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Articolo 13 del d.l. 223/06 ed extraterritorialità delle società miste nella più recente (e controversa) interpretazione della Corte Costituzionale e del Consiglio di Stato.
di Gerardo Guzzo  (guzzo@cgaalaw.com) 14 ottobre 2008
Materia: società / limiti territoriali

Articolo 13 del d.l. 223/06 ed extraterritorialità delle società miste nella più recente (e controversa) interpretazione della Corte Costituzionale e del Consiglio di Stato.

 

Gerardo Guzzo

Sommario: 1. Premessa. 2. Spunti critici forniti dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 326 dell’1 agosto 2008. 3. La sentenza del Consiglio di Stato, Sezione V, n. 4080 del 25 agosto 2008. 4. La sentenza del Consiglio di Stato, Sezione V, n. 4242 dell’8 settembre 2008. 5. Riflessioni finali.

Premessa.

L’articolo 13 del D.L. n. 223/06, convertito, con modifiche, nella legge 248/06 (1), sin dal suo ingresso nel circuito ordinamentale italiano, ha suscitato dubbi ed incertezze soprattutto in merito alla propria tenuta costituzionale. Si è ritenuto, a suo tempo, che la norma, così come strutturata, apparisse poco in linea con il principio della libertà della iniziativa economica privata, sancito dall’articolo 41 della Costituzione e, più in generale, con l’altro principio, sancito dall’articolo 117, lett. e) della Carta, di tutela della concorrenza (2). Le perplessità legate all’articolo in parola sono state sottoposte recentemente allo scrutinio sia del Consiglio di Stato che della Corte Costituzionale. Nel primo caso, i giudici di Palazzo Spada hanno ritenuto che non vi fosse alcuna vulnerazione dell’articolo 41 della Costituzione in quanto la norma mira a preservare il mercato da alterazioni della concorrenza e da fenomeni distorsivi delle regole della concorrenza (3) mentre i supremi giudici della Corte delle leggi hanno ritenuto, con la sentenza n. 326 dell’1 agosto 2008, inammissibile la questione di legittimità costituzionale relativa all’articolo 13 D.L. 223/06 sollevata dalle Regioni Sicilia e Friuli Venezia Giulia sempre con riferimento all’articolo 41 della Carta. Nello specifico, la Corte ha ritenuto inammissibile la questione sul presupposto che la disposizione di legge, oggetto di esame, nella parte in cui vieta alle società a capitale interamente pubblico o miste lo svolgimento di attività in favore di altri soggetti pubblici o privati diversi dagli enti affidanti o costituenti, proprio perché finalizzata a evitare che un operatore estenda la propria posizione dominante in altri mercati, rientri, a pieno titolo, nella competenza esclusiva dello Stato in quanto materia afferente alla tutela della concorrenza. In realtà, proprio questo passaggio logico argomentativo ha finito per alimentare qualche spunto critico alla luce della recente ricostruzione del meccanismo di affidamento della gestione dei servizi pubblici locali a beneficio di un modulo societario misto; sistema, questo, coniato dal Consiglio di Stato con il parere della Sezione II n. 456/07, prima, e con la sentenza dell’Adunanza Plenaria n. 1/2008, poi (4). Infatti, l’indispensabilità di una sola gara volta a selezionare il "socio operativo" chiamato, di fatto, ad erogare il servizio e ad assumersi il rischio di gestione, da un lato, e l’affidamento diretto al modulo societario misto del servizio, all’interno del quale il partner pubblico è destinato ad esercitare un controllo interno sull’operato del "socio industriale", da un altro, militano a favore della costituzione di un soggetto economico animato e governato da logiche private obbedienti alle sole sollecitazioni di mercato sia interne che esterne al territorio dell’ente (o degli enti) di riferimento. In altri termini, il soggetto economico immaginato dai Giudici di Palazzo Spada si atteggia per dinamismo aziendale e per metodiche imprenditoriali a vero e proprio competitor privato attesa la sostanziale ininfluenza del socio pubblico sull’attività di gestione il cui ruolo resterebbe confinato alla mera azione di controllo dell’operato del partner privato. Allora, se questa è la chiave di lettura fornita dai magistrati di Palazzo Spada, non si comprende come ad un soggetto economico del genere possa essere interdetta la possibilità di operare in regime di concorrenza al di fuori degli angusti ambiti territoriali dell’ente di appartenenza discriminandolo rispetto a tutti gli altri competitors privati, a patto che l’oggetto sociale conservi la connotazione dell’esclusività/unicità e non si tratti di società "aperta". Questo snodo argomentativo, contenuto nella sentenza della Corte Costituzionale n. 326/08, dunque, costituirà oggetto di alcune riflessioni in uno all’analisi delle sentenze del Consiglio di Stato, entrambe della Sezione V, rispettivamente, la n. 4080 del 25 agosto 2008 (5), che ha confermato la precedente ricostruzione del concetto di "prevalenza" dell'attività dei moduli societari misti nei confronti degli enti territoriali che li hanno costituiti e/o partecipati in virtù del legame genetico funzionale che a questi li lega, secondo quanto prospettato dalla recente evoluzione legislativa (art. 13 del D.L. n. 223/06), e la n. 4242 dell’8 settembre 2008 (6), che, richiamando la sentenza "Frigerio" della Corte di Giustizia, risalente al 18 dicembre 2007, ha dichiarato illegittimo l’articolo 113, comma 5 del T.U. degli enti locali, nella parte in cui questi riconosceva la possibilità di affidare la gestione di un servizio pubblico locale alle sole società di capitali e non anche agli imprenditori privati legittimati ed alle società di persone (7).

Spunti critici forniti dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 326 dell’1 agosto 2008.

Come cennato nel paragrafo precedente, la Corte Costituzionale con l’arresto in commento, rubricato n. 326 e risalente all’1 agosto 2008, è stata chiamata ad affrontare alcune questioni di legittimità costituzionale legate all’articolo 13 del D.L. n. 223/06, convertito, con modifiche, nella legge n. 248 del 4 agosto 2006. In particolare, in questa sede, si cercherà di approfondire le ragioni che hanno spinto i giudici delle leggi a ritenere, da un canto, inammissibile la questione di tenuta costituzionale del mentovato articolo 13 con riferimento all’articolo 41 della Carta; questione, questa, sollevata dalle Regioni Sicilia e Friuli Venezia Giulia, e, da un altro, non fondata la questione di legittimità costituzionale relativa alla stessa norma di legge con riferimento all’articolo 117, comma 1, lett. e (tutela della concorrenza). Nel primo caso, i giudici della Consulta si sono limitati a richiamare la consolidata giurisprudenza della Corte Costituzionale a tenore della quale non sono ammissibili le censure prospettate dalle Regioni rispetto a parametri costituzionali diversi dalle norme che operano il riparto di competenze con lo Stato, qualora queste non si risolvano in lesioni delle competenze regionali stabilite dalla Costituzione (sentenze n. 190 del 2008 e, con particolare riferimento all’articolo 41 Cost., n. 272 del 2005). Ciononostante, è possibile cogliere all’interno della parte motiva della sentenza un significativo snodo argomentativo che, seppur indirettamente, riconosce alle società a partecipazione pubblico-privata l’astratta possibilità di operare sul mercato in regime di concorrenza con questo fornendo una interpretazione costituzionalmente orientata dell’articolo 13 del D.L. n. 223/06 che stride con quanto successivamente predicato e deciso. Infatti, chiariscono i giudici della Corte, le disposizioni contenute nella norma in esame sono fondate sulla distinzione tra attività amministrativa in forma privatistica e attività d'impresa di enti pubblici. L'una e l'altra possono essere svolte attraverso società di capitali, ma le condizioni di svolgimento sono diverse. Nel primo caso vi è attività amministrativa, di natura finale o strumentale, posta in essere da società di capitali che operano per conto di una pubblica amministrazione. Nel secondo caso, vi è erogazione di servizi rivolta al pubblico (consumatori o utenti), in regime di concorrenza. Le disposizioni impugnate mirano a separare le due sfere di attività per evitare che un soggetto, che svolge attività amministrativa, eserciti allo stesso tempo attività d'impresa, beneficiando dei privilegi dei quali esso può godere in quanto pubblica amministrazione. Non è negata né limitata la libertà di iniziativa economica degli enti territoriali, ma è imposto loro di esercitarla distintamente dalle proprie funzioni amministrative, rimediando a una frequente commistione, che il legislatore statale ha reputato distorsiva della concorrenza. Tale ultimo inciso sembra, dunque, escludere che alle società miste sia fatto divieto di concorrere all’affidamento della gestione di servizi pubblici in ambiti territoriali diversi da quello dell’ente costituente e partecipante qualora si tratti di moduli societari costituiti per l’erogazione di servizi in regime di libero mercato e non di moduli societari per lo svolgimento dell’attività amministrativa per conto di una pubblica amministrazione. Senonché, l’approdo cui sembrano pervenire i giudici costituzionali viene sistematicamente disatteso dal successivo snodo argomentativo. La Corte, al punto 8.4. del "Considerato in diritto", afferma che le disposizioni contenute nell’articolo 13 del D.L. n. 223/06 si caratterizzano per un oggetto che può rientrare nella materia dell’organizzazione amministrativa, di competenza legislativa regionale, o, al pari delle previsioni in materia di contratti, pure contenute nell’articolo impugnato, nella materia dell’"ordinamento civile", di competenza legislativa esclusiva dello Stato. Di seguito, gli stessi giudici precisano che la materia normata dall’articolo 13 non rientra nell’organizzazione amministrativa perché non è rivolta a regolare una forma di svolgimento dell’attività amministrativa. Essa rientra, invece, nella materia – definita prevalentemente in base all’oggetto – "ordinamento civile", perché mira a definire il regime giuridico di soggetti di diritto privato e a tracciare il confine tra attività amministrativa e attività di persone giuridiche private. Successivamente, al punto 8.5. del "Considerato in diritto", la Consulta evidenzia come le disposizioni impugnate abbiano il dichiarato scopo di tutelare la concorrenza e che, pertanto, lo Stato, titolare esclusivo della relativa potestà legislativa può legittimamente adottare misure di garanzia del mantenimento di mercati già concorrenziali e misure di liberalizzazione dei mercati stessi (omissis) al fine di evitare che soggetti dotati di privilegi operino in mercati concorrenziali. Il viatico logico giuridico seguito dai supremi giudici e, soprattutto, le conclusioni cui Essi pervengono non convincono fino in fondo. Viene da chiedersi, infatti, come una norma che rientri nell’ambito dell’"ordinamento civile" e che miri a definire il regime giuridico di soggetti di diritto privato che, in quanto tali, hanno una innata vocazione mercatistica possa legittimamente imporre delle limitazioni territoriali così stringenti in nome della "tutela della concorrenza" che, invece, andrebbe esaltata attraverso una disciplina massimamente improntata alla liberalizzazione dei mercati. In altri termini, proprio il ragionamento svolto dai giudici delle leggi sembra stigmatizzare la scarsa tenuta del dato normativo scrutinato rispetto ai parametri costituzionali attorno ai quali gli stessi hanno costruito la trama motivazionale della sentenza. Allora delle due l’una: o le disposizioni contenute nell’articolo 13, riconducibili all’interno delle materie dell’"ordinamento civile" e della "tutela della concorrenza", costituiscono una evidente negazione del dato costituzionale di riferimento, in quanto vietano a soggetti di diritto privato, a esclusiva vocazione imprenditoriale, di operare lealmente e liberamente all’interno del libero mercato; oppure sono riconducibili all’interno della materia dell’"organizzazione amministrativa", in quanto rivolte a regolare una forma di svolgimento dell’attività amministrativa e, per questa ragione, illegittime perché sottratte alla residuale potestà legislativa regionale. In conclusione, si ritiene che la trama argomentativa sviluppata dai giudici costituzionali, proprio in ragione dell’autorevolezza della fonte, rappresenti una sorta di imprescindibile viatico nella direzione della censura di una norma la cui tenuta costituzionale, oggi più che mai, solleva non poche perplessità.

La sentenza del Consiglio di Stato, Sezione V, n. 4080 del 25 agosto 2008.

La pronuncia del Consiglio di Stato, Sezione V, n. 4080 del 25 agosto 2008 sembra confortare indirettamente l’errore di fondo compiuto nelle conclusioni dai giudici costituzionali. I magistrati di Palazzo Spada con la sentenza in esame sono stati chiamati a stabilire se le società costituite da enti locali per la gestione di servizi pubblici, da erogarsi all’interno del territorio di riferimento, possano partecipare anche a gare di appalto indette da altre amministrazioni. Nell’affrontare il thema decidendum sottoposto al suo scrutinio il supremo consesso amministrativo ha ricordato come la giurisprudenza comunitaria e quella nazionale si sia spesa in ordine alla definizione del concetto di "controllo analogo" al fine di stagliare la differenza tra il modello della gestione in house rispetto a quello della società mista. Gli stessi giudici del Consiglio di Stato hanno sottolineato come il modello delle società miste sia molto più orientato verso il mercato di quanto non sia quello dell’in house (punto 7.2.) e che l’ammissibilità di tale meccanismo di gestione postuli: 1) la prevalenza dell’attività da erogarsi a favore del soggetto pubblico costituente e partecipante; 2) la scelta del partner privato mediante gara che, pertanto, diventa "socio operativo", al quale viene demandato l’affidamento sostanziale del servizio svolto dalla società mista; 3) l’esclusione di società miste "aperte"; 4) la previsione di un termine di scadenza dell’affidamento al fine di evitare la "stabilizzazione" del rapporto (8). L’osservanza di queste garanzie renderebbe sovrapponibile il fenomeno dell’affidamento della gestione di un servizio pubblico locale a quello descritto dall’evoluzione legislativa più recente, testimoniata in particolare dall’articolo 13, d.l. n. 223 del 2006, volto a contenere l’attività delle società a capitale interamente pubblico o misto entro i limiti del soddisfacimento dello specifico bisogno territoriale. In altri termini, le società miste sarebbero gravate da un vero e proprio vincolo di esclusività e non di prevalenza dell’attività nei confronti dei soggetti pubblici costituenti ed affidanti con conseguente divieto di svolgere prestazioni a favore di soggetti pubblici e privati diversi. Tale ricostruzione presta il fianco ad alcune critiche. In primo luogo, proprio la codificazione del meccanismo di affidamento della gestione di un servizio pubblico operata dal Consiglio di Stato con il parere dell’Adunanza della Sezione II n. 456/07, prima, e con la sentenza dell’Adunanza Plenaria n. 1/08, poi, sembrerebbe ipotizzare uno scenario completamente diverso, molto più orientato a logiche di libero mercato. Infatti, viene da chiedersi come la scelta del socio "industriale" - compiuta all’esito di una ordinaria procedura di evidenza pubblica – cui viene, di fatto, demandata l’intera organizzazione e gestione del servizio - esaurendosi il ruolo dell’ente costituente ed affidante in una mera attività di controllo interno - possa conciliarsi con il divieto di operare, in regime di concorrenza, al di fuori dell’ambito territoriale di riferimento, attesa la sostanziale natura privatistica del modulo societario misto solo formalmente affidatario diretto del servizio. A ben vedere, una tale ricostruzione del sistema di affidamento della gestione del servizio pubblico finisce per evidenziare proprio la scarsa tenuta costituzionale dell’articolo 13 del D.L. n. 223/06 rispetto all’articolo 41 della Carta nell’ottica di una corretta implementazione dei principi comunitari della tutela della concorrenza, della parità di trattamento e del divieto di discriminazione. L’assunto trae maggior linfa proprio dall’ultima sortita dei giudici costituzionali i quali, attraendo il citato articolo 13 del D.L. n. 223/06 nell’alveo della materia dell’"ordinamento civile", hanno saggiamente ricordato come tale ambito materiale definisca il regime giuridico di soggetti di diritto privato con questo conferendo alla attività delle società miste la natura di "impresa" al servizio del mercato. Ne discende, quale naturale corollario, che ogni restrizione dell’attività di impresa finirebbe per porsi in contrasto gli articoli 41 e 117, comma 1, lett. e) della Costituzione tenuto conto dei principi comunitari di libera concorrenza e divieto di discriminazione.

La sentenza del Consiglio di Stato, Sezione V, n. 4242 dell’8 settembre 2008.

L’importanza della sentenza del Consiglio di Stato, Sezione V, n. 4242 dell’8 settembre 2008, risiede nel fatto che essa costituisce il primo decisum dei giudici di Palazzo Spada volto a disapplicare l’articolo 113, comma 5, del d.lgs. n. 267/00 e s.m. e int.. I magistrati amministrativi, pur intervenendo su una norma abrogata per effetto dell’entrata in vigore della nuova disciplina dei servizi pubblici contenuta nell’articolo 23-bis della legge n. 133/08, di conversione del D.L. n. 112/08, facendo buon governo dei principi fissati dalla Corte di Giustizia con la sentenza del 18 dicembre 2007, meglio conosciuta come "Frigerio"(9), hanno ritenuto l’articolo 113, comma 5, del d.lgs. n. 267/00 non aderente al diritto dell’Unione. In particolare, la scarsa sintonia con le norme comunitarie è stata colta con riferimento all’articolo 26, nn. 1 e 2, della direttiva 92/50/Cee, poi trasfusa nella direttiva 2004/18/Cee, attesa la portata della disposizione interna lesiva del principio comunitario di divieto di discriminazione tra persone fisiche e giuridiche (10). Com’è noto, l’articolo 113, comma 5, prevedeva, alla lett. a), la possibilità di conferire la titolarità di un servizio pubblico locale alle sole società di capitale, purché selezionate mediante procedura di evidenza pubblica. Tale disposizione, pertanto, risultava poco in linea con i principi comunitari di divieto di discriminazione e di libera concorrenza ed andava, pertanto, disapplicata nelle more di un intervento legislativo di riordino dell’intera materia. Vale la pena ricordare, a tal proposito, che la prima sortita del legislatore italiano, risalente allo scorso 18 giugno 2008 in occasione della stesura di un bozza di ddl recante la nuova disciplina dei servizi pubblici locali di rilevanza economica, non fu particolarmente felice. In quella occasione, il testo di legge licenziato dal CdM conteneva ancora un espresso riferimento alle sole società di capitali, continuando, pertanto, a discriminare gli imprenditori individuali e le società di persone aventi titolo per presentare delle offerte e rendersi aggiudicatari della gestione del servizio (11). L’errore in cui il legislatore incorse fu successivamente corretto con la stesura dell’articolo 23 – bis del D.L. n. 112 del 25 giugno 2008, convertito con modifiche nella legge n. 133 del 22 agosto 2008 e tutt’oggi vigente. In conclusione, il Consiglio di Stato, con la sentenza in rassegna ha sposato il principio codificato dai giudici lussemburghesi che hanno inteso aprire il mercato dei servizi pubblici locali a tutti gli operatori economici privati, indipendentemente dalla forma giuridica assunta, con questo facendo giustizia dei principi comunitari di libera concorrenza e divieto di discriminazione che esaltano la libertà di iniziativa economica privata codificata dall’articolo 41 della Costituzione.

Riflessioni finali.

Le recenti pronunce della Corte Costituzionale e del Consiglio di Stato passate in rassegna dimostrano come la questione di legittimità costituzionale legata all’articolo 13 del D.L. n. 223/06 sia tutt’altro che chiusa. In particolare, il viatico logico argomentativo seguito dai giudici della Consulta lascia aperta la porta ad un possibile futuro ripensamento degli stessi giudici delle leggi. Il punto nodale della questione, infatti, va rinvenuto proprio nella circostanza che la materia normata dall’articolo 13 sia stata ricondotta nell’ambito dell’"ordinamento civile" che per stessa definizione della Corte delimita il regime giuridico dei soggetti di diritto privato e traccia il confine tra attività amministrativa e attività di persone giuridiche private. In altri termini, i giudici costituzionali hanno chiaramente separato i moduli societari ai quali viene demandato lo svolgimento di attività amministrative, il cui ambito di operatività deve necessariamente essere circoscritto all’interno del territorio dell’ente di riferimento, da quelli che svolgono attività di impresa, per i quali non dovrebbe trovare applicazione un sì stringente divieto. Allora, se questa è la ricostruzione contenutistica dell’articolo 13, non si comprende come possa essere considerata aderente al dettato costituzionale (art. 41) e comunitario (artt. 48 e 81 del Trattato Ue) una norma che di fatto comprime la libertà di iniziativa privata violando i principi comunitari di parità di trattamento, divieto di discriminazione e libera concorrenza. Del resto, la natura eminentemente privata di tali moduli societari è stata "certificata" dallo stesso Consiglio di Stato rispettivamente con il parere n. 456/07 della Sezione II e con la sentenza dell’Adunanza Plenaria n. 1/08. Com’è noto, in quella occasione i giudici di Palazzo Spada "consacrarono" il meccanismo di affidamento della gestione del servizio pubblico locale in favore delle società miste a condizione che il partner privato, cui demandare sostanzialmente il servizio, venisse scelto al termine di una gara ad evidenza pubblica. In pratica, il "socio operativo", nella ricostruzione fornita dal Consiglio di Stato, costituisce l’effettivo ed unico gestore del servizio residuando in capo alla componente pubblica il compito di esercitare un mero controllo interno sull’operato del privato selezionato; dal che non si comprende quale privilegio possa ascriversi alla compagine societaria mista rispetto agli altri competitors che operano in regime di libero mercato. In conclusione, si ritiene che il percorso logico argomentativo seguito dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 326/08 e la ricostruzione del sistema di affidamento operata dal Consiglio di Stato con la sentenza dell’A.P. n. 1/08 militino a favore dell’estensione alle società miste della possibilità di poter competere con altri soggetti privati in regime di libera e leale concorrenza anche al di fuori degli angusti ambiti territoriali degli enti costituenti e partecipanti. Una interpretazione costituzionalmente orientata dell’articolo 13 del D.L. n. 223/06 non può prescindere dal rispetto di principi quali quello della parità di trattamento e della libertà di iniziativa economica che, se vulnerati, finirebbero per travolgere valori espressamente tutelati dalla Carta.

*Professore di Organizzazione Aziendale presso l’UniCal e partner dello studio legale Cristofano, Guzzo & Associates (guzzo@cgaalaw.com).

Note:

(1) L’articolo 13 del D.L. n. 223/06, come convertito con modifiche nella legge n. 248/06 dispone: 1. Al fine di evitare alterazioni o distorsioni della concorrenza e del mercato e di assicurare la parità degli operatori, le società, a capitale interamente pubblico o misto, costituite dalle amministrazioni pubbliche regionali e locali per la produzione di beni e servizi strumentali all'attività di tali enti, nonche', nei casi consentiti dalla legge, per lo svolgimento esternalizzato di funzioni amministrative di loro competenza, debbono operare esclusivamente con gli enti costituenti ed affidanti, non possono svolgere prestazioni a favore di altri soggetti pubblici o privati, ne' in affidamento diretto ne' con gara, e non possono partecipare ad altre società o enti.

2. Le predette società sono ad oggetto sociale esclusivo e non possono agire in violazione delle regole di cui al comma 1.

3. Al fine di assicurare l'effettività delle precedenti disposizioni, le società di cui al comma 1 cessano entro dodici mesi dalla data di entrata in vigore del presente decreto le attività non consentite. A tale fine possono cedere le attività non consentite a terzi ovvero scorporarle, anche costituendo una separata società da collocare sul mercato, secondo le procedure del decreto-legge 31 maggio 1994, n. 332, convertito, con modificazioni, dalla legge 30 luglio 1994, n. 474, entro ulteriori dodici mesi.

4. I contratti conclusi in violazione delle prescrizioni dei commi 1 e 2 sono nulli.

(2) Tra gli altri: G. Guzzo: "Affidamenti in house: controllo analogo, extraterritorialità e lesione di interessi legittimi"; in www.lexitalia.it n. 7/8-2006;

(3) Cfr. Consiglio di Stato, Sezione V, sentenza n. 946 del 5 marzo 2008. Per un commento più penetrante si rimanda a G. Guzzo: "I nuovi limiti del "controllo analogo" secondo la più recente teorica del Consiglio di Stato e della Commissione europea" in www.dirittodeiservizipubblici.it del 7 maggio 2008;

(4) Per un commento delle due sentenza si rimanda a G. Guzzo: "Le società costituite e partecipate dagli enti locali tra incertezze giurisprudenziali e codificazione legislativa"; in www.lexitalia.it; settembre 2008;

(5) In www.dirittodeiservizipubblici.it del 25 agosto 2008;

(6) In www.dirittodeiservizipubblici.it del’8 settembre 2008;

(7) Cfr. G. Guzzo: "Le società costituite e partecipate dagli enti locali tra incertezze giurisprudenziali e codificazione legislativa"; in www.lexitalia.it; settembre 2008;

(8) In particolare i giudici di Palazzo Spada al punto 7.2. del "Fatto e Diritto" hanno ricordato che ai fini dell’ammissibilità del modello, si richiede:
a. che la società sia costituita per l’erogazione di servizi da rendere prevalentemente a favore del soggetto pubblico che l’ha costituita; in questo contesto la gara per la scelta del socio vale anche a definire il servizio operativo demandato allo stesso (la gara in pratica conferisce al privato, configurabile come socio industriale ed operativo, l’affidamento sostanziale del servizio svolto dalla società mista), escludendo di contro l’ammissibilità di società miste «aperte»;
b. che si preveda un termine di scadenza e la necessità di un rinnovo, evitando che il privato diventi socio stabile della società mista.

(9) In www.dirittodeiservizipubblici.it del 18 dicembre 2007. Per un commento più approfondito si rimanda a G. Guzzo: "Le società costituite e partecipate dagli enti locali tra incertezze giurisprudenziali e codificazione legislativa"; in www.lexitalia.it, op. cit.;

(10) In particolare, i giudici comunitari affermarono che L'art. 26, nn. 1 e 2, della direttiva del Consiglio 18 giugno 1992, 92/50/CEE, che coordina le procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di servizi, come modificata dalla direttiva della Commissione 13 settembre 2001, 2001/78/CE, osta a disposizioni nazionali come l'art. 113, c. 5, del d. lvo n. 267/2000, che riserva alle sole società di capitali l'affidamento dei servizi pubblici locali , che impediscono a candidati od offerenti autorizzati, in base alla normativa dello Stato membro interessato, ad erogare il servizio di cui trattasi, ivi compresi quelli costituiti in raggruppamenti di prestatori di servizi, di presentare offerte nell'ambito di una procedura di aggiudicazione di pubblici appalti di servizi il cui valore superi la soglia di applicazione della direttiva 92/50, soltanto per il fatto che tali candidati od offerenti non hanno la forma giuridica corrispondente ad una determinata categoria di persone giuridiche, ossia quella delle società di capitali. Il giudice nazionale è tenuto a dare a una disposizione di diritto interno, avvalendosi per intero del margine di discrezionalità consentitogli dal suo ordinamento nazionale, un'interpretazione ed un'applicazione conformi alle prescrizioni del diritto comunitario e, qualora siffatta interpretazione conforme non sia possibile, a disapplicare ogni disposizione di diritto interno contraria a tali prescrizioni.

(11) Per un commento più approfondito si rimanda a G. Guzzo: "Prime considerazioni a margine della bozza del ddl relativo alla manovra finanziaria per l’anno 2009"; in www.dirittodeiservizipubblici.it del 24 giugno 2008;

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