L’INCIDENZA DEL DIRITTO COMUNITARIO SULLE NOZIONI DI A) ORGANISMO DI DIRITTO PUBBLICO; B) IMPRESA PUBBLICA. GLI ENTI PUBBLICI IN FORMA SOCIETARIA.
1. Premessa. 2. La normativa comunitaria di riferimento.La normativa di recepimento 3. Le nozioni di “organismo di diritto pubblico” e di “impresa pubblica”. 4. La rilevanza di tali definizioni 5. Gli enti pubblici in forma societaria. Il Regolamento CE 2223/96 6. Organismo di diritto pubblico: i requisiti 6.1 La personalità giuridica 6.2 L’influenza pubblica dominante. Il concetto di “ finanziamento pubblico” 6.3 Le esigenze di interesse generale, aventi carattere non industriale o commerciale 6.4 7 L’impresa pubblica 8 Due casi particolarmente problematici. 8.1. Grandi Stazioni SpA 8.2 RAI SpA
PARTE I
La ricostruzione.
1. Premessa.
E’ dato immediatamente percepibile anche dal cittadino che non sia operatore del diritto che il diritto comunitario penetra sempre più nel nostro ordinamento, incidendo sia sul piano legislativo (è sufficiente fare riferimento alla prevalenza del diritto comunitario sul diritto interno, o all’obbligo di recepimento delle direttive, o, ancora, alle direttive self executing e all’immediata applicabilità dei regolamenti comunitari), sia sul piano amministrativo, sia sul piano giudiziario.
I principi di libertà economica, di libera circolazione delle merci, di libertà di stabilimento, di libera prestazione dei servizi, di parità di trattamento, di imparzialità e di trasparenza dell’azione amministrativa sono principi che hanno trovato graduale applicazione nelle direttive via via emanate in tema di appalti pubblici, il quale è quello maggiormente interessato dalle nozioni che andremo in questa sede ad esaminare, ma sono soprattutto principi che, ancor prima che dalle direttive, derivavano dalle norme di diritto primario contenute nel Trattato, suscettibili pertanto di applicazione anche al di fuori dell’ambito coperto dalle specifiche direttive.
2. La normativa comunitaria di riferimento.La normativa di recepimento.
La normativa comunitaria, oltre al Trattato istitutivo della Comunità Europea (per come modificato di recente dal Trattato di Lisbona), consiste nella direttiva 2004/17/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 31 marzo 2004, che coordina le procedure di appalto degli enti erogatori di acqua e di energia, degli enti che forniscono servizi di trasporto e servizi postali; nella direttiva 2004/18/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 31 marzo 2004, che coordina le procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di lavori, di forniture e di servizi; nel regolamento (CE) 1874/2004 della Commissione, del 28 ottobre 2004, che modifica le direttive 2004/17/CE e 2004/18/CE del Parlamento europeo e del Consiglio riguardo alle soglie di applicazione in materia di procedure di aggiudicazione degli appalti; nella direttiva 2006/111/CE della Commissione del 16 novembre 2006 relativa alla trasparenza delle relazioni finanziarie tra gli Stati membri e le loro imprese pubbliche e alla trasparenza finanziaria all'interno di talune imprese.
La normativa comunitaria in materia di appalti sopra richiamata è stata recepita, in attuazione delle legge delega n. 62/05, con il d. lgs. 12 aprile 2006, n. 163 (c.d. Codice contratti).
3. Le nozioni di organismo di diritto pubblico e di impresa pubblica
Così tracciato il dato normativo di riferimento, le nozioni cui sopra si accennava al punto 1 sono quelle di “organismo di diritto pubblico” e “impresa pubblica”.
Della prima nozione abbiamo la seguente definizione normativa: l’art. 1, c.9, della direttiva 2004/18 dispone che “Per «organismo di diritto pubblico» s'intende qualsiasi organismo: a) istituito per soddisfare specificatamente esigenze di interesse generale, aventi carattere non industriale o commerciale, b) dotato di personalità giuridica, e c) la cui attività sia finanziata in modo maggioritario dallo Stato, dagli enti pubblici territoriali o da altri organismi di diritto pubblico oppure la cui gestione sia soggetta al controllo di questi ultimi oppure il cui organo d'amministrazione, di direzione o di vigilanza sia costituito da membri dei quali più della metà è designata dallo Stato, dagli enti pubblici territoriali o da altri organismi di diritto pubblico.”. Tale definizione è stata ripresa (quasi) pedissequamente dall’art. 3, c. 26, d .lgs. 163/06, con l’aggiunta, a fianco del sostantivo (con significato figurato) “organismo”, della specificazione “anche in forma societaria” assente nella normativa comunitaria recepita.
Tale soggiunta deve ritenersi derivare dagli arresti in materia della giurisprudenza comunitaria (Corte Giustizia, sez. I, sentenza 10 novembre 1998, resa nella causa C-360/96, BFI Holding BV), secondo la quale “la nozione di bisogni di interesse generale aventi carattere non industriale o commerciale non esclude quei bisogni che siano o possano essere parimenti soddisfatti da imprese private” e, conseguentemente, che(Corte Giustizia, sez. VI, sentenza 15 maggio 2003, resa nella causa C-214/00, Commissione/Spagna) “il carattere di diritto privato di un organismo non costituisce un criterio atto ad escludere la sua qualificazione quale amministrazione aggiudicatrice” (in particolare, quale organismo di diritto pubblico) ai sensi dell’art. 1, c.9 , direttiva 2004/18.
Il comma 27 del medesimo art. 3 prevede poi – in analogia con la direttiva recepita – che “Gli elenchi, non tassativi, degli organismi e delle categorie di organismi di diritto pubblico che soddisfano detti requisiti figurano nell'allegato III, al fine dell'applicazione delle disposizioni delle parti I, II, IV e V.”.
Quanto alla seconda (impresa pubblica), abbiamo numerosi richiami nella normativa comunitaria.
Già l’art. 106 (ex art. 86) del Trattato menziona le “imprese pubbliche”, senza però descriverne neanche gli indici di riconoscibilità
Una definizione più dettagliata la ritroviamo nell’art. 2, c.1, lett. b) della direttiva 2004/17 – ove si legge che come imprese pubbliche devono intendersi le imprese “su cui le amministrazioni aggiudicatrici possono esercitare, direttamente o indirettamente, un’influenza dominante perché ne sono proprietarie, vi hanno una partecipazione finanziaria, o in virtù di norme che disciplinano le imprese in questione” - nonché nell’art. 2 della direttiva 2006/111, ove si legge che per impresa pubblica deve intendersi “ ogni impresa nei confronti della quale i poteri pubblici possano esercitare, direttamente o indirettamente, un'influenza dominante per ragioni di proprietà, di partecipazione finanziaria o della normativa che la disciplina”.
Secondo la medesima normativa, l’influenza dominante è presunta in caso di detenzione della maggioranza del capitale dell’impresa, di controllo della maggioranza dei voti cui danno diritto le azioni emesse dall’impresa o di diritto di nominare più della metà dei componenti degli organi di amministrazione o di vigilanza. La categoria sopra definita comprende pertanto non soltanto le aziende autonome e gli enti pubblici economici, ma anche le società di capitali a prevalente partecipazione pubblica o comunque a dominanza pubblica.
Tale definizione è stata poi ripresa pedissequamente dall’art. 3, c. 28, d .lgs. 163/06; il c. 29 del medesimo articolo individua le imprese pubbliche tra gli enti aggiudicatori, mentre il c. 30 dispone che “Gli elenchi, non limitativi, degli enti aggiudicatori ai fini dell'applicazione della parte III, figurano nell'allegato VI”.
4. La rilevanza di tali definizioni.
Tali nozioni assumono estrema rilevanza in diversi settori.
Innanzi tutto, in sede di delimitazione dell’ambito soggettivo di operatività della disciplina comunitaria (e nazionale di recepimento) relativa alle procedure di aggiudicazione degli appalti: la qualificazione del singolo ente in termini di organismo di diritto pubblico (o di impresa pubblica, per gli appalti nei settori speciali) comporta quindi, in primo luogo, il doveroso rispetto dei principi del Trattato e delle direttive comunitarie in tema di appalti.
Altra questione di indubbia rilevanza è quella per la quale, dalla qualificazione della stazione appaltante in termini di organismo di diritto pubblico( o dell’ente aggiudicatore come impresa pubblica, per gli appalti relativi ai settori speciali), come tali tenuti ad osservare la disciplina comunitaria per l’affidamento dell’appalto, deriva il radicarsi della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo quanto al contenzioso non afferente alla fase dello svolgersi del rapporto contrattuale.
Infatti, alla luce dell’art. 6 l. 205/00, esclusivo presupposto fondante la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo è quello della sottoposizione del soggetto alle norme, di fonte comunitaria, nazionale o regionale, che impongono l’osservanza di procedure concorsuali per l’affidamento dell’appalto.
Di notevole rilevanza, a tal proposito, pare l’art. 238 del d.lgs. 163/06: infatti l’obbligo per gli enti aggiudicatori che siano stazioni appaltanti, in relazione agli appalti sottosoglia nei settori speciali, di applicare (c.1) la parte III del Codice, salve le previsioni dei commi da 2 a 6 del medesimo articolo, nonché la soggezione delle imprese pubbliche, in relazione a tali appalti, alla disciplina stabilita nei rispettivi regolamenti, “la quale, comunque, deve essere conforme ai principi dettati dal Trattato CE a tutela della concorrenza”(c.7), anche alla luce della circostanza che i principi di evidenza pubblica (principi di non discriminazione, di parità di trattamento, di trasparenza, di mutuo riconoscimento e proporzionalità) dettati in via diretta e self-executing dal Trattato CEE si applicano anche alle fattispecie non interessate da specifiche disposizioni comunitarie e/o nazionali(sia sopra soglia - Corte Giustizia, Grande Sezione, sentenza 13 novembre 2007, causa C-507/03 - che sottosoglia - sentenza 21.2.08, causa C 412/04, Commissione /Italia, punti 66, 81 – 82; TAR Calabria, sez. RC, sentenza n° 330/07, nonché considerato n° 9 della Direttiva 2004/17), sembra radicare definitivamente la giurisdizione del G.A. anche in tali ipotesi.
Infine, proseguendo in questa sommaria indicazione dell’implicazioni operative derivanti dalla verifica della effettiva estensione della nozione in esame, deve aversi riguardo al settore dell’accesso agli atti di gara.
In forza dell’art. 23, l. n. 241/1990, infatti, sono tenuti ad assicurare l’ostensione degli atti solo talune tipologie di soggetti, tra cui innanzitutto le pubbliche amministrazioni: se si ritiene, come si dirà, che a certe condizioni la nozione di pubblica amministrazione debba essere oramai perimetrata tenendo nella dovuta considerazione le sollecitazioni derivanti dal diritto europeo e dalle sue accezioni di amministrazione pubblica, deve concludersi nel senso che anche gli organismi di diritto pubblico e le imprese pubbliche, ancorché formalmente privati per il diritto nazionale, debbano soggiacere alla normativa in tema di accesso.
A tale conclusione, già raggiunta in sede giurisprudenziale, è di recente pervenuto lo stesso legislatore nel modificare la legge n. 241/1990. L’art. 22, per come riformulato dalla l. 15/05, nel delimitare l’ambito di operatività della disciplina in tema di accesso, fornisce la nozione di “pubblica amministrazione” cui riconduce «tutti i soggetti di diritto pubblico e i soggetti di diritto privato limitatamente alla loro attività di pubblico interesse disciplinata dal diritto nazionale o comunitario», mentre il c.1 ter dell’art. 1 della medesima legge prevede che i «soggetti privati preposti all'esercizio di attività amministrative assicurano il rispetto dei principi di cui al comma 1»: se ne inferisce, allora, che anche gli organismi di diritto pubblico e le imprese pubbliche, limitatamente all’attività che espletano in tale qualità, in specie quella di stazioni appaltanti e di enti aggiudicatori, dovranno necessariamente assoggettarsi alla disciplina in tema di ostensione degli atti.
5. Gli enti pubblici in forma societaria. Il Regolamento CE 2223/96
Come noto, numerose Pubbliche Amministrazioni procedono alla costituzione di società a capitale totale o maggioritario pubblico alle quali affidano la gestione di servizi pubblici ed anche di alcune attività proprie dell’ente costitutore. In questo modo viene creato un ente che pur avendo natura formale di società di capitali, presenta le caratteristiche proprie di un ente pubblico.
Il fenomeno non è nuovo se solo si rammenta che nei primi anni novanta del secolo ventesimo, nel periodo caratterizzato da ampie privatizzazioni delle attività economiche svolte da enti pubblici, la giurisprudenza costituzionale e la dottrina più avveduta hanno chiarito che nonostante la forma societaria assunta dagli enti pubblici trasformati in società per azioni occorreva distinguere fra privatizzazioni effettive caratterizzate dal passaggio della proprietà e della gestione a soggetti privati e privatizzazioni solo formali che implicavano la permanenza della proprietà pubblica e dell’utilizzo di risorse della collettività (C. cost. 28 dicembre 1993, n. 466).
Esempio particolarmente rilevante si rinviene nelle c.d. società finanziarie regionali, strumenti operativi dell'amministrazione pubblica, diffusamente utilizzati da molte regioni, le quali, sul modello dell'organizzazione amministrativa dello Stato, si servono di istituzioni del diritto privato, come, appunto, le società per azioni, al fine di realizzare, in via indiretta, finalità pubbliche connesse all'esercizio delle proprie competenze.
Inoltre, nel caso di specie, il profilo della partecipazione azionaria maggioritaria rientra nella sfera dei rapporti tra regione e società privata che connotano in modo essenziale la strumentalità di quest'ultima rispetto alla amministrazione regionale: infatti, intanto la predetta società finanziaria può essere ritenuta uno strumento operativo (ergo, Ente strumentale) della regione, in quanto quest'ultima possegga o sottoscriva la maggioranza o la totalità delle azioni societarie. (C. Cost.., sent. 35/92).
Alla semplice costituzione di una società per azioni o a responsabilità limitata da parte di un ente pubblico non consegue quindi necessariamente la natura privata della società, poiché la disciplina societaria e la natura dell’organismo devono essere verificati su due piani diversi. Il primo attiene alle regole di funzionamento dell’ente e il secondo alle qualità che presenta il soggetto e alla conseguente posizione che occupa nel sistema.
Quanto al primo aspetto l’esame della disciplina societaria contenuta nel codice civile mette in luce che non è previsto che le società costituite da enti pubblici abbiano regole di gestione e funzionamento peculiari (se non ad alcuni limitati effetti, in relazione alla nomina degli amministratori - artt. 2449 e 2450 cod. civ. - ora pure da rivedere alla luce della recente pronuncia della Corte di Giustizia, I Sezione, 6 dicembre 2007, Federconsumatori). Conseguentemente, si applica la disciplina ordinaria.
Quanto al secondo aspetto, a seguito della diffusione che negli ultimi anni ha incontrato all’interno dell’Amministrazione il modulo societario, la giurisprudenza è ormai unanime nel riconoscere che il criterio da utilizzare per individuare la natura pubblica o privata di un organismo non è dato dalla forma rivestita (ente o società), bensì dalle risorse utilizzate nello svolgimento della sua attività, con la conseguenza che anche in presenza della forma societaria se l’ente utilizza risorse pubbliche è da considerare a tutti gli effetti ente pubblico (Cass. civ., s.u., 22 dicembre 2003, n. 19667; C. conti, I, 3 novembre 2005, n. 356; Cons. St., VI, 23 gennaio 2006, n. 182; id, IV, 31 gennaio 2006, n. 308); altro criterio valorizzato di recente (Cass. civ., SS. UU, 12 marzo 2007, n. 5593, emessa in sede di impugnazione della sentenza n. 308/06 del Consiglio di Stato sopra richiamata) è quello relativo alla natura delle finalità assegnate all'ente e delle norme che ne disciplinano il perseguimento.
Peraltro, la stessa Corte costituzionale in relazione alla disciplina legislativa di una società le cui azioni erano interamente possedute dal Ministero dell’Economia ha affermato che la totale partecipazione pubblica unita "alla predeterminazione eteronoma dei compiti e delle funzioni pubbliche che la stessa società è chiamata a perseguire" implica che la società presenti "tutti i caratteri propri dell’ente strumentale" (Corte cost. 19 dicembre, 2003, n. 363) e, pertanto, sia da equiparare agli altri enti pubblici.
A livello comunitario, con il Regolamento CE 2223/96 del consiglio, in data 25 giugno 1996, relativo al sistema europeo dei conti nazionali e regionali nella comunità (SEC 95), il Consiglio della Comunità economica europea ha modificato il Sistema Statistico europeo, varando nuove definizioni e regole di calcolo delle grandezze relative alla finanza pubblica denominate SEC 95, ed applicabili in ogni Stato.
All’interno del SEC 95, che ha valore normativo primario poiché è stato approvato, come si è detto con un regolamento del Consiglio delle comunità europee, si ritrova una precisa nozione di Amministrazione pubblica (seppur al limitato fine della disciplina settoriale esaminata), laddove è precisato che sono da considerare Amministrazioni Pubbliche "tutte le unità istituzionali che agiscono da produttori di beni e servizi non destinati alla vendita, la cui produzione è destinata a consumi collettivi e individuali ed è finanziata in prevalenza da versamenti obbligatori effettuati da unità appartenenti ad altri settori e/o tutte le unità istituzionali la cui funzione principale consiste nella redistribuzione del reddito e delle ricchezze del paese" (punto 2.68 del SEC 95).
Deve considerarsi ente pubblico, pertanto, qualsiasi soggetto che indipendentemente dalla forma giuridica assunta utilizzi in prevalenza per lo svolgimento dell’attività per cui è costituito risorse pubbliche, anziché private.
Ne consegue che, anche a livello europeo, al fine di individuare la natura di un ente non è rilevante la forma giuridica che viene data al medesimo, ma le risorse che utilizza per lo svolgimento della sua attività.
6. Organismo di diritto pubblico: i requisiti.
Già al capitolo 3 abbiamo sommariamente indicato i requisiti previsti dalla normativa comunitaria e statale perché un ente possa essere qualificato come organismo di diritto pubblico.
Vedremo ora di esaminarli in dettaglio, anche alla luce della giurisprudenza comunitaria e nazionale formatasi in materia; a tal proposito è necessario precisare che, secondo il costante insegnamento del giudice comunitario (ex plurimis, Corte di giustizia, 15 gennaio 1998, C. 44/96, Mannesmann Anlagenbau Austria ) tali tre elementi devono essere compresenti, sicché in assenza di una sola di tali tre condizioni, un organismo non può essere considerato di diritto pubblico, e dunque amministrazione aggiudicatrice.
6.1 La personalità giuridica.
Il primo elemento (la personalità giuridica) è forse il meno problematico: il dibattito, infatti, attiene solo alla idoneità della nozione di organismo di diritto pubblico a ricomprendere, in uno alle persone giuridiche cui in ambito nazionale si riconosce natura pubblica, quelle di diritto privato.
A livello nazionale, la questione assume un rilievo applicativo centrale, attesa la diffusione degli organismi societari a partecipazione pubblica, tra cui, in particolare, quelli costituiti a livello locale in ossequio alla previsione normativa di cui all'art. 22 della L. n. 142/1990 (ora artt. 113 e 117 del D.Lgs. 267/2000), che ha espressamente riconosciuto tra le possibili forme di gestione dei servizi pubblici locali la « società per azione a prevalente capitale pubblico locale, qualora, in relazione alla natura o all'ambito territoriale del servizio da erogare, si renda necessaria la partecipazione di più soggetti pubblici o privati, nonché quelli provenienti dalla trasformazione dei precedenti enti pubblici economici.
Per quel che concerne gli appalti di servizi, in specie, deve, inoltre, prendersi atto della duplice rilevanza della questione della riconducibilità degli enti societari in esame alla nozione di organismo di diritto pubblico, dal momento che l'art. 8 della direttiva unificata n. 18/2004, in materia appunto di appalti pubblici di servizi, esenta dall'ambito di operatività della relativa disciplina quegli appalti «aggiudicati ad un ente che sia esso stesso un'amministrazione ai sensi dell'art. 1, lett. b), in base ad un diritto esclusivo di cui beneficia in virtù di disposizioni legislative, regolamentari o amministrative pubblicate, purché tali disposizioni siano compatibili con il Trattato», con la conseguenza che la nozione in esame assume importanza al fine di individuare, non solo i soggetti che, in sede di aggiudicazione di appalti a terzi, sono tenuti ad osservare le regole comunitarie dell'evidenza pubblica, ma anche quelli ai quali, in quanto qualificabili come «amministrazioni aggiudicatrici», possono essere direttamente affidati appalti di servizi da parte di altre «amministrazioni aggiudicatrici», senza che debbano rispettarsi le procedure dell'evidenza pubblica imposte dalla disciplina comunitaria.
Come già sopra chiarito sub 5), è fermo della giurisprudenza comunitaria l'indifferenza della veste societaria dell'ente in sede di verifica della sua incasellabilità nella nozione di organismo di diritto pubblico.
6.2 L’influenza pubblica dominante. Il concetto di “finanziamento pubblico”.
Quanto alla seconda delle tre condizioni richieste, le direttive comunitarie prevedono che l' «influenza dominante degli enti politici» possa desumersi da una serie di fattori indicati in forma alternativa e sostanzialmente coincidenti con gli indici di riconoscimento della pubblicità degli enti già elaborati, sia pure per altri fini, dagli ordinamenti dei singoli Stati membri, quali quelli del fine pubblico, delle sovvenzioni pubbliche aventi carattere maggioritario, del controllo pubblico, dell'ingerenza dello Stato o di altro ente pubblico nella nomina di un quorum qualificato di componenti degli organi di amministrazione, direzione o vigilanza degli organismi in questione: sennonché, tali parametri sintomatici della natura pubblica comunitaria sono utilizzabili “disgiuntamente”, nel senso che, se si prescinde dal fine pubblico, il cui perseguimento da parte del singolo organismo è sempre necessario perché lo stesso debba considerarsi sottoposto alla normativa in tema di appalti, la verifica della sussistenza di uno solo di essi è sufficiente perché il soggetto avente personalità giuridica possa e debba essere qualificato come organismo di diritto pubblico.
Per quel che attiene, in particolare, al requisito del finanziamento pubblico maggioritario dell’attività espletata dal soggetto di cui è in discussione la qualificabilità in termini di organismo di diritto pubblico, sono state esaminati in giurisprudenza distinti profili problematici, tra cui in specie quelli relativi alla nozione stessa di “finanziamento” e ai criteri alla cui stregua valutarne la prevalenza.
Di particolare rilevanza sul punto (anche per i possibili riflessi sulle vicende interne) è la recentissima sentenza della Corte di Giustizia, IV Sezione, 13 dicembre 2007, resa nella causa C-337/06 Bayerischer Rundfunk ed altri/ GEWA).
Tale fondamentale arresto giurisprudenziale parte dalla necessità di inquadrare la natura degli organismi pubblici radiotelevisi tedeschi,ed in particolare se gli stessi possano essere qualificati come organismi di diritto pubblico ai fini dell’applicazione della Direttiva 2004/18, risultando problematica a tal fine proprio la ravvisabilità del requisito del finanziamento prevalente.
Il problema principale che ha impegnato la Corte è stato valutare se – posta la sussistenza sia del requisito attinente alla personalità giuridica, sia dl requisito della preposizione al soddisfacimento di interessi di carattere generale aventi carattere non commerciale o industriale - la riscossione del canone possa essere considerato come “finanziamento” da parte dello Stato: dopo aver ribadito che, per quanto riguarda il carattere «maggioritario» del finanziamento, tale requisito è da ritenersi soddisfatto quando gli introiti provengono per più della metà dal canone, e che la normativa comunitaria non contiene alcuna precisazione sulle modalità secondo le quali deve essere effettuato il finanziamento oggetto di tale disposizione, per cui quest’ultima non impone che l’attività degli organismi considerati sia finanziata direttamente dallo Stato o da altro ente pubblico affinché sia soddisfatta la relativa condizione, ha precisato che la nozione di «finanziamento statale» deve essere soggetta ad interpretazione funzionale.
Ciò posto, la Corte ha rilevato che “si deve anzitutto rilevare che il canone che garantisce il finanziamento maggioritario dell’attività degli organismi in questione trae origine dalla convenzione sulla radiodiffusione, cioè da un atto dello Stato. Detto canone è previsto e imposto dalla legge e non deriva da una transazione contrattuale conclusa tra tali organismi e i consumatori. L’assoggettamento al detto canone è generato dal mero fatto della detenzione di un apparecchio ricevente e non costituisce la contropartita del godimento effettivo dei servizi forniti dagli organismi in questione.”.
Dopo aver rilevato che la determinazione dell’importo del canone non è neanch’essa il frutto di una relazione contrattuale tra gli organismi radiotelevisivi di cui alla causa principale e i consumatori, e che la riscossione del canone mediante avvisi di accertamento, cioè con un atto di imperio, la Corte ha precisato che “Le risorse così assegnate ai detti organismi sono, ai sensi della giurisprudenza della Corte, versate senza controprestazione specifica (v., in tal senso, sentenza University of Cambridge, cit., punti 23-25). Infatti, nessuna controprestazione contrattuale è collegata a tali versamenti, dal momento che né l’assoggettamento al canone, né il relativo importo costituiscono l’esito di un accordo tra gli organismi radiotelevisivi pubblici e i consumatori, i quali sono obbligati a versare il canone per la sola ragione di detenere un apparecchio ricevente, indipendentemente dall’utilizzo del servizio offerto dai detti organismi. Di conseguenza, i consumatori devono saldare il canone anche qualora non abbiano mai fatto ricorso ai servizi di tali organismi.”.
Da quanto sopra la Corte ha fatto discendere la conclusione che, non potendosi ravvisare differenze di valutazione a seconda che le risorse finanziarie transitino dal bilancio pubblico, in quanto lo Stato riscuote in primis il canone e mette poi i relativi introiti a disposizione degli organismi radiotelevisivi pubblici, o che lo Stato conceda ai detti organismi il diritto di riscuotere essi stessi il canone, e dovendosi ritenere che l’esistenza medesima degli organismi radiotelevisivi pubblici in questione dipenda dallo Stato(e che quindi il criterio della dipendenza di tali organismi rispetto allo Stato viene soddisfatto senza che sia richiesta una possibilità di influenza concreta da parte delle pubbliche autorità sulle varie decisioni degli organismi considerati in materia di aggiudicazione di appalti), gli organismi in questione sono sicuramente “organismi di diritto pubblico”.
Con riferimento, invece, al secondo elemento indiziante la sussistenza dell’influenza pubblica dominante, costituito dal “controllo della gestione”, si è sostenuto che a provare la dominanza pubblica è sufficiente il possesso da parte di soggetti pubblici della maggioranza delle quote azionarie dell’organismo societario. Si è pure escluso che il controllo cui si riferiscono le norme comunitarie e che consente, come si è detto, di individuare la sussistenza di una dominanza pubblica sull’organismo soggetto al controllo qualificandolo quale organismo di diritto pubblico, sarebbe esclusivamente quello esercitatile da parte di Enti pubblici con modi e forme diversi dalla partecipazione maggioritaria ed incentrati su controlli amministrativi sull’organizzazione e sull’attività della società. Ed invero, “nessun elemento testuale depone in tal senso e, semmai, la dizione ampia ed onnicomprensiva utilizzata per individuare il controllo sulla gestione nella norma qui in esame implica necessariamente che la forma più conosciuta ed applicata nell’ordinamento societario per assumere il controllo di una Società di capitali (quella appunto di acquisirne il pacchetto di maggioranza o comunque una quota di capitale sociale idonea ad assicurarne in concreto il controllo) fosse ben presente al legislatore comunitario. Del resto la funzione della disposizione in esame, di consentire a tutti gli operatori del settore idonei dal punto di vista morale, tecnico e finanziario, di accedere ai flussi finanziari pubblici (o attivati da Enti pubblici o ad essi equiparati) in condizioni di parità e secondo le regole della concorrenza, sarebbe vanificata se fosse consentito agli Enti pubblici di costituire Società con proprie partecipazioni maggioritarie non soggette all’obbligo di contrattare con procedure ad evidenza pubblica. Né si può trascurare la considerazione che la quota maggioritaria nella partecipazione societaria da parte di soggetti pubblici influenza in modo decisivo sia il finanziamento delle attività che la costituzione degli organi di vigilanza e direzione della Società stessa” (Consiglio di Stato, V, 22 agosto 2003, n. 4748)
6.3 Le esigenze di carattere generale, aventi carattere non industriale o commerciale.
La mera sottoposizione all'influenza dominante dell'ente politico non è ancora sufficiente perché il soggetto possa qualificarsi come organismo di diritto pubblico: accanto ai requisiti costituiti dal possesso della personalità giuridica e dalle situazioni strutturali o funzionali (finanziamento o controllo pubblico o composizione degli organi direttivi o di vigilanza) attestanti l'esistenza di uno stretto collegamento con l'organizzazione amministrativa pubblica, le direttive comunitarie richiedono, infatti, un elemento di tipo negativo, prescrivendo che la persona giuridica sia istituita « per soddisfare specificamente bisogni di interesse generale aventi carattere non industriale o commerciale».
È in relazione a tale ultimo criterio di delimitazione della nozione in questione che sono sorte le maggiori difficoltà di carattere esegetico, tanto a livello dottrinale quanto sul piano giurisprudenziale.
Il primo, serio problema deriva dall’utilizzo del sostantivo “istituzione”: da una interpretazione letterale, a tal fine dovrebbe valutarsi esclusivamente l’oggetto perseguito al momento dell’istituzione.
Tale specifica questione è stata risolta dalla Corte di Giustizia con la sentenza 12 dicembre 2002, nella causa C – 470/99, Universale Bau.
Nel caso all’esame della Corte, una società controllata in via maggioritaria dal Città di Vienna, ed inizialmente istituita per l’esercizio di impianti di smaltimento di rifiuti inquinanti, aveva in seguito acquisito tramite concessione dalla Città di Vienna la gestione del depuratore centrale.
La Corte, ribadita la necessità di interpretare secondo un criterio funzionale la normativa comunitaria di settore, ha osservato che “ l'effetto utile della direttiva 93/37 non sarebbe pienamente garantito se l'applicazione della disciplina della direttiva ad un organismo che soddisfa le condizioni enunciate all'art. 1, lett. b), secondo comma, potesse escludersi per il solo fatto che sin dalla sua istituzione non gli erano state affidate le attività di interesse generale aventi carattere non industriale o commerciale da esso svolte in pratica”, rilevando altresì l’irrilevanza a tal fine che gli statuti di un siffatto organismo siano stati o meno adattati per riflettere le modifiche effettive del suo campo di attività, anche in considerazione dell’assenza nella normativa comunitaria di qualsivoglia riferimento al fondamento giuridico delle attività dell'organismo interessato.
Ciò chiarito, la doverosa attenzione alla formulazione letterale induce inoltre ad osservare che la sola circostanza della istituzione dell'ente per la realizzazione di finalità di interesse generale non è ancora sufficiente perché lo stesso possa essere ricondotto alla nozione di organismo pubblico comunitario, essendo, al contrario, necessario verificare che non si tratti di persona giuridica istituzionalmente preordinata a realizzare interessi, sí di carattere generale, ma afferenti, tuttavia, allo sviluppo industriale o commerciale.
Infatti, tra le due peculiarità che devono contrassegnare i bisogni da soddisfare, ossia il carattere generale e quello non industriale o commerciale, quest'ultimo assume senza dubbio una maggiore importanza e pregnanza qualificatoria, se solo si considera che la necessaria funzionalizzazione degli organismi in questione al soddisfacimento di interessi di rilievo collettivo può normalmente ricavarsi già dall'altro indice definitorio costituito dalla sottoposizione dell'ente all'influenza dell'autorità pubblica: in assenza di tale finalizzazione dell'ente al perseguimento di un tal genere di interessi, infatti, non si comprenderebbero le ragioni dell'ingerenza dei pubblici poteri nella vita dell'organismo, sotto forma di finanziamento, controllo o composizione dei suoi organi di vertice.
Si è precisato in giurisprudenza che ai fini della qualificazione dell’ente aggiudicatore, il carattere non industriale o commerciale dell’attività deve ritenersi essenziale per la verifica della sussistenza del requisito sopra richiamato.
Infatti, non tutti i bisogni di interesse generale rivestono carattere non industriale o commerciale, avendo il legislatore comunitario distinto tra bisogni di interesse generale aventi carattere non industriale o commerciale e quelli, pure a connotazione generale, privi tuttavia del secondo requisito indicato.
Si impone pertanto un duplice e distinto accertamento; preliminarmente, occorre valutare che l’attività al cui perseguimento l’ente è preposto sia volta al soddisfacimento di un interesse di carattere generale, avendo un impatto sulla collettività; solo allorché tale prima verifica dia esito positivo, è necessario verificarne la natura non industriale o commerciale: indagine, questa, più delicata e complessa come emergerà dall’esame delle pronunce dei giudici comunitari e nazionali.
E’ questo, come rilevato, il tratto costitutivo in relazione al quale si sono registrate le più consistenti perplessità interpretative, di molto stemperatesi a seguito dei più recenti interventi del Giudice comunitario e del sostanziale allineamento che agli stessi ha mostrato di operare la più interessante giurisprudenza nazionale.
Di particolare rilevanza risulta la sentenza 27 febbraio 2003, causa C 373/00, resa nel caso Bestattung Wien GmbH.
Innanzi tutto, la Corte di Giustizia ha chiarito (punto 40) che “la nozione di «bisogni di interesse generale» figurante all'art. 1, lett. b) della direttiva 93/36 rientra nel diritto comunitario e deve essere interpretata tenendo conto del contesto in cui si inserisce tale articolo e della finalità perseguita dalla suddetta direttiva” e che quindi (punto 45) “ la nozione di «bisogni di interesse generale» di cui all'art. 1, lett. b), secondo comma, della direttiva 93/36 è una nozione autonoma del diritto comunitario”.
Ciò premesso, la Corte ha ribadito (punto 50) che “in genere costituiscono bisogni di interesse generale aventi carattere non industriale o commerciale, ai sensi dell'art. 1, lett. b), delle direttive comunitarie relative al coordinamento delle procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici, quei bisogni che, da un lato, sono soddisfatti in modo diverso dall'offerta di beni o servizi sul mercato e al cui soddisfacimento, d'altro lato, per motivi connessi all'interesse generale, lo Stato preferisce provvedere direttamente o con riguardo ai quali intende mantenere un'influenza determinante (v. citate sentenze BFI Holding, punti 50 e 51, e Agorà e Excelsior, punto 37)”.
Quanto, poi, al carattere non industriale o commerciale, la Corte – richiamando la propria giurisprudenza – ha ribadito (punto 61) che “pur non essendo del tutto irrilevante, l'esistenza di una concorrenza articolata non consente, di per sé, di dichiarare la mancanza di un bisogno di interesse generale avente carattere non industriale o commerciale”: nel caso di specie – si trattava dei servizi di pompe funebri, attività non riservata, ma subordinata a previa autorizzazione – la Corte ha dichiarato che, al fine della concreta soluzione, “Spetta al giudice a quo valutare l'esistenza o meno di tale bisogno tenendo conto di tutti gli elementi di diritto e di fatto pertinenti, quali i fatti che hanno presieduto alla creazione dell'organismo interessato e le condizioni in cui quest'ultimo esercita la sua attività..”.
Il percorso evolutivo della giurisprudenza comunitaria ha poi trovato ulteriore consolidamento nella sentenza 22 maggio 2003, C.18/2001, resa nel caso Taitotalo.
La Corte ha qui ribadito che la natura non industriale o commerciale dei bisogni istituzionalmente soddisfatti può dirsi sussistente allorché si tratti di bisogni che da un lato sono soddisfatti in modo diverso dall’offerta di servizi e beni sul mercato e, dall'altro, al cui soddisfacimento lo Stato preferisce provvedere direttamente ovvero con modalità organizzative tali da consentirgli di mantenere un’influenza dominante.
L’esame oggettivo suggerito dalla Corte – coincidente con quello appena delineato – prevede che si prendano in considerazione diversi fattori ed in particolare se il soggetto: a) opera in normali condizioni di mercato, b) persegue scopi di lucro e c) subisce le perdite commerciali connesse all’esercizio della sua attività.
In queste ultime ipotesi, si potrebbe invero difficilmente sostenere che i bisogni generali perseguiti abbiano carattere non industriale o commerciale.
Da questo approccio fattuale, consegue che non vi sarebbe alcuna ragione per applicare in questo ambito le direttive comunitarie in materia di appalti, proprio in considerazione del fatto che un soggetto che persegue uno scopo di lucro e che assume i rischi connessi alla propria attività non si impegnerà in un procedimento di aggiudicazione di un appalto a condizioni che non siano economicamente giustificate, non potendo quindi contravvenire ai principi di trasparenza e concorrenzialità che costituiscono il fondamento stesso della normativa comunitaria in materia di appalti pubblici.
6.4. E’ ipotizzabile un organismo di diritto pubblico “settoriale”?
E’ necessario a questo punto interrogarsi sul fatto se la sussistenza di ciascuno dei tre indicati elementi costitutivi sopra descritti implichi la qualificazione sempre ed in ogni caso dell’ente in termini di organismo di diritto pubblico, con conseguente assoggettamento dello stesso alle regole pubblicistiche di scelta del contraente, indipendentemente quindi dalle specifiche peculiarità del settore di attività al cui servizio sono destinate le prestazione che occorre reperire sul mercato.
E’ frequente, infatti, il caso di enti che, muniti di personalità giuridica e sottoposti all’influenza pubblica dominante, svolgono molteplici attività, alcune delle quali soltanto volte al soddisfacimento di bisogni generali a carattere non industriale o commerciale: si tratta di verificare se la disciplina pubblicistica debba essere osservata anche quando la prestazione da affidare sia strumentale all’espletamento di una tipologia di attività non volta al soddisfacimento dei bisogni.
In senso contrario alla “settorialità” si è espressa la Corte di Giustizia nel noto caso Mannesmann, già sopra richiamato (vedi anche, in senso conforme a tale pronuncia, C. Giust. CE, 18 novembre 2004, in C-126/03, Comune di Monaco di Baviera; id., 11 gennaio 2005, in C-26/03, Stadt Halle.).
Ad avviso della Corte, infatti, al fine della qualificazione di un ente come organismo di diritto pubblico non è necessario che l’ente abbia in via esclusiva o prevalente lo scopo di soddisfare bisogni di interesse generale non aventi carattere commerciale o industriale, ben potendo perseguire, oltre che tale scopo, anche (se del caso in via prevalente) quello di soddisfare interessi con carattere commerciale o industriale; secondo la Corte, infatti, «lo status di organismo di diritto pubblico non dipende dall’importanza relativa, nell’attività dell’organismo medesimo, del soddisfacimento di bisogni di interesse generale aventi carattere non industriale o commerciale».
In particolare, osserva la Corte nella richiamata pronuncia che la condizione posta dalla direttiva, «secondo cui l’organismo dev’essere stato istituito per soddisfare «specificatamente» bisogni di interesse generale aventi carattere non industriale o commerciale non implica che esso sia incaricato unicamente di soddisfare bisogni del genere», e dunque l’ente è da qualificare organismo di diritto pubblico anche se «la soddisfazione dei bisogni di interesse generale costituisce solo una parte relativamente poco rilevante delle attività effettivamente svolte» dall’Ente.
Ne consegue, nel ragionamento della Corte, che un Ente va qualificato organismo di diritto pubblico, con conseguente soggezione al diritto comunitario degli appalti, anche se svolge attività promiscue e molteplici, vale a dire sia attività volte a soddisfare un bisogno di interesse generale di carattere non commerciale o industriale, sia attività con tale carattere.
«A questo proposito, occorre ricordare che, come si è detto al punto 26 della presente sentenza, lo stesso testo dell’art. 1, punto b), 2° comma, della direttiva 93/37 non esclude che un’amministrazione aggiudicatrice, oltre al suo compito di soddisfare specificamente bisogni di interesse generale aventi carattere non industriale o commerciale, possa esercitare altre attività. Per quanto riguarda siffatte attività, si deve constatare anzitutto che l’art. 1, punto a), della direttiva non distingue tra gli appalti pubblici di lavori aggiudicati da un’amministrazione aggiudicatrice per adempiere il suo compito di soddisfare bisogni di interesse generale e quelli che non hanno alcun rapporto con tale compito. La mancanza di una distinzione del genere si spiega con la finalità della direttiva 93/37, che mira ad escludere il rischio che gli offerenti o candidati nazionali siano preferiti nell’attribuzione di appalti da parte delle amministrazioni aggiudicatrici. Infine, un’interpretazione dell’art. 1, punto b), 2° comma, primo trattino, della direttiva 93/37 secondo la quale la sua applicazione varia in base alla parte relativa, più o meno ampia, dell’attività esercitata per soddisfare bisogni aventi carattere non industriale o commerciale sarebbe in contrasto col principio della certezza del diritto, il quale esige che una norma comunitaria sia chiara e che la sua applicazione sia prevedibile per tutti gli interessati».
Tale impostazione sembra aver trovato recente, definitiva conferma: partendo anche dall’esame del testo della Direttiva 2004/18, il cui venticinquesimo ‘considerando’ indica, a titolo esemplificativo, alla sua penultima frase, che l’esclusione dell’applicazione di tale direttiva non dovrebbe ricomprendere la fornitura del materiale tecnico necessario alla produzione, alla coproduzione e alla trasmissione di tali programmi, la Corte di Giustizia ha affermato che “sono interamente soggetti alle disposizioni comunitarie gli appalti pubblici di servizi estranei alle attività riconducibili alla realizzazione della missione di servizio pubblico propriamente detta degli organismi radiotelevisivi pubblici”(sentenza Bayerische, cit, punto 64).
In sostanza, la Corte di Giustizia ha definitivamente optato per la tesi secondo la quale, una volta acclarata la qualificabilità dell’ente come organismo di diritto pubblico, deve sempre ritenersi dovuto il rispetto della normativa comunitaria in tema di appalti, non solo per le attività volte a soddisfare un bisogno generale di carattere non commerciale o industriale, ma anche per le eventuali ulteriori attività propriamente commerciali o industriali: e, tanto, sia in base al tenore letterale delle direttive appalti, che non distinguono tra appalti aggiudicati da un’amministrazione aggiudicatrice per adempiere il suo compito volto a soddisfare bisogni di interesse generale e quelli che con tale funzione non hanno alcuna attinenza, sia in base al principio della certezza del diritto, che esige che una norma comunitaria sia chiara e che la sua applicazione sia prevedibile per tutti gli interessati.
7. L’impresa pubblica
A differenza di quanto previsto per l’organismo di diritto pubblico, nella definizione di impresa pubblica testualmente riportata nel cap. 3 ( e, quindi nell’analisi sottesa alla sua individuazione), si prescinde totalmente dal fine perseguito, riconoscendosi invece valenza decisiva al legame tra l’impresa e la pubblica amministrazione “dominante”.
In particolare, secondo la medesima normativa, l’influenza dominante è presunta in caso di detenzione della maggioranza del capitale dell’impresa, di controllo della maggioranza dei voti cui danno diritto le azioni emesse dall’impresa o di diritto di nominare più della metà dei componenti degli organi di amministrazione o di vigilanza.
La categoria sopra definita comprende pertanto non soltanto le aziende autonome e gli enti pubblici economici, ma anche le società di capitali a prevalente partecipazione pubblica o comunque a dominanza pubblica.
Per vero, secondo la costante giurisprudenza comunitaria, emanata però nell’ambito del diritto della concorrenza, la nozione di “impresa” abbraccia <qualsiasi soggetto che eserciti un’attività economica, a prescindere dallo status giuridico di tale soggetto e dalle sue modalità di finanziamento (v., in particolare, sentenze 23 aprile 1991, causa C-41/90, Höfner e Elser, Racc. pag. I-1979, punto 21; 21 settembre 1999, causa C-67/96, Albany, Racc. pag. I-5751, punto 77; 12 settembre 2000, cause riunite da C-180/98 a C-184/98, Pavlov e a., Racc. pag. I-6451, punto 74, e 10 gennaio 2006, causa C-222/04, Cassa di Risparmio di Firenze e a., Racc. pag. I-289, punto 107)>; costituisce, in particolare, “attività economica” <qualsiasi attività che consista nell’offrire beni o servizi su un determinato mercato (sentenze 16 giugno 1987, causa 118/85, Commissione/Italia, Racc. pag. 2599, punto 7; 18 giugno 1998, causa C-35/96, Commissione /Italia, Racc. pag. I-3851, punto 36; Pavlov e a., cit., punto 75, e Cassa di Risparmio di Firenze e a., cit., punto 108)>; infine, “la circostanza che ad un soggetto siano attribuiti taluni compiti di interesse generale non può impedire che le attività di cui trattasi siano considerate attività economiche (v., in tal senso, sentenza 25 ottobre 2001, causa C-475/99, Ambulanz Glöckner, Racc. pag. I-8089, punto 21)” (Corte Giustizia, II Sezione, sentenza 23 marzo 2006 nella causa C-237/04, Enirisorse).
La Corte di Giustizia, quindi, ha qualificato come impresa anche un ente pubblico che, oltre a perseguire scopi generali, svolga attività di tipo economico e lucrativo con i primi incompatibili (Corte Giust. Ce, 24 ottobre 2002, in C-82/01).
Deve però ribadirsi quanto già più volte sopra evidenziato in ordine alla settorialità delle analisi effettuate dalla Corte, e dalla pertanto conseguente non piena sovrapponibilità dei concetti mutuabili dalla giurisprudenza di settore.
Pertanto, l’applicazione della direttiva n. 17/2004, anziché di quella n. 18/2004(e, quindi, la limitata applicazione del d. lgs. 165/06), comporta che l’assoggettamento alle procedure pubblicistiche delineate dalla disciplina europea è subordinata alla sola qualificazione dell’ente affidante in termini esclusivi di impresa pubblica, senza che sia necessario pertanto acclarare la sussistenza della sua istituzionale funzionalizzazione al soddisfacimento di bisogni generali a carattere non commerciale o industriale: requisito teleologico, quest’ultimo, proprio soltanto del differente e distinto concetto di organismo di diritto pubblico.
8 Due casi particolarmente problematici.
Si ritiene, a questo punto, particolarmente utile passare al vaglio due casi particolarmente problematici che hanno impegnato i Giudici italiani
8.1 Il “caso” Grandi Stazioni SpA”.
Emblematico delle difficoltà (per vero, soprattutto interne) di addivenire ad un concetto condiviso di impresa pubblica e di organismo di diritto pubblico è il caso della Società Grandi Stazioni SpA.
8.1.1. Le due tesi a confronto
I TESI: la società non è inquadrabile né come impresa pubblica né come organismo di diritto pubblico.
Gli argomenti
Con una prima pronuncia (Cons. Stato, sez. V, 6 ottobre 2003, n. 5902, confermata da Cass. civ., sez. Unite 4 maggio 2006, n. 10218) in relazione ad appalto di lavori edili relativi ad un impianto terminale di trasporto, il Consiglio di Stato ha dichiarato il difetto di giurisdizione del G.A.
1) L’inapplicabilità del d. lgs. 158/95
Pur dando esplicitamente atto della circostanza che l’art. 4 dello Statuto reca come descrizione degli scopi della società quella per la quale essa ha per oggetto “la gestione, in qualunque forma e modalità, la riqualificazione e la valorizzazione – anche attraverso lo studio, la promozione, l’attuazione e la gestione di interventi destinati al miglioramento funzionale e la diversificazione – di complessi di stazione e infrastrutture nodali di trasporto.” il Collegio ha ritenuto – facendo particolare riferimento all’indicazione generica di “complessi di stazione” - che la formulazione “Non fa rigorosamente propendere per la contemplazione unicamente di impianti nei quali si effettuano le operazioni relative al movimento dei viaggiatori e delle merci per ferrovia e ad una parte di quelle inerenti alla circolazione dei treni”; dalla assunta mancanza di connessione di tali immobili con la “stazione” vera a propria, è stata fatta discendere l’inapplicabilità del D. Lgs. 158/95 (afferente agli appalti nei settori ex esclusi), non operando la società in alcuno di tali settori.
E’ appena il caso di rilevare come l’operazione effettuata operi un frazionamento dell’oggetto sociale, considerando solo l’adibizione dei locali oggetto di appalto: non è revocabile in dubbio che la “mission” della società debba essere valutata complessivamente al fine di valutarne le ricadute sulla qualificazione societaria.
Proprio le Sezioni Unite (Cass. civ., SS. UU., 12 maggio 2005, n. 9940) in precedenza, in considerazione della circostanza che gli interporti costituiscono nel loro insieme una delle infrastrutture fondamentali per il sistema nazionale dei trasporti, ha qualificato come organismo di diritto pubblico la Società Interporto Padova Spa, la quale ha come oggetto sociale la realizzazione e l'esercizio delle infrastrutture degli interporti, affidatele in concessione.
2) L’irriducibilità della società allo schema di organismo di diritto pubblico
Una volta esclusa la riconducibilità dell’appalto al d. lgs. 158/95, e ritenuto invece riconducibile l’appalto alla L. 109/94 (nella formulazione vigente all’epoca dell’indizione dei lavori, cioè al 2001), il Collegio si è fatto carico di valutare la possibile considerazione della Società come organismo di diritto pubblico o come impresa pubblica.
Quanto alla prima definizione, il Collegio - riconosciuta la pianna sussistenza sia del requisito della personalità giuridica che quello del finanziamento pubblico prevalente - ha escluso la sussistenza del requisito afferente al carattere “non industriale o commerciale”, in quanto “si tratta dell’amministrazione e dello sfruttamento economico di beni immobili non destinati al servizio ferroviario”, per poi rilevare che “Non si tratta perciò del soddisfacimento di un interesse generale, salvo che non si riconduca, sotto questa nozione, la medesima attività svolta da chiunque.”.
Proprio in relazione al requisito del carattere non industriale o commerciale, dall’esame dello Statuto e dall’esame del contratto stipulato tra Ferrovie dello Stato e Grandi Stazioni, poi, il Collegio ha dedotto che “la soc. G.S. amministra, in virtù del contratto esaminato, immobili della s.p.a. F.S. solo fisicamente ed occasionalmente collegati agli immobili delle stazioni, intese queste come impianti destinati al servizio della circolazione dei treni e delle attività da prestare per le persone o le merci trasportate”.
3) L’irriducibilità della società anche allo schema dell’impresa pubblica
Su tale questione, benché il TAR Lazio avesse espressamente qualificato la Società anche come impresa pubblica (e di tale circostanza il Consiglio di Stato dà atto alla p. 5 della sentenza), il Collegio ha omesso di pronunciarsi.
Su tale questione si è però indirettamente pronunciata la Cassazione, respingendo tale possibilità; meglio, ha escluso di dover provvedere a tale qualificazione, essendo l’attività della società estranea alle previsioni normative volte ad imporre l’obbligo dell’evidenza pubblica.
Le implicazioni
Dato atto che, ad avviso di chi scrive, la disposizione statutaria sopra richiamata pare condurre in senso diametralmente opposto a quello assunto dalle decisioni richiamate (l’oggetto della società riguarda, addirittura, anche la gestione di infrastrutture nodali di trasporto), e che – ad esempio - la Carta dei Servizi di Grandi Stazioni riconosce apertamente la riconducibilità della propria attività al servizio di trasporto e che “Con il termine Grandi Stazioni, infatti, s’intendono quegli impianti ferroviari inseriti nel cuore dei centri storici delle maggiori città italiane, caratterizzati spesso da notevoli livelli di pregio architettonico, che svolgono un ruolo di fondamentale importanza all’interno del sistema di mobilità nazionale, regionale e cittadino.”, la soluzione sopra prospettata pare collidere insanabilmente in fatto con la stretta contiguità tra le strutture ferroviarie e quelle commerciali, facenti parte degli stessi compendi immobiliari(e, per ammissione della stessa società, anche nella parte adibita a servizi commerciali complementari – quindi al servizio – dell’infrastruttura), ed in diritto con la giurisprudenza comunitaria, in relazione alla possibile qualificazione della società addirittura come organismo di diritto pubblico: pare infatti molto difficile sostenere che la gestione dei complessi di stazione e delle infrastrutture nodali di trasporto non sia finalità di interesse generale, anche solo in minima parte volta a soddisfare interessi non industriali o commerciali.
Può essere a tal proposito utile richiamare la Carta dei Servizi già sopra citata: secondo la stessa società, “il progetto Grandi Stazioni prevede la realizzazione di un sistema integrato d'impianti antintrusione, controllo accessi, antincendio e videosorveglianza, e l'impiego della vigilanza privata, al fine di incrementare gli standard di sicurezza ambientale e strutturale dei complessi immobiliari di stazione”, mentre il ruolo della società è quello di “ standardizzare ed ottimizzare i servizi connessi al trasporto e quelli destinati ai cittadini, esaltando la funzione prioritaria di nodo trasportistico “ e “ promuovere l’intera area di stazione”.
II TESI: si tratta di impresa pubblica.
Gli Argomenti.
Alcuni mesi dopo la sentenza n. 5902/03, il Consiglio di Stato è tornato a pronunciarsi sulla questione della qualificazione della Società, con la sentenza dell’Adunanza Plenaria 23 luglio 2004, n. 9.
Tale pronuncia – seppur correlata ad un appalto di servizi e non di lavori - parte da una impostazione diametralmente opposta: infatti, qualifica come irrilevanti al fine della decisione le clausole contrattuali invece fortemente valorizzate nella pronuncia del Consiglio di Stato sopra richiamata, per appuntarsi invece sulle disposizioni normative.
Gli argomenti
1) Si applica il d. lgs. 158/95
Di particolare rilevanza è stato a tal fine considerata la definizione di “infrastruttura di trasporto”, contenuta nell’art. 3, lettera c), del d.P.R. n. 277 del 1998 (per amore di verità alla data di pubblicazione della pronuncia, tale articolo era stato abrogato dall’art. 38 del d. lgs. 8 luglio 2003, n. 188; l’art. 3, c.1, lett. n di tale decreto ripropone comunque l’identica dizione), che ha richiamato la nozione comunitaria di cui all’allegato 1 al regolamento della commissione n. 2598 del 18 dicembre 1970: per tale allegato, l’infrastruttura ferroviaria è composta, tra l’altro, dalla “sistemazione dei piazzali per viaggiatori e per merci, compresi gli accessi stradali”, nonché dagli “edifici adibiti al servizio delle infrastrutture”, tra cui senza dubbio rientrano in primis le stazioni ferroviarie.
Le stazioni ferroviarie, inoltre, vanno qualificate come elementi costitutivi della rete ferroviaria destinata al servizio pubblico di trasporto, e non come “impianti terminali di trasporto”.
2) La società deve essere qualificata come impresa pubblica
Essendo dato pacifico che la società è partecipata al sessanta per cento dalla s.p.a. Ferrovie dello Stato, sicché è presunta la sua influenza dominante, la società stessa deve essere qualificata come impresa pubblica, quindi tenuta alle regole dell’evidenza pubblica.
Alla luce di tale approdo, l’Adunanza plenaria ha ritenuto “superfluo” pronunciarsi aulla possibile qualificazione della società come organismo di diritto pubblico.
3) L’applicazione delle regole dell’evidenza derivano anche dalla traslazione dell’obbligo.
Altra ragione (autonoma) posta a base della decisione è la traslazione dell’obbligo tra la Società Ferrovie dello Stato (ora, R.F.I.) e la società Grandi Stazioni: infatti, l’art. 8, comma 3, del decreto legislativo n. 158 del 1995 aveva “ comportato ipso iure la traslazione sulla s.p.a. Grandi Stazioni dell’obbligo-dovere di indire la gara, negli stessi termini in cui vi avrebbe dovuto provvedere la s.p.a. Ferrovie dello Stato, se non avesse concluso il contratto di data 14 aprile 2000”.
E’ il caso di rilevare come tale argomento (valido anche alla luce della nuova normativa comunitaria e statale di recepimento) sembri trovare conferma nelle ragioni spesi dalla Corte di Giustizia nella sentenza Universale – Bau già sopra richiamata.
Le implicazioni
Non è revocabile in dubbio che la decisione dell’Adunanza Plenaria rispecchi in pieno lo spirito della giurisprudenza comunitaria, tendendo con tutta evidenza ad evitare un uso – a dir poco – elusivo dello strumento contrattuale utilizzato nel caso di specie.
8.2. Il caso RAI
In ordine alla qualificazione della RAI come impresa pubblica la giurisprudenza è ferma: infatti, il Consiglio di Stato con due pronunce della VI Sezione(Cons. Stato, sez. VI, 18 aprile 2005, n. 1770; id., 22 novembre 2005, n. 6525) ha chiaramente inquadrato l’azienda tra le imprese pubbliche.
Più problematica (anche perché il Consiglio di Stato, nella pronuncia n. 1770/05, ha espressamente soprasseduto sulla questione della qualificazione in tal senso attribuita dal TAR Lazio nella sentenza di 1° grado) la possibilità di qualificare la società come organismo di diritto pubblico.
La questione è stata posta per la prima volta dalla Corte dei Conti: con ordinanza della Sez. Contr. Enti 26 novembre 1998, n. 87 venne chiesto alla Corte di Giustizia in via pregiudiziale se la RAI potesse essere qualificata come organismo di diritto pubblico.
La Corte, con ordinanza del 26 novembre 1999, dichiarò il difetto di legittimazione della Corte dei Conti in quanto, in sede di controllo, la stessa non esercitava funzioni giurisdizionali, ed evitando quindi di pronunciarsi.
Il TAR Lazio, sezione 3 – ter, nella sentenza n° 5460/04, ha rilevato – dando per assodata la sussistenza dei requisiti della personalità giuridica e del finanziamento pubblico, addirittura ammessi dalla società RAI – che, quanto alle esigenze di carattere generale aventi finalità non commerciale o industriale sottese alla sua istituzione, la RAI sottovalutava la” circostanza che essa è, tuttora e pur svolgendo anche attività commerciale in regime concorrenziale con altre imprese, la concessionaria (pubblica) del servizio pubblico radiotelevisivo, secondo i dettami del contratto di servizio con il Ministero delle comunicazioni. Tale missione, che implica il contemperamento della libertà d'espressione con il doveroso rispetto dei principi costituzionali di legalità, imparzialità ed efficacia, non è limitata ad ambiti scorporabili o esclusivi, ma, anzi, permea di sé tutti i compiti della RAI s.p.a., a fronte del canone, entrata tributaria, da essa percetto, la cui contabilizzazione separata non dà luogo necessariamente al finanziamento, altrettanto separato, di alcuni compiti, piuttosto che di altri”.
Anche alla luce della giurisprudenza comunitaria sopra richiamata al paragrafo 6.2.( sentenza Bayerische), e formatasi nella identica materia, deve certamente convenirsi con tale conclusione.
Ovviamente nessun dubbio in relazione al possesso della personalità giuridica; quanto al finanziamento pubblico, dall’ultimo bilancio disponibile risulta che oltre il 51% dei complessivi ricavi della RAI dipendono dal canone, che pertanto (senza ripetere quanto già esposto sul punto al paragrafo 6.2) deve essere indiscutibilmente qualificato come finanziamento pubblico.
Quanto al terzo requisito, vanno valutati sia il dato normativo che quello contrattuale.
Il dato normativo è offerto dalla c.d. “legge Gasparri”(l. 3 maggio 2004, n.112): l’art. 6, c.5, prevede che “Il contributo pubblico percepito dalla societa' concessionaria del servizio pubblico generale radiotelevisivo, risultante dal canone di abbonamento alla radiotelevisione, e' utilizzabile esclusivamente ai fini dell'adempimento dei compiti di servizio pubblico generale affidati alla stessa, con periodiche verifiche di risultato e senza turbare le condizioni degli scambi e della concorrenza nella Comunita' europea”; l’art. 17, precisa che “Il servizio pubblico generale radiotelevisivo e' affidato per concessione a una societa' per azioni, che lo svolge sulla base di un contratto nazionale di servizio stipulato con il Ministero delle comunicazioni”, per poi dettare una dettagliata descrizione di tale servizio; l’art. 20 impone l’affidamento in concessione del servizio alla RAI.
L’art. 4.1, lett. a) dello Statuto della RAI (e la collocazione va adeguatamente valorizzata) prevede che la società abbia ad oggetto il servizio pubblico generale radiotelevisivo ai sensi degli articoli 2, comma 1, lettera h), 17 e 20 della legge 3 maggio 2004, n. 112 e successive modificazioni.
L’art.1, c.3 del Contratto di Servizio, stipulato in data 23 gennaio 2003 ed a tutt’oggi vigente, all’art. 1, c.3, prevede infine che le parti riconoscono che compiti prioritari del servizio pubblico sono, tra gli altri ” favorire la crescita civile ed il progresso sociale;..salvaguardare l’identità nazionale e locale; estendere alla collettività i vantaggi delle nuove tecnologie trasmissive”.
Da tali univoci dati si ricava, ad avviso di chi scrive, l’evidente sussistenza – nella chiave di lettura imposta dalla giurisprudenza comunitaria più volte sopra richiamata – anche del requisito teleologico, circostanza dalla quale consegue l’obbligo di inserire la RAI tra gli organismi di diritto pubblico: argomento a conferma di tale tesi sembra potersi trarre anche dalla recentissima sentenza del Consiglio di Stato, IV, 13 marzo 2008, n. 1094, che ha qualificato la Società Autostrade per l’Italia SpA come organismo di diritto pubblico anche per l’esercizio dell’attività in regime di concessione.