operatori del settore (46). Si è, in prima battuta, dubitato che la sanzione della nullità potesse rischiare di investire, in virtù del riferimento generico contenuto nella norma, anche le partecipazioni societarie, dato che anche quello societario rappresenta un “contratto”, benché la nullità dello stesso sia prevista per casi tassativamente disciplinati dall’art. 2332 cod. civ. (47).
Rispetto alla precedente formulazione, peraltro, l’attuale testo fornisce più argomenti per ipotizzare l’esclusione del contratto societario dal novero di quelli sanzionati dai commi terzo e quarto della norma.
In primo luogo, il terzo comma dell’art. 13 fa ora riferimento ai “ contratti relativi alle attività non cedute o scorporate “, definizione che sembrerebbe limitare l’applicabilità della disposizione ai soli contratti aziendali (48). Le partecipazioni in società, pertanto, non sembrano interessate dalla norma.
Viceversa, il comma quarto si applica ai “contratti conclusi in violazione delle prescrizioni di cui ai commi 1 e 2”. Tra le prescrizioni contenute nel comma primo, si rammenta, rientra il divieto di partecipazione a società o enti.
Tuttavia, anche qui sembrerebbe di dover escludere che una società di nuova costituzione possa incorrere in tale sanzione (49).
Ed infatti, è stato posto in luce dalla dottrina (50) come la tassatività delle cause di nullità delle società di cui all’art. 2332 cod. civ. sia da riconnettersi alle previsioni della Direttiva 68/151 CEE, che contiene l’enumerazione di un numero massimo di nullità, vietando ai singoli legislatori nazionali di prevedere fattispecie ulteriori.
Pertanto, anche in questo caso, sembrerebbe corretto escludere che le partecipazioni societarie, anche in violazione del divieto posto dal comma primo, possano incorrere nella sanzione di nullità di cui al comma quarto dell’art. 13.
Venendo a discorrere in dettaglio della cessazione delle attività non consentite e, più in particolare, dell’eventuale cessione dei contratti illegittimi, da effettuarsi nel rispetto delle procedure ad evidenza pubblica, va rilevato che un ostacolo non da poco potrebbe essere rappresentato proprio dalla necessità del consenso dell’amministrazione appaltante.
Sul punto, va ricordato come la dottrina più rigorosa richieda il preventivo assenso dell’amministrazione appaltante anche nel caso di cessione del ramo d’azienda, in considerazione del carattere eminentemente personale, e quindi fiduciario, del contratto di appalto con la P.A..
Al riguardo, la necessità del consenso dell’Amministrazione viene considerato principio generale desunto dall’art. 45 bis Cod. Nav., ritenuto applicabile non solo alle concessioni amministrative. In base a tale principio si ritiene che il concessionario di un pubblico servizio debba ottenere l’autorizzazione della pubblica amministrazione concedente per l’attribuzione ad altri soggetti della gestione dell’attività oggetto della concessione ad esso assegnata, con la precisazione che il consenso dell’amministrazione non potrebbe mai ritenersi manifestato tacitamente “ essendo viceversa necessaria l’emanazione di un atto formale, che rechi la valutazione degli interessi coinvolti e la relativa motivazione “(51)
Questo aspetto è, evidentemente, foriero di possibili complicazioni in sede di dismissione delle attività vietate; ove, individuato il contraente a seguito di una prima gara, la P.A. appaltante rifiutasse il proprio consenso vanificando la procedura si verificherebbe con tutta probabilità (nella migliore delle ipotesi (52)) un forte deprezzamento del valore del contratto / ramo d’azienda.
Sarà bene, al riguardo, aver cura di stipulare preventivamente con la P.A. appaltante una convenzione o, comunque, un’intesa nella quale si fissino i criteri generali, condivisi, sulla cui base far luogo alla cessione delle attività, evitando così l’eventuale negazione del consenso nella fase successiva (53) .
In ordine alla (eventuale) cessione delle partecipazioni azionarie il problema di cui sopra non si pone, in quanto pur mutando la titolarità dell’azionariato il soggetto contraente con la P.A. rimane giuridicamente il medesimo.
Come si osservava, la cessione delle attività (contratti o rami d’azienda) non consentite dovrà avvenire mediante procedure ad evidenza pubblica; dal momento che le norme dettate per le alienazioni degli enti pubblici non trovano diretta applicazione alle società di capitali, si tratterà di applicarne, per analogia, i principi, ponendo in essere delle procedure concorrenziali dotate, in particolare, del necessario grado di pubblicità e della maggiore ampiezza possibile in ordine ai requisiti di partecipazione, indipendentemente da particolari vincoli formali.
Ove alle attività in questione sia dedicato del personale, varranno ovviamente le garanzie contemplate nell’art. 2112 cod. civ., e sarà necessario porre in essere la procedura di informazione e consultazione sindacale di cui all’art. 47 della L. 428/90 laddove i lavoratori impegnati nel ramo d’azienda (o nell’attività ceduta, laddove sussistano i relativi requisiti (54)) siano in numero superiore a quindici.
Ora, considerando che il periodo transitorio fissato dall’art. 13 decorre dalla data di entrata in vigore del decreto, nonché dei tempi necessari per far luogo alla richiesta procedura ad evidenza pubblica e, quindi alla procedura di informazione e consultazione sindacale su menzionata, e tenendo conto delle necessarie analisi preliminari di stima e valutazione delle attività cedute (55), risulta di immediata evidenza come il tempo a disposizione sia a malapena sufficiente.
Inoltre, data la possibilità di utilizzare l’alternativa dello scorporo, di cui al paragrafo che segue, gli amministratori avranno l’onere di analizzare preventivamente anche la convenienza economica, in termini aziendali (ad esempio, per la valorizzazione del ramo con altre attività che non rientrerebbero nel campo di applicazione dell’obbligo normativo ma che potrebbero rendere l’asset più appetibile) e fiscale di percorrere una strada o l’altra.
3.2 Lo scorporo delle attività non consentite
Il legislatore, inoltre, ha previsto la possibilità, in alternativa alla cessione delle attività, di “..scorporarle, anche costituendo una separata società da collocare sul mercato, secondo le procedure del decreto-legge 31 maggio 1994, n° 332”. Sull’interpretazione del periodo ora citato sono state formulate diverse tesi (56); in questa sede si ritiene di aderire ad un’interpretazione di natura sostanziale, per cui pare di poter ragionevolmente sostenere che il legislatore abbia, utilizzando l’espressione scorporo abbia inteso riferirsi, genericamente, a più operazioni di carattere straordinario (57), ed in particolare conferimenti di azienda o scissioni. In entrambi i casi, comunque, sembra di dover concludere che il fine ultimo del legislatore sia quello della cessione delle partecipazioni, alla luce del divieto di partecipare a società o enti posto dal comma 1.
Se per scorporo, ad esempio, si intendesse il conferimento di un ramo d’azienda in una società partecipata da quella affidataria (esistente o di nuova costituzione), si violerebbe tale dettato normativo, a meno di non considerare tale operazione solo come prodromica ad una successiva cessione. In tale ottica, peraltro, si spiegano gli ulteriori 18 mesi concessi dal legislatore in questo caso, tesi a consentire alle imprese pubbliche di dar corso in tempi ragionevoli alla riorganizzazione del complesso aziendale conseguente allo scorporo. Lo stesso regionalmente, può farsi per la scissione: infatti, posto che si tratta di attività vietate, le stesse non sono, necessariamente, state affidate dai soci (il che le renderebbe, ovviamente, legittime); pertanto, anche ipotizzando di collocare tali asset nella società scissa, la stessa sarebbe, comunque, partecipata da soggetti non affidatari, con conseguente perdurante illegittimità.
Per quanto attiene al riferimento al D.L. 332/94, vi è stato chi ha individuato la ratio del riferimento nella possibilità di costituzione per atto unilaterale delle società prevista dalla citata norma (art. 10). A chi scrive pare, piuttosto, che il riferimento al D.L. 332/94 vada inteso in particolare con riguardo alle particolari procedure previste dal medesimo per la collocazione a terzi delle partecipazioni azionarie. Del resto, il comma 3 dell’art. 13 fa proprio espresso riferimento a tali procedure.
Ora, la ratio sembrerebbe da individuarsi nella particolare flessibilità che tali procedure prevedono, la quale meglio si attaglia alla cessione di partecipazioni azionarie delle ordinarie procedure di evidenza pubblica utilizzabili per la mera cessione di attività.
Ci si riferisce, in particolare, all’art. 1 del D.L. 332/94, secondo cui “1.Le vigenti norme di legge e di regolamento sulla contabilità generale dello Stato non si applicano alle alienazioni delle partecipazioni dello Stato e degli enti pubblici in società per azioni e ai conferimenti delle stesse società partecipate, nonché agli atti ed alle operazioni complementari e strumentali alle medesime alienazioni inclusa la concessione di indennità e manleva secondo la prassi dei mercati. 2. L'alienazione delle partecipazioni di cui al comma 1 viene effettuata di norma mediante offerta pubblica di vendita disciplinata dalla legge 18 febbraio 1992, n. 149, e relativi regolamenti attuativi; può inoltre essere effettuata mediante cessione delle azioni sulla base di trattative dirette con i potenziali acquirenti ovvero mediante il ricorso ad entrambe le procedure.”
Come si evince chiaramente dalla lettura della norma, si tratta di disposizioni dettate per consentire al soggetto cedente di valorizzare al massimo le partecipazioni detenute, senza dover forzatamente rientrare in rigidi schemi negoziali; è ragionevole ipotizzare che tale scelta si spieghi con la consapevolezza del legislatore di non dover ulteriormente penalizzare le imprese pubbliche interessate dal nuovo dettato normativo.
4 Le sanzioni
Qualche considerazione conclusiva in ordine alle sanzioni previste dall’art. 13 nel caso di inottemperanza agli obblighi dallo stesso previsti al termine del periodo transitorio.
Riguardo alla sanzione della nullità, prevista dal quarto comma per i contratti conclusi successivamente all’entrata in vigore del decreto, poco si ha da aggiungere rispetto a quanto a suo tempo osservato (58) . Ci si limita a registrare positivamente il fatto che, rispetto alla prima stesura, si sia inteso attenuare la portata della sanzione, limitandola ai contratti di nuova stipulazione.
Il comma terzo dell’art. 13 prevede ora, per i contratti in essere (59), la perdita di efficacia delle attività non cedute o scorporate alla scadenza del termine di dodici mesi indicato nel primo periodo dello stesso comma terzo.
Il contratto inefficace è un contratto valido, che, tuttavia, non produce più effetti giuridici (60); il contratto valido è infatti il contratto che risponde alle prescrizioni legali, mentre l’efficacia attiene invece alla produzione dei suoi effetti (ciò deriva dalla distinzione tra contratto come atto e contratto come rapporto, ossia il rapporto contrattuale: esso consiste nell’esercizio dei diritti e nell’adempimento delle obbligazioni che nascono dal contratto (61)).
Alla inutile scadenza del termine dei dodici mesi, pertanto, il contratto relativo all’attività non consentita non avrà più efficacia vincolante tra le parti, che non dovranno più eseguirne le obbligazioni. Si tratta, quindi, di una sanzione la cui attuazione, pur doverosa ed ineludibile, è lasciata alle parti del contratto, non sussistendo più la possibilità, come nella prima stesura della norma, che le parti medesime siano lasciate in balìa di qualsiasi terzo reputasse di avere un interessa a far dichiarare la nullità del rapporto.
Note
(1) “Profili problematici dell’art. 13 del D.L. 4 luglio 2006, n° 233, in tema di affidamenti in house”, in questa Rivista.
(2) In un’ottica, come è stato da più parti evidenziato, più restrittiva degli stessi principi comunitari in tema di in house providing, che contemplano la possibilità per gli organismi in house di agire, in via residuale, anche per altri soggetti
(3) Ed in tal guisa è stata valutata da parte della dottrina: cfr. Bruno G. Fuoco, nella rivista online Lexitalia.it , Le società in house abbandonano il mercato? Riflessioni sull’art. 13 del D.L. n° 223/2006
(4) Cfr. G. Bassi, Le prospettive di riforma delle utilities locali. Prime considerazioni a margine della manovra finanziaria di metà anno , in www.appaltiecontratti.it nonché, dello stesso autore e nella stessa rivista Le prospettive di riforma delle utilities locali. Qualche ulteriore valutazione d’ordine economico – aziendale a margine del decreto sulle liberalizzazioni (d.l. 223/2006) e del disegno di legge delega. Vedasi, inoltre, l’interessante ed analitica disamina compiuta da Bruno G. Fuoco, in www.lexitalia.it , Le società in house abbandonano il mercato? Riflessioni sull’art. 13 del D.L. n° 223/2006, oltre all’autorevole ricostruzione di S. Rostagno, in www.giustamm , Corsi e ricorsi delle esternalizzazioni: l’art. 13 del d.l. 4 luglio 2006 n° 233
(5) Ordine del Giorno 9/1475/8 del 3 agosto 2006, votato da Prc, Centro destra e da un parlamentare dell’Ulivo, secondo cui “tale previsione arreca di fatto danni a strutture che hanno già dimostrato di essere competitive sul mercato; in termini di diseconomia di scala provoca un impatto negativo sullo stato economico-finanziario delle aziende pubbliche e, di conseguenza, introduce elementi tendenti alla privatizzazione delle stesse società pubbliche”. L’O.d.G. impegna il Governo “a rivedere, anche alla luce di ulteriori approfondimenti sugli effetti reali, la normativa in oggetto nell’ambito della propria sessione di bilancio al fine di eliminare i possibili impatti negativi sull’operatività e sull’efficienza delle società pubbliche interessate”.
(6) Ossia le ex municipalizzate pluriservizi, che hanno da tempo intrapreso una diversificazione delle proprie attività, al fine di individuare nuovi spazi di mercato per far fronte ad una “liberalizzazione” che, nei mercati di riferimento, spesso conduce alla prevalenza di incumbent pubblici che possono fruire di elevate risorse economiche ricavate da settori gestiti in regime di monopolio. Molte delle nuove attività assunte, in questa dinamica, dalle Società Pubbliche Locali, sotto il profilo oggettivo potrebbero astrattamente rientrare nel campo di applicazione dell’art. 13.
(7) Si veda, al riguardo, l’analisi ANCI - SWG “I servizi pubblici locali e il loro valore per il territorio. Le esperienze nelle 14 aree metropolitane”, pubblicata nel 2006, sia per quanto concerne il profilo della diversificazione delle attività da parte delle Aziende Pubbliche Locali, sia in merito al fenomeno delle esternalizzazioni che, infine, allo stretto legame con il territorio. Secondo l’analisi ivi compiuta, le Aziende Pubbliche Locali si pongono, nei confronti dei rispettivi Enti Locali e delle relative comunità territoriali, come aziende che “… ricoprono il ruolo di veri e propri volani dell’economia locale attraverso la partecipazione in altre società, la realizzazione di nuove società di servizio, la presenza in altri settori produttivi locali. Il dato è complesso da definire, ma ci troviamo di fronte ad aziende che hanno costruito una vera e propria rete di partecipazioni. Un elemento che dimostra da, solo, la funzione di volano dell’economia territoriale, l’essere perno della crescita e dello sviluppo competitivo territoriale. I benefici ingenerati dalle imprese di servizi locali, quindi, non si limitano al fattore proprio, alla capacità diretta di produrre crescita, ma creano una serie di reazioni a catena che stanno ingenerando un nuovo circolo virtuoso: l’investimento pubblico in migliori servizi incoraggia un numero sempre crescente di iniziative private.Le imprese di servizi pubblici, quindi, sortiscono un duplice effetto moltiplicatore: da un lato intervengono direttamente nei processi di ammodernamento e innovazione dei territori, dall’altro stimolano ulteriori iniziative e crescite locali.”
(8) Cfr G. Bassi, Le prospettive di riforma delle utilities locali. Prime considerazioni a margine della manovra finanziaria di metà anno, cit.
(9) ANCE, comunicato n°64 del 10 luglio 2006 Decreto Legge 4 luglio 2006, n° 223: limitazioni all’attività delle società a capitale pubblico.
(10) Si rinvia, per quanto attiene alla diversificazione dei business in atto da parte delle Società Pubbliche Locali, al Paragrafo 2.3. “Il problema delle holding multiutility” del precedente scritto Profili problematici.. cit. Circa la tipologia di attività che, nella prassi, vengono esternalizzate dagli Enti Locali alle proprie società in aggiunta ai tradizionali core business, si possono citare l’Information Tecnology , la cui complessità e velocità di evoluzione non ne consente la gestione con i meccanismi rigidi propri dell’apparato pubblico, il Global Service Manutentivo di stabili e proprietà comunali e della c.d. gestione calore, la gestione del verde pubblico, della segnaletica stradale e semaforica, delle pubbliche affissioni, della riscossione delle entrate comunali in base all’art. 52 del D.Lvo 446/97.
(11) Il rafforzativo “..in funzione della loro attività” è stato probabilmente inserito per non lasciare spazio alcuno a dubbi interpretativi, non essendo pago il legislatore dell’esclusione espressa dei SPL. Si rinvia, inoltre, a quanto espresso più innanzi; cfr., inoltre, infra, nota 14.
(12) Consiglio di Stato, V, 10 marzo 2003 n° 1289; C.d.S., V, 16.12.2004 n° 8090; C.d.S., V, 9.5.2001 n° 2605; si tratta di sentenze che hanno ad oggetto la gestione degli immobili comunali e la gestione calore degli stabili comunali. Nello stesso senso v. S. Rostagno, Corsi e ricorsi delle esternalizzazioni: l’art. 13 del d.l. 4 luglio 2006 n° 233, cit. Sembra opportuno, in questa sede, rimarcare una volta di più come gli Enti Locali abbiano dato corso alle esternalizzazioni in questione sulla spinta di un espresso favor legislativo esplicitato nell’art. 29, 1° co., lett. b) della L. 28 dicembre 2001 n° 448. Anche se notorio, inoltre, giova comunque ripetere come, nella visione del giudice comunitario, il criterio dell’in house providing si applichi tanto alle concessioni di servizi pubblici, quanto agli appalti pubblici di servizi.
(13) Contrapposta alla, superata, concezione soggettiva, incentrata sull’aspetto soggettivo dell’imputazione del servizio ad una Pubblica Amministrazione, ritenendo in tale ottica preminente l’assunzione e la gestione, da parte di un pubblico potere, di un’attività produttiva. Secondo la concezione oggettiva, al contrario, nell’accezione fatta propria dal Consiglio di Stato, la nozione del pubblico servizio non può essere definita in astratto, in base al tipo di attività cui esso si riferisce ed a prescindere da un contesto normativo qualificante: deve invece ritenersi sufficiente l’elemento teleologico della sua capacità di rispondere ad una utilità generale e collettiva (CdS, sez. V, 3.04.1990 n° 319). In linea con questa ricostruzione, l’art. 22 della legge n. 142/1990, recepito dall’art. 112 del D.Lgs 267/2000 (TUEL), ha ribadito che “gli enti locali, nell’ambito delle rispettive competenze, provvedono alla gestione dei servizi pubblici che abbiano per oggetto produzione di beni e attività rivolte a realizzare fini sociali e a promuovere lo sviluppo delle comunità locali”. Al riguardo, per una interessante quanto documentata ricostruzione si veda: Laura Cesarini: Il servizio pubblico locale: evoluzione e prospettive tra principio di sussidiarietà e regime di concorrenza
(14) Cfr, fra le tante, TAR Lazio Roma sez.III 20/1/2004 n. 473: “Il servizio si qualifica come pubblico allorquando l’attività, in cui esso consiste, sia indirizzata istituzionalmente al pubblico, mirando a soddisfare direttamente esigenze della collettività, in coerenza con i compiti propri dell’amministrazione pubblica “(Cass. nn. 71 e 72 del 30/3/2000, n° 532 del 4/8/2000 e n° 1241 del 1/12/2000).
(15) Dello stesso parere, S. Rostagno, Corsi e ricorsi delle esternalizzazioni: l’art. 13 del d.l. 4 luglio 2006 n° 233, cit
(16) Ne fornisce una diversa e suggestiva spiegazione Bruno G. Fuoco, Le società in house abbandonano il mercato, cit. , secondo cui “ il nesso di assoluta ed esclusiva strumentalità imposto alla società, dovrebbe garantire il controllo analogo e cioè la dipendenza amministrativa, finanziaria e formale della società rispetto agli enti affidanti.”
(17) Ancora, vedasi l’illuminante ricostruzione – pur se formulata con riguardo al concetto di oggetto sociale esclusivo – di S. Rostagno, op. cit.
(18) Si rinvia al citato “Profili problematici dell’art. 13 del D.L. 4 luglio 2006, n° 233, in tema di affidamenti in house”, in questa Rivista.
(19) Totalità pubblica del capitale, controllo analogo a quello sui propri servizi e prevalenza dell’attività nei confronti dell’Ente socio.
(20) Per tacere del fatto che, intesa alla lettera, la nuova formulazione sembrerebbe legittimare anche nuovi affidamenti da parte di enti che, all’entrata in vigore del decreto, possano qualificarsi solo come “affidanti”. Infatti, affermare che le società debbono “operare esclusivamente con gli enti … affidanti” equivale a sostenere che esse possano continuare a ricevere nuovi affidamenti da questi enti.
(21) Così, ad esempio, R. Cafari Panico, A. Mulinacci, P. Gozzoli “ Primi commenti all’art. 13 del D.L. 4 Luglio 2006 n° 233”, o ancora, Bruno E.G. Fuoco “Le società in house abbandonano il mercato?”, cit
(22) immutata rispetto alla versione originaria
(23) La giurisprudenza amministrativa è giunta a concludere, sulla scorta di quanto già affermato da Cons. Stato, Sez. V, 3 settembre 2001 n° 4586, che la società mista nella quale il partner privato sia stato (doverosamente) scelto con gara, non può essere vincolata ad una rigida strumentalità rispetto all’ente territoriale di riferimento, potendo anche svolgere attività nel libero mercato; cfr. al riguardo la recentissima TAR Campania, Salerno, Sez. I, 19/7/2005 n. 1290, disponibile sulla Rivista online Diritto dei servizi pubblici.
(24) Sul tema dei Partenariati Pubblico Privati, in una prospettiva comparatistica con la disciplina nazionale, si veda la completa analisi di C. Tessarolo Il Partenariato Pubblico Privato – La scelta del Partner Privato in www.dirittodeiservizipubblici.it
(25) Ossia che dà vita ad una forma di collaborazione stabile tra il soggetto pubblico ed il soggetto privato, quale può essere, appunto, la costituzione di una società mista.
(26) Si avvede del problema l’acuta analisi di G. Bassi, Le prospettive di riforma delle utilities locali. Qualche ulteriore valutazione d’ordine economico – aziendale a margine del decreto sulle liberalizzazioni (d.l. 223/2006) e del disegno di legge delega, cit.
(27) La definizione è di G. Zagrebelsky, Manuale di diritto Costituzionale, I, Le Fonti, Torino, 1987, pag. 91
(28) Si veda la ricostruzione di S. Scagliarini, La Corte Costituzionale tra leggi pseudo interpretative e tutela dell’affidamento dei cittadini, sulla Rivista online Cahiers. Ivi, si veda la ricostruzione del pensiero di P. Carnevale A fuggir di giovinezza nel doman s’ha più certezza (brevi riflessioni sul processo di valorizzazione del principio di affidamento nella giurisprudenza costituzionale) secondo cui sussiste una somiglianza tra tale giurisprudenza della Corte e quella della Corte di Giustizia delle Comunità Europee che configura la tutela dell’affidamento come principio generale non scritto dell’ordinamento
(29) Corte Costituzionale, Sentenza 22 novembre 2000 n° 525
(30) Vedasi l’interessante disamina compiuta da A. Damato, Revoca di decisione illegittima e legittimo affidamento nel diritto comunitario, in Il diritto dell’Unione Europea, 2/99, p. 299 e ss.
(31) Cfr., ex multis, in tema di affidamento legittimo dei beneficiari di aiuti di stato illegittimamente concessi, ma ottenuti nel rispetto della procedura di cui all’art. 93, n° 2, del Trattato, Corte di Giustizia, 20 settembre 1990, Causa C-5/89 Commissione contro Repubblica Federale di Germania. Cfr, inoltre, Corte di Giustizia, sentenza 24 luglio 2003 in Causa C-280/2003, secondo cui “ .. è particolarmente importante, per garantire la certezza del diritto, che i singoli possano contare su una situazione giuridica chiara e precisa, che consenta loro di sapere esattamente quali sono i loro diritti e di farli valere, se del caso, davanti ai giudici nazionali”.
(32) S. Rostagno, op. cit.
(33) Si rinvia al papier della Fondazione Rosselli “Affidamento diretto e in house contracts negli appalti pubblici di servizi delle amministrazioni centrali”, Roma, ottobre 2005. In particolare, di tale studio si evidenzia l’accurata analisi di diversi affidamenti diretti, e con il sistema dell’in house providing operati da parte di Amministrazioni centrali a proprie società controllate: la società Arte Lavoro e Servizi SpA (ALES SpA) con riferimento ad affidamenti del Ministero per i beni e le attività culturali; la società Rete Autostrade Mediterranee SpA (RAM SpA), affidataria del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti; Sviluppo Italia SpA, controllata dal Ministero per l’Economia e le Finanze (riguardo a quest’ultima società, ci si permette di far rilevare come essa abbia dato vita ad un gruppo societario formato da 17 società regionali e da 11 società funzionali, con ricavi per 117 milioni di Euro - dato 2004), Innovazione Italia SpA, Società controllata dal Dipartimento per l’Innovazione e Tecnologie; Infratel SpA, società in house del Ministero delle Comunicazioni; CONSIP SpA, società del Ministero dell’economia e delle finanze.
(34) V. infra, sub 3.1.
(35) In particolare, si tentava di interpretare la norma attribuendole il significato di impedire, più che la partecipazione a società in sé e per sé, l’elusione del divieto di conseguire affidamenti non consentiti, tramite le società controllate.
(36) Di rilievo, al proposito, la dichiarazione del Ministro per gli Affari Regionali, Linda Lanzillotta, in occasione dell’approvazione dell’Ordine del Giorno di cui alla precedente nota n° 3 : “L’ordine del giorno .. esprime una diffidenza verso una norma che vieta alle aziende pubbliche di essere capofila di grappoli di società che operano aggirando le norme sui concorsi pubblici per le assunzioni e sugli appalti. Aggirare la concorrenza non fa bene né all’economia né alla politica. “. Va, peraltro, osservato che l’esistenza o meno di “grappoli di società” è del tutto neutra rispetto agli scopi richiamati dalla dichiarazione ora riportata; anche nel caso di una sola società, infatti, non si applicano le norme sulle assunzioni nel pubblico impiego e, di converso, gli affidamenti diretti in carenza dei necessari presupposti sono comunque illegittimi, a prescindere dal fatto che avvengano nei confronti di una capogruppo o di una controllata.
(37) Cfr. S. Rostagno, Corsi e ricorsi, cit. e G. Bassi, Le prospettive di riforma delle utilities locali.Qualche ulteriore.. cit
(38) Pur ponendo, peraltro, in evidenza la sostanziale scorrettezza di tale impostazione sotto il profilo giuridico, attesa la neutralità del concetto di oggetto sociale rispetto al destinatario dell’attività della società: S. Rostagno, cit. Cfr., inoltre, R. Cafari Panico, A. Mulinacci, P. Gozzoli “ Primi commenti all’art. 13 del D.L. 4 Luglio 2006 n° 233”, cit., secondo cui le società affidatarie “.. saranno tenute a vincolare in via esclusiva il loro oggetto sociale sotto il duplice profilo dell’attività cui sono deputate e dei soggetti cui tale attività è indirizzata.”
(39) Era, ormai, orientata in questo senso anche la dottrina maggioritaria: cfr. E. ZANELLI, La nozione di oggetto sociale, Milano, 1962, e G. LA VILLA, L’oggetto sociale, Milano, 1974
(40) Corte di cassazione, Sezione I civile, Sentenza 6 giugno 2003, n. 9100
(41) In questo senso la ricostruzione di Danilo Galletti, La teoria dell’impresa tra diritto ed azienda, reperibile sul sito del Dipartimento di Studi Giuridici dell’Università di Verona, secondo cui ”La tradizione storica e l’esigenza di tenere presente il collegamento fra la clausola statutaria sull’oggetto sociale ed il diritto di recesso assicurato in caso di cambiamento, istituto inserito in una disciplina contraddistinta da forti profili di imperatività, inducono a ritenere che l’indicazione nell’atto costitutivo concerna solo il settore merceologico ove la società può operare (e dove gli amministratori sono legittimati ad operare). L’oggetto sociale statutario è infatti una direttiva non ha natura ordinatoria…. perciò nella società per azioni la delimitazione dei poteri del gestore si limita alla cornice merceologica Ciononostante la definizione appare fuorviata dalla concezione tradizionale per cui l’attività imprenditoriale coincide collo specifico processo produttivo; in realtà la ricostruzione della stessa come una sequenza di atti comprensiva anche di momenti ulteriori rispetto all’elaborazione dell’output fa capire che sarebbe più opportuna l’adozione di una diversa formula. La società è infatti sì una struttura specializzata per l’impresa, ma ciò ancora non prova che vi debba essere sovrapposizione totale fra “oggetto sociale” e “settore merceologico”; l’oggetto sociale è l’oggetto della società, non dell’impresa.”
(42) Ad esempio: servizi energetici, quali somministrazione calore e gestione del complesso impianti più edifici in un’ottica di risparmio energetico, Global Service manutentivo immobiliare, Information Tecnology.
(43) Si pensi, tra l’altro, alla perdita di sinergie ed all’inevitabile incremento dei costi comuni.
(44) S. Rostagno, op cit.
(45) Si tratta di una descrizione estremamente sintetica e semplificata: per un approfondimento si veda lo Studio n. 3532 della Commissione Studi Civilistici del Consiglio Nazionale del Notariato, “OGGETTO SOCIALE E ATTIVITÀ FINANZIARIE” approvato dalla Commissione Studi il 19 marzo 2002.
(46) Si pensi ai frequenti casi di società pubbliche oggi costituite sotto forma di Holding con partecipazioni in diverse società di scopo.
(47) Si interroga sui rischi che la norma può comportare l’interpretazione di R. Cafari Panico, A. Mulinacci, P. Gozzoli “ Primi commenti, cit., laddove si domanda se “..il generico riferimento ai contratti debba includere, oltre all’affidamento diretto dei servizi anche la nullità del contratto societario per “derivazione” qualora si considerasse illecito l’oggetto sociale, ovvero si qualifichi come nuova forma di nullità ulteriore alle ipotesi tassative previste dall’art. 2332 c.c.”
(48) Nel senso di limitare l’efficacia della sanzione ai soli contratti aziendali, cfr. S. Rostagno, cit.
(49)Fatto salvo quanto esposto sopra, nota 49.
(50)C. Bonfante, D. Corapi, G. Marziale, R. Rordorf, V. Salafia, Codice Commentato delle nuove società, Ipsoa, Milano, 2004, pagg. 51 e ss.; M. Bertuzzi, T. Manferoce, F. Platania, Società per azioni, Giuffrè, Milano 2003, pagg. 91 e ss.
(51)Consiglio di Stato, Sez. V, 29 novembre 2002 n° 6559. In dottrina, vedasi E. Silvestri, voce Concessione Amministrativa, in Enciclopedia del diritto, vol. VIII, Milano, 1961 p. 382; G. Pericu, Il rapporto di concessione di pubblico servizio, Milano, 1995, p. 99; C. Dal Piaz, Il trasferimento delle autorizzazioni e concessioni amministrative, Torino, 1971. In giurisprudenza, vedasi Consiglio di Stato, Sez. I, 12.3.1997 n° 552, Cass. Civ., Sez. III, 30.5.1996 n° 5003
(52) Si pensi al recesso della P.A. dal rapporto, con conseguente azzeramento del valore dell’attività.
(53) Ove la P.A. si riveli contraente accorto, non sarà difficile che, nella negoziazione, richieda in contropartita, ad esempio, dei miglioramenti economici, generando, anche qui, un possibile decremento del valore del contratto/ramo d’azienda
(54) Ossia se l’attività possegga quell’autonoma identità richiesta dalla legge e dalla giurisprudenza per essere configurata come ramo d’azienda ovvero se (è il caso, ad esempio, dei servizi di pulizia) il Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro applicabile preveda l’obbligatorio subentro del nuovo titolare nei rapporti di lavoro con il personale in precedenza adibito alle attività medesime.
(55) Oltre che, ovviamente, di una necessaria, accurata analisi giuridica delle stesse per accertare se rientrino certamente nel campo di applicazione del decreto.
(56)Per una esaustiva analisi delle stesse, in funzione della collocazione e dell’interpretazione dell’espressione “anche” vedasi S. Rostagno, Corsi e ricorsi delle esternalizzazioni: l’art. 13 del d.l. 4 luglio 2006 n° 233, cit
(57) Si veda in proposito L. Martinelli F. Martinelli, La società per azioni, Il Sole 24 Ore, Milano, 2003, pagg. 487 e ss..
(58) “Profili problematici dell’art. 13 del D.L. 4 luglio 2006, n° 233, in tema di affidamenti in house”, in questa Rivista.
(59) E, nella misura in cui lo si ritenga ammissibile, per le partecipazioni societarie.
(60) M. Bianca, Diritto Civile, 3 Il Contratto, ed. Giuffrè, Milano,1987.
(61) F. Galgano, Diritto Civile e Commerciale, Vol. 2°, le Obbligazioni ed i contratti. Tomo primo, obbligazioni in generale, contratti in generale, p. 467 e ss. |