Quale riforma per le società partecipate dagli enti locali.
Note al ddl “Lanzillotta”
Il ddl Lanzillotta potrebbe rappresentare un serio passo avanti nell’ormai urgente processo di riordino delle imprese di servizi pubblici locali.
È infatti necessario rivedere al più presto la legislazione esistente in argomento, che è il ri-sultato di una stratificazione normativa e di mediazioni eccessive e che rischia di condan-nare il settore al nanismo ed all’inefficienza.
Premessa
I cittadini – nelle loro molteplici vesti di contribuenti, fruitori di servizi e portatori di diritti, attori del sistema economico – sono da tempo in attesa di una riforma radicale, e al tempo stesso non estemporanea, del sistema dei servizi pubblici locali.
L’inadeguatezza della situazione attuale è ormai evidente a tutti: servizi costosi e scadenti, realizzati da aziende di dimensione non adeguata e troppo spesso male ammini-strate, e che affidano la loro sopravvivenza alla conservazione di un innaturale stato di monopolio.
È chiaro che questo si traduce in un contesto di debolezza strutturale delle imprese operanti nei settori dei servizi pubblici locali, che incide fortemente sulla qualità della vita dei cittadini e rappresenta un onere insostenibile per gli enti locali e per la finanza pubblica.
Ciò è confermato sia dall’aumento delle tariffe che si è registrato negli ultimi anni, sia dai preoccupati allarmi della Corte dei Conti, che nel corso dei suoi controlli ai sensi dell’art. 1 c. 166 e ss. della finanziaria 2006, ha scoperchiato il vaso di Pandora dello spes-so disastroso andamento delle società controllate e collegate, dandone un quadro non di rado sconfortante.
La situazione, purtroppo, non è casuale. È il portato di scelte di governance miopi che gli enti locali, in tutta Italia, hanno posto in essere nel corso degli anni e che ora non hanno la sensibilità o la capacità politica di modificare.
È difficile aspettarsi che tale stato di cose possa modificarsi autonomamente, se non a prezzo di gravi crisi, che pure con sempre maggiore frequenza stanno interessando gli enti locali, proprio a causa della cattiva gestione delle aziende partecipate.
È da sottolineare infatti, che molti degli ultimi dissesti sono proprio dovuti alla ne-cessità di ripianare i deficit delle società controllate.
Allo stato di disagio dei cittadini nei confronti del cattivo funzionamento delle azien-de di servizi pubblici locali, per altro, ha inteso porre parzialmente rimedio il Parlamento, intervenendo – maldestramente – nell’ambito della riduzione dei “costi della politica” previ-sta dalla legge finanziaria 2007, limitando i compensi degli amministratori, il loro numero e introducendo una norma di limitazione alla possibilità di nominare i “non meritevoli” (1).
È chiaro, però, che non bastano delle norme tampone, e più demagogiche che effi-caci, a risolvere il problema della economicità dei servizi pubblici locali, i quali rappresentano un pezzo importante dell’economia di un Paese e della sua capacità competitiva.
È necessario, al contrario, un intervento strutturale e complessivo, che miri alla progressiva liberalizzazione del settore e che riservi agli enti pubblici un ruolo di regolazione e non di gestione, verso il quale si sono dimostrati da tempo inadatti, per ambito territoriale di competenza e, spesso, per vera e propria miopia manageriale.
Un intervento di riordino del settore delle utilities locali
È quindi da condividere appieno la scelta del Governo di intervenire con una proposta di legge delega in argomento, che è attualmente in discussione al Senato della Repub-blica (ddl n. S 772).
In particolare, il cuore del provvedimento detto “Lanzillotta” si fonda su alcune idee chiave:
- limitare l’opzione della gestione in economia e dell’affidamento diretto, sia nella formula dell’in-house sia in quella delle società miste, anche se con gara per l’individuazione del partner privato;
- dare un congruo termine per la normalizzazione del nuovo regime, preve-dendo un periodo transitorio adeguato, a differenza di quanto non concedesse, prima della modifica in finanziaria 2007, l’art. 13 del decreto Bersani;
- introdurre forme di controllo esterno sulle scelte di gestione, attraverso il potenziamento delle funzioni di regolazione ed anche di ascolto della voce dei cittadini in via diretta e indiretta.
In buona sostanza, la scelta del governo di intervenire nel settore dei servizi pubblici locali, con il c.d. disegno di legge Lanzillotta, non può che essere apprezzata, sia perché vuole rispondere ad una esigenza concreta sia nei contenuti, del tutto coerenti con la normativa comunitaria.
Questo anche se si trova difficile comprendere alcune scelte, quali quella, di cui si è letto di recente, ma della quale per ora non si è trovato traccia negli atti parlamentari, di una riproposta della azienda speciale per la gestione dei servizi in una logica in-house.
Dopo avere “privatizzato” per legge le aziende speciali questo ritorno ad un modulo aziendale di natura pubblicistica, che non presenta poi differenze forti con una società di capitali in house sembra inutile e costoso. Più ragionevole sarebbe stato chiarire puntualmente i contenuti statutari della società in-house, piuttosto che riaprire la stagione delle trasformazioni societarie, ammesso che gli enti locali si attivino in tal senso (2).
Nonostante i passi indietro realizzati con l’approvazione di alcuni emendamenti, pe-raltro di emanazione governativa, resta comunque fermo il carattere di eccezionalità dell’affidamento diretto alle società miste, ai sensi della lettera c) del c. 1 dell’art .2 del ddl S 772.
Concordiamo con questa limitazione che, a parere di chi scrive, deve essere mantenuta anche per le società miste. Non dubitiamo, come alcuni sostengono, che i partenariati possano essere efficienti ed è vero che il Parlamento europeo li guardi con simpatia.
In ogni caso, il fatto che essi rappresentano una soluzione efficiente di gestione di un servizio deve comunque essere sottoposto alla verifica di una libera gara, fermo re-stando che la partecipazione pubblica alla produzione di un servizio non può essere vista – se non in chiave ideologica – un valore in sé.
L’obiettivo deve essere invece la qualità e l’economicità del servizio in un orizzonte non breve. L’attuale allarme sulla carenza di risorse idriche, ad esempio, sarebbe assai meno pressante se la rete fosse stata manutenuta come necessario – moralmente, prima che economicamente – e forse non avremmo delle infrastrutture così fatiscenti se la pub-blica amministrazione si fosse dedicata a controllare, prima che a gestire, avendo cura di pretendere standard di qualità adeguati.
Il sogno di chi scrive, per altro, è un futuro alla francese, in cui tra i grandi competitori sul mercato vi sono grandi imprese, molte delle quali pubbliche, efficienti ed in grado di sfidare la concorrenza internazionale.
Si ritiene che sia necessario arrivare a qualcosa del genere quanto prima anche in Italia. Non solo perché si condivide l’idea che la libera concorrenza sia un regolatore di mercato in sé, ma anche e soprattutto per la necessità di attuare un processo di ristrutturazione industriale dei settori dei servizi pubblici locali, che tuteli i cittadini e le stesse amministrazioni locali, che sono artefici ed insieme vittime della situazione attuale.
Spingersi, con gradualità e insieme con determinazione, nella direzione di una liberalizzazione forte di questi settori è quindi una strada obbligata e segna una inversione di tendenza nei confronti di quella “norma truffa” che è oggi l’art. 113 del Tuel.
Abbiamo voluto definire l’art. 113 in modo così forte per tre ragioni:
- apparentemente attribuisce una forte autonomia di scelta agli enti locali, che ai sensi della norma di cui si parla in teoria possono decidere appieno la forma di governance che preferiscono;
- in realtà questa autonomia è largamente formale, perché quasi tutte le normative di settore (acqua, energia, gas, trasporti, rifiuti) prevedono delle regole assai più stringenti, per quanto non sempre concretamente applicate;
- di fatto, pertanto, l’art. 113 del Tuel è diventato più lo strumento per scelte di elusione dei limiti all’indebitamento di cui all’art. 119 della Costituzione e di aggiramento del patto di stabilità e di altre norme che gravano sugli enti locali, che non per un governo razionale del Comune-Holding, opzione per altro ancora realiz-zabile.
Un cambiamento necessario, ma sapendo che le norme da sole non bastano
Le questioni da porsi, pertanto, sono numerose e di ordine diverso. Si cerca qui di riassumerne alcune delle più rilevanti, anche se a prezzo di una scarsa sistematicità di e-sposizione.
Anzitutto va osservato che la riforma prospettata dal ddl Lanzillotta è, nella sua filo-sofia di fondo, già norma nei principali settori dei servizi pubblici locali.
Ci si deve chiedere allora se, ove vi è già presente una legislazione di settore - ad esempio nei trasporti pubblici locali – si siano effettivamente registrati incrementi di pro-duttività o no e, ove non è accaduto, se ciò sia dipeso da una cattiva filosofia normativa o se da una mancata applicazione della legge.
Come è noto i dati del rapporto annuale di Confservizi dimostrano che, nonostante vi siano innovazioni normative anche in essere da tempo, non vi sono significativi miglio-ramenti delle performance.
In effetti le imprese non sono poi cambiate di molto, negli ultimi anni, in termini di efficienza ed efficacia. E soprattutto nulla è accaduto nei settori più in difficoltà. Perfino le multiservizi quotate in borsa, che tanto spesso vengono citate ad esempio, hanno evitato di fare investimenti in servizi a rischio, quali il trasporto pubblico locale, preferendo gli agi del monopolio di fatto e della non reattività della domanda al prezzo.
Siamo dell’idea, di cui è facile il riscontro empirico, che ciò non dipenda da norme profondamente errate, bensì dalla concreta resistenza a portarle ad effetto.
E questo dimostra, ancora una volta, che spesso non mancano le regole ma che viene sottovalutata l’importanza del controllo della corretta esecuzione delle stesse.
Nei trasporti pubblici locali, anche ove vi siano state le gare, in nessun caso si è a-vuto un esito non prevedibile. Le gare, in sostanza, non sono state altro che il formale strumento per legittimare un insoddisfacente status quo (3).
Si deve guardare con soddisfazione, pertanto, al recente interventismo della Autori-tà Garante della Concorrenza e del Mercato anche nell’ambito dei servizi pubblici locali (4), perché solo un attento – ed al tempo stesso ragionevole – monitoraggio del rispetto delle regole può portare ad una riforma del settore.
Tra l’altro, sia detto per inciso, questa resistenza al cambiamento non sempre ha l’effetto atteso, del mantenimento dell’esistente. Il mercato, infatti, a volte è in grado di imporre le sue regole, come dimostra la crescente presenza di multinazionali nel mondo dei nostri servizi.
Transdev e Ratp, a titolo di esempio, hanno fatto consistenti investimenti in Italia, con il risultato che l’immobilismo delle nostre amministrazioni pubbliche locali rischia di portare all’abbandono di settori strategici da parte delle nostre imprese, a tutto vantaggio di operatori esteri.
Il Governo, dunque, non deve rinunciare a seguire la concreta implementazione dei processi di riforma, ed è importante che il disegno di legge dimostri una particolare attenzione in questa direzione.
In tale ottica l’art. 2 del ddl n. S 772, per quanto modificato in senso conservatore dal Consiglio dei Ministri dell’8 febbraio 2007, può comunque rappresentare un importante passo avanti nel quadro di una necessaria razionalizzazione e liberalizzazione del settore e costituisce una presa d’atto dei più recenti orientamenti normativi e giurisprudenziali euro-pei
Una framework generale di riforma, non interventi settoriali
Una riforma è quindi necessaria, visto la sostanziale inefficacia del quadro normati-vo precedente.
Anzi, se si vuole veramente attivare un concreto processo di cambiamento, questa deve essere la più generale possibile, per risolvere anche alcuni problemi di contesto che ad oggi in molti sembrano sottovalutare.
Il problema, ad avviso di chi scrive, riguarda infatti non soltanto i servizi pubblici lo-cali, ma il complesso delle aziende partecipate degli enti locali.
Per spiegarsi. L’intento dell’art. 13 del c.d. decreto Bersani è in linea di principio lo-devole, perché tende a distinguere i servizi pubblici da quelli strumentali ed a differenziar-ne il trattamento.
È infatti chiaro che - visto come è andato a configurarsi l’art. 113, a causa dell’infelice intervento dell’art. 14 del collegato alla finanziaria 2004 (5) - spesso è proprio nei settori non già regolamentati che sono venute a crearsi le maggiori aree di inefficienza, che riguardano il mondo delle partecipate di Comuni e Province.
Però non ha senso legiferare in argomento - salvo poi prorogarne i termini di attua-zione con la finanziaria, pochi mesi dopo - quando si ha la grande occasione di rivedere il tutto con una norma quadro.
Ancora, è discutibile la scelta di ampliare l’affidamento diretto, contro tutti i recenti orientamenti giurisprudenziali europei (6), anche alle società miste, così riducendo la portata dell’intervento stesso, in un gioco di ambiguità che ha il sapore della schizofrenia più che del disegno riformatore.
Ancora. È del tutto irragionevole che non vi sia una regolamentazione ben definita dei “servizi privi di rilevanza economica”. È certo vero che la Corte Costituzionale, con la sua sentenza del 27 luglio 2004, n. 272, ha dichiarato tali settori non meritevoli di tutela concorrenziale (7). È grave, però, che molte regioni abbiano voluto regolamentare i servizi a rilevanza economica, in un quadro di normazione già esistente e non differenziandosene affatto, e che nessuno abbia invece legiferato sui servizi privi di rilevanza economica.
Il sottoscritto non è un giurista e quindi magari non è in grado di cogliere tante sottigliezze. Resta però difficile da comprendere a chiunque come un Paese possa tollerare un vuoto normativo di tali proporzioni.
Ed in ogni caso resta necessaria una chiara definizione di cosa sia servizio a rilevanza economica e cosa no, e cosa possa in concreto essere definito servizio intermedio o meno, perché in argomento non è possibile accontentarsi delle spesso volubili sentenze di questo o quel TAR.
Non possiamo fare finta di ignorare che l’assenza di un quadro normativo ben defi-nito stia creando una enorme confusione tra gli operatori, a tutto vantaggio di una intensa e spesso impropria attività consulenziale che altrove si chiede di evitare, e con una produzione di pareri ambigui ed inconsistenti, anche perché è difficile ragionare su di un quadro in movimento, e spesso non lo è nell’interesse di chi propone riorganizzazioni dall’architettura fantasiosa.
Ancora, non nascondiamoci che si sta ormai assistendo alle interpretazioni più fan-tasiose pur di garantirsi il mantenimento dello status quo, il tutto in aperto contrasto con la giurisprudenza in argomento ed anche con il semplice buon senso.
Non è ragionevole, ad esempio, che un servizio possa essere considerato privo di ri-levanza economica a Milano, ma diventare servizio intermedio altrove. O addirittura che un servizio «privo di rilevanza economica» sia articolato nella forma di una SpA mista, goda di un affidamento diretto e sia in grado ogni anno di distribuire un consistente dividendo.
E non mancano, in presenza di casi simili, sentenze o addirittura procedure di infra-zione da parte della Commissione Europea, come quella che riguarda il Comune di Geno-va.
In sostanza, vi sono delle grandi incertezze ed un conseguente spreco di risorse, fi-nalizzato solo ad un maldestro e precario mantenimento dello status quo.
Meglio sarebbe “fermare i motori”, sospendere il pur per certi aspetti positivo art. 13 della Bersani, ed attendere serenamente un riassetto complessivo, evitando di costrin-gere gli enti locali a scelte improvvisate e spesso inutilmente onerose, di cui poi a pagare il prezzo sono inevitabilmente i cittadini.
Lo stesso si può ripetere per alcune delle già citate «novità» introdotte dalla Finan-ziaria 2007 che, pur se ispirate da giuste finalità, hanno assunto il sapore di dettati da e-conomia di guerra e sono lesive dell’autonomia degli enti locali ed in certi casi anche in aperto contrasto con i dettami del Codice Civile in materia di diritto societario. Ci si riferi-sce, in particolare, al c. 734, che equipara l’amministratore di società in perdita per tre e-sercizi consecutivi all’interdetto ai sensi dell’art. 23 del codice civile o alle norme di limita-zione del numero dei consiglieri di amministrazione e dei loro compensi.
I punti da affrontare
In sostanza si ritiene che sia giusto salutare il ddl Lanzillotta come fatto opportuno ed anzi necessario, in un quadro non solo di riordino dei servizi pubblici locali, ma di un riassetto complessivo della governance degli enti locali.
Da questo punto di vista, pertanto, si pensa che il nuovo assetto normativo debba prevedere:
- una definizione chiara e non ambigua dell’oggetto della normativa, che faccia ben comprendere cosa sia un servizio pubblico locale a rilevanza economica, uno privo di rilevanza economica e cosa un servizio intermedio (8), per i quali ad oggi si deve fare riferimento solo al Libro Verde sui Servizi di Interesse Generale della Comunità Europea ed agli orientamenti giurisprudenziali (9);
- trovare rimedio al vuoto normativo che riguarda anzitutto i servizi privi di rilevanza economica, in modo da ricondurne la gestione entro un sistema delle regole. Que-sto o intervenendo direttamente – cosa probabilmente inopportuna sul piano costituzionale – o «costringendo» le Regioni, distratte appunto dalla non rilevanza economica, a svolgere la loro funzione legislativa in argomento;
- fare svolgere la “gestione delle eccezioni” rispetto al criterio generale del ricorso al mercato ad una sola Autorità e non fare rinvio ad una molteplicità di Agenzie, in modo da assicurare coerenza al sistema dei servizi pubblici locali nel suo complesso;
- ricomprendere nel disegno anche la gestione delle acque, sulla quale occorre inter-venire, coerentemente a quanto si dice di voler fare negli altri servizi, in termini di regolazione e non di proprietà, se non, come ovvio, limitatamente alle reti. Diventa davvero difficile comprendere, da cittadino, quale sia il motivo per cui tale servizio – che è stato tradizionalmente mal amministrato dagli enti locali, come dimostrano le perdite di acqua, spesso superiori al 30% (con valori che in alcune regioni raggiun-gono il 46%) - debba rappresentare una eccezione;
- rivedere, esplicitandolo ancora di più nel ddl, l’intera regolamentazione dei servizi locali, così da arrivare ad un Codice Unico dei Servizi, superando l’eterogeneità che ancora riguarda molti comparti e che spesso trova giustificazione solo nella stratifi-cazione e nei diversi tempi di approvazione delle norme di settore.
(1) Sulla iniquità di tale norma, per altro, ci siamo già espressi nelle pagine de Il Sole 24 Ore.
(2) La difficoltà politica di uno sfacciato ritorno al passato, infatti, potrebbe rappresentare una remora all’in-house stesso. E la natura della azienda speciale, comunque, chiarisce in sé quali siano i limiti e le conseguenze di fare la scelta della gestione diretta.
(3) Interessanti, in proposito, le considerazioni di Boitani. Cfr. A. Boitani, Riforma e controriforma dei servizi pubblici locali, in «ASTRID-Rassegna», n. 12/2005.
(4) Cfr. M. Pivetti, “Gare inquinate nei servizi locali”, in «Il Sole 24 Ore», 2 gennaio 2007.
(5) Anche se in un primo tempo, si deve riconoscere avevamo guardato con simpatia tale norma, che aveva assicurato una autonomia forte agli enti locali, nonostante ne escludesse una serie di settori. Cfr. M. Mulazzani-S. Pozzoli, Le aziende di servizi pubblici locali, Rimini, Maggioli, 2005
(6) Cfr. Sentenza della Corte di Giustizia Europea del 10 novembre 2005, C-29/04.
(7) Ci pare, però, che la scelta fatta sia irragionevole, perché la tutela concorrenziale dovrebbe servire a garan-tire chi fornisce il servizio ed il consumatore, non l’ente che vuole o deve esternalizzarlo. Perché mai chi vuo-le aprire una agenzia teatrale non ha diritto ad essere tutelato se vuole fornire, ovviamente dietro equa re-munerazione, il suo servizio mentre chi ha intenzione di produrre energia elettrica sì?
(8) Potrebbe essere interessante, in proposito, riprendere la tecnica proposta, e mai applicata, dall’art. 35 della finanziaria 2002, che prevedeva l’emanazione di un apposito regolamento che esplicitasse quali tipologie di servizi rientrassero nell’ambito di applicazione dell’art. 113, allora relativo ai servizi pubblici locali a rilevanza industriale.
(9) In genere si fa riferimento ai servizi privi di rilevanza economica come a quelli per i quali vi è l’assenza di uno scopo precisamente lucrativo. Cfr. Corte di Giustizia Europea, Sentenza 22 maggio 2003, C-18/2001; TAR Sardegna, Sentenza 2 agosto 2005, n. 1729. |