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Assetto gestionale e regolazione dei servizi pubblici locali in una prospettiva di responsabilità sociale dell'impresa.
di Bruno Spadoni  (spadoni@confservizi.net) 21 novembre 2003
Materia: servizi pubblici / disciplina

ASSETTO GESTIONALE E REGOLAZIONE DEI SERVIZI PUBBLICI LOCALI IN UNA PROSPETTIVA DI RESPONSABILITA’ SOCIALE DELL’IMPRESA

(Bruno Spadoni)

 

Una riflessione generale sullo stato e sulle prospettive dei servizi pubblici locali non può prescindere da una considerazione preliminare circa il ruolo da essi esercitato nello sviluppo economico in relazione alla compatibilità sociale e ambientale di quest’ultimo. A partire da tale premessa, in effetti, è possibile disporre, per un verso, di una importante chiave di lettura delle vicende del settore, dall’altro verso di un orientamento per la definizione delle strategie da assegnare ai servizi pubblici locali in un quadro generale di politica economica.

L’esistenza di una forte connessione tra sviluppo territoriale e livello di infrastrutturazione, in effetti, è ormai universalmente riconosciuta e assunta come uno dei principali punti di partenza dei progetti di politica economica e industriale. Nei programmi dei Governi succedutesi nelle ultime legislature l’obiettivo di alimentare politiche di investimento volte a rafforzare la dotazione infrastrutturale e, soprattutto, a colmare i pesanti squilibri settoriali e territoriali che ancora affliggono il nostro paese, è stato costantemente posto tra le priorità. Anche nel recente DPEF 2004-2007 l’intento dichiarato è uscire dalla situazione di prolungata stagnazione che caratterizza la nostra, come anche le altre economie europee, mediante un deciso rilancio della domanda interna fondato non solo sull’innalzamento dei consumi delle famiglie, ma anche e soprattutto sulla ripresa degli investimenti per infrastrutture mediante l’avvio di programmi di opere pubbliche collocate in particolare nel Mezzogiorno.

In una situazione di apertura dei mercati anche oltre i confini nazionali e continentali, la competizione si decide anche e soprattutto sulla base dell’efficienza e del livello di infrastrutturazione delle aree in cui le imprese sono collocate. Il problema, peraltro, non si limita esclusivamente ad un fatto quantitativo; un peso crescente viene infatti assunto da aspetti connessi alla qualità dello sviluppo e, con riferimento ai sistemi locali, alle condizioni non solo economiche ma anche sociali e ambientali quali presupposti per l’attrattività di iniziative imprenditoriali. In questa logica la tutela e il rispetto delle risorse naturali e dell’ambiente e il superamento delle situazioni di degrado ambientale e di disgregazione sociale rappresentano presupposti primari per lo sviluppo economico, industriale e degli scambi.

Si tratta, insomma, di superare squilibri che producono circoli viziosi tra degrado e sottosviluppo e innestare circoli virtuosi tra infrastrutturazione, efficienza dei sistemi, investimenti, attività economica. Lo sviluppo, insomma, non può per sua natura prescindere dalla sua qualità in quanto quest’ultima ne garantisce non solo la sostenibilità ma anche il consolidamento. Questi principi, del resto, sono stati più volte affermati e ribaditi in sede comunitaria. La strategia comune per lo sviluppo sostenibile assunta in questa sede, infatti, è fondata su politiche di intervento definite considerando innanzitutto il loro impatto economico, sociale e ambientale.

E’ evidente a tal fine che non è sufficiente ricorrere in via pressoché esclusiva a misure vincolistiche connesse a sistemi sanzionatori, amministrativi e penali, pur rafforzati, coordinati e semplificati. Si tratta di accompagnare queste misure sia con un coerente programma di investimenti pubblici, sia con sistemi di incentivi e disincentivi finanziari e fiscali che orientino e condizionino le scelte degli operatori economici, facendo di queste misure un argomento centrale degli indirizzi di politica economica e industriale.

Da questo punto di vista è rilevante l’obiettivo di rilanciare, anche mediante una semplificazione, le procedure di VIA collegandole con quelle di VAS (valutazione ambientale strategica) e di rafforzare queste ultime prevedendone l’utilizzo nella stesura dei piani e dei programmi statali, regionali e sovracomunali.

In questa direzione sarebbe opportuno prevedere un più sistematico collegamento tra la tradizionale contabilità economica e quella sociale e ambientale, che si sta sperimentando e affermando in particolare nel mondo delle imprese di servizio pubblico locale, al fine di meglio valutare i riflessi complessivi delle politiche di investimento e degli orientamenti gestionali.

Con la globalizzazione, quindi, non si riduce ma si accresce l’importanza del radicamento regionale e locale dell’impresa e dello sviluppo dei sistemi locali. In questo quadro tende a mutare anche l’identità e il ruolo dell’impresa. Se è vero che diviene decisivo il contesto economico, infrastrutturale, sociale e ambientale in cui si esercita l’attività economica e industriale, allora è evidente che si estendono gli obiettivi e i vincoli a cui le imprese devono ispirarsi: non solo produrre specifici beni o servizi in condizioni di economicità, ma anche rispettare compatibilità sociali e ambientali. Superare situazioni di disagio e di degrado e valorizzare il territorio non significa soltanto garantire condizioni di migliore convivenza civile ma anche contribuire in modo decisivo alla competitività delle aree e, per questa via, delle imprese in esse localizzate.

Il Libro Verde della Commissione europea sulla responsabilità sociale dell’impresa (RSI) colloca tale problema nel quadro di un patto volontario, di una promozione di autodisciplina a cui le imprese si sottopongono autonomamente in base alla consapevolezza del comune interesse a creare un ambito sociale e ambientale propizio a favorire l’efficienza e la competitività di sistema. Il Libro Verde definisce, infatti, la responsabilità sociale delle imprese come “l’integrazione su base volontaria dei problemi sociali e ambientali delle imprese nelle loro attività commerciali e nelle loro relazioni con le altre parti”. In base a tale approccio, dunque, essere socialmente responsabili significa andare oltre le norme giuridiche imperative, investendo di più nel capitale umano, nell’ambiente e nei rapporti con gli stakeholders. Nella Comunicazione della Commissione delle Comunità europee relativa al tema in oggetto si afferma infatti che, “adottando comportamenti responsabili le imprese intendono gestire il cambiamento in modo consapevole sul piano sociale, cercando di trovare un compromesso equilibrato tra le esigenze e i bisogni delle parti interessate in termini che siano accettabili per tutti”. Il fine è conseguire l’obiettivo strategico fissato dal Consiglio europeo di Lisbona del 2000, vale a dire  “diventare l’economia della conoscenza più competitiva e più dinamica del mondo, capace di una crescita economica sostenibile accompagnata da un miglioramento quantitativo e qualitativo dell’occupazione e da una maggiore coesione sociale”. In sostanza si tratta di contribuire al rafforzamento e alla concreta adozione della strategia europea di sviluppo sostenibile. In una logica di sussidiarietà, prevedendo quindi che in ciascun contesto nazionale vengano adottate politiche diverse e strumenti adeguati, il principio di base su cui si fonda l’orientamento comunitario è la promozione di un “sistema di governance globale che includa anche le dimensioni sociale ed ambientale in grado di rendere sostenibili i processi di liberalizzazione degli scambi commerciali e dei mercati finanziari su scala planetaria”. Secondo la Comunicazione della Commissione, “spetta dunque ai poteri pubblici incoraggiare l’adozione da parte delle imprese di pratiche responsabili sul piano sociale e ambientale”. I principali contenuti indicati nel Libro Verde, richiamati nella suddetta Comunicazione, fanno riferimento alla natura volontaria della RSI e si concretizzano, in sostanza, in politiche di trasparenza, informazione e formazione, scambio di esperienze e di best practices, sensibilizzazione rivolta all’insieme degli stakeholders.

Occorre peraltro osservare che, come è stato da più parti sottolineato in sede di consultazione sul Libro Verde, “le iniziative volontarie non sono sufficienti per proteggere i diritti dei lavoratori e dei cittadini”, occorre a tal fine “un quadro regolatorio che stabilisca norme minime e assicuri parità di condizioni”; “per essere credibili le pratiche in materia di responsabilità sociale delle imprese non possono essere definite, attuate e valutate unilateralmente da queste ultime, ma è necessario piuttosto far partecipare al processo anche le parti sociali” e attivare “meccanismi efficaci che impongano alle imprese di render conto delle ripercussioni delle loro azioni nell’ambito sociale e in quello della protezione dell’ambiente”.

A questo proposito si può considerare, più in generale, che un comportamento cooperativo orientato al conseguimento di obiettivi comuni, pur comportando benefici per tutti, non viene automaticamente e spontaneamente rispettato dai singoli operatori. In assenza di regole ciascuno tenderà a seguire condotte opportunistiche finalizzate a migliorare la propria posizione a prescindere dagli effetti esterni che esse producono (problema del free riding).

In particolare, per tornare al problema in oggetto, un comportamento socialmente responsabile non produce tanto benefici all’impresa che lo persegue in base ad un proprio codice di condotta (quest’ultima rischia addirittura di peggiorare la propria posizione relativa), quanto, soprattutto, nei confronti degli altri operatori economici, dei cittadini e delle istituzioni collocate nell’area di riferimento (effetto spillover). Si tratta, insomma, del problema delle “economie esterne” connesse all’indivisibilità degli effetti di comportamenti responsabili sul piano sociale e ambientale. In sostanza in questi casi una soluzione di mercato  (implicita nell’approccio volontaristico) produce un fallimento del mercato (market failure). Occorre infatti sottolineare che la responsabilità sociale (RSI) è riconducibile ad un bene pubblico, in relazione alle sue caratteristiche di indivisibilità della domanda e dell’offerta e si espone a problemi di market failure a causa soprattutto di effetti spillover e dal prevalere dei comportamenti dei free riders.

A dimostrazione di ciò si può citare quanto è avvenuto nell’esperienza delle imprese pubbliche, in particolare delle imprese pubbliche locali.

Tali imprese hanno perseguito, soprattutto in passato, obiettivi di natura sociale e ambientale, in alcuni casi esplicitamente in altri, molto più spesso, implicitamente. Di conseguenza esse, per un verso hanno mantenuto comportamenti “compatibili”, per altro verso hanno provveduto a colmare i guasti prodotti dagli altri soggetti presenti nel mercato, ispirati esclusivamente a “funzioni obiettivo” private e non sottoposti a misure di regolazione.

In altri termini nel comportamento delle imprese pubbliche locali, con riferimento al contesto storico e politico in cui hanno operato negli anni trascorsi, si può ravvisare l’intreccio di più moventi, alcuni più direttamente riconducibili a logiche di “compatibilità sociale”, altri di “supplenza” rispetto ad un ruolo strettamente pubblico. Ad una prima, schematica, sintetizzazione tali motivazioni possono ricondursi ai seguenti aspetti:

- soddisfare i bisogni dei cittadini garantendo l’accesso al servizio anche alle componenti di domanda a più basso reddito (estensione dell’area di non esclusione dei cittadini);

- garantire l’universalità del servizio sul territorio anche oltre i confini della convenienza economica. In assenza di un’area riservata, la compensazione tra servizi remunerativi e non remunerativi (sussidi incrociati) è condizionata da fenomeni di cream skimming e, di conseguenza, gli oneri connessi all’universalità restano , almeno in parte, a carico dell’impresa;

- assicurare una qualità del servizio adeguata alle aspettative;

- applicare innovazioni tecnologiche finalizzate non solo al contenimento dei costi ma soprattutto al miglioramento della capacità del servizio di soddisfare i bisogni;

- rispettare comportamenti corretti nelle relazioni industriali (applicare i CCNL, non servirsi di lavoro irregolare, ecc);

- adottare soluzioni produttive compatibili con la tutela ambientale, rinunciando a ristrutturazioni che riversano una parte dei costi aziendali sull’ambiente.

In molte circostanze, come si è detto, i comportamenti di queste imprese sono stati più intensamente orientati all’esercizio di un ruolo, non di rado improprio, di supplenza rispetto ad una funzione strettamente pubblica sostenendone gran parte degli oneri. Si può rammentare, a tale riguardo:

- il contributo al contenimento dell’inflazione mediante il mantenimento del livello e della dinamica delle tariffe al di sotto dei costi;

- le politiche redistributive o di sostegno a favore di categorie disagiate di cittadini, mediante tariffe agevolate;

- la tutela dei livelli occupazionali anche a costo di rinunciare a miglioramenti di efficienza aziendale.

L’esercizio di questo complesso insieme di finalità pubbliche, sia proprie che improprie, nonché il rispetto di compatibilità sociali e ambientali, tanto nella gestione aziendale, quanto nell’adozione di innovazioni, è all’origine di standard di economicità ben al di sotto di quelli potenzialmente conseguibili in assenza di tali condizionamenti. Naturalmente non è agevole definire un’area entro la quale collocare la parte dei disavanzi (o dei minori utili) attribuibili ad un comportamento socialmente responsabile o di supplenza ad una funzione pubblica, separandola da quella provocata da condizioni di minore efficienza o dalle caratteristiche produttive e di mercato in cui operano tali imprese.

Come si dirà in seguito una delle ragioni di fondo che consigliano l’adozione di un coerente sistema regolatorio in grado non solo di definire i vincoli e le condizioni entro cui esercitare l’attività imprenditoriale, ma anche di specificare e coprire gli oneri gravanti sui soggetti gestori di servizi pubblici è rappresentata da un’esigenza di efficienza generale di sistema alla cui base risiede la rigorosa definizione di aree di competenza e responsabilità.

A tale riguardo occorre fare un breve richiamo ad un importante aspetto che caratterizza i servizi pubblici locali, con particolare riguardo ad alcune categorie di essi in cui più accentuato è il rapporto diretto con gli utenti e in cui la coincidenza tra il servizio e il processo produttivo è più immediata.

Tali servizi, per loro natura, sono caratterizzati da un’elevata quota di personale e da una modesta possibilità di adottare innovazioni finalizzate al miglioramento di produttività; nello stesso tempo i costi presentano una dinamica di crescita analoga a quella di altri settori. In particolare il costo del lavoro registra un andamento sostanzialmente in linea rispetto a quello delle imprese industriali e, a differenza di quanto accade in queste ultime, non può essere compensato mediante incrementi di produttività (il fenomeno è noto come “Legge della produttività differenziata”). Il risultato è che le gestioni operanti in questi settori sono destinate a vedere progressivamente crescere i propri costi per unità di prodotto e a perdere competitività.

Per le imprese pubbliche locali tale effetto (definito per le sue caratteristiche “morbo dei costi”) si è

in questi anni accentuato in seguito proprio all’esercizio, spesso implicito, di un ruolo sociale e ambientale responsabile e compatibile con gli orientamenti pubblici. Ciò in relazione ai seguenti principali aspetti:

1.         le tecnologie sono state orientate più a migliorare le performances qualitative e ambientali che non a contenere i costi;

2.         la produzione è stata spinta oltre le condizioni di convenienza (per motivi di universalità e di “non esclusione” dei cittadini);

3.         le ristrutturazioni aziendali non hanno avuto per oggetto la riduzione del personale ma la sua riorganizzazione al fine di migliorare le prestazioni verso l’utenza;

4.         i processi di riequilibrio economico e finanziario non hanno comportato un ribaltamento dei costi dall’impresa alla collettività (come è spesso avvenuto in altri contesti settoriali);

5.         l’offerta dei servizi ha prodotto effetti esterni, non divisibili e dunque non remunerati, a beneficio di altri operatori economici.

A ciò, come si è detto, occorre aggiungere il ruolo esercitato da queste imprese in qualità di soggetto “supplente” nell’esercizio di funzioni pubbliche, quali l’attività anticiclica, mediante il contenimento delle tariffe, e  quella di ammortizzatore di tensioni sociali tramite il mantenimento dell’occupazione.

In sostanza tali imprese hanno assorbito e “interiorizzato” il peso di un ruolo socialmente responsabile, subendone interamente gli oneri e non avendo la possibilità di distribuirli, almeno in parte, sugli altri soggetti beneficiari.

In effetti la principale forma di compensazione si è avuta a seguito dei trasferimenti provenienti dall’autorità pubblica, centrale o locale e, indirettamente, dai cittadini in qualità di contribuenti. Tale compensazione, come è noto, ha assunto forme e modalità diverse: dall’iniziale ripiano cosiddetto “a pie’ di lista” dei disavanzi, al più coerente riconoscimento ex ante degli oneri di servizio pubblico mediante il Contratto di servizio. Al contrario nessun onere grava a carico dei principali beneficiari degli “effetti esterni” dei servizi erogati dalle imprese pubbliche, vale a dire gli operatori economici presenti nelle aree interessate. Occorre aggiungere, a tale riguardo, che una parte assai rilevante della responsabilità dell’ammontare massiccio e crescente dei costi dei servizi compete proprio al comportamento di tali soggetti. Questi ultimi, infatti, hanno teso a massimizzare la propria funzione obiettivo sia tramite processi di ristrutturazione, sia mediante innovazioni tecnologiche dirette ad aumentare la produttività e a contenere i costi scaricandone spesso all’esterno gli effetti: sia sull’ambiente (emissioni, inquinamento, congestione del traffico, ecc.), sia sulla società (disoccupazione, disagio sociale).

In altri termini l’effetto che prima abbiamo definito “morbo dei costi” è stato esaltato e accentuato dal comportamento da free rider dell’impresa privata che, per un verso, si è avvalsa dell’innalzamento della competitività delle aree in cui opera per effetto della maggiore dotazione di servizi e infrastrutture (beneficando dunque di economie esterne non pagate), per altro verso ha prodotto diseconomie esterne (ambientali e sociali) frutto delle sue scelte gestionali scaricate sull’intera collettività. A queste ultime hanno dovuto far fronte i servizi pubblici, non solo quelli ambientali, ma anche quelli a rete e di trasporto (a seguito delle scelte localizzative e degli effetti di congestionamento ad esse connessi) e quelli sociali e sanitari.

In base a queste considerazioni si dovrebbe meglio comprendere il senso della precedente affermazione, secondo la quale la responsabilità sociale dell’impresa si configura come un vero e proprio bene pubblico e, in conseguenza di ciò, si determina una situazione di market failure a cui occorre rispondere con un appropriato sistema di regolazione.

E’ generalmente riconosciuto, infatti, che il comportamento delle imprese produce risultati che vanno al di là dei confini aziendali: gli effetti di spillover positivi (occupazione, ricchezza, sviluppo) o negativi (ambiente, disoccupazione, corruzione, ecc.) sono sempre più evidenti ed è diffusa l’opinione che essi devono essere esplicitati e disciplinati. Ciò, come si è visto, anche perché in un mondo globalizzato la competizione è spesso decisa sulla base dell’efficienza dei sistemi locali a sua volta fortemente condizionata dalle loro condizioni non solo economiche, ma anche sociali e ambientali. Mantenere comportamenti socialmente responsabili è pertanto non solo un problema “etico” ma anche strettamente economico in quanto determinante per garantire condizioni di competitività delle imprese.

Le imprese pubblici locali, come si è visto, hanno svolto in materia di conseguimento di obiettivi sociali e ambientali un ruolo chiave, esercitando, da un lato, una vera e propria supplenza rispetto a funzioni propriamente pubbliche, dall’altro una compensazione rispetto a comportamenti da free rider dell’impresa privata. Tale ruolo è stato spesso esercitato in modo implicito. Occorre che nel quadro generale della regolazione esso divenga esplicito nel quadro di una rigorosa definizione della loro missione.

Al riguardo occorre rammentare che tali imprese nell’esercitare le loro funzioni specifiche, assumono un importante ruolo di operatori ambientali per il territorio e le città: da una parte utilizzando e consumando risorse ambientali, dall’altra erogando servizi con effetti diretti sull’ambiente, sul territorio, sulla qualità della vita. l problemi ambientali e sociali per questi servizi, dunque, non si configurano solo nei termini della salvaguardia e del rispetto delle compatibilità, ma anche e soprattutto come argomento centrale degli obiettivi e delle azioni a cui essi sono preposti.

Si pensi, in particolare, al settore idrico in cui l’approvvigionamento, la qualità dell’acqua erogata, l’utilizzo e la restituzione ai ricettori rappresentano attività strategiche ai fini della salvaguardia e del rispetto di una fondamentale risorsa naturale.

Analogamente la gestione dei rifiuti e il loro smaltimento finale esercitano un peso fondamentale sull’ambiente e sulla tutela del territorio.

La produzione delle energie, rinnovabili e non, l’ottimizzazione del consumo dell’energia le emissioni e l’effetto serra costituiscono primari obiettivi ambientali e di gestione delle risorse naturali.

La mobilità e i trasporti nelle città esercitano, da parte loro, un peso di primo piano in rapporto all’inquinamento atmosferico e acustico, all’effetto serra e, in generale, alla congestione i cui riflessi sulla qualità della vita e dell’ambiente urbano sono diretti e molto rilevanti.

Questi sintetici riferimenti al ruolo svolto sul terreno ambientale dai servizi collocati in settori definibili “a rilevanza industriale”, non esauriscono, ovviamente, l’estesa gamma di “effetti esterni” correlati all’attività dei soggetti erogatori di servizi, pubblici, sociali, alla persona; essi sono peraltro utili al fine di meglio comprendere l’importanza di un esplicito riconoscimento e quindi di una quantificazione e di una valorizzazione di tali fenomeni in un contesto generale di regolazione.

Questo contesto –lo si comprende da tutto l’insieme delle considerazioni fin qui svolte- presenta rilevanti caratteri di complessità, vuoi per la numerosità di problemi con cui deve misurarsi, vuoi per la molteplicità degli attori, delle politiche e degli strumenti con cui si trova ad operare. Non si può dunque avere la pretesa di sviscerare l’insieme delle direzioni e delle modalità in cui la regolazione dovrebbe concretizzarsi. Ci si può invece limitare a fornire alcuni elementi generali di riflessione, molto semplificati e, per così dire, “stilizzati”, su quali siano i principali criteri regolatori da privilegiare a seconda delle diverse categorie di problemi.

Da quanto si è affermato in precedenza in ordine alla rilevante e crescente importanza che si riconosce ai riflessi sociali e ambientali dell’attività degli operatori economici e all’insufficienza di un approccio esclusivamente “volontaristico” emerge la rilevanza di definire un quadro di regole di valenza generale e rivolte erga omnes, costituito da indirizzi, vincoli e obblighi. In virtù della definizione di un sistema di regole maggiormente efficace, organico e coerente rispetto all’attuale è lecito attendersi una riduzione dell’impatto sociale e ambientale prodotto dall’attività di tali operatori. Di conseguenza dovrebbero ridursi anche gli oneri che ricadono sulla collettività e le spese che lo Stato, nelle sue diverse articolazioni, deve sobbarcarsi per mantenere la sostenibilità dello sviluppo. Ci si riferisce in particolare, come si è detto in precedenza, ai diversi servizi pubblici, ambientali, sociali, sanitari, che i soggetti pubblici devono, direttamente o indirettamente, garantire per porre rimedio prevenendo ove possibile, oppure facendo fronte ai danni prodotti dai soggetti operanti nel mercato. Sarebbe troppo lunga un’elencazione delle tante possibili categorie di servizi necessari a tal fine; è quindi sufficiente indicare i principali nodi che essi hanno di fronte: inquinamento dell’ambiente (terra, aria, acqua), congestionamento urbano, disoccupazione e sottoccupazione, disagio sociale, povertà ed emarginazione, salute.

L’attivazione di un sistema coerente ed incisivo di regole che tutti sono tenuti a rispettare non esclude, naturalmente, la possibilità che le imprese si dotino di propri codici volontari di comportamento. In tale quadro, anzi, essi verrebbero a configurarsi come completamento di un generale assetto di responsabilità sociale e, in coerenza con i principi del Libro Verde comunitario, assumerebbero più propriamente il senso di strumenti aggiuntivi e integrativi rispetto agli obblighi imposti dalle norme. Entro questa logica muterebbe anche il ruolo e l’importanza degli strumenti che le imprese verrebbero ad adottare per la realizzazione delle proprie strategie di “autodisciplina”. Tali strumenti, pur simili nella forma, sarebbero molto diversi nella sostanza rispetto a quelli finora posti in essere. Superando un’impropria funzione di promozione di immagine e di marketing a cui spesso sono stati confinati essi potrebbero esercitare un duplice ordine di ruoli: per un verso quello di “comunicare” all’insieme degli stakeholders e rendere trasparenti i propri impegni verso la collettività e l’ambiente (codici etici, carte dei valori, ecc.), per altro verso valutare e quantificare i riflessi delle proprie politiche in termini di impatto sociale e ambientale (contabilità e bilanci sociali e ambientali).

Mediante il corretto impiego di questi strumenti, peraltro, le imprese non solo si collocherebbero coerentemente in una logica di responsabilità sociale, ma porrebbero anche i presupposti per una più organica connessione tra assetti regolatori e politiche volontarie. In altri termini grazie ad essi diverrebbe possibile indicare rigorosamente le aree di impegni corrispondenti ad obblighi normativi e quelle assunte volontariamente e, conseguentemente, anche i riflessi in termini ambientali e sociali e la stima del rispettivo contenimento dei costi.

Quanto affermato circa la possibilità di rafforzare e coordinare gli strumenti di regolazione e quelli volontari non significa, ovviamente, che si sia in grado di eliminare il problema delle “diseconomie esterne” ambientali e sociali provocate dall’iniziativa degli operatori economici. Esse possono essere più o meno ridimensionate, in proporzione al peso e all’efficacia dei suddetti strumenti, resta però il fatto che nessun vincolo e nessun incentivo fiscale e finanziario sono in grado di sciogliere il nodo alla radice.

Ciò richiama l’esigenza di completare l’assetto regolatorio: non solo una disciplina erga omnes, ma anche un’altra categoria di interventi da parte dell’autorità pubblica in grado, per un verso, di far fronte alle “diseconomie esterne” prodotte comunque dal comportamento degli operatori economici anche in presenza di una disciplina generale di regolazione, dall’altro di garantire “economie esterne” a favore dello sviluppo, dell’ambiente, della società. A partire da questa affermazione è agevole comprendere la potenziale vastità dell’intervento dei pubblici poteri, la notevole varietà delle sue manifestazioni e la necessità, dunque, di prevederne forme appropriate alle diverse modalità di esercizio. Al fine di iniziare a discutere un tema di cui non può sfuggire la complessità conviene ripartire da un’osservazione condotta nelle parti precedenti relativa all’intimo legame tra disponibilità e qualità dei servizi e competititività delle aree e delle imprese in esse localizzate. Si diceva, al riguardo, che la presenza di un sistema di riferimento efficiente, caratterizzato da una diffusa infrastrutturazione, da un’ordinata convivenza civile e da un’elevata qualità dell’ambiente rappresenta un presupposto fondamentale di sviluppo in un contesto globalizzato. Questa constatazione ci è servita per dimostrare che un comportamento “responsabile” da parte delle imprese non è solo un fatto etico, bensì anche un fattore economico di primaria importanza. Da ciò è scaturita anche la conclusione che la RSI costituisce un “bene pubblico”, sottoposto a problemi di market failure e quindi all’esigenza di regolazione. In base a quanto detto si può aggiungere che anche l’attività di infrastrutturazione e di valorizzazione delle aree presenta numerosi tratti che l’avvicinano alla categoria economica del public good e che pertanto anche in questo caso occorre prevedere una regolazione volta a favorirla, incentivarla e orientarla. Questa affermazione, ovviamente, non è molto diversa rispetto alla tradizionale e diffusa convinzione secondo la quale occorre disciplinare lo sviluppo economico e sociale mediante un’adeguata politica di programmazione. L’elemento di novità é costituito dalla problematica da cui questa esigenza scaturisce e, di conseguenza, dai riflessi in termini di modalità e strumenti mediante cui realizzare l’intervento pubblico. In effetti quando si sostiene che un’attività economica si configura o contiene elementi di public good, ciò non significa che occorre prevedere una produzione pubblica bensì che non è possibile affidarsi completamente al mercato e che occorre porre in essere un sistema di regolazione. Il problema, dunque, per un verso si semplifica, per l’altro si complica in misura assai rilevante, in quanto il quesito che immediatamente emerge consiste nella scelta del tipo di regolazione da adottare. La questione, peraltro, è resa ulteriormente più complessa dalla necessità che tutto “tenga” e sia coordinato. In altre parole – e su questo terreno è più stretto il nesso con la programmazione – è indispensabile che le diverse politiche e i diversi strumenti regolatori, pur rispondenti a meccanismi di funzionamento e di governo in alcuni casi molto diversi, siano tutti ispirati e orientati ad una strategia generale comune.

Si è già visto come uno dei modi, il più soft, attraverso cui esercitare la regolazione consiste nel porre vincoli e incentivi al fine di orientare le scelte degli operatori. In altri termini, in dati assetti di mercato ed entro certi limiti, è possibile limitarsi ad un intervento che non incide direttamente sulle scelte degli operatori ma che si limita a condizionarne le “funzioni di reazione”. Dagli esempi che abbiamo accennato relativi all’obiettivo di contenere i possibili riflessi esterni negativi sul piano sociale e ambientale, abbiamo concluso che tale intervento, pur necessario a ridurre l’impatto e il connesso onere di queste “esternalità”, non è di regola sufficiente ed occorre sia accompagnato e coordinato con altre attività regolatorie.

In sostanza, poiché la compensazione delle residue “esternalità” negative e la produzione di “esternalità” positive impone un’azione di infrastrutturazione e di erogazione di servizi pubblici occorre chiedersi in che modo disciplinare queste attività.

Da quanto si è finora osservato risulta assai chiaro che la funzione obiettivo pubblica (FOP) che i servizi pubblici sono chiamati ad assumere come riferimento presenta numerosi argomenti e necessita in ogni caso di essere ben specificata indicando rigorosamente contenuti, gerarchie e pesi.

A prescindere da quali siano, caso per caso, le modalità preferibili di regolazione, condizione preliminare e fondamentale per un assetto razionale è che le finalità pubbliche siano chiaramente definite non solo nei contenuti, ma, ove ciò comporti degli oneri, anche nella loro quantificazione. In quest’ultimo caso, come si dirà, è altrettanto essenziale che il finanziamento pubblico di detto onere sia tenuto rigorosamente separato e esterno alla gestione del servizio al fine di garantire efficienza e responsabilità nelle diverse aree di competenza (pubblica e gestionale). Soddisfatto tale presupposto la scelta tra le diverse possibili opzioni dovrà essere determinata, caso per caso, in relazione alle diverse caratteristiche produttive e di mercato, alle modalità di erogazione del servizio e al rapporto con i cittadini e gli utenti, al grado di complessità della regolazione e al peso dei costi di transazione ad essa connessi.

Pertanto, una volta specificate le caratteristiche del servizio pubblico locale e il suo peso nella Funzione obiettivo pubblica (FOP) il primo quesito da porsi è se la soddisfazione di quest’ultima può essere garantita in condizioni di concorrenza “nel mercato”. La valutazione è in larga parte determinata dalle caratteristiche produttive del servizio e dal suo specifico rapporto con la FOP. Più precisamente gli elementi fondamentali sono costituiti, per un verso, dall’esistenza di un monopolio naturale, dall’altro dalla presenza di obblighi di servizio pubblico. In linea di principio, dunque, un accesso libero e indiscriminato al mercato, pur nel rispetto di requisiti e regole erga omnes, può essere consentito in tutti i casi in cui non si presentino le suddette condizioni. In tale ipotesi risulta sufficiente una semplice autorizzazione da parte dell’autorità pubblica la quale si limita a verificare se l’operatore che accede al mercato presenta i requisiti soggettivi e oggettivi minimi richiesti. Anche in questa circostanza non si può escludere che il conseguimento delle finalità pubbliche possa comportare un onere. Quest’ultimo, in particolare, potrà essere costituito da risorse impiegate per influenzare le “funzioni di reazione” dei soggetti operanti nel mercato, ad esempio mediante incentivi fiscali e/o finanziari.

Ove le condizioni per realizzare la concorrenza “nel mercato” non siano soddisfatte occorre ricorrere a forme di intervento e di regolazione più incisive e rivolte a disciplinare il comportamento specifico dell’operatore preposto all’erogazione del servizio. L’intero ragionamento, come si può notare, è condotto escludendo l’ipotesi di integrazione verticale tra funzione pubblica e gestione che caratterizza i servizi cosiddetti “in economia” (peraltro ancora largamente diffusi nei servizi alla persona e, sia pure in via di superamento, in taluni settori “a rilevanza industriale”). In queste circostanze, quindi, viene ad istaurarsi una relazione tra autorità pubblica e gestore che assume connotati e forme diversi a seconda degli assetti organizzativi, di mercato e proprietari che vengono scelti. Le possibilità in questo caso sono sostanzialmente riconducibili a due categorie generali: da un lato quella della “concorrenza per il mercato” consistente, nella nostra fattispecie, nella scelta competitiva di un gestore selezionato, oltre che in base ai suoi requisiti soggettivi, anche in relazione alle condizioni di offerta e ai programmi di investimento prospettati. Tale soggetto, in ragione della situazione di monopolio naturale o degli obblighi di servizio pubblico cui è sottoposto, avrà l’opportunità di gestire “in esclusiva” il servizio per un periodo più o meno lungo (uno degli elementi principali per la definizione dell’orizzonte temporale dell’affidamento è costituito dalle caratteristiche produttive del servizio e, in particolare, dalla durata dei piani di ammortamento degli investimenti). Gli strumenti di regolazione in questo tipo di affidamento sono dunque costituiti, per un verso dai contenuti del bando di gara e dall’offerta prospettata dal gestore aggiudicatario nei quali vengono indicati i contenuti generali del contratto tra soggetto pubblico e impresa, proiettati nell’intero arco temporale dell’affidamento stesso, per altro verso da un Contratto di servizio il cui ruolo consiste nella specificazione dei contenuti del contratto sottoscritto all’atto dell’aggiudicazione e nel periodico aggiornamento degli stessi.

Una situazione definibile, per certi versi, intermedia rispetto a quelle finora indicate (concorrenza “nel” e “per” il mercato) può aversi in alcuni casi di separazione tra gestione degli assets ed erogazione del servizio. Ove possibile (in particolare quando in fase di erogazione non sussista un obbligo di servizio pubblico) si può pensare ad un affidamento mediante gara (concorrenza “per il mercato”) della gestione degli assets caratterizzata da una situazione di monopolio naturale e di concorrenza “nel mercato” nel segmento relativo all’erogazione del servizio, presumendo che, in virtù di un diritto di accesso libero ed indiscriminato alle reti, vengano meno barriere all’entrata che ostacolano il pieno esercizio della concorrenza. Ovviamente, come si avrà modo di dire in seguito, la gestione delle reti può essere esercitata anche mediante l’affidamento diretto ad un’impresa pubblica, in tal caso l’ente affidante può trasferire ad essa anche la proprietà degli assets.

Queste ultime osservazioni ci conducono alla seconda categoria di possibilità a disposizione del policy maker nella circostanza in cui non sussistano i presupposti per la concorrenza “nel mercato”: ci si riferisce più precisamente all’affidamento diretto del servizio ad un soggetto imprenditoriale pubblico. Per la verità, in presenza di una situazione di perdurante incertezza normativa con riferimento all’assetto istituzionale generale dei servizi pubblici locali, come è noto, non è ancora del tutto chiaro quali siano i confini entro i quali questa strada sia percorribile né mediante quali modalità, procedure e tempi sia possibile operare. Il recente Decreto legge del Governo (dl 269/2003), così come approvato da un ramo del Parlamento, reca significative modifiche rispetto alla precedente legislazione (d.lgs. 267/2000 e L 448/2001) e prevede per gli affidamenti un quadro che è sintetizzabile nei termini di seguito riportati.

I servizi a rilevanza economica (corrispondenti ad un’area piuttosto estesa, ancora non chiaramente definita, che comunque va oltre quella dei servizi “a rilevanza industriale” disciplinati nelle precedenti norme) possono essere affidati tramite tre modalità:

-  gare con procedure ad evidenza pubblica;

-  affidamento a società a capitale misto pubblico e privato in cui la scelta del partner privato avvenga mediante gara; tali società possono operare senza limiti territoriali e settoriali;

-  affidamento a società a capitale interamente pubblico, sottoposte a controlli pubblici stringenti e con aree territoriali di operatività circoscritte ai confini amministrativi dei soggetti proprietari.

Per i servizi privi di rilevanza economica (quindi prevalentemente servizi assistenziali e sociali), non si esclude, sia pure in termini di eccezione alla regola, la gestione in economia; per essi, invece, non è previsto il ricorso alla gara (concorrenza “per il mercato”) ma soltanto l’affidamento diretto a tre possibili soggetti gestori:

-  le istituzioni;

-  le aziende speciali (anche consortili);

-  le società a capitale interamente pubblico con le caratteristiche e i limiti indicati per quelle comprese nella categoria dei servizi a rilevanza economica.

Il policy maker, dunque, ha a disposizione una diversa gamma di possibilità a seconda della categoria di servizi: per quelli a rilevanza economica può scegliere tra la concorrenza “per il mercato” e le varie possibilità di affidamento diretto; per i servizi privi di rilevanza economica, al contrario, le opzioni percorribili sono circoscritte all’interno delle differenti forme di affidamento diretto.

Non entriamo nel merito della individuazione, caso per caso, della preferibile modalità di affidamento diretto per concentrarci su un problema pregiudiziale, almeno per i servizi a rilevanza economica, quello cioè di come orientarsi circa la scelta tra gara e gestione tramite un’impresa pubblica. In entrambi i casi, è bene ribadirlo, ci muoviamo in un contesto di regolazione specifica, diretta cioè a disciplinare in via negoziale, i rapporti tra soggetto pubblico affidante e soggetto affidatario, tramite Contratto di servizio che naturalmente assumerà forme e valenza differenti a seconda del soggetto –impresa pubblica o gestore privato- con cui è sottoscritto. E’ già emerso, sia pure implicitamente, nelle considerazioni fin qui svolte che sarebbe fuorviante il tentativo di definire una rigida casistica in base alla quale indicare la soluzione gestionale più opportuna. Al contrario occorre prendere le mosse da una situazione estremamente variegata nelle diverse realtà locali tale che per la medesima tipologia di servizio, anche se appartenente allo stesso settore, non si può affatto escludere la preferibilità di assetti organizzativi, gestionali e proprietari differenti. Quest’ultima constatazione non significa peraltro che non si possa approfondire il quadro problematico entro il quale operare la scelta e indicare, anche se in termini affatto generali, alcuni primi elementi di orientamento.

Da questo punto di vista si tratta, prima di tutto, di individuare gli argomenti principali da prendere in considerazione ai fini di un tale orientamento. Di nuovo l’avvertenza necessaria è che anche questi argomenti sono estremamente variabili da un caso all’altro; di conseguenza l’unica possibilità di cui si dispone è di darne un’indicazione che presenta elevati gradi di generalità. Pur con tutte le cautele del caso possiamo sinteticamente elencare tali elementi nei seguenti punti:

- coincidenza tra prodotto e processo produttivo oppure possibilità di specificazione dell’output;

- presenza e intensità di asimmetrie informative (nella forma dell’adverse selection e/o del moral hazard) a vantaggio del gestore (agente) e a danno dell’ente di governo e regolazione (principale);

- grado di specificazione delle clausole contrattuali;

- maggiore o minore possibilità di mutamento esogeno del quadro di riferimento;

- complessità nella definizione degli obiettivi e nel loro monitoraggio.

Dalle suddette caratteristiche scaturiscono diversi costi di transazione che gravano sulla regolazione, tanto più elevati quanto maggiore è la difficoltà di specificazione dell’output e delle clausole contrattuali, quanto più intense sono le asimmetrie informative, quanto più instabile e mutevole è il quadro contrattuale di riferimento e quanto più complessa è la definizione degli obiettivi e delle prestazioni richiesti al gestore.

Tali costi di transazione sono operanti in entrambe le fattispecie di affidamento in discussione: sia, cioè, nel caso di ricorso ad un soggetto terzo selezionato tramite gara, sia nell’ipotesi di gestione mediante un’impresa pubblica. Ciò che muta è la valenza e il peso di ciascuno dei suddetti elementi e la maggiore o minore efficacia degli strumenti a disposizione del soggetto pubblico affidante.

Sarebbe eccessivamente ambizioso pretendere di esaminare a fondo e nel dettaglio il problema appena enunciato; possiamo tuttavia limitarci a mettere in luce alcune sfaccettature dello stesso utili ai fini dello specifico problema in esame. Una prima differenza che si evidenzia consiste nel tipo di obiettivi da indicare al gestore: nel caso di un soggetto terzo questa indicazione dovrà evidentemente concentrarsi sui livelli qualitativi e quantitativi del servizio da erogare, sullo sviluppo degli investimenti, sulla garanzia circa la manutenzione delle reti (si rammenta che la proprietà degli assets viene retrocessa al soggetto affidante al termine dell’affidamento); quando il gestore è un’impresa pubblica gli argomenti fondamentali, oltre agli standard qualitativi e quantitativi del servizio, consistono nel conseguimento di efficienza e di economicità e nella conseguente minimizzazione dei costi e degli eventuali trasferimenti.

Circa la dimensione dei costi di transazione le differenze tra una soluzione e l’altra sono sostanzialmente riconducibili, per un verso alla complessità della regolazione, per l’altro verso al sistema di rapporti tra affidante e affidatario. A tale proposito occorre sottolineare che nell’affidamento tramite procedure di gara, trattandosi del rapporto con un soggetto terzo, l’ente pubblico dovrà indicare e dettagliare, in fase di aggiudicazione, i termini contrattuali del rapporto. E’ pur vero che in sede di contratto di servizio è possibile operare una specificazione ed un aggiornamento; resta tuttavia il fatto che i contenuti principali e fondanti del contratto devono essere definiti ab initio per l’intera durata dell’affidamento e non possono essere mutati unilateralmente nel tempo. E’ chiaro che tale circostanza configura un rilevante motivo di complessità della regolazione, vuoi per l’evidente difficoltà (se non addirittura impossibilità) di prevedere i mutamenti del quadro di riferimento nel corso dell’affidamento, vuoi in rapporto all’arduo compito di indicare un vasto ventaglio di possibili mutamenti, vuoi, ancora, nello specificare per ciascuna eventualità di cambiamento le corrispondenti conseguenze sul piano contrattuale. Nel caso di ricorso ad un’impresa pubblica, pur tenendo conto dell’autonomia ad essa attribuita e dell’ormai completo superamento del tradizionale rapporto di organicità con l’ente pubblico di riferimento, è maggiore l’opportunità, da un lato di definire i rapporti negoziali (in questo caso contenuti esclusivamente nel Contratto di servizio) in modo meno dettagliato, dati i legami e i rapporti fiduciari intercorrenti tra affidante e affidatario, dall’altro, per la medesima ragione, di accorciare l’orizzonte temporale di riferimento circa l’indicazione delle prestazioni e degli obiettivi, consentendone così un adeguamento ai mutamenti del contesto esterno.

Inoltre, pur essendo presente in entrambe le ipotesi il problema delle asimmetrie informative, esso si configura in forme differenti e, soprattutto, produce effetti di portata diversa. Per semplificare al massimo, il gestore privato tenderà a sfruttare opportunisticamente la propria “rendita informativa” consistente in particolare nel monopolio conoscitivo delle proprie funzioni di produzione e dei profili di costo e di ricavo al fine di massimizzare il risultato economico; nell’impresa pubblica tale “rendita” verrà invece fatta valere dal management per fini diversi, corrispondenti alla specifica funzione obiettivo di quest’ultimo: ad esempio dilatare le risorse umane e finanziare a propria disposizione, ridurre l’impegno e le responsabilità, migliorare le prospettive di carriera, ecc. Nel caso dell’affidamento ad un soggetto terzo l’ente pubblico avrà come unica arma quella di affinare gli strumenti di governo, di monitoraggio e di controllo nonché, soprattutto, di rafforzare le proprie strutture preposte a tali compiti. Nell’ipotesi dell’impresa pubblica a questa arma sarà possibile affiancarne un’altra, di particolare efficacia, costituita da una forte “asimmetria dei poteri” fondata sul fatto che in tale circostanza l’affidatario assomma i ruoli di proprietario, regolatore e soggetto di governo.

C’è dunque da attendersi che i costi di transazione, pur presenti in entrambe le soluzioni gestionali, siano comunque più elevati nell’ipotesi di concorrenza “per il mercato”, in una misura tanto maggiore quanto più modeste e inadeguate sono le strutture di monitoraggio e controllo a disposizione dell’ente pubblico, quanto più complessi sono i termini della regolazione e quanto più esteso è il periodo di affidamento.

Un altro elemento da valutare ai fini della scelta circa l’affidamento concerne l’efficienza e l’economicità del servizio. L’opinione tradizionale e tuttora prevalente è che l’impresa privata dia, da questo punto di vista, maggiori garanzie e che, proprio in quanto orientata alla massimizzazione del risultato economico, tenda a utilizzare con maggiore efficienza le risorse e a contenere i costi. In effetti le risultanze empiriche non sembrano confermare l’universalità di questa affermazione. Più incoraggiante e più solido, non solo sul piano empirico ma anche su quello di principio, appare il riferimento ad un altro aspetto, vale a dire il grado di concorrenza dei mercati di riferimento. Scegliendo anche questo criterio si dovrebbe comunque riconoscere una superiore potenzialità di efficienza ed economicità al gestore privato, selezionato mediante procedure concorrenziali, rispetto all’impresa pubblica sottratta al confronto competitivo. A partire da tale assunto –sia pure di principio- si tratta di capire “quanto” questa potenzialità possa tradursi in effettivo risultato. Per comprendere ciò occorre inevitabilmente abbandonare i ragionamenti generali ed osservare le specifiche realtà dei mercati. La misura della “messa a frutto” del potenziale di efficienza, infatti, è strettamente correlato al grado di contendibilità dei mercati di riferimento. Per intenderci, se l’alternativa all’impresa pubblica è costituita da una gara esercitata in mercati caratterizzati da elevati gradi di monopolio e da alti rischi di accordi e collusioni tra i competitori, allora è evidente che non ci si possono attendere grandi risultati; altrettanto dicasi nel caso in cui le tecnologie o la consistenza finanziaria rappresentino una barriera all’entrata di rilevante importanza. La valutazione di tali aspetti, se pure dovrà tenere conto delle caratteristiche produttive e tecniche dei settori interessati, non potrà che essere riferita alla specifica situazione dei diversi mercati di riferimento.

Dalle osservazioni fin qui condotte emergono dunque due prime conclusioni, per così dire, di principio: per un verso i costi di transazione nell’affidamento diretto tenderanno ad essere meno elevati di quelli connessi all’affidamento con gara; per altro verso l’efficienza e l’economicità del gestore selezionato con procedure competitive saranno più elevate di quelle dell’impresa pubblica. La misura di entrambi i fenomeni dipende dalle specifiche situazioni ed è in funzione di circostanze diverse.

La scelta da parte dell’autorità pubblica, se si intende fondarla su motivi strettamente di convenienza, dovrà quindi fare riferimento al confronto tra i due suddetti aspetti. In altri termini si dovrà valutare, nelle specifiche circostanze settoriali, territoriali e di mercato, se i minori costi di transazione consentiti da un affidamento diretto siano o non in grado di compensare i maggiori costi del servizio dipendenti da una più bassa efficienza dell’impresa pubblica.

Più precisamente il confronto dovrà essere costruito considerando, rispettivamente per le due soluzioni gestionali, da una parte i costi di transazione previsti, dall’altra i costi attesi del servizio. Il risultato che scaturisce da tale analisi può costituire un valido punto di partenza per assumere una decisione razionale.

Gli elementi di base per condurre siffatta analisi sono, ovviamente, numerosi e complessi e, per di più, diversi e specifici per ciascun servizio. In termini di prima approssimazione se ne possono indicare sinteticamente alcuni tra i prevalenti:

- livello e dinamica dell’efficienza e dell’economicità del gestore pubblico incumbent;

- valutazione dei margini di miglioramento attesi dall’apertura alla concorrenza mediante la scelta competitiva del gestore; è indispensabile, a tal fine, l’osservazione della dimensione e della struttura del mercato di riferimento (numero e potere di mercato dei competitori potenziali);

- stima dei costi di transazione connessi alle due diverse modalità di regolazione (affidamento diretto e gara);

- definizione dell’orizzonte temporale dell’affidamento in relazione alle caratteristiche tecnologiche ed economiche del servizio e alla scelte tra una gestione verticalmente integrata o separata assets/servizi; ciò nell’assunto dell’esistenza di una relazione direttamente proporzionale tra durata dell’affidamento e costi di transazione;

- analisi delle strutture di regolazione, monitoraggio e controllo disponibili presso l’ente pubblico: trade off  tra efficienza delle strutture e costi di transazione.

La valutazione del soggetto pubblico, per essere efficace, non dovrebbe presentare un carattere né statico, né deterministico, bensì considerare che gli elementi qui sopra sintetizzati presentano nel tempo andamenti che, se pure in parte sono fuori dal controllo di questo ente, in larga misura possono essere fortemente influenzati dalle sue scelte.

Da questo punto di vista alcuni ostacoli alla liberalizzazione che sono stati sopra indicati potrebbero essere progressivamente abbassati grazie ad opportune misure poste in essere dal soggetto pubblico: da un lato rafforzare le strutture interne di monitoraggio e controllo (oppure assegnare tale funzione alle società da esso controllate titolari dell’amministrazione della proprietà degli assets); dall’altro ridurre le durate dell’affidamento, o mediante adeguate procedure di subentro tra gestori (che consentono di superare il problema della lunghezza dei piani di ammortamento degli investimenti), oppure prevedendo la separazione tra gestione degli assets e del servizio; infine definendo in modo più ordinato e preciso i propri obiettivi e priorità al fine di meglio specificare i rapporti contrattuali con i gestori.

Man mano che si procede lungo tale via si creano, quindi, le condizioni per una attenuazione dei costi di transazione e per un parallelo, progressivo, allargamento dell’area di convenienza della soluzione concorrenziale. In altri termini il problema si pone in un duplice senso: da un lato la valutazione ex nunc della convenienza tra forme di affidamento e gestione alternative in base alla stima dei rispettivi costi di transazione; dall’altro la definizione dei percorsi e dei tempi per una progressiva liberalizzazione in relazione alle misure volte all’abbattimento dei costi di transazione stessi. Da questo punto di vista, dunque, il criterio suddetto definisce e qualifica nei modi e nei tempi il processo di transizione dal monopolio pubblico al mercato in una prospettiva razionale e non ideologica. E’ del pari evidente, in tale logica, come non possa indicarsi una soluzione univoca, come il sistema di convenienze sia diverso da caso a caso e come di conseguenza modalità, percorsi e tempi non possano che essere decisi dai singoli soggetti pubblici. Questi ultimi, in base alle specifiche situazioni locali di mercato, a seconda dei servizi interessati, in relazione all’assetto e alle condizioni di erogazione in essere, in considerazione della struttura della propria funzione obiettivo e al peso in essa esercitato dai diversi servizi, potranno delineare sia l’assetto organizzativo, gestionale e proprietario dei singoli servizi o categorie di essi, sia i modi e i tempi della fase di transizione volta alla progressiva affermazione di condizioni di mercato.

 

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