SOMMARIO: 1. Premesse; 2. L’interesse societario dopo la riforma del 2003; 3. Interesse sociale e interessi dei singoli soci; 4. Interesse pubblico e interesse sociale; 5. Interesse pubblico come interesse immanente alla società; 6. Per una ridefinizione della partecipazione azionaria pubblica.
- Premesse
Affrontare il tema delle società partecipate è compito difficile, reso ancor più arduo da concomitanti “fattori di disturbo” che complicano esponenzialmente il quadro di riferimento, quali il disaggregato intervento legislativo in materia; le non unisone interpretazioni in sede giurisprudenziale; la difficoltà concettuale di rapportarsi col modello societario di diritto comune tout court.
Molteplici potrebbero essere i punti di attacco, molti già abbondantemente e sapientemente percorsi in dottrina; svariate sono le angolazioni utilizzabili. In questa sede sarà adottato un peculiare angolo prospettico, volutamente circoscritto: le modalità di interazione dei differenti interessi nella compagine societaria a partecipazione pubblica.
L’analisi comporta la disamina di tre ambiti reciprocamente interconnessi: l’interesse societario, l’interesse dei soci; l’interesse pubblico. La reciproca interferenza può comportare relazioni diverse: di conflittualità; di convergenza; di complanarità, di adesione, di incomunicabilità.
E’ immediatamente intuibile che tali relazioni presuppongono quantomeno una sottostante scelta di sistema – non così semplice in realtà – fra impostazione contrattualistica e istituzionalistica. Tuttavia, alla luce del dato normativo, si deve ammettere che la scelta non appare così radicale come spesso evocato in dottrina, col risultato di potersi avvicinare alla società partecipata con maggiore leggiadria, privi di rigorosi confini dogmatici.
Come è noto il tentativo di inquadramento concettuale delle società partecipate trova origine nelle disposizioni “di sistema” adottate dal legislatore a partire dalla Legge 8 agosto 1990 n. 142, in cui, in estrema sintesi, si riconduceva la possibilità per gli enti locali di costituire una compagine societaria a partecipazione pubblica maggioritaria fondamentalmente alla generale capacità giuridica di diritto privato, finalisticamente all’esigenza della parte pubblica di agire con maggior efficacia, ottimizzando la gestione dell’attività stessa.
Già da allora il potere di amministrazione della società mista in realtà non risultava dissociato dalla qualità di socio come, al contrario, nel normotipo di diritto comune, tanto per la prefigurazione di una serie di vincoli aggiuntivi posti a garanzia del socio pubblico e della sua presenza negli organi corporativi, quanto grazie all’obbligatoria partecipazione di capitale maggioritaria dello stesso che assicurava che interesse pubblico, interesse sociale e interesse della parte pubblica fossero sostanzialmente coincidenti.
In altri termini la convergenza fra posizione di socio detentore della maggioranza di capitale ed esercizio del potere di controllo – blindato ( e altresì intimamente alterato ) da una serie di misure “correttive” – evidenziava profili in antitesi col regime ordinario di diritto comune di rispetto del principio di maggioranza.
Ciò avveniva mediante un’operazione di manipolazione genetica perdurata ad oggi ed aggravata ulteriormente da successivi interventi legislativi in materia.
In questo contesto il contratto di società non assurgeva a momento di autodeterminazione delle parti, ma piuttosto era strumento in grado di assicurare non tanto un sistema concorrenziale quanto il progresso ed il benessere collettivo.
Del pari nella società a partecipazione pubblica totalitaria – questione ancora attuale – parte della dottrina sottolineava e ravvisa tutt’ora l’assenza dell’aspetto squisitamente contrattuale nel momento genetico della compagine sociale, che induce a prefigurare notevoli criticità aggiuntive nella configurazione del modello societario partecipato.
Inoltre, se il principio maggioritario – in base al quale la congruità fra interesse sociale e interesse pubblico trova giustificazione e forma – non si colloca in antitesi col naturale funzionamento delle società per azioni, ma anzi ne costituisce un corollario di base, lo stesso non può dirsi rispetto le norme derogatorie al diritto comune che aprivano le porte all’ingresso dell’interesse pubblico o dell’interesse di una sola parte in termini affatto diversi e discriminatori.
Un fattore di distorsione accentuato da numerosi e disorganici interventi legislativi mediante l’introduzione di un regime derogatorio a favore delle società a partecipazione pubblica che enfatizzano a fortiori la discrasia sussistente fra strumentazione giuridica richiamata e quella normativamente attuata.
Il problema di base che si pone è ravvisare fino a che punto il carattere privato dello strumentario civile può adattarsi ed essere adattato all’interesse pubblico senza contestualmente snaturarne fine e mezzo.
La posizione dell’azionista pubblico, ma anche quella del socio privato, risentono grandemente delle stratificazioni e manipolazioni normative succedutesi con la conseguenza di operare all’interno di una sorta di monstrum giuridico, ciò che è divenuto un tratto caratteristico della figura societaria partecipata fino ad oggi.
Il primo è catalizzatore di un conflitto difficilmente risolvibile tra interesse pubblico, interesse societario e interesse quale azionista. Il secondo si trova ad agire spesso in una situazione di minorità ontologica poco giustificabile alla luce del diritto societario.
- L’interesse societario dopo la riforma del 2003
Come è noto il modello di società per azioni si contraddistingue per il fatto di essere una forma giuridica finalizzata all’esercizio di un’attività economica organizzata al fine della produzione di beni o dello scambio di beni e servizi, secondo il dettato dell’art. 2082 c.c.
La posizione di socio è qualificata dal capitale sottostante, ma ciò non comporta in re ipsa la qualità di “decisore” per la società. Questa funzione spetta a specifici organi societari – assemblea, consiglio di amministrazione e, qualora presente, consiglio di sorveglianza.
La riforma del 2003 ha evidenziato tale distinzione di ruoli, collocandosi sulla scia di una visione temperata della dissociazione fra proprietà e controllo della ricchezza nelle spa, accentuando del pari la funzione monetaria della proprietà azionaria in luogo della tradizionale funzione dirigente.
Una puntualizzazione in grado di implicare significative ricadute sul tema oggetto della presente analisi.
L’autonomia degli amministratori, rafforzata mediante l’introduzione di specifici strumenti quali, ad esempio, la possibilità di esperire per le minoranze l’azione di responsabilità e l’accentuazione delle competenze gestorie, ha chiaramente bandito la possibilità di seguire istruzioni extrasociali implicanti effetti negativi sulla corretta gestione della società o penalizzanti oltremodo la lucratività della stessa.
Il plesso normativo come novellato palesa inoltre la compresenza di fattori e spinte contrattualistiche ed istituzionalistiche determinanti un equilibrio tendenzialmente instabile. Un equilibrio che sconta sia pressioni esogene sia assestamenti endogeni amplificate nell’ipotesi specifica delle società miste.
Gli assestamenti endogeni si devono alla definizione dei conflitti e all’interazione delle sinergie fra capitale di comando e azionisti di minoranza; alla composizione di eventuali distonie fra assemblea e amministrazione; alle dinamicità possibili nella compagine sociale.
Le pressioni esogene possono essere scisse in due autonome forze: la prima risulta dalla relazione dell’interesse dei soci con l’interesse comune; la seconda è frutto dell’intersecarsi di interesse dell’impresa in sé ed interesse generale (salvo la possibilità ulteriore di distinguere fra interesse pubblico e generale).
In quest’ultima ipotesi l’interesse sociale viene – mediante un raffinato strumentario giuridico – colorato e caratterizzato per il perseguimento di interessi generali attraverso forme variegate di controlli pubblici: dal controllo contabile al controllo sugli amministratori; dal controllo amministrativo al controllo di tipo giudiziario.
L’art. 2380 bis c.c. fornisce elementi chiarificatori in punto. Ivi si afferma il principio secondo cui la gestione dell’impresa sociale e la conseguente responsabilità spetta agli amministratori, al fine di realizzare un assetto organizzativo definito ed idoneo a promuovere efficienza e correttezza della gestione sociale.
Il legislatore riformista ha optato per una chiara separazione fra competenze e funzioni dei diversi organi sociali, condizione necessaria e imprescindibile al fine di assicurare il corretto e regolare svolgimento dell’attività sociale.
Ne consegue la potenziale distonia operata da contaminazioni o sovrapposizioni di ruoli fra assemblea e organo di gestione.
L’attività gestionale si risolve nel dovere a carico degli amministratori di porre in essere quanto necessario al conseguimento e perseguimento dell’oggetto sociale, chiudendo il varco all’entrata di interessi extrasociali non in linea con l’oggetto sociale, che si configura come paradigma essenziale di riferimento.
Diviene centrale di conseguenza individuare, concettualmente e praticamente, la portata dell’interesse societario, capace di risentire di significativi assestamenti cui da tempo la dottrina ha prestato attenzione, talora evidenziando – nell’Europa continentale soprattutto – le criticità dei rapporti fra azionisti e con l’azionista di maggioranza; talora soffermandosi sulle relazioni dinamiche fra azionisti e managers – principalmente nei paesi di common law – enfatizzando i limiti intrinseci del governo societario quanto ad asimmetrie informative, comportamenti opportunistici e conflitti di interesse fra attori diversi.
Per meglio comprendere l’interazione dinamica succintamente richiamata è di grande utilità scindere l’analisi delle singole relazioni fra forze e interessi, per poi abbozzare alcune riflessioni conclusive.
- Interesse sociale e interessi dei singoli soci.
L’interesse sociale assume una configurazione affatto differente nel caso si aderisca all’impostazione contrattualistica o istituzionalistica.
Semplificando, è chiaro che nell’idea della società quale portatrice di una interesse a sé, non pienamente sovrapponibile a quello dei soci è implicito il riconoscimento di un “ruolo sociale, ulteriore” dell’impresa, che trascende e supera la risultante delle volontà dei singoli soci.
Un interesse ulteriore che non è necessariamente complanare con l’interesse dei soci, sia che si propenda per una visione solidale di interesse di tutti i soci; sia che si aderisca all’idea di interesse dei soci come risultante conflittuale di un rapporto fisiologicamente dialettico di forze divergenti.
Ciò si lega a doppio filo alla diversità di intenti dei soci azionisti, alcuni proiettati alla stabilità societaria; altri alla massimizzazione dei dividendi; altri ancora allo sviluppo economico.
Una prospettiva che ricade altresì sulla configurazione temporale dell’interesse sociale e dei soci: attuale ed espresso dalla maggioranza oppure interesse proiettato nel futuro, dinamicamente aperto all’esterno. Valutazione temporale che non manca di colorare il tasso di dinamicità – e di attrattività – del modello stesso di partnership pubblico-privata.
La pluralità ed eterogeneità delle variabili addotte converge in uno specifico assetto compendiato nella peculiare ragion d’essere che ha indotto il partner pubblico a scegliere questa figura come modello d’azione.
In ultima istanza, ciò rileva anche sulla dissociazione fra proprietà e controllo della compagine sociale, regolamentata dalla novella del 2003, che pare avallare la necessità di gestire in chiave dinamica, economicistica ed efficiente l’impresa configurando un esecutivo forte.
Prima di verificare la compatibilità o l’incomunicabilità fra interesse pubblico e interesse sociale nella società mista, occorre soffermarsi sul concetto di interesse sociale nel normotipo civilista di riferimento.
Operazione interessante poiché potrebbe fornire suggestioni ed elementi utili a verificare se lo strumento privatistico dal contatto con l’interesse pubblico esce irrimediabilmente falsato e manipolato, oppure se, al contrario, sia lo stesso normotipo civilista a consentire aperture al diretto perseguimento dell’interesse pubblico.
L’interesse sociale è espressamente richiamato in due articoli del codice civile, la cui lettura ci fornisce utili elementi di indagine.
L’art. 2441 c.c. condiziona la limitazione od esclusione del diritto di opzione dei soci, in caso di aumenti di capitale con emissione di nuove azioni, a esigenze di interesse societario.
L’art. 2373 c.c. prevede l’ipotesi del conflitto di interessi fra socio e società.
Nel primo degli articoli richiamati al 5° comma consente la limitazione od esclusione del diritto di opzione, in caso di aumenti di capitale con emissione di nuove azioni, quando l’interesse della società lo esiga, fatta salva l’esigenza che la deliberazione relativa sia approvata dai soci che detengono la maggioranza di capitale.
Secondo la lettura maggioritaria in dottrina il richiamo all’interesse della società non deve essere letto quale interesse della maggioranza, bensì quale interesse oggettivato e concreto della compagine sociale.
Ciò evoca l’influenza di teorie istituzionalistiche, perlomeno nella loro veste meno radicale, avallando l’individuazione – dottrinale ed ora normativa – di un interesse della società che non collima pedissequamente con l’interesse dei soci, ma preserva un margine di autonoma definizione.
Certamente si può discutere sull’entità di detto margine e naturalmente la dottrina più accorta non ha mancato di interrogarsi in punto.
Tuttavia sia che si propenda per la sussistenza di un nesso di stretta necessarietà per l’operatività del c. 5° dell’art. 2441 c.c.; sia se si opti per motivazioni legate a convenienza e ragionevolezza delle limitazioni od esclusioni addotte nella deliberazione sociale, ciò non inficia la costruzione dell’interesse sociale in termini parzialmente difformi dall’interesse di tutti i soci o della maggioranza degli stessi.
Una soluzione che non agisce sull’esercizio della discrezionalità dell’assemblea libera di adottare o meno la possibilità di limitare od escludere il diritto di opzione.
Essa opera sui requisiti di validità della deliberazione, laddove comporti limiti od esclusioni che si pongano in una relazione di non congruenza rispetto l’interesse sociale e, in quanto tali, passibili di giudizio di merito da parte del giudice competente. Si tratta, in estrema sintesi, di un limite esterno a carattere negativo.
Il secondo articolo richiamato è l’art. 2373 c.c., come riformulato dalla novella del 2003 nell’intento di operare un necessario adeguamento a interpretazioni giurisprudenziali che si erano venute consolidando sul conflitto di interessi fra socio e società.
Nel primo comma è espresso un limite negativo al voto del socio che sia portatore di un interesse configgente con l’interesse della società.
A lui infatti non è precluso l’esercizio del diritto di voto, non è previsto il riconoscimento di un difetto di legittimazione che si sostanzierebbe in un limite positivo; al socio è invece concessa la scelta di astenersi dal voto oppure da votare in modo non pregiudizievole agli interessi della compagine sociale.
Nel caso in cui detto conflitto di interessi trovi espressione determinante in una delibera, quest’ultima risulterebbe annullabile ex art. 2377 c.c.
Il sindacato giudiziario sulle deliberazioni assembleari è, come è noto, di mera legittimità, tuttavia, nella particolare ipotesi di cui si tratta, il vizio della delibera consiste nella verifica – sotto il profilo dell’intrinseca ragionevolezza – della congruità della delibera all’interesse e utilità sociale.
Il giudice non valuta né opportunità né convenienza della deliberazione assembleare, ma la congruità rispetto l’interesse sociale, non circoscrivendo l’esercizio di voto o la libertà di autodeterminazione dei soci della politica economica della società, ma vagliando piuttosto il profilo speculativo e la potenziale dannosità societaria della manifestazione di volontà assembleare.
Anche in questo secondo articolo è presente un’inclinazione di matrice istituzionalistica, pur se chiaramente attenuata e non unanimemente accettata in dottrina, che concettualmente si lega a doppio filo con le diverse ipotesi di abuso del voto da parte della maggioranza ma anche alla particolare ipotesi delle minoranze di blocco.
Siffatta impostazione pare avallare la tesi di coloro che qualificano l’interesse sociale come indisponibile da parte dei soci qualora questi ultimi intendano sacrificare e compromettere l’efficienza produttiva della società o recarle danno per propri interessi extrasociali.
Un’indisponibilità che trae fondamento sull’art. 2247 c.c. nel quale è definita la portata del contratto di società.
Gli interessi dei soci confluiscono nelle deliberazioni assembleari, risultato finale di un processo di interazione talora conflittuale.
Questa relazione è destinata a convergere in determinazioni sociali comunque finalizzate al perseguimento dell’interesse della società che non può essere indebitamente accantonato da interessi extrasociali o personali dei singoli soci.
L’interesse sociale non si qualifica come risultato di una lettura dogmatica del principio della maggioranza, come già precedentemente sottolineato: in tale prospettiva le manifestazioni di voto tanto del socio di maggioranza quanto di minoranza sono espressione di un potere legittimo solo laddove il loro esercizio non risulti potenzialmente dannoso al perseguimento degli scopi sociali.
E’ inoltre evidente la cifra di indeterminatezza congenita nella determinazione dell’interesse sociale, si pensi ad esempio la potenziale incidenza della proiezione al mercato di una compagine sociale in grado di indurre a prediligere mantenimento ed eventuale incremento dei valori di borsa, rendendo strumentali, di conseguenza, gli interessi sociali tipici.
- Interesse pubblico e interesse sociale
L’ingresso dell’interesse pubblico nella società partecipata può aver luogo secondo due direttrici, che ovviamente sottendono strumentari differenti.
Può, allineandosi all’ordinario funzionamento del diritto comune in materia societaria, agire quale interesse di una specifica parte, ovvero preordinare le proprie decisioni a fini ed esigenze che – non necessariamente ed, anzi, indipendentemente – si pongono in stretta continuità o in relazione differente con quelle degli altri soci.
Il socio pubblico può optare per la massimizzazione degli utili; per alti dividendi; orientarsi al perseguimento di politiche di efficienza produttiva o di sviluppo tecnologico; può altresì prediligere politiche di investimento: motivazioni, che nel rispetto della causa e dell’oggetto sociale, sono irrilevanti, confinate nella sfera “emozionale” dell’attore pubblico.
Ciò comporta in sostanza l’abbandono all’imperio del diritto comune che presuppone unicamente l’utilizzo dello strumentario di tutela previsto per ogni socio, indipendentemente dal relativo grado di pubblicità. Non sono da condannare di conseguenza discipline derogatorie o speciali, fatto salvo il limite del rispetto dell’equazione potere di voto/decisione e potere di quota capitale detenuta.
L’interesse pubblico può tuttavia sovrapporsi all’interesse societario con modalità diverse.
Questa sovrapposizione si attua: o utilizzando patti sociali, norme statutarie oppure clausole contrattuali idonee a neutralizzare le decisioni dei soci disallineate rispetto l’interesse della parte pubblica; oppure aderendo ad una visione istituzionalistica più radicale di società per la quale l’interesse dell’impresa in sé è interesse della collettività, di cui garante è il socio pubblico.
Le forme di interazione fra interesse pubblico e interesse sociale costituiscono un diaframma interessante per sganciarsi dal tradizionale studio della natura della spa partecipata. Una tale prospettiva consente di verificare in quali termini l’interesse pubblico si relazioni con l’interesse sociale, prima concettualmente e, successivamente, nella realtà fattuale.
Se sussiste, in altri termini, una linea di continuità con i presupposti originariamente richiamati per l’utilizzo dello strumentario privatistico, sarà determinante in tal senso la scelta della parte pubblica di optare per la società partecipata laddove determinate attività amministrative lo richiedano e consentano.
Se, invece, il tasso di autonomia manageriale, implicito nel normotipo civilista, mal si attaglierà alle finalità pubbliche, evidentemente l’allineamento al diritto privato societario non avrà ragion d’essere, se non manipolando oltremisura l’istituto della società.
Detta manipolazione trova luogo dove eventuali correttivi e sistemi di governo societario non siano strettamente insiti all’accrescimento della funzionalità della società stessa ed, in prospettiva, al miglioramento dell’efficienza degli outputs, quanto piuttosto risultino correlati a vetuste forme di controllo societario in nome di esigenze di tutela di interessi della collettività che sottendono e reclamano un continuum di responsabilità politica ed, eventualiter, amministrativa.
La ratio esplicitata del ricorso allo strumento privatistico è – o dovrebbe essere – trasparente esternazione dell’interesse pubblico allo strumento societario, non nello strumento stesso.
Vi è poi un’ulteriore posizione, ancora abbozzata e sulla quale si proverà a riflettere oltre.
Questa terza via evoca la teoria, risalente in dottrina, dell’impresa “funzionalizzata” al perseguimento di un interesse “superiore” che supera gli interessi dei soci, di maggioranza e di minoranza, ma altresì travalica i confini della compagine societaria stessa, rispondendo ad esigenze e interessi facenti capo alla collettività stessa.
Si tratta di un’ipotesi eccentrica, tutta da dimostrare, ma che, alla luce di quanto si riscontra nella realtà fattuale, non pare così disallineata rispetto l’attuale confuso assetto delle società miste.
Questa ricostruzione presenta, d’altro canto, alcuni problemi di compatibilità – sebbene non insormontabili – rispetto al diritto della concorrenza e postula l’inadeguatezza del mercato a fornire i risultati prefissi dagli obiettivi pubblici.
L’intricato sistema normativo ad oggi necessita di una risposta all’interrogativo di fondo: sono compatibili interesse pubblico e interesse sociale?
Chiarezza va fatta su funzione e ruolo ascritto all’istituto delle società miste, e, del pari, in merito sia alla definizione del tasso di pubblicità di questi soggetti ( legato al regime giuridico; al capitale; ai controlli; alla funzione ); sia alla compresenza di logiche non convergenti e di difficile composizione quali politica, economica e giuridica; sia, infine, in merito all’eterogeneità dei tipi con le quali la compagine partecipata prende forma.
L’angolo visuale adottato di studio delle relazioni fra interessi nella società partecipata può servire a chiarire una piccola parte delle questioni richiamate.
Analizzando l’interazione fra interesse pubblico e interesse sociale si può tentare di superare l’impasse determinata da un lato dalla ricerca “esterna” di indici rilevatori della natura delle società partecipate; dall’altro si può verificare il grado di tenuta del normotipo societario dal contatto con il partner pubblico.
Siffatta analisi non può prescindere dal concetto di interesse sociale come esplicitato alla luce della legge di riforma del diritto societario del 2003, di cui s’è fatto cenno in precedenza.
L’interesse societario, cristallizzato nel contratto di società, sottende una comunione di intenti che informa la struttura societaria, coordinando i fisiologici dinamismi interni finalizzati all’esercizio dell’attività sociale.
Questo è un dato immanente che non confligge con la natura del socio pubblico, salvo optare per una traslazione della natura del soggetto socio sull’attività-oggetto.
Tuttavia è riscontrabile un conflitto con il normotipo civilista laddove il legislatore ponga norme in grado di condizionare pesantemente il campo di azione della società partecipata e le scelte imprenditoriali.
Si pensi alla previsione di società “ad oggetto sociale esclusivo”, si pensi all’apposizione di limiti territoriali e a preclusioni varie apparentemente garantiste di mercato e concorrenza ma, ben più realisticamente, destinate a ingessare il modello societario fino a renderlo innocuo.
In questi casi l’interesse sociale non ha nulla in comune col paradigma civilista di riferimento; è palese la sussistenza di vincoli pregnanti e l’assenza di autonomia funzionale della società mista che acclara la sovrapposizione di interesse pubblico su quello sociale.
Le finalità pubbliche, in altri termini, fagocitano il naturale dinamismo societario, inserendosi nello strumento societario in luogo di un controllo ab externo dell’attività d’impresa.
Al contrario questa operazione sarebbe maggiormente coerente se conseguisse ad una chiara scelta di sistema mediante cui il socio pubblico, per osmosi, permea il soggetto privatistico, snaturandone il fine pur mantenendone la struttura organizzativa.
Siffatta impostazione avrebbe l’indubbio pregio di contenere, seppur in parte, le numerose frammentazioni ed incoerenze del sistema normativo e delle tendenze de codificatrici che caratterizzano il quadro giuridico di riferimento delle società miste.
Evidentemente quest’ultima ipotesi dà forma a un quid aliud rispetto il modello civilista, un ibrido giuridico che evoca i tradizionali modelli di azione amministrativa mediante enti strumentali, ammettendo di concerto controlli pubblici e la manifestazione di poteri di indirizzo e direzione sulla compagine sociale.
Un tertium genus che è fuori dal mercato, delle cui tradizionali strutture ha mutuato solo efficienza e snellezza degli assets organizzativi e strutturali.
Il rapporto di stretta strumentalità sussistente, pur in abiti privatistici, sottende una prevalenza ontologica e fattuale delle esigenza pubbliche che la pubblica amministrazione è chiamata a soddisfare, mediante una configurazione di poteri maggiore rispetto il modello ordinario di diritto societario che colora indissolubilmente il soggetto partecipato.
- Interesse pubblico come interesse immanente alla società
Individuare l’interesse pubblico quale dato immanente nelle società miste offre inevitabilmente il fianco a numerose critiche, richiedendo contestualmente varie precisazioni. In modo alquanto grossolano si potrebbe operare inizialmente una suddivisione tra alcune ipotesi estreme.
La prima concerne il caso in cui detta immanenza poggi teleologicamente sulla funzionalizzazione sostanziale dell’attività della società mista, che permea indissolubilmente il soggetto giuridico.
La seconda laddove si adotti un’impostazione “a la Rathenau” precisando che la società mista è portatrice di un interesse ulteriore di tutta la collettività, non coincidente pedissequamente con l’interesse sociale, con ciò legittimando invasive forme di controllo della vita societaria.
Nel primo caso si ha una funzionalizzazione dell’attività che trasla sul soggetto; nel secondo caso una funzionalizzazione del soggetto – indifferente all’abito formale privatistico – riflessa sull’attività della compagine societaria.
Infine sovviene un’ultima ipotesi che qualifica il controllo pubblico sulla società mista – indipendentemente dalle forme e dal dato quantitativo – unicamente e solamente a garantire il rispetto del libero gioco del mercato, senza incidere nel decision-making societario.
Rispetto il primo caso richiamato, l’immanenza dell’interesse pubblico in quello sociale trova giustificazione nel riconoscimento della società come persona giuridica funzionalmente proiettata ad assolvere o perseguire interessi e bisogni della collettività, in special modo allorquando la spa mista si occupi di servizi pubblici.
Qui il collegamento funzionale dell’attività permea e colora indissolubilmente la compagine societaria e si sostanzia attraverso modalità differenti, che la giurisprudenza – nazionale, comunitaria e costituzionale – ha sottolineato e tentato di ordinare in categorie.
Un legame funzionale che sovrappone l’interesse pubblico a quello sociale, che diventa parametro di riferimento, legittimando al contempo il ricco e variegato articolarsi delle forme di controllo e direzione. Emblematiche in tal senso si rivelano le diverse declinazioni della nozione di controllo analogo; la partecipazione azionaria totalitaria da parte degli enti pubblici; le funzioni di indirizzo e controllo gestionale e finanziario esercitate dalla parte pubblica.
Senza voler entrare nella correttezza e nella portata di tale strumentario, appare comunque evidente il distacco traumatico dal normotipo societario.
Di grande problematicità risultano eventuali deroghe ad uno dei principi cardine della riforma del 2003 del diritto societario quale l’esclusività della competenza della gestione in capo all’organo amministrativo di cui s’è accentuata l’autonomia al fine di rafforzarne il tasso di buona e corretta gestione della società.
Risulta parimenti difficilmente contestabile l’assunto di una operatività limitata della società partecipata che non solo si traduce in poca attrattività del modello, ma pone serie questioni in merito alla tenuta del modello privatistico di riferimento.
Mancando una pluralità di centri portatori di interessi una società mista siffatta diviene luogo giuridico ove il libero operare della parte pubblica risulta privo dell’anima dialettica che compendia interesse dei soci e interesse sociale.
Un’assenza di contrapposizione ed interazione fra interessi che mal si concilia col rispetto della posizione degli azionisti privati come disegnata dal diritto societario, e, del pari, con l’essenza del normotipo societario civilistico.
La compagine sociale diviene una longa manus del partner pubblico, che, sotto mentite spoglie, persevera nell’utilizzo di modalità operative di indole pubblicistica strutturando una relazione organica.
Detta forma di ingerenza pubblica non incide sullo scopo della compagine sociale, che resta su un piano distinto pur se correlato; essa si riflette sulla stessa conformazione del potere dell’azionista pubblico nell’azione societaria.
Pur tuttavia questo slittamento dell’interesse pubblico dallo scopo della società partecipata alla qualità del potere esercitabile nella stessa comporta un problematico salto logico – almeno rispetto l’archetipo civilista – tra interesse pubblico che deve essere svolto e criterio di azione.
Un salto logico che implica due difficoltà concettuali. Anzitutto il socio azionista che persegue il proprio interesse individuale, ove disallineato rispetto l’interesse pubblico, limita lo svolgimento della cura dell’interesse pubblico anche se conforme all’interesse sociale.
In secondo luogo l’interesse pubblico trascende ed esula dall’interesse sociale che perde la propria autonoma ed individuale rappresentazione, sia nell’accezione di interesse sociale uti universi, sia uti socius.
La funzionalizzazione dell’attività che trasla sul soggetto chiamato a esercitare in concreto la gestione di tale attività è una chiave interpretativa costante in dottrina, in particolare quella amministrativistica.
Siffatta lettura presuppone una asimmetria relazionale che già prende corpo nel momento genetico del contratto di società, fra parte pubblica e socio, o soci, privati.
In altri termini geneticamente – secondo la summenzionata impostazione – la società partecipata è strumento per garantire la maggior tutela dell’interesse pubblico per il quale essa è stata costituita.
La società mista è strumento di azione per conseguire in modo migliore l’interesse pubblico ma ciò, alla prova dei fatti, s’è tradotto in superiorità ontologica della parte pubblica che non agisce in qualità di socio, secondo le modalità ad uopo previste dal diritto societario, ma “blinda” l’interesse di cui è portatrice mediante forme di controllo e direzione, o limitazioni operative, svuotando il concetto d’interesse sociale e svilendo la posizione dei soci quanto alla fisiologica funzione loro ascritta nella compagine societaria.
La stessa suddivisione – spesso presente in dottrina – volta a circostanziare il momento pubblico da quello privato pecca dello stesso vizio originario summenzionato.
Il partner pubblico non è solamente un socio portatore di un interesse individuale che, nella comunione volontaria della società diviene, contestualmente proprio e comune.
Il socio pubblico risulta ontologicamente differente e non pare neppure allinearsi, almeno concettualmente, alla qualificazione degli interessi extrasociali come destinati a realizzarsi attraverso e non contro l’interesse comune.
Si attua in sostanza una contaminazione di logiche e istituti economici da parte della politica che si serve del diritto per mascherare e annebbiare i contorni dell’azione e della tutela degli interessi pubblici.
L’assenza di una coerenza interna del sistema normativo in punto sembra avallare questa considerazione.
In precedenza s’è avuto modo di osservare come nella prassi siano riscontrabili diverse modalità operative delle società partecipate.
Un primo modello, che ricomprende l’eterogenea congerie dei fenomeni in house, è caratterizzato dalla sussistenza di un’immanenza manipolatrice dell’interesse pubblico, talmente conformante rispetto l’interesse sociale da addivenire ad una alterazione intollerabile del prototipo civilista di riferimento.
In questo caso il distacco è così radicale da rendere inservibile l’istituto societario, risolvendosi in un mero richiamo formale, ma tradendone la natura sostanziale.
Il secondo modello è rappresentato da una provocazione: richiamare un concetto di impresa a la Rathenau, in cui la società partecipata, per il solo fatto della presenza pubblica, comporta ab interno l’emersione di una finalizzazione ulteriore, rispetto il fine sociale ex se.
La società mista è strumento del perseguimento dell’interesse pubblico, non solo in relazione alla quota della partecipazione o al fine societario, ma altresì ontologicamente preordinata ad accrescere e soddisfare determinati bisogni della collettività.
Infine la terza modalità operativa delle società miste si sostanzia nel riconoscimento del semplice controllo esterno da parte del pubblico sulla compagine societaria.
Questa ipotesi poggia su una duplice considerazione.
Da un lato è indubitabile la necessità che i controlli pubblici non azzerino la cifra di specificità della PA rispetto ai privati, pur non defluendo in un regime pubblicistico, eccessivamente rigido e contra naturam.
Dall’altro è richiesto l’abbandono alle categorie del diritto privato capaci, sufficienti ed adeguate a garantire la tutela dell’interesse pubblico che ha determinato la partecipazione pubblica.
Il richiamo pertanto ad un ulteriore parametro – il rispetto del principio di buona fede nell’esecuzione del contratto sociale – atto a circoscrivere eventuali condotte dei singoli soci lesive dell’interesse sociale, acquista una peculiare valenza nelle società miste, laddove l’equilibrio degli interessi dei soci è teleologicamente più instabile.
In siffatto quadro l’art. 2497 c.c. appronta una particolare forma di tutela per i soci esterni al gruppo di controllo e per i creditori contro eventuali violazioni dei principi di corretta gestione della società che deve svolgersi in coerenza con l’interesse comune sociale.
Tutte le ipotesi sottendono però la ricostruzione delle tecniche di tutela dell’interesse pubblico relativamente all’opzione prescelta.
Non solo. Esse reclamano una più accurata definizione delle tappe del passaggio dal precedente sistema di organizzazione amministrativa solitario monistico ad un sistema odierno – almeno tendenzialmente – plurale composito.
6. Per una ridefinizione della partecipazione azionaria pubblica
Già da anni attenta dottrina ha sottolineato il declino ineluttabile cui il modello della società mista pare avviato, almeno come intesa dal legislatore. Si è cercato di dimostrare in queste pagine come, nei fatti, ciò sia conseguenza della mancata realizzazione in forma coerente dell’auspicato richiamo al modello civilista di società, con un significativo parallelismo col mai compiuto percorso di liberalizzazione e privatizzazione.
La riflessione su questo tema, pertanto, necessita, come anticipato in premessa, di una chiara scelta di sistema – di sistema economico si intende – in grado di definire il ruolo ascritto allo strumento societario partecipato ma, primariamente, di palesare il tipo di intervento pubblico nel sistema economico.
Oscillazioni improvvide da modelli di mercato dirigistici in cui la cifra di intervento pubblico è legata da contingenze economiche emergenziali o pseudo “interessi superiori” da salvaguardare; a modelli concorrenziali ed, infine, verso modelli ibridi non risultano rispettose in concreto degli interessi della collettività, né, tantomeno, dei principi generali degli istituti giuridici che perdono, nel succedersi di queste scosse, i loro tratti caratteristici.
La cura dell’interesse pubblico, in sostanza, non appare in antitesi insormontabile col normotipo civilista di società.
Laddove il socio pubblico abbia ravvisato ragionevoli motivazioni ad intraprendere attività di impresa è nel diritto commerciale che trova gli strumenti idonei a tutelare congruamente la propria posizione.
Se il modello societario rappresenta, al contrario, un rischio, risulta evidente optare per una diversa soluzione organizzativa, non certamente manipolare il normotipo civilista snaturandone i caratteri essenziali.
Assai più coerente risulterebbe volgersi, a seconda dei contesti di riferimento, verso forme di gestione chiaramente interne, oppure esternalizzare servizi ed attività: la scelta del modello ottimale per conseguire l’interesse pubblico va fatta a monte, non con un intervento a valle.
Difficile, anche se non impossibile, appare intraprendere una terza via, caricando le società partecipate di finalità sociali – tradizionalmente afferenti alla sfera della politica piuttosto che all’economia. Siffatta interiorizzazione funzionale a la Rathenau appare comunque, allo stato attuale, assai lontana dalla sensibilità del nostro contesto culturale, normativo e politico.
La bibliografia sul tema è assai vasta, ci si limita a citare solamente alcuni contributi: AMORTH A., Osservazioni sui limiti dell’attività amministrativa di diritto privato, in ID., Scritti giuridici,. 1931-1939, Vol. I., 1999, Giuffrè, p. 273 ss.; BERTI G., Il principio contrattuale nell’attività amministrativa, Scritti in onore di Massimo Severo Giannini, 1988, Giuffrè; LEDDA F., Dell’autorità e del consenso nel diritto dell’amministrazione pubblica, in Foro Amm., 1997, II, p. 1561 ss.; SORDI B., Pubblica amministrazione, negozio e contratto: universi e categorie ottocentesche a confronto, in Dir. Amm., 1995, p. 483 ss.
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