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L'evoluzione istituzionale dei servizi pubblici locali tra innovazione, resistenze e arretramenti.
di Bruno Spadoni 11 dicembre 2007
Materia: servizi pubblici / disciplina

L’EVOLUZIONE ISTITUZIONALE DEI SERVIZI PUBBLICI LOCALI TRA INNOVAZIONE, RESISTENZE E ARRETRAMENTI

 

Le più recenti vicende relative alla disciplina legislativa dei servizi pubblici locali richiamano alla mente una domanda che costituiva il titolo emblematico di un celebre saggio pubblicato quasi un secolo fa in un contesto del tutto diverso. Il quesito può essere formulato nel nostro caso nei seguenti termini: “Riforma terminabile o interminabile?”. Senza dover necessariamente approdare alle conclusioni pessimistiche a cui perveniva il richiamato saggio, occorre tuttavia domandarsi se i numerosi tentativi di riforma che si sono affollati negli ultimi anni abbiano avvicinato i sistemi normativi ai cambiamenti intervenuti nell’economia, nella società e nei mercati. I nodi irrisolti con cui qualunque disegno di riforma deve necessariamente misurarsi al fine di completare il processo di evoluzione e di modernizzazione del settore, in effetti, sono diversi e assai impegnativi: innanzitutto la permanenza di profondi squilibri settoriali e, soprattutto, territoriali che contribuiscono a frenare lo sviluppo del Mezzogiorno, poi un assetto industriale lontano da quello dei principali concorrenti europei, infine un’apertura dei mercati in fase ancora iniziale. Questi problemi, così diversi, presentano comunque un tratto in comune, costituito dalla diffusa frammentazione favorita dalla presenza di un elevato numero di gestioni dirette. Tale situazione, pur riguardando quasi esclusivamente le Regioni meridionali, costituisce un ostacolo di ordine generale soprattutto in quanto restringe i mercati e inibisce processi di crescita imprenditoriale e industriale. Quello dell’innovazione organizzativa e gestionale si presenta, dunque, come un terreno strategico in cui fenomeni reali e dinamiche istituzionali devono trovare una coerenza e una saldatura. Ciò fornisce una chiave di lettura certo non esclusiva ma fondamentale per valutare il prolungato e non sempre lineare percorso di riforma che ha caratterizzato il settore a partire dalla seconda metà del secolo scorso e non ancora concluso.

Tale processo, in effetti, ha vissuto due distinte fasi. La prima è consistita in una graduale evoluzione che ha segnato, attraverso varie tappe, il passaggio da un sistema decisionale caratterizzato dalla sovrapposizione presso l’ente locale di funzioni diverse (regolatoria, proprietaria e gestionale), ad una più marcata separazione di aree di competenza e responsabilità e ad una progressiva emancipazione della gestione dal legame di organicità con l’ente locale. Dapprima sono state adottate disposizioni di modernizzazione (tra le quali, in particolare, l’adozione della contabilità economica in sostituzione di quella finanziaria avvenuta nel 1980), poi, con la riforma delle autonomie locali del 1990, si è avuto il passaggio dalla vecchia azienda municipalizzata all’azienda speciale, dotata di personalità giuridica propria. Queste innovazioni e le altre che si sono susseguite nel periodo in questione hanno permesso una notevole crescita di autonomia gestionale che è culminata in diffusi fenomeni di “privatizzazione formale” in seguito ai quali nella maggioranza delle situazioni il diritto comune ha finito per sostituire la legislazione speciale. Tra la fine del passato decennio e l’inizio dell’attuale si è entrati in una nuova fase in cui i mutamenti in corso nei mercati e gli orientamenti liberalizzatori di matrice comunitaria hanno alimentato l’esigenza di adeguare il quadro normativo. E’ proprio in questo periodo che il processo riformatore ha manifestato maggiori incertezze e una perdita di coerenza e di organicità. Nell’arco di pochi anni si è assistito al rincorrersi di disegni e provvedimenti i quali, anche se tutti ispirati, almeno nelle premesse, al principio di concorrenza, presentavano tali diversità di impostazione e contenuti da costituire essi stessi un ostacolo al completamento del percorso di innovazione e alla definizione di programmi di sviluppo delle imprese.

Non è possibile, ovviamente, citare la copiosa produzione legislativa susseguitasi in questi anni. Ai nostri fini ci si può limitare a richiamare due principali filoni: da un lato le norme settoriali, dall’altro la riforma dell’intero comparto. Le leggi di settore hanno affrontato, in un primo momento (nei servizi idrici e dei rifiuti) il problema dell’aggregazione territoriale e della ricomposizione dei servizi in cicli integrati; in una secondo momento (nei trasporti pubblici locali, nell’elettricità e nel gas) l’apertura dei mercati anche in seguito al recepimento di direttive comunitarie. Per effetto di queste disposizioni si è determinata la coesistenza di discipline diverse, a seconda se precedenti o successive agli orientamenti liberalizzatori, che ha reso necessaria una riforma organica. In una prima fase si è assunto come punto di riferimento l’indirizzo delle più recenti norme settoriali: con il DDL 7042 (il cosiddetto disegno di legge Vigneri) presentato alla fine dello scorso decennio (approvato da un ramo del Parlamento e poi decaduto con il termine della legislatura), infatti, si prevedeva il completo superamento degli affidamenti diretti e il ricorso obbligatorio e generalizzato alle gare per la scelta dell’affidatario. Nella scorsa legislatura (prima con l’articolo 35 della legge 448/2001, poi con l’articolo 14 del d.l. 269/2003), ci si è mossi in una logica meno coerentemente orientata alla concorrenza ma più attenta a conciliare la liberalizzazione (sollecitata anche dalla procedura d’infrazione comunitaria relativa all’affidamento diretto a società miste) con istanze diverse provenienti sia dalle Regioni (a seguito della modifica dell’articolo 117 della Costituzione), sia dagli enti locali e dai gestori del settore.

Il Disegno di legge Lanzillotta di “Delega al Governo per il riordino dei servizi pubblici locali”, almeno nella sua versione originaria, ha operato un’esplicita scelta di campo ed è tornato a collocarsi lungo il sentiero della liberalizzazione. Ciò appare evidente già nella Relazione di accompagnamento nella quale si sostiene esplicitamente che le misure adottate nella passata legislatura hanno rappresentato un passo indietro rispetto alle norme settoriali. In tali misure, in particolare, la gara viene considerata alla stregua di una mera opzione posta in una posizione di parità rispetto agli affidamenti diretti, sia in house sia tramite società miste, determinando una cristallizzazione delle posizioni di monopolio. A partire da tali presupposti le soluzioni prospettate si ispirano ad una logica di “sussidiarietà orizzontale”: ove possibile (in assenza di monopoli naturali o di oneri di servizio pubblico da coprire con trasferimenti pubblici o sussidi incrociati) ricorrendo alla concorrenza “nel” mercato; negli altri casi con modalità diverse di affidamento e di regolazione.

Anche sotto il profilo degli affidamenti le novità presenti nel testo originario del provvedimento sono rilevanti. Mentre, infatti, il precedente ordinamento indicava tre possibilità, poste sostanzialmente sullo stesso piano, con il disegno di legge Lanzillotta si opera una esplicita gerarchia: la regola per i nuovi affidamenti e per il rinnovo di quelli in essere è costituita dalla gara; le altre due forme, e cioè l’in house e le società a partecipazione mista vengono trattate come eccezioni e considerate entrambe affidamenti diretti. In un successivo emendamento presentato dal Governo in sede di discussione nella I Commissione del Senato, in effetti, non si parla più di eccezioni, bensì di deroghe limitate ai casi in cui, “per le peculiari caratteristiche economiche, sociali, ambientali e geomorfologiche del contesto territoriale di riferimento”, non risulta efficace ed utile il ricorso al mercato. Questo emendamento, facendo riferimento alla specificità delle situazioni, in particolare ai contesti settoriali e territoriali, consente di superare i rischi di uniformità e di astrattezza che caratterizzavano il testo originario. I contenuti e i tempi delle misure di liberalizzazione non possono infatti prescindere dallo stato di avanzamento produttivo e industriale, dal grado di contendibilità dei mercati, dallo sviluppo della regolazione. Un conto, infatti, è realizzare processi concorrenziali in servizi già esercitati mediante un gestore pubblico di adeguate dimensioni; un altro conto è liberalizzare servizi frammentati sul territorio e gestiti direttamente dai singoli enti locali per i quali occorre creare i  necessari presupposti sul piano infrastrutturale, produttivo ed economico. Una cosa sono i servizi caratterizzati da oneri di universalità e da trasferimenti compensativi altra cosa sono i servizi interamente finanziati dalle tariffe. Un ulteriore aspetto discriminante è la dimensione e la struttura dei mercati con riguardo sia al numero e al potere di mercato dei soggetti in concorrenza tra loro e con il gestore incumbent, sia alla presenza di “barriere all’ingresso” erette a protezione del monopolio. Infine, last but not least, un elemento fondamentale è costituito dalla capacità dell’ente locale di uscire dall’intreccio di funzioni per focalizzarsi su quelle di indirizzo e controllo. Il disegno di legge 772, almeno in questa prima versione, si presenta coerente e, nel medesimo tempo, sufficientemente pragmatico: la prospettiva è la liberalizzazione; i modi e i tempi per realizzarla sono in funzione delle specificità. Di conseguenza la regola è la gara mentre gli affidamenti diretti, nella forma dell’in house e della società mista, devono essere motivati esplicitando le ragioni che ne impongono il ricorso e indicando comunque una scadenza temporale trascorsa la quale effettuare la gara. Tali motivazioni, inoltre, devono essere adeguatamente pubblicizzate e trasmesse all’Antitrust o, ove costituite, alle Autorità di regolazione di settore che sono chiamate a esercitare controlli preventivi e susseguenti.

Un punto che in questa fase della discussione ha suscitato numerose critiche concerne la disciplina delle società miste le quali nel disegno di legge vengono considerate, al pari delle gestioni in house, affidamenti diretti e sottoposte ad analoghi vincoli e limiti. Da più parti si è fatto notare che questa forma di gestione, riconducibile alla figura della PPP (public-private-partnership) di derivazione comunitaria, rappresenta un’esperienza diffusa e di successo anche in quanto consente di attrarre competenze e risorse diverse. Al fine di affrontare in positivo il problema occorrerebbe precisare in modo più coerente la disciplina di tali società attribuendo loro una veste meno ibrida e più prossima a condizioni di mercato. Alcune disposizioni contenute nel disegno di legge concernenti la selezione del partner vanno già in questa direzione. Si tratterebbe allora di meglio precisare le condizioni per l’assimilazione vera e propria dell’azienda mista all’affidamento con gara seguendo in ciò le indicazioni contenute in un recente parere del Consiglio di Stato (II Sez. n. 456/2007). In particolare la gara per la scelta del socio dovrebbe avere per oggetto lo svolgimento del servizio (e non la mera partecipazione al capitale) e seguire le medesime regole che si applicano per l’individuazione del gestore; inoltre al termine dell’affidamento la gara per la scelta del socio andrebbe rinnovata in rapporto alla nuova configurazione dell’affidamento stesso; infine la società dovrebbe essere interamente focalizzata sull’oggetto dell’affidamento. A queste condizioni il sistema degli affidamenti potrebbe essere razionalizzato e ricondotto in sostanza a due sole forme: da un lato la gara ad evidenza pubblica a cui sarebbe assimilata la società mista che si attenga rigorosamente alla disciplina comunitaria come sopra sintetizzata, dall’altro l’affidamento diretto limitato alla sola gestione in house in via transitoria e con i limiti  previsti.

Un altro obiettivo del disegno di legge Lanzillotta è di uniformare la frammentata disciplina dei servizi pubblici locali ad un ordinamento organico e unitario. A tal fine viene previsto che queste norme vengano applicate per l’affidamento di tutti i servizi pubblici locali di rilevanza economica e che, dunque, le vigenti discipline di settore in materia di rifiuti, trasporti, energia elettrica e gas vengano conseguentemente modificate. Dal novero dei settori sottoposti a riforma e ad armonizzazione vengono esclusi i servizi idrici per i quali viene prefigurato un orientamento diverso, non specificato, ma comunque fondato sulla gestione pubblica delle risorse e dei servizi (questo orientamento, peraltro, è stato ribadito e rafforzato proprio nei giorni scorsi in occasione dell’approvazione del DL 159/2007 che prevede la “moratoria” di un anno degli affidamenti ai sensi del decreto 152/2006).

In effetti il settore idrico (insieme ai rifiuti) è quello in cui più gravi ed evidenti sono gli squilibri territoriali, le carenze infrastrutturali, le arretratezze gestionali e le debolezze in termini di standard quali-quantitativi delle prestazioni. Questi servizi, quindi, probabilmente più degli altri, avrebbero bisogno di essere profondamente rinnovati, promuovendo il superamento della frammentazione e dell’ancora prevalente ricorso alla gestione in economia. Ciò dovrebbe consigliare di non sottrarre il settore idrico al processo di cambiamento per non inibirne lo sviluppo industriale in molti casi già avviato e realizzato tornando a confinarlo entro limiti strettamente pubblicistici e localistici.

La parte finale del disegno di legge (l’articolo 3),  dedicata a misure di tutela degli utenti, presenta alcuni tratti di genericità, soprattutto sotto il profilo del collegamento tra sistemi regolatori e qualità, che sarà necessario affrontare in sede di esercizio della delega. In esso, in sostanza, si prevede un doppio impegno del gestore: innanzitutto, pena la revoca dell’affidamento, predisporre e pubblicizzare adeguatamente una Carta dei servizi; in secondo luogo sottoporsi a periodiche verifiche circa la soddisfazione degli utenti il cui riscontro positivo costituisca la condizione per il mantenimento dell’affidamento. I limiti di questa disposizione consistono, per un verso, nel peso eccessivo attribuito alla disponibilità della Carta dei servizi e al risultato delle indagini di customer considerati condizioni per il mantenimento dell’affidamento, dall’altro nell’assenza di indicazioni circa la definizione degli standard di qualità garantiti agli utenti. Queste lacune sono state in parte colmate dagli emendamenti del Governo in cui si precisa che gli indici di soddisfazione dell’utenza dovranno essere determinati secondo parametri e criteri prefissati nel Contratto di servizio. Resta tuttavia il fatto che la logica di questo articolo, anche dopo gli emendamenti, rimane di tipo on/off in cui la posta in gioco è l’intero affidamento del servizio. Una moderna regolazione della qualità che renda le misure credibili e realmente applicabili impone, al contrario, una gradazione di incentivi e sanzioni (non escludendo, ma solo in casi estremi, la revoca dell’affidamento) commisurati al livello di conseguimento degli obiettivi.

Dopo molti mesi di discussioni e contrasti, molti dei quali di natura prevalentemente ideologica, il disegno di legge Lanzillotta è stato oggetto nel maggio scorso di un accordo in seno alla maggioranza di Governo che sembrava averne sbloccato l’iter di approvazione. Il testo, emendato in seguito a tale accordo, è stato approvato in sede referente dalla Commissione Affari costituzionali del Senato e trasmesso in Aula la quale, a tutt’oggi, non ne ha ancora iniziato l’esame. Il disegno di legge, dopo questi emendamenti, presenta significative differenze rispetto alla versione originaria. Le modifiche presentate nella prima fase di discussione in Commissione sono state già esaminate in precedenza e hanno contribuito, nella maggioranza dei casi, a migliorare la qualità del provvedimento. L’aspetto di maggior rilievo che ha caratterizzato gli emendamenti seguiti all’accordo di maggioranza concerne la materia degli affidamenti e, più di preciso, il rapporto tra gestione pubblica e mercato. A differenza del testo iniziale, infatti, la gamma delle possibilità a disposizione dell’ente locale non è più limitata alla gara e, in via di deroga e a definite condizioni, alle società pubbliche in house e alle aziende miste. Nella versione emendata si prevede infatti che  a monte di questa scelta gli enti locali possano in ogni caso gestire i servizi in forma diretta (all’interno, cioè, della propria amministrazione) o tramite aziende speciali. Tale disposizione ha suscitato sorpresa e preoccupazione per diversi motivi: innanzitutto perché con essa si opera un ritorno indietro di molti lustri rispetto al processo di innovazione del settore, poi in quanto le nuove opportunità di gestione pubblica si sovrappongono a quella in house già prevista in precedenza e non sono definiti i confini tra di loro, infine perché essa presenta numerosi tratti di contraddizione con l’ispirazione complessiva della riforma e con altre parti della stessa. Circa il primo aspetto ci si limita ad osservare che una tappa fondamentale dell’evoluzione organizzativa del settore, da assumere quale presupposto per la successiva apertura dei mercati, è stata la “privatizzazione formale”, mediante la quale si è transitati dalla legislazione speciale a quella comune. Con il recupero, o meglio la “riesumazione” dell’azienda speciale si torna al punto di partenza in quanto si ripristina un rapporto di organicità e dipendenza tra ente locale e gestore e vengono così meno i margini di autonomia e responsabilità a quest’ultimo riconosciuti. Ancora peggiore, se possibile, è la soluzione in economia che già la legge 142/90 di Riforma delle autonomie locali circoscriveva a gestioni di minori dimensioni e di più modesta valenza industriale e che tutte le successive norme, settoriali e generali, escludevano dal novero delle forme di gestione possibili. Con la nuova versione del disegno di legge questa soluzione torna sorprendentemente in auge con pesanti rischi di condizionare e, probabilmente, ridimensionare il percorso di modernizzazione faticosamente avviato. Basti pensare, a tale riguardo, alle gestioni dirette ancora presenti in migliaia di comuni, soprattutto nel Mezzogiorno, e alla coriacea resistenza di molti di loro ad associarsi e ad avvalersi di soggetti imprenditoriali.

Un secondo aspetto, non meno preoccupante, concerne le disposizioni relative alla gestione pubblica. L’affidamento diretto in house, come è stato rammentato, è concepito come una possibilità transitoria, in deroga al principio generale di concorrenza e sottoposto a vincoli e condizioni restrittive. Il nuovo testo emendato, pur mantenendo inalterata questa disciplina, fornisce agli enti locali una via di fuga rappresentata dalle aziende speciali e dalle gestioni dirette. Esse, in effetti, sarebbero sottoposte ai medesimi vincoli e condizioni dell’in house, ma non avrebbero carattere di eccezionalità e di transitorietà e potrebbero dunque essere una soluzione ordinaria e permanente. Nella logica del dispositivo contenuto nel disegno di legge originario, invece, la scelta dell’in house costituiva la sola possibilità di gestione pubblica e, date le sue caratteristiche, avrebbe potuto configurarsi come un efficace strumento per il superamento delle gestioni in economia. Con essa, infatti, si sarebbe potuta fornire agli enti locali l’opportunità di unificare presso un soggetto imprenditoriale pubblico servizi frammentati sul piano sia territoriale che settoriale. Una volta completata tale missione, entro limiti temporali definiti all’interno di un programma specifico, sottoposto alla valutazione preventiva e successiva dell’Autorità di regolazione e/o dell’Antitrust, sarebbe stato possibile fare ricorso alla gara. L’introduzione dell’azienda speciale e della gestione diretta riduce fortemente questa possibilità e favorisce oggettivamente il congelamento dell’area pubblica che rischia così di perpetuarsi sine die.

Infine la nuova disciplina circa gli affidamenti si pone in palese contraddizione con gli stessi obiettivi posti a base della riforma. Nella relazione di accompagnamento del disegno di legge, come ricordato, viene evidenziata la sua discontinuità rispetto al precedente ordinamento in materia di liberalizzazione. Nelle norme ereditate dalla passata legislatura, infatti, gare ed affidamenti diretti erano posti sullo stesso piano, nel testo proposto la gara è la regola e gli affidamenti diretti una deroga condizionata e temporanea. Dopo gli emendamenti ciò non è più vero e, di nuovo, gare e società pubbliche coesistono in via permanente. A ciò va aggiunto che in uno degli emendamenti approvati in occasione della discussione in Commissione si ribadisce la necessità di garantire una netta distinzione tra le funzioni di regolazione e le funzioni gestionali. Questo principio, ormai da tempo consolidato, collide palesemente con il ricorso a forme di gestione esplicitamente fondate sulla sovrapposizione tra tali funzioni e sul ritorno ad assetti decisionali integralmente organici. Da ultimo occorre rammentare che, sempre in sede di emendamento, si prevede di adottare misure regolatorie volte a incentivare la gestione in forma associata dei servizi per gli enti locali con popolazione al di sotto dei 10.000 abitanti. Un processo di questo tipo, indubbiamente indispensabile per fare fronte al problema della frammentazione, impone il superamento del municipalismo e il ricorso a soggetti gestionali operanti su area vasta. La possibilità di ricorrere permanentemente a gestioni dirette e ad aziende speciali (salvo l’ipotesi di aziende consortili)  non avvicina questa prospettiva; al contrario mette a disposizione delle resistenze dei comuni, che già si manifestano diffusamente nonostante le leggi attuali non prevedano queste forme, strumenti efficaci per rafforzarle e renderle legittime.

Mentre si attendeva l’inizio della discussione sul disegno di legge nell’Aula del Senato con una mossa a sorpresa il Ministro per gli Affari regionali ha predisposto un emendamento alla Legge finanziaria (conosciuto come articolo 101) in cui vengono riproposti, sia pure in forma sintetica e con qualche importante variante, i contenuti del testo frutto dell’accordo di maggioranza. La novità più rilevante è che la riforma non viene presentata in forma di delega e quindi le disposizioni in essa contenute sono subito operative e non hanno bisogno di decreti attuativi. Un’altra importante modifica rispetto al disegno di legge concerne gli affidamenti. In particolare si prevede che la società mista, a condizione che la gara per la selezione del partner risponda a requisiti comunitari (come precedentemente illustrati) e che il socio privato detenga una partecipazione non inferiore al 30%, sia equiparata all’affidamento mediante procedure competitive ad evidenza pubblica. Con questa nuova disposizione, in effetti, si supera l’ingiustificata disparità a cui erano soggette le società miste, parificate agli affidamenti diretti e quindi sottoposte agli stessi vincoli e limiti. La definizione delle condizioni per la gara relativa alla selezione del socio privato, del resto, è attinente alla disciplina comunitaria e pone dunque la norma al riparo da procedure di infrazione. Anche i commi dell’articolo 101 che disciplinano i rapporti tra enti locali e gestori possono considerarsi un passo avanti rispetto al precedente testo. In essi, infatti, per un verso si stabilisce che gli enti locali definiscano esplicitamente le caratteristiche del servizio quanto a qualità, sicurezza, standard economici e di prestazione e sviluppo (in base a quanto indicato dall’Autorità di settore), per altro verso che essi pongano questi elementi alla base del Contratto di servizio che dovrà disciplinare i loro rapporti con il gestore. I contenuti del Contratto di servizio, inoltre, vengono specificati coerentemente stabilendo, in particolare, che esso preveda sistemi di incentivi e sanzioni finalizzati alla promozione di efficienza e qualità e clausole di risoluzione del contratto in caso di gravi inadempienze. Con questi commi, oltre a trattare organicamente la materia, si superano le debolezze e le genericità dell’articolo 3 del disegno di legge riguardante le misure a tutela degli utenti e l’argomento viene disciplinato nel quadro generale della regolazione.

Le note positive terminano qui. Gli aspetti problematici concernono, innanzitutto, la conferma delle gestioni dirette e delle aziende speciali come forme di gestione ordinarie e permanenti. Non torniamo sulla critica a queste disposizioni già sufficientemente condotta in precedenza. Il fatto nuovo è che  vengono apportate alcune modifiche all’articolo 114 del TUEL del 2000, concernente la disciplina delle aziende speciali, che peggiorano ulteriormente la situazione. In esse, infatti, si stabilisce il ripristino della contabilità finanziaria (il cui posto era stato preso dalla contabilità economica già nel 1980), il ritorno a rapporti di lavoro pubblicistici (che dal remoto 1926 erano stati sostituiti da rapporti di tipo privato) e la conferma della disciplina di diritto pubblico per le attività contrattuali. In sostanza, non solo vengono “riesumate” forme di gestione antiquate e inadeguate per i servizi “di rilevanza economica”, ma si rende la loro disciplina ancora più anacronistica, facendola precipitare a quella dell’inizio del secolo scorso. Anche le condizioni per l’affidamento diretto in house vengono ulteriormente inasprite. Oltre ai vincoli indicati nel disegno di legge si aggiunge infatti che a queste aziende si applicano le procedure di selezione pubblica del personale e quelle ad evidenza pubblica per l’acquisto di beni e servizi. In sostanza si rende maggiormente accidentato il percorso per tale modalità di affidamento e, in tal modo, si scoraggiano gli enti locali a seguirlo. Ciò potrebbe considerarsi coerente se il risultato fosse un incentivo alle gare e la riduzione dell’area sottratta alla concorrenza. Il problema è però che mediante le gestioni dirette e le aziende speciali agli enti locali vengono offerte soluzioni più agevoli per mantenere in via permanente l’opzione pubblica. Lo scenario prevedibile è quindi una polarizzazione con una profonda frattura tra una parte (presumibilmente minoritaria) di imprese operanti in condizioni di concorrenza e un’altra parte (prevalentemente localizzata nel Mezzogiorno) di gestioni pubbliche, frammentate e disciplinate da norme obsolete.

Un’altra importante novità contenuta in questa nuova versione della riforma concerne la proprietà degli assets. Nel testo del disegno di legge, come anche nelle leggi di riforma succedutesi negli anni precedenti, veniva sempre affermata la proprietà pubblica delle reti e degli altri beni pubblici strumentali all’esercizio. Questa disposizione rispondeva a motivazioni diverse la più rilevante delle quali, in una prospettiva di liberalizzazione, era favorire la concorrenza rimuovendo “barriere” in entrata e in uscita. Sempre nella medesima logica si prevedeva una disciplina di “subentro” agli impianti in caso di cambiamento del gestore. In particolare si stabiliva che nei bandi di gara e nei capitolati gli enti locali avrebbero dovuto prevedere la retrocessione dei beni e le attrezzature funzionali al servizio dal gestore uscente a quello subentrante previa corresponsione al primo di un indennizzo pari al costo rivalutato delle dotazioni patrimoniali al netto degli ammortamenti effettuati e degli eventuali contributi pubblici a fondo perduto. Nell’articolo 101 l’impostazione muta radicalmente. In esso, infatti, viene meno il riferimento alla proprietà pubblica degli assets e ci si limita a vincolarli all’uso pubblico e a garantire la loro disponibilità al fine dell’affidamento della gestione. Queste misure, in effetti, non sembrano sufficienti a promuovere la concorrenza soprattutto perché, in assenza di indicazioni relative alle condizioni e al prezzo di accesso alle reti, si mantengono ai proprietari degli assets, che la legge non esclude possano essere anche gestori del servizio, posizioni di vantaggio con il rischio di comportamenti strategici  e anticoncorrenziali.

Le disposizioni contenute nell’articolo 101, infine, non prevedono una vera e propria disciplina transitoria. In esse ci si limita a stabilire  che gli affidamenti diretti in essere cessano alla scadenza contrattuale o di legge. A tale riguardo occorre considerare che non tutte le norme settoriali contengono un termine per gli affidamenti, inoltre che non tutti gli affidamenti prevedono una scadenza (in particolare le aziende speciali  hanno durata indefinita), infine che le scadenze contrattuali sono le più diverse e, in numerosi casi (in assenza di indicazioni legislative), possono avere un’estensione pluridecennale. Al riguardo si deve  anche aggiungere che in un altro punto del provvedimento viene disposto che, a partire dalla fine del 2008, i soggetti titolari di affidamenti diretti non possano acquisire servizi ulteriori e non possano operare in ambiti territoriali diversi né direttamente, né mediante proprie controllate o partecipate. La posizione di affidatario diretto, che comprende quanti non siano stati selezionati con gara e le aziende miste non conformi alle condizioni fissate per la scelta del partner, riguarderà la grande maggioranza delle imprese attualmente operanti nel settore le quali, in assenza di modifiche della norma, subiranno un repentino congelamento del mercato e, per di più (ove non venga ripristinata la disposizione oggi in vigore relativa alla possibilità da parte degli affidatari diretti di partecipare alle prime gare aventi per oggetto i servizi forniti dalle società partecipanti alla gara stessa) rischieranno di essere escluse dalla competizione al termine dell’affidamento.

Il più recente (ma certamente non conclusivo) episodio di questo “serial” normativo si è avuto con l’accantonamento dell’emendamento dal testo della Finanziaria approvato dalla Commissione Bilancio della Camera e approdato in Aula. Non è ancora chiaro quale sarà l’esito della vicenda; se cioè queste norme verranno inserite in uno dei maxiemendamenti su cui il Governo, presumibilmente, porrà la fiducia sulla manovra finanziaria o se, al contrario, si deciderà di tornare al disegno di legge delega giacente nell’Aula del Senato, avviandone l’iter di approvazione. Ciò contribuisce ad alimentare, se possibile, la già notevole incertezza e ad aggiungere ulteriori elementi di confusione accentuando l’instabilità di prospettive in cui vengono a trovarsi gli enti locali e gli operatori del settore.  Come si è sottolineato, infatti, tra il disegno di legge trasmesso all’Aula del Senato e il testo dell’emendamento ci sono sensibili differenze di merito, soprattutto in materia di affidamento alle società miste e di disciplina dell’azienda speciale. Di conseguenza scegliere una strada (l’emendamento) o l’altra (il disegno di legge delega) non è solo un fatto procedurale ma di indirizzo della riforma. La domanda che tutti si pongono è se tutto questo rincorrersi di proposte e tutti questi ravvicinati mutamenti di rotta porteranno alla fine a qualche risultato concreto. Da più parti ci si interroga su cosa sia preferibile: se cioè sia meglio mantenere la disciplina ereditata dalla precedente legislatura che la giurisprudenza comunitaria e quella nazionale hanno contribuito a precisare concentrandosi sulle leggi di settore, oppure se convenga operare sul disegno di legge Lanzillotta modificandolo anche profondamente in alcune parti (soprattutto quelle intervenute in seguito all’accordo di maggioranza) che lo rendono incoerente rispetto alla sua impostazione generale.

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