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La sindrome Nimby nelle infrastrutture pubbliche
Il caso dell’ambiente
I recenti drammatici eventi legati alla discarica di Terzigno hanno fatto tornare prepotentemente al centro della cronaca l’emergenza dei rifiuti in Campania e hanno suscitato un acceso dibattito sulla cosiddetta sindrome Nimby.
Con il termine Nimby che, come è noto, è l’acronimo inglese di Not in My Back Yard (non nel mio cortile) si intende un fenomeno di resistenza e di protesta contro opere di interesse pubblico che hanno, o si teme possano avere, effetti negativi sul territorio in cui vengono costruite. Tale fenomeno ha portata affatto generale ed ha riguardato, nelle esperienze italiane ed estere, una vasta varietà di interventi: dalle vie di comunicazione, alle centrali elettriche e agli elettrodotti, ai depositi di sostanze pericolose, ai termovalorizzatori, alle discariche di rifiuti, ecc. Oltre ad essere esteso il problema è anche mutevole nel tempo. Nato come contestazione promossa e realizzata da gruppi di cittadini la tendenza è ad una crescente politicizzazione. Le proteste spesso non solo sono affiancate e, per così dire, “cavalcate” dalle opposizioni, ma sono fatte proprie dagli stessi amministratori locali che, per contenere le perdite di consenso, partecipano attivamente a tali manifestazioni con l’obiettivo di procrastinare la realizzazione delle opere. Alla sindrome Nimby si accompagna così il fenomeno Nimto, e cioè Not in My Term of Office (non durante il mio mandato elettorale). Ciò è confermato anche dai dati dell’Osservatorio del Nimby Forum dai quali emerge che se, come era da attendersi, al primo posto delle contestazioni si collocano, con il 40,7%, i movimenti dei cittadini, al secondo posto, con il 31,4%, vi sono gli amministratori pubblici che sopravanzano di oltre 15 punti gli stessi rappresentanti delle opposizioni.
Il risultato di questo sempre più stretto nesso tra Nimby e Nimto è la tendenza allo stallo, quella che i sociologi definiscono “la tirannia dello statu quo”. In sostanza avviene che in una situazione caratterizzata da elevata frammentazione non è sufficiente che i soggetti politici e di governo assumano una decisione in quanto la contrarietà di istanze, per quanto minoritarie, collocate in uno dei numerosi passaggi del sistema decisionale, può configurarsi come un vero e proprio potere di veto. La conseguenza è il mantenimento della situazione in essere quasi sempre inaccettabile e non preferita da nessuno.
Alla base del problema vi sono dunque prassi amministrative e procedure di decisione pesanti e irrazionali sottoposte ad interminabili serie di pareri e giudizi che rischiano di incepparsi ripetutamente dilatando così a dismisura i tempi con il rischio di superare le scadenze delle legislature e delle consigliature con il possibile mutamento di maggioranze politiche. La riforma del processo decisionale, per quanto fondamentale, non esaurisce, tuttavia, l’intera gamma dei problemi da cui scaturisce il Nimby. Alla base del conflitto, infatti, risiedono motivazioni diverse e complesse che una più razionale prassi amministrativa può facilitare ad affrontare ma non certo superare dalle fondamenta.
Da questo punto di vista un primo elemento da considerare riguarda proprio le logiche di intervento. In questi anni siamo stati abituati a comportamenti volti non tanto ad adeguare progressivamente le infrastrutture alle esigenze di sviluppo e riequilibrio, quanto piuttosto a rispondere a situazioni di emergenza da tamponare al più presto. Esempi anche recenti dimostrano che le decisioni di investimento sono prese non a priori in un quadro di pianificazione, bensì a posteriori sotto la pressione di eventi divenuti incontrollabili. L’assenza di organicità di interventi realizzati su queste basi costituisce di per sé un motivo sufficiente per dubitare della loro coerenza in quanto le scelte rischiano di rispondere ad una gerarchia di urgenza dettata non solo e non tanto dalla loro importanza relativa bensì dalla capacità di pressione dei soggetti proponenti e dalla visibilità mediatica delle situazioni. E’ evidente che una tale prassi non contribuisca certo a ridurre il conflitto, bensì, al contrario, ad esaltarlo in quanto offre l’opportunità di condizionare le scelte in relazione al clamore della protesta. Significative, per quanto paradossali, sono le opinioni raccolte tra i manifestanti di Terzigno: fino a quando ci si limitava a pacifiche manifestazioni il problema non veniva percepito da nessuno; solo quando sono scese in campo le minoranze violente si sono conquistate le prime pagine dei giornali e si è ottenuto qualche risultato.
Questa logica decisionale non consente poi un organico processo partecipato fondato sul coinvolgimento delle diverse istanze interessate. A questo riguardo i dati dell’Osservatorio del Nimby Forum ci dicono che le principali motivazioni che animano gli oppositori delle opere riguardano in maggioranza (26%) le preoccupazioni circa gli effetti negativi dell’impianto sull’ambiente ma anche, nel 18% dei casi, le carenze procedurali circa i percorsi autorizzativi e, soprattutto, il mancato coinvolgimento dei diversi attori.
Sul terreno dei processi decisionali relativi alle opere infrastrutturali, come è stato osservato, occorre dunque passare dal government alla governance vale a dire dal governo come azione del soggetto pubblico che provvede direttamente a fornire soluzioni ai problemi, al governo come insieme delle azioni di soggetti diversi pubblici e privati. Con la governance, insomma, si intende un processo fondato su rapporti di collaborazione tra settore pubblico, settore privato e società civile che colloca al centro la dimensione concertativa e consensuale in modo da prevenire le proteste e i conflitti che solitamente insorgono di fronte a scelte calate dall’alto e da responsabilizzare i cittadini nei problemi che li riguardano.
Nelle società post-industriali i conflitti in materia ambientale sono destinati a lievitare e, dato il contesto in cui insorgono, non si può pensare di risolverli con soluzioni autoritarie e unilaterali definite a valle della protesta. Al contrario si tratta di scelte da condividere con gli interessati, non solo per anticipare i conflitti ma anche per valorizzare bisogni ed esperienze concrete - una sorta di “capitale sociale” - finalizzati a definire interventi più vicini alle esigenze reali e alle domande degli attori locali. Per uscire dall’impasse e dalla “tirannia dello statu quo”, la via preferibile in una società aperta e democratica, insomma, è costruire e gestire il consenso sviluppando procedure di dialogo e rassicurazione, dando voce a tutte le istanze e, al termine di tale processo, adottare definitivamente politiche tali da distribuire equamente costi e benefici facendo in modo che l’equità sia visibile e percepita.
La difficoltà di una strategia partecipativa consiste nel fatto che il conflitto si sviluppa lungo vie molteplici e diverse, ardue da comprendere in un disegno politico unitario. Accanto alle ragioni economiche ne coesistono altre, di non minore importanza, che hanno a che fare con la difesa dei fattori costitutivi dell’identità locale o che originano da motivi di malcontento sociale più generale che si catalizzano intorno alla contestazione dell’opera pubblica. Alcuni esempi di tali motivazioni riguardano i rapporti tra i territori sia nel senso che la localizzazione dell’infrastruttura viene concepita come condizionamento alle opportunità di sviluppo (in particolare, ma non solo, turistico) dell’area, sia in quanto tale localizzazione (soprattutto in materia di rifiuti) viene vissuta come una gerarchia di territori: quelli forti portatori di bisogni e quelli deboli deputati alla loro soluzione. Nel settore ambientale non è raro assistere a contestazioni fondate sul rifiuto di divenire la “pattumiera” delle metropoli.
L’elemento decisivo e comune alle diverse motivazioni del conflitto è costituito dalla circostanza che la localizzazione di tali opere produce benefici diffusi e, comunque, goduti anche da soggetti esterni, mentre i costi e i rischi sono localizzati e concentrati. In linea di prima approssimazione le opposizioni potrebbero essere superate mediante la fissazione di un adeguato risarcimento, sia di carattere economico, sia ambientale, sia normativo. In particolare i Comuni che ospitano gli impianti potrebbero compensare i propri cittadini riducendo i prezzi dei servizi resi in altri ambiti ad esempio abbassando o addirittura annullando le aliquote dell’ICI. Oltre alle compensazioni economiche se ne potrebbero pensare altre di natura ambientale. Ad esempio si potrebbero prevedere, a fronte delle emissioni degli impianti localizzati sul territorio (comunque da ridurre al minimo), interventi paralleli sull’insieme dei fattori di inquinamento che gravano su quel territorio: non solo quindi l’isolamento termico e acustico dell’impianto ma anche altre misure riguardanti la riqualificazione edilizia, incentivi all’impiego di fonti rinnovabili, miglioramento del sistema del trasporto pubblico finalizzato a ridurre il traffico e, quindi, l’inquinamento atmosferico, ecc.
Il presupposto per pervenire a soluzioni positive del conflitto è dunque prevenirlo grazie ad un’analisi attenta del problema fondata sul dialogo preliminare con i soggetti interessati mediante pratiche partecipative. In generale il ruolo fondamentale della partecipazione consiste proprio nel favorire una consapevolezza collettiva del problema e nell’impegnare la comunità intorno ad esso. Questo esito è tanto più raggiungibile quanto maggiore è il livello preventivo di condivisione che dunque non deve limitarsi a promuovere il dialogo quando le soluzioni sono già state individuate.
In materia di rifiuti occorre partire dal presupposto che il percorso di innovazione del settore, inaugurato dal Decreto Ronchi del 1997 e poi ribadito e valorizzato dal Codice ambientale del 2006 comporta un elevato livello di partecipazione dei cittadini e degli operatori economici e un rilevante fabbisogno di investimenti in infrastrutture. La strategia prevista in queste norme prevede infatti una precisa gerarchia per una corretta gestione dei rifiuti mediante un’articolazione in quattro livelli: innanzitutto la riduzione della produzione dei rifiuti, poi il recupero di materiale dai rifiuti (separando le frazioni pericolose e utilizzando la raccolta differenziata), poi ancora il trattamento dei rifiuti residui (riuso, riciclaggio, e recupero di materia ed energia), infine, come ultima opzione, lo stoccaggio in discarica della sola frazione non recuperabile (in forma inerte e non pericolosa). Una strategia di gestione dei rifiuti fondata su tali obiettivi impone non solo comportamenti coerenti ed un concreto impegno dei diversi protagonisti, ma anche la presenza di una vasta e diffusa dotazione infrastrutturale che prevede, per i materiali derivanti dalla raccolta differenziata, impianti di riciclaggio (frazioni secche) e compostaggio (frazioni organiche); per i rifiuti indifferenziati impianti per il trattamento meccanico-biologico per la produzione della frazione combustibile (CDR) e della frazione organica stabilizzata (FOS); poi impianti per il trattamento termico ai fini del recupero energetico dei rifiuti indifferenziati e delle frazioni combustibili derivate (CDR); infine discariche per lo smaltimento degli scarti di lavorazione e dei residui di trattamento.
La sindrome Nimby rischia dunque, a prescindere anche dalle intenzioni, di vanificare il processo di cambiamento e, per effetto di quella che sopra abbiamo definito “tirannia dello statu quo”, privilegiare di fatto le soluzioni più antiquate, inquinanti ed antieconomiche. Per semplificare un tema assai articolato e complesso partiamo dal momento del trattamento dei rifiuti. La contestazione diffusa dei termovalorizzatori è spesso fondata su informazioni non del tutto corrette e aggiornate. Spesso si fa riferimento a dati di emissioni riferiti a vecchi impianti presso i quali si sono riscontrati effetti non trascurabili sulla salute. Le analisi condotte su impianti moderni dimostrano che le emissioni da essi prodotte non determinano ricadute di rilievo sull’atmosfera. Tutto dipende dalle tecnologie adottate nella costruzione e, naturalmente, dal tipo di rifiuto immesso nell’impianto. Queste prime notazioni richiamano l’importanza della concertazione: non un’ostilità preconcetta nei confronti dell’investimento ma condizioni e garanzie circa le caratteristiche e la gestione dell’impianto e un impegno preciso nelle fasi a monte, con particolare riguardo alla raccolta differenziata e agli impianti di trattamento meccanico-biologico dei rifiuti indifferenziati.
Le emissioni dei termovalorizzatori non costituiscono un valore da considerare in assoluto, bensì in relazione alle alternative di smaltimento. Gli scenari “a rifiuti zero” spesso invocati come la vera soluzione del problema sono praticabili, almeno nel breve periodo, solo in alcuni contesti, non certo in quelli in emergenza. Per quanto riguarda, poi, i materiali avviati ai vari cicli di recupero se essi non trovano mercato, come frequentemente capita a quelli provenienti dalla selezione meccanica dell’indifferenziato, divengono rifiuti speciali che devono comunque essere smaltiti prendendo la strada delle discariche sparse sul territorio nazionale. Se poi i contestatori delle discariche impediscono la loro localizzazione sul territorio in base al principio di autosufficienza e prossimità il rischio è ancora più grave: il viaggio dei rifiuti urbani e speciali in siti diversi, non tutti sotto controllo. A partire, quindi, dalle contestazioni ai termovalorizzatori per il rischio di un “danno” limitato e calcolato, si passa al ben più invasivo effetto inquinante delle discariche e, in seguito alle proteste per tali insediamenti, all’emergenza rifiuti e, nei casi peggiori, alla malavita organizzata che considera tale emergenza un affare lucroso. |