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Pensando alle più recenti vicende dei servizi pubblici locali viene spontaneo porsi una domanda che fu formulata quasi un secolo fa in un contesto apparentemente del tutto diverso, quello dell’analisi psicoanalitica, e che può essere proposta nel nostro caso nei seguenti termini: “riforma terminabile o interminabile?” Al di fuori della metafora il ricorrente alternarsi di progetti di riforma istituzionale del settore rende il quesito appropriato e giustificato. La riflessione freudiana circa l’esito dell’analisi conduceva a conclusioni orientate al pessimismo. Venendo ai servizi pubblici locali si tratta di comprendere se tutti questi tentativi di riforma hanno avvicinato un approdo di innovazione adeguando i sistemi normativi ai cambiamenti intervenuti nell’economia, nella società e negli assetti dei mercati. Il problema, peraltro, non sta tanto nella lunghezza dei processi di riforma che, di per sé, non costituisce motivo di scandalo quando la portata del cambiamento è profonda e impone passaggi progressivi e graduali. L’aspetto davvero rilevante consiste invece nella direzione dell’attività riformatrice e nella coerenza degli atti mediante i quali essa si realizza.
Sotto questo aspetto rileva sottolineare come tale processo ha vissuto due distinte fasi. La prima è consistita in un prolungato periodo di evoluzione che ha segnato, attraverso varie tappe, il passaggio da un sistema decisionale e organizzativo caratterizzato dalla sostanziale sovrapposizione presso l’ente locale di funzioni diverse (regolatoria, proprietaria e gestionale), ad un assetto fondato su una più marcata separazione di aree di competenza e responsabilità e su una crescente emancipazione della gestione dal legame di organicità con l’ente locale. Questa fase si è sviluppata durante la seconda metà del secolo scorso e ha prodotto risultati di notevole rilievo: dapprima sono state adottate misure di modernizzazione culminate nel passaggio della vecchia azienda municipalizzata in azienda speciale, dotata di personalità giuridica propria, poi, con la cosiddetta “privatizzazione formale”, gran parte delle aziende si sono trasformate in società di capitali disciplinate dal diritto comune.
Tra la fine del passato decennio e l’inizio dell’attuale si è entrati in una nuova fase caratterizzata dall’esigenza di adeguare il sistema normativo alla crescita industriale dei servizi e alla liberalizzazione dei mercati su scala nazionale e continentale. E’ proprio in questo periodo che il processo riformatore ha manifestato maggiori incertezze e una perdita di coerenza e di organicità delle diverse misure adottate. Nell’arco di pochi anni, infatti, si è assistito al rincorrersi di disegni e provvedimenti tutti ispirati, almeno in linea di principio, all’esigenza di aprire i mercati, ma segnati da tali diversità di impostazione e contenuti da costituire essi stessi un pesante ostacolo sia al proseguimento e al completamento del percorso di innovazione sia alla possibilità delle imprese di impostare programmi di sviluppo.
Non è possibile, ovviamente, citare la copiosa produzione normativa susseguitasi in questi anni. Ai nostri fini ci si può limitare a richiamare due principali filoni: da un lato quello delle norme settoriali, dall’altro quello della riforma dell’intero comparto. Le leggi di settore hanno affrontato, in una prima fase (nei servizi idrici e dei rifiuti) il problema dell’aggregazione territoriale e della ricomposizione dei cicli integrati; in una seconda fase (nei trasporti pubblici locali, nell’elettricità e nel gas) l’apertura dei mercati anche in seguito al recepimento di direttive comunitarie. Per effetto di queste riforme si è quindi determinata la coesistenza di discipline diverse, a seconda se precedenti o successive agli orientamenti liberalizzatori. Sul piano della riforma organica dei servizi pubblici locali, in una prima fase si è assunto come punto di riferimento l’indirizzo delle più recenti riforme settoriali: con il DDL 7042 (il cosiddetto disegno di legge Vigneri) presentato alla fine dello scorso decennio (approvato da un ramo del Parlamento e poi decaduto con il termine della legislatura), infatti, si prevedeva il completo superamento degli affidamenti diretti e il ricorso obbligatorio e generalizzato alle gare per la scelta dell’affidatario. Nella scorsa legislatura (prima con l’articolo 35 della legge 448/2001, poi con l’articolo 14 del d.l. 269/2003), ci si è mossi in una logica meno coerentemente orientata alla concorrenza ma più attenta a conciliare la politica di liberalizzazione (sollecitata anche dalla procedura d’infrazione comunitaria relativa all’affidamento diretto a società miste) con istanze diverse provenienti non solo dalle regioni (a seguito della modifica dell’articolo 117 della Costituzione), ma anche dagli enti locali e dai gestori del settore.
Il Disegno di legge Lanzillotta, in questo contesto di incertezza, ha operato un’esplicita scelta di campo ed è tornato a collocarsi decisamente lungo il sentiero della liberalizzazione. Ciò appare evidente già nella Relazione di accompagnamento nella quale si sostiene, senza mezzi termini, che le misure adottate nella passata legislatura rappresentano un passo indietro rispetto alle norme settoriali. In tali misure, in particolare, la gara viene considerata alla stregua di una mera opzione posta in una posizione di parità rispetto agli affidamenti diretti sia in house sia tramite società miste determinando con ciò una cristallizzazione delle posizioni di monopolio. A partire da tali presupposti le soluzioni prospettate si ispirano ad una logica di “sussidiarietà orizzontale”: ove possibile (in assenza di monopoli naturali o di oneri di servizio pubblico da coprire con trasferimenti pubblici o sussidi incrociati) ricorrendo alla concorrenza “nel” mercato; negli altri casi con modalità diverse di affidamento e di regolazione.
Anche sotto il profilo degli affidamenti le novità rispetto al precedente ordinamento sono rilevanti. Mentre, infatti, quest’ultimo indicava tre possibilità, poste sostanzialmente sullo stesso piano, con il disegno di legge Lanzillotta si opera una esplicita gerarchia: la regola per i nuovi affidamenti e per il rinnovo di quelli in essere è costituita dalla gara; le altre due forme, e cioè l’affidamento in house a società interamente pubbliche e quello a società a partecipazione mista vengono trattate come eccezioni e considerate entrambe affidamenti diretti. In un successivo emendamento del Governo, in effetti, non si parla più di eccezioni, bensì di deroghe limitate ai casi in cui, “per le peculiari caratteristiche economiche, sociali, ambientali e geomorfologiche del contesto territoriale di riferimento”, non risulta efficace ed utile il ricorso al mercato. Questo emendamento, facendo riferimento alla specificità delle situazioni settoriali e territoriali, sembra meglio corrispondere alle concrete esigenze di liberalizzazione tenendo conto che i contenuti e i tempi delle misure di apertura dei mercati non possono prescindere dallo stato di avanzamento produttivo e industriale, dal livello e dalla dinamica delle performance gestionali, dal grado di contendibilità dei mercati, dallo sviluppo della regolazione.
Per la verità gli emendamenti del Governo, oltre a contenere questo positivo elemento di flessibilità collocato in un contesto di liberalizzazione, introducono, sorprendentemente, un’ulteriore possibilità non prevista nelle precedenti norme generali e settoriali, vale a dire la gestione in economia dei comuni. Tale disposizione, in effetti, configura un significativo ritorno indietro sul piano dell’innovazione. Si pensi, da un lato, alle ancora numerose gestioni dirette e frammentate presenti soprattutto nei settori idrico, dei rifiuti e, in parte, del trasporto pubblico locale per i quali verrebbe meno anche la spinta normativa a superare queste situazioni di arretratezza. Dall’altro lato al rischio di frenare il processo di esternalizzazione e aziendalizzazione dei servizi a domanda individuale riconducibili alla categoria dei servizi di rilevanza economica.
Un altro punto che suscita accese discussioni concerne la disciplina delle società miste le quali nel disegno di legge vengono considerate, al pari delle gestioni in house, affidamenti diretti e sottoposte ad analoghi vincoli e limiti. L’azienda mista, in effetti, riconducibile alla figura della PPP (public-private-partnership) di derivazione comunitaria, rappresenta un’esperienza diffusa e di successo anche in quanto consente di attrarre competenze e risorse diverse. Si consideri, al riguardo, che il disegno di legge introduce già alcune disposizioni relative alla selezione del partner che avvicinano questa fattispecie di affidamento alla gara per la gestione. Si tratterebbe allora di meglio precisare le condizioni per l’assimilazione vera e propria dell’azienda mista all’affidamento con gara seguendo in ciò le indicazioni contenute in un recentissimo parere del Consiglio di Stato (II Sez. n. 456/2007). In particolare la gara per la scelta del socio dovrebbe avere per oggetto lo svolgimento del servizio (e non la mera partecipazione al capitale) e seguire le medesime regole che si applicano per l’individuazione del gestore; inoltre al termine dell’affidamento la gara per la scelta del socio andrebbe rinnovata in rapporto alla nuova configurazione dell’affidamento stesso; infine la società dovrebbe essere interamente focalizzata sull’oggetto dell’affidamento. A queste condizioni potrebbero ridursi fortemente i rischi di comportamenti anticompetitivi da parte delle società miste e quelli di conflitti di interessi da parte degli enti locali altrimenti indotti a favorire il rafforzamento e l’espansione di società loro partecipate. In tal modo il sistema degli affidamenti potrebbe essere razionalizzato e ricondotto in sostanza a due sole forme: da un lato la gara ad evidenza pubblica a cui sarebbe assimilata la società mista che si attenga rigorosamente alla disciplina comunitaria come sopra sintetizzata, dall’altro l’affidamento diretto limitato alla sola gestione in house in via transitoria e con i limiti previsti.
L’ambizione del disegno di legge Lanzillotta, come si è anticipato, è di uniformare la frammentata disciplina dei servizi pubblici locali ad un ordinamento organico e unitario. A tal fine viene previsto che queste norme vengano applicate per l’affidamento di tutti i servizi pubblici locali di rilevanza economica e che, dunque, le vigenti discipline di settore in materia di rifiuti, trasporti, energia elettrica e gas vengano conseguentemente modificate. Dal novero dei settori sottoposti a riforma e ad armonizzazione vengono esclusi i servizi idrici per i quali viene prefigurato un orientamento diverso, non specificato, ma comunque fondato sulla gestione pubblica delle risorse e dei servizi. In un emendamento collocato in un altro provvedimento (il DDL Bersani sulle liberalizzazioni) viene prevista una moratoria relativa agli affidamenti in corso e non è ancora chiaro se verrà nominato un Commissario straordinario incaricato di verificare, pena l’annullamento o la sospensione, la rispondenza delle procedure di affidamento ai criteri di gestione pubblica del servizio. In effetti il settore idrico (insieme ai rifiuti) è quello in cui più gravi ed evidenti sono gli squilibri territoriali, le carenze infrastrutturali, le arretratezze gestionali e le debolezze in termini di standard quali-quantitativi delle prestazioni. Questi servizi, quindi, probabilmente più degli altri, avrebbero bisogno di essere profondamente rinnovati, promuovendo il superamento sia della frammentazione, sia dell’ancora prevalente ricorso alla gestione in economia. Il settore idrico, inoltre, presenta un fabbisogno di investimenti massiccio per colmare i pesanti deficit infrastrutturali e qualitativi (in particolare dispersioni e interruzioni del servizio concentrate prevalentemente nelle Regioni meridionali) la cui sostenibilità rende indispensabile l’impiego di capitali, anche privati, mediante il ricorso alla finanza di progetto. L’insieme di queste ragioni dovrebbe consigliare di non sottrarre questo settore al processo di cambiamento per non inibirne lo sviluppo industriale in molti casi già avviato e realizzato tornando a confinarlo entro limiti strettamente pubblicistici e localistici.
La parte finale del disegno di legge (l’articolo 3) è dedicata a misure di tutela degli utenti. Questo articolo, in effetti, presenta tratti di genericità, soprattutto sotto il profilo del collegamento tra sistemi regolatori e qualità, che impongono un’attenta considerazione in sede di esercizio della delega. In esso, in sostanza, si prevede un doppio impegno del gestore: innanzitutto, pena la revoca dell’affidamento, predisporre e pubblicizzare una Carta dei servizi; in secondo luogo sottoporsi a periodiche verifiche circa la soddisfazione degli utenti (in base all’esame dei reclami e ad indagini di customer) il cui riscontro positivo costituisca la condizione per il mantenimento dell’affidamento.
In effetti queste disposizioni sembrano prevedere ad un tempo troppo e troppo poco. Troppo in quanto si attribuisce un peso sproporzionato alla disponibilità della Carta dei servizi e al risultato delle indagini di customer considerati condizioni per il mantenimento dell’affidamento; troppo poco perché non si forniscono indicazioni su come definire gli standard di qualità garantiti agli utenti e su come venga trattato il loro conseguimento o mancato conseguimento in un quadro organico di regolazione. In sostanza la logica di questo articolo è di tipo on/off in cui la posta in gioco è l’intero affidamento del servizio, per di più in un contesto di incertezza in quanto non viene definito il metro di valutazione delle indagini di customer. Una moderna regolazione della qualità che renda le misure credibili e realmente applicabili impone, al contrario, una gradazione di incentivi e sanzioni commisurata ai risultati conseguiti non escludendo, ma solo in casi estremi, la revoca dell’affidamento. Il problema più delicato e complesso consiste nella definizione degli standard di prestazione che va condotta entro due limiti: quello superiore corrispondente alle istanze degli utenti che, in quanto tali, prescindono dalle compatibilità economiche; quello inferiore che scaturisce dall’esigenza del gestore di minimizzare i rischi di mancare il conseguimento degli obiettivi. In sostanza si tratta di trovare una soluzione che soddisfi al massimo le esigenze dei cittadini e degli utenti entro limiti di sostenibilità economica. A tal fine occorrerebbe prevedere che gli standard di qualità e di prestazione indicati nel Contratto di servizio, quali scaturiscono dalla negoziazione tra l’ente locale e il gestore, vengano recepiti nella Carta dei servizi e adeguatamente pubblicizzati nella veste di impegni verso gli utenti; essi, poi, andrebbero monitorati dalle Autorità di regolazione (ove istituite) divenendo elementi di base per l’adozione di sistemi di incentivi e sanzioni.
Dopo mesi di discussioni e contrasti, molti dei quali di natura prevalentemente ideologica, il disegno di legge Lanzillotta è stato oggetto nei giorni scorsi di un accordo in seno alla maggioranza di Governo che sembrerebbe averne sbloccato l’iter di approvazione. Non si conosce ancora il contenuto specifico dell’accordo. Dalle anticipazioni di stampa e dalle interviste rilasciate da alcuni dei protagonisti dello stesso emerge un quadro in alcune parti sensibilmente diverso dal testo originario del provvedimento. Le novità più rilevanti riguardano gli affidamento e le forme di gestione. Da quanto è dato sapere il sistema dovrebbe essere articolato su un doppio regime: quello pubblico per il quale si prevedono le gestioni in economia o le aziende speciali e quello di mercato con affidamenti a società di capitale, pubbliche, private o miste, realizzati esclusivamente mediante gare ad evidenza pubblica. Le poche informazioni di cui si dispone non consentono di comprendere la reale portata delle modifiche. In particolare non è del tutto chiara la disciplina degli affidamenti in house (continuano ad essere previsti o, come sembra, sono del tutto sostituiti dalle aziende speciali?) né quella delle società a partecipazione pubblica (sono interamente assimilate a quelle private o si prevede il ricorso a gare per la scelta del partner equiparate a quelle per la gestione del servizio?), non è del tutto chiara, infine, la disciplina della fase di transizione (cosa avviene alle società pubbliche in house al termine della transizione? Devono necessariamente trasformarsi in aziende speciali salvo concorrere per l’affidamento?). In assenza di un quadro di conoscenze più preciso non è agevole formulare giudizi sull’accordo. L’elemento che ha suscitato maggiori discussioni è il rilancio -secondo alcuni la “riesumazione”- dell’azienda speciale. Anche su questo punto, tuttavia, occorre capire l’effettivo contenuto della disposizione prospettata. Un conto, infatti, è se l’azienda speciale dovesse essere concepita come uno strumento aggiuntivo a disposizione dell’ente locale per la gestione pubblica di servizi sociali e alla persona che, pur essendo “di rilevanza economica”, si prestano meno ad una disciplina liberalizzatoria; altro conto è se l’azienda speciale, insieme alla gestione in economia, dovessero costituire le sole alternative alla gara. In quest’ultimo caso, infatti, si tornerebbe ad una legislazione speciale di tipo pubblicistico con il venir meno di molti margini di autonomia aziendale frutto di anni di innovazioni culminate nella diffusa “privatizzazione formale”. Rileva, inoltre, sottolineare che nell’impostazione originaria del disegno di legge Lanzillotta gli affidamenti diretti a società pubbliche venivano concepiti come eccezioni (o deroghe) sottoposti alla verifica delle Autorità di regolazione o dell’Antitrust e, comunque, come soluzioni transitorie, delimitate nel tempo, nella prospettiva della liberalizzazione. In questa logica la scelta dell’in house avrebbe rappresentato un efficace strumento per il superamento delle gestioni in economia unificando presso un soggetto imprenditoriale pubblico servizi frammentati sul piano sia territoriale che settoriale. Una volta completata tale missione, sempre comunque sotto la sorveglianza dell’Autorità di regolazione o dell’Antitrust, sarebbe stato possibile superare l’affidamento diretto e mettere a gara il servizio. L’integrale sostituzione della società in house con l’azienda speciale priverebbe il disegno di liberalizzazione di un importante strumento di gestione della transizione con il rischio di un congelamento dell’area pubblica che rischierebbe così di perpetuarsi sine die. In questo caso, inoltre, si determinerebbero difficoltà ai limiti del sostenibile già in occasione dell’entrata a regime della legge alla scadenza degli affidamenti in essere e ciò sia per le società in house per le quali si dovesse decidere la veste pubblica sia per quelle che dovessero mantenere la forma di società di capitali. Nel primo caso, infatti, occorrerebbe ritornare alla forma dell’azienda speciale mediante una procedura inversa rispetto a quella realizzata non molti anni or sono per la trasformazione in Spa (si dovrà prevedere anche in questo caso un percorso semplificato analogo a quello introdotto dal cosiddetto “Bassanini bis”?); nel secondo caso le società avrebbero la necessità di concorrere per i propri affidamenti, con il conseguente affollamento delle gare in un ristretto periodo di tempo.
Nonostante le scarne informazioni disponibili e le notevoli lacune conoscitive su gran parte dei termini concreti dell’accordo su di esso si è sviluppato un acceso confronto politico caratterizzato da una lettura diversa, spesso opposta, dello stesso. Da un lato i fautori della gestione pubblica vedono in esso un rafforzamento delle proprie posizioni; d’accordo con loro sono i rappresentanti dell’opposizione che, al contrario, lo interpretano come un ritorno al passato e come il prevalere di soluzioni antiquate, stataliste e anticoncorrenziali. Dall’altro lato, da parte governativa, esso viene letto come una semplificazione e una chiarificazione del quadro normativo e come il presupposto per il superamento di ambiguità e di “zone grigie”. Per un verso, infatti, risulterebbe ben chiara e circoscritta l’area sottratta al mercato per la quale si prevedono forme di gestione strettamente pubbliche, per altro verso tutte le imprese che dovessero assumere forma societaria verrebbero sottoposte alle regole della concorrenza e per esse verrebbe esclusa qualunque forma di affidamento diretto. In tal modo si favorirebbe la liberalizzazione di tutti i servizi che per caratteristiche e dimensioni non si prestano alla gestione diretta o all’azienda speciale mantenendo così in area pubblica una parte minoritaria e decrescente dei servizi di natura industriale.
Come si è tentato di argomentare i servizi pubblici locali costituiscono un arcipelago articolato e complesso che si presta poco e male alle semplificazioni proprie di un confronto politico connotato da posizioni unilaterali ed ideologiche. In particolare se l’obiettivo da tutti condiviso è di garantire servizi efficienti e di qualità in condizioni di universalità e di accessibilità appare priva di senso la disputa astratta tra pubblico e privato e tra fautori e detrattori della liberalizzazione. L’elemento davvero rilevante è definire percorsi coerenti, evitando forzature e atteggiamenti ondivaghi e tenendo conto che le innovazioni, soprattutto quando sono profonde, impongono modalità e tempi necessari al loro conseguimento e al loro consolidamento. In particolare quando si sceglie la strada dell’apertura alla concorrenza occorre che ciò avvenga mediante fasi di transizione che, per un verso, favoriscano l’ispessimento dei mercati e condizioni di convenienza, evitando così il ripetersi di esperienze di liberalizzazioni sulla carta con gare il cui unico partecipante è l’incumbent e che per altro verso consentano di valorizzare la cultura di servizio pubblico e il patrimonio di competenze tecniche maturati nelle gestioni pubbliche non forzando inutilmente i tempi ma consentendo loro di avviare e completare entro termini definiti percorsi di sviluppo di imprenditorialità e competitività. |