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Decreto Bersani e società miste. Commento alla sentenza del Consiglio di Stato, adunanza plenaria, 4 agosto 2011, n. 17.
di Ramona Cavalli 21 ottobre 2011
Materia: società / disciplina

In tema di società miste, recentemente sono state sottoposti all’esame dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato alcuni interessanti quesiti interpretativi in relazione al divieto posto dall’art. 13 del d.l. n. 223 del 2006. Nella fattispecie, un Comune bandiva una gara di appalto di rilevanza comunitaria, con il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa, per l’affidamento del servizio energia, comprendente l’esercizio, la manutenzione e la riqualificazione impiantistica degli impianti termico-elettrici dell’amministrazione comunale per la durata di dodici anni. Alla gara partecipavano diverse società; tra queste la S. s.r.l., a capitale misto pubblico - privato, svolgente attività inerenti a servizi pubblici locali, controllata da A. s.p.a., che veniva esclusa dalla gara in virtù del disposto dell’art. 13 del d.l. 4 luglio 2006, n. 223, convertito in legge, con modificazioni, dall’art. 1 della l. 4 agosto 2006, n. 248 (cd. “Decreto Bersani”). La società S. impugnava il provvedimento di esclusione, in uno a quello di aggiudicazione disposto in favore della T. s.p.a., evidenziando due distinti profili: la circostanza di essere controllata da A. s.p.a., dunque non partecipata direttamente dagli Enti locali, soci di A. medesima, non trovando perciò applicazione i vincoli e le limitazioni previsti dall’art. 13 del d.l. n. 248 del 2006; l’insussistenza di preclusioni all’esercizio di attività extraterritoriali per A. s.p.a., in quanto società mista per la gestione di servizi pubblici locali, e dunque anche per le proprie società controllate o partecipate.

Il TAR Emilia Romagna accoglieva il ricorso, dichiarando l’illegittimità dell’esclusione, in applicazione della distinzione, formulata dalla Corte costituzionale (sentenza n. 326 del 2008), fra “società strumentali” degli enti territoriali ad oggetto sociale esclusivo, per le quali è possibile l’affidamento diretto senza previa gara, e “società a partecipazione pubblico - privata”, non ad oggetto sociale esclusivo, fra cui rientrano anche le società miste per la gestione di servizi pubblici locali, per le quali non vi può essere affidamento pubblico in assenza di procedura concorsuale. Il giudice di prime cure riteneva che le attività di natura diversa, statutariamente previste, non potessero essere considerate strumentali ai fini dell’applicabilità dell’art. 13, in quanto non statutariamente previste per essere esercitate a favore dei soci con affidamento diretto. Esse, quindi, potevano essere svolte a favore di chiunque le richiedesse, in regime di piena concorrenza. Il Tribunale amministrativo statuiva, altresì, che a prescindere dalla qualificazione di A. s.p.a., non fosse applicabile il divieto nei confronti della società S., in quanto l’art. 13 cit., norma eccezionale da interpretarsi in stretta aderenza al suo dato letterale, impediva di estendere il divieto alle forme di partecipazione indiretta o mediata e, quindi, anche alle società cd. di terzo grado, come nel caso di S. A seguito del’appello, venivano sottoposti all’esame dell’Adunanza Plenaria due nodi interpretativi,  il primo dei  quali attinente  all’art.13 del d.l. n. 223 del 2006, convertito, con modificazioni, dalla l. 4 agosto 2006, n. 248, che impone alcune limitazioni alle società costituite dalle Amministrazioni pubbliche regionali e locali per la produzione di beni e servizi strumentali all’attività di tali enti, con esclusione dei servizi pubblici locali, nonché, nei casi consentiti dalla legge, per lo svolgimento esternalizzato di funzioni amministrative di loro competenza .

Sul piano normativo il comma 1, al fine di evitare alterazioni o distorsioni della concorrenza e del mercato e di assicurare la parità degli operatori, dispone che tali società a capitale interamente pubblico o misto devono operare esclusivamente con gli enti costituenti ed affidanti, non possono svolgere prestazioni a favore di altri soggetti pubblici o privati, né in affidamento diretto né con gara, e non possono partecipare ad altre società o enti. Mentre a norma del comma 2, le predette società sono ad oggetto sociale esclusivo e non possono agire in violazione delle regole di cui al comma 1, il comma 3 detta una disciplina transitoria per la cessazione delle attività non consentite ed il successivo comma 4 dispone per i contratti conclusi dopo l’entrata in vigore del decreto legge, prevedendo la nullità di quelli in violazione dei commi 1 e 2 .

La norma de qua trova il suo fondamento nella  Direttiva n. 2004/18/CE del 31/3/2004, che ha previsto la necessità per gli Stati membri di provvedere alla regolamentazione dell’accesso al mercato degli appalti pubblici da parte di organismi di proprietà o partecipati da enti pubblici, proprio per evitare distorsioni della concorrenza nei confronti di soggetti privati,  tuttavia escludendo che il riconoscimento della legittimazione a concorrere extra moenia contrasti in qualche modo con i principi in materia di concorrenza e di parità di trattamento fra imprese pubbliche e private. La giurisprudenza, in conformità a tali statuizioni, ha affermato che non costituisce automaticamente violazione del principio di parità di trattamento (e della concorrenza)  il solo fatto che amministrazioni aggiudicatrici ammettano alla partecipazione ad un procedimento di aggiudicazione di un pubblico appalto organismi che beneficiano di sovvenzioni pubbliche, poiché non sussiste a livello di normativa comunitaria un espresso divieto di partecipazione di tali organismi a dette procedure di appalto (così: Corte di giustizia 7/12/2002; V Sez., 27 settembre 2004, n. 6325; 12 giugno 2009, n. 3767), salvo procedere ad una accorta e puntuale valutazione della congruità dell’offerta, per evitare che un’offerta particolarmente bassa possa essere proprio il frutto della predetta particolare posizione dell’organismo a partecipazione pubblica che ha preso parte alla gara (V Sez., n. 3767 cit.; 3 settembre 2001, n. 6525; 7 settembre 2004; n. 5843; 3 ottobre 2005, n. 5304; C.G.A. 21 marzo 2007, n. 197).

Nel 2008 l’art.13 del d.l. n. 223 del 2006 è stato sottoposto all’esame anche della Corte costituzionale con la sentenza n. 326, la quale ha  rilevato che le disposizioni di cui al d.l. n. 223 cit. sono fondate sulla distinzione fra attività amministrativa in forma privatistica e attività d’impresa di enti pubblici. Secondo tale interpretazione, entrambe possono essere svolte attraverso società di capitali che operano per conto di una pubblica amministrazione, ma solo nella seconda ipotesi, vi è erogazione di servizi rivolta al pubblico (consumatori o utenti) in regime di concorrenza. La ratio delle disposizioni in questione è quella di separare le due sfere di attività per evitare che un soggetto, che svolge attività amministrativa, eserciti allo stesso tempo attività d’impresa, beneficiando dei privilegi dei quali esso può godere in quanto pubblica amministrazione. In tale senso, agli Enti Locali è imposto di esercitare la libertà di iniziativa economica distintamente dalle proprie funzioni amministrative, rimediando ad una frequente commistione che il legislatore ha reputato distorsiva della concorrenza.

Complementare rispetto alle disposizioni sopra illustrate, è poi il divieto imposto alle società strumentali di detenere partecipazioni in altre società o enti, essendo volto ad evitare che le società in questione svolgano, indirettamente, attraverso proprie partecipazioni o articolazioni, le attività loro precluse. Nello specifico, tale  norma  vieta solo di detenere partecipazioni in società o enti che operino in settori preclusi alle società stesse.

Dall’enunciato dell’art. 13, così come interpretato dalla Corte costituzionale, si evince che la limitazione alla legittimazione negoziale delle società strumentali si riferisce a qualsiasi prestazione a favore di soggetti terzi rispetto agli enti costituenti, partecipanti o affidanti, senza che a nulla rilevi la qualificazione di tale attività. La qualificazione differenziale tra attività strumentale e gestione di servizi pubblici deve essere, invece, riferita non all’oggetto della gara, bensì all’oggetto sociale delle imprese partecipanti ad essa (V Sez., 22 marzo 2010, n. 1651).

Il divieto di fornire prestazioni a enti terzi, infatti, come si è detto, colpisce le società pubbliche strumentali alle amministrazioni regionali o locali, che esercitano attività amministrativa in forma privatistica, non anche le società destinate a gestire servizi pubblici locali che esercitano attività d’impresa di enti pubblici (IV sez., 5 marzo 2008, n. 946; V Sez., dec. n. 1651 cit.; 12 giugno 2009, n. 3767; 22 febbraio 2010, n. 1037; 16 novembre 2010, n. 8069).

Nella fattispecie rimessa all’esame dell’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, rilevata l’esistenza di contrasti giurisprudenziali, veniva chiesto se l’art. 13 d.l. 4 luglio 2006, n. 223, potesse applicarsi o meno all’ipotesi in cui la società a capitale misto, con scopo statutario non esclusivo e che intenda operare, mediante una società interamente partecipata, in favore di enti locali non soci, possa legittimamente concorrere a gare per gli stessi servizi, rispetto ai quali ha già affidamenti diretti da parte dei soci pubblici. 

In un primo momento infatti, la giurisprudenza ha ritenuto applicabile la norma contenuta nel “Decreto Bersani”  solo alle  società strumentali, destinate a produrre beni e servizi finalizzati alle esigenze dell’ente pubblico partecipante, così differenziandosi dalle società a partecipazione pubblico- privata, esercitate secondo modelli paritetici, in cui il ruolo degli enti territoriali corrisponde a quello di un azionista di una società per azioni (IV Sez., 5 marzo 2008, n. 946; V Sez. 16 novembre 2010, n. 8069). Il divieto, in tal caso, è stato ritenuto giustificato dall’essere le società strumentali una longa manus delle Amministrazioni pubbliche, operanti per queste ultime e non già per il pubblico (V Sez., 4346/09; 3766/09; 1282/10; 8069/10; n. 77/2011). E’ stato, invece, ritenuto non operante nel caso di società a partecipazione pubblica che producono beni o servizi per il pubblico (consumatori o utenti) in regime di concorrenza (V Sez., n. 8069 cit.). Diversi gli orientamenti più restrittivi, che hanno applicato il divieto di cui all’art.13 anche alle cd. società di terzo grado (non costituite da enti pubblici e non destinate a soddisfare esigenze strumentali della P.A.) ove l’assunzione avvenga comunque con una quota di capitale pubblico (Sez. V, n. 4829/08), nonché che il divieto abbia portata generale per tutti i soggetti titolari di affidamenti diretti (ancorchè preceduti da gara per la scelta del socio), indipendentemente da ogni considerazione sulla legittimità di tali affidamenti (Sez. V, n. 417/10). Altri indirizzi hanno focalizzato il ruolo svolto dalla specifica missione strumentale della società rispetto all’ente che l’ha costituita o la partecipa per giustificare il divieto legislativo di operare per altri soggetti pubblici o privati (V Sez., 5 marzo 2010, n. 1282; n. 8069 del 2010). Infine, alcune decisioni più rigorose hanno affermato che le preclusioni operanti per le società strumentali debbano essere estese anche alle società da queste costituite, anche per attività non strumentali (V Sez., 22 febbraio 2010, n. 1037; n. 8069/10 cit.).

Pertanto in relazione ai principi esposti il Plenum, accogliendo il dispositivo di prima istanza, statuiva che la soc. ATI S., esclusa dalla partecipazione alla gara pubblica di appalto di rilevanza comunitaria di cui si discute, non rientri nell’ambito del divieto stabilito dal più volte citato art. 13 del d.l. n. 223 del 2006, posto che “Alle società controllate da società strumentali e costituite con capitale di queste sono applicabili gli stessi limiti che valgono per le società controllanti, ove si tratti di attività inerenti a settori precluse a queste ultime. Infatti, l’utilizzazione di capitali di una società strumentale per partecipare, attraverso la creazione di una società di terzo grado, a gare ad evidenza pubblica comporterebbe, sia pure indirettamente, l’elusione del divieto di svolgere attività diverse da quelle consentite a soggetti che godano di una posizione di mercato avvantaggiata  (così Cons. St., Ad. Plen. 4 agosto 2011, n. 17).

Nel caso di specie infatti, la Soc. S. non rientrava nel novero di quelle soggette al divieto in esame, poiché  non ha un oggetto sociale esclusivo né risulta svolgere attività nell’ambito degli affidamenti diretti di qualsiasi genere, essendo società operante nel mercato secondo le regole della libera concorrenza.  Tali conclusioni non possono essere contraddette dalla disciplina dettata dall’art. 23 bis del d.l. n. 112 del 2008 (e successive modificazioni) in materia di affidamento in concessione dei servizi pubblici locali, cui ad abundantiam fa riferimento la motivazione del provvedimento di esclusione della soc. S. Infatti, l’art. 23 bis del d.l. n. 112 del 2008  interviene nuovamente sulla disciplina dell’affidamento e della gestione dei servizi pubblici locali di rilevanza economica, in applicazione della disciplina comunitaria e al fine di favorire la più ampia diffusione del principio di concorrenza, ma pone anche divieti e limiti di partecipazione a gare pubbliche in materia di servizi pubblici locali nei confronti di tutti i soggetti che siano effettivamente titolari di affidamenti diretti di servizi pubblici locali, circostanza che, nella fattispecie, per quanto già detto, deve ritenersi insussistente.

Alla luce delle conclusioni raggiunte va esaminato anche l’altro quesito interpretativo, relativo alla possibilità di estendere le disposizioni limitative di cui ai commi 1 e 2 dell’articolo 13 alle cd società di terzo grado, intendendosi per tali quelle società caratterizzate da forme di partecipazione indiretta o mediata, che non sono state costituite da amministrazioni pubbliche e non sono finalizzate a soddisfare esigenze strumentali delle medesime.

L’Adunanza, a tal proposito, affermava il principio secondo cui “Il presupposto per l’eventuale applicazione dell’art. 13, d.l. 4 luglio 2006, n. 223, anche nei confronti delle società di terza generazione è che la società costituita o posseduta dall’ente locale svolga servizi strumentali per lo stesso. In presenza di tale circostanza la finalità del d.l. n. 223 del 2006, di evitare effetti distorsivi della libera concorrenza, si persegue non solo vietando le attività diverse da quelle classificabili come strumentali rispetto alle finalità dell’ente pubblico, ma anche vietando la partecipazione delle società strumentali ad altre società. L’alterazione della libera concorrenza può realizzarsi anche in via mediata, ossia fruendo dei vantaggi derivanti dall’investimento del capitale di una società strumentale in altro soggetto societario costituito con finalità neppure indirettamente strumentali, ma anzi intrinsecamente imprenditoriali” ((così Cons. St., Ad. Plen. 4 agosto 2011, n. 17; cfr., in termini, V sez. 22 febbraio 2010, n. 1037).

Le argomentazioni addotte dal Consiglio, in particolare, principiano dalla ricordata decisione n. 326/2008 della Consulta, che aveva ritenuto il divieto imposto alle società strumentali di detenere partecipazioni in altre società volto ad evitare che le società in questione svolgano indirettamente, attraverso proprie partecipazioni o articolazioni, attività loro precluse, sebbene lo stesso sia circoscritto solamente alla detenzione di partecipazioni in società o enti che operino in settori preclusi alle società stesse.

Dalle considerazioni esposte si può ricavare il principio secondo cui sono applicabili alle società controllate da società strumentali e costituite con capitale di queste gli stessi limiti che valgono per le società controllanti, ove si tratti di attività inerenti a settori precluse a queste ultime. Infatti, l’utilizzazione di capitali di una società strumentale per partecipare, attraverso la creazione di una società di terzo grado, a gare ad evidenza pubblica comporterebbe, sia pure indirettamente, l’elusione del divieto di svolgere attività diverse da quelle consentite a soggetti che godano di una posizione di mercato avvantaggiata (V Sez., n. 1037/10 cit.).

Né può costituire valido argomento a contrario la previsione dello scorporo di attività non più consentite alle società strumentali di cui al comma 3 dell’art. 13 del “Decreto Bersani”, dovendosi tale disposizione intendere nell’unico senso compatibile con il divieto imposto alle società strumentali di partecipare ad enti, sancito dal comma 1 del medesimo articolo e cioè come volta a costituire un nuovo soggetto societario, destinato a concorrere in pubbliche gare per lo svolgimento di un servizio di interesse generale, che non comporti l’intervento finanziario dell’ente strumentale (cfr. dec. n. 1037 cit.). Tale interpretazione è confermata anche dalla circostanza per cui l’obbligo di cessione a terzi delle società e delle partecipazioni vietate, abrogato dalla legge finanziaria 2007 (art.1, co. 720, l. 27 dicembre 2006, n. 296), è stato poi ripristinato dalla legge finanziaria 2008 (l. 24 dicembre 2007, n. 244, art. 3, comma 29), con la previsione di un termine di adempimento più volte prorogato, da ultimo con l’art. 71, co.1, lett.e) della l. 18 giugno 2009, n. 69 (V Sez., n. 8069 del 2010 cit.).

 

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