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La nuova disciplina dei servizi pubblici locali - I riflessi sulla concorrenza e sulla politica industriale
di Bruno Spadoni 21 marzo 2012
Materia: servizi pubblici / disciplina

La nuova disciplina dei servizi pubblici locali

I riflessi sulla concorrenza e sulla politica industriale

 

 

A seguito dell’emanazione dell’articolo 4 della legge 148/2011 e delle modifiche ad esso apportate dall’articolo 25 del dl 1/2012, dopo il maxiemendamento recentemente approvato dai due rami del Parlamento, la riforma della disciplina dei servizi pubblici locali presenta alcune significative novità rispetto al passato i cui effetti sono destinati ad avvertirsi sia  sul terreno dell’assetto dei mercati, sia su quello della politica industriale.

Ci si riferisce, innanzitutto, a quanto contenuto nell’articolo 3-bis inserito nella legge 148/2011 concernente “Ambiti territoriali e criteri di organizzazione dello svolgimento dei servizi pubblici locali”. Ai nostri fini è sufficiente concentrarci sul comma 1 di tale articolo focalizzato sul tema dell’organizzazione dei servizi in “ambiti o bacini territoriali ottimali e omogenei”. In questo, come su altri aspetti, sono risultati di notevole importanza gli aggiustamenti al testo originario introdotti dal maxiemendamento del Governo. Nella versione iniziale, infatti, la disposizione prevedeva che le Regioni e le Province autonome di Trento e Bolzano dovessero organizzare lo svolgimento dei servizi pubblici locali in ambiti territoriali non inferiori alla dimensione provinciale entro il 30 giugno 2012.

Al di la dell’indicazione della data di  scadenza che, al pari delle altre previste nel successivo articolo 4, appaiono largamente irrealistiche, il testo presentava evidenti criticità. Innanzitutto si faceva riferimento ai servizi pubblici locali nel loro insieme. Ciò avrebbe prodotto notevoli difficoltà e avrebbe finito per determinare in numerosi casi la sostanziale inapplicabilità delle misure. I servizi pubblici locali comprendono, infatti, sia quelli di rilevanza economica, sia quelli privi di tale rilevanza. Una disciplina di questi ultimi mediante norme nazionali già in passato è stata giudicata incostituzionale in occasione dell’articolo 113-bis della legge 326/2003 soppresso in seguito alla Sentenza 272/2004 della Corte Costituzionale.

Ma, anche a prescindere questa pur decisiva obiezione, resta comunque il fatto che nella maggior parte dei casi sarebbe illogico imporre dimensioni vaste a servizi che, per le loro intrinseche caratteristiche, in quanto servizi alla persona, è più opportuno svolgere a livello comunale o, in alcuni casi, soprattutto nelle grandi aree urbane, su scala subcomunale.

Anche i servizi di rilevanza economica, peraltro, comprendono settori tra loro molto diversi: non solo servizi a rete che, per le loro connotazioni industriali e tecniche, si prestano ad essere gestiti preferibilmente a livello di ambito sovracomunale, ma anche altri servizi con più modesti tratti industriali (ad esempio parcheggi, trasporti scolastici, servizi cimiteriali, mense scolastiche o per anziani, assistenza domiciliare, ecc.) per i quali sarebbe un’impropria forzatura imporre una gestione su area vasta.

Anche l’ulteriore previsione che gli ambiti ottimali e omogenei dovessero avere una dimensione non inferiore al territorio provinciale avrebbe potuto provocare effetti controproducenti, sia nei casi in cui tali ambiti, per motivi legati alle caratteristiche industriali dei servizi o a quelle dei territori, per essere davvero ottimali e omogenei dovessero comprendere aree appartenenti a Province diverse, singolarmente inferiori alla dimensione provinciale, sia quando nelle aree urbane più estese in alcune tipologie di servizi risultasse più razionale ed efficiente una scala inferiore a quella provinciale.

Con il maxiemendamento si è contribuito a porre rimedio a queste criticità: innanzitutto delimitando il campo di applicazione di tale disposizione ai servizi a rete di rilevanza economica, poi specificando che solo “di norma” la dimensione degli ambiti debba essere non inferiore a quella provinciale, consentendo alle Regioni di definire scelte diverse, opportunamente motivate, anche in base a proposte avanzate e condivise da parte dei Comuni interessati.

Un’altra precisazione opportuna ha riguardato la salvaguardia delle scelte adottate in relazione a norme di settore vigenti, in particolare nella distribuzione del gas naturale, nell’idrico e nei rifiuti, anche se, in assenza di prescrizioni diverse, avrebbero comunque prevalso le leggi di settore.

Questo nuovo assetto normativo si presenta, dunque, ad un tempo, rigoroso e duttile: rigoroso in quanto impone, nei servizi in cui è opportuno e necessario, il superamento della frammentazione gestionale che costituisce uno dei principali ostacoli alla crescita imprenditoriale e industriale di questi settori; duttile in quanto evita impostazioni astratte e uniformi consentendo di adottare soluzioni diverse a seconda delle specificità e di non irrigidirsi in scelte dimensionali predeterminate.

Quanto all’articolo 4 le novità sono di notevole portata. La più importante consiste in una vera e propria inversione di impostazione rispetto al passato. In effetti l’attuale disciplina riconduce agli enti locali che decidono di sottrarre i servizi alla concorrenza “nel” mercato e di sottoporli ad un regime di esclusiva l’onus probandi di motivare  tali scelte. In passato l’alternativa veniva posta tra la gara e l’affidamento diretto. Ora la questione della liberalizzazione è posta in termini molto più radicali. A monte della concorrenza “per” il mercato si deve infatti verificare la possibilità di non prevedere alcuna forma di affidamento ricorrendo esclusivamente al mercato. Ne discende l’impegno richiesto agli enti locali di operare una verifica in tal senso in seguito all’esito della quale adottare una “delibera quadro” (da sottoporre al parere dell’Antitrust per i comuni superiori a 10 mila abitanti) nella quale indicare i servizi che si decide di mantenere in esclusiva evidenziando motivazioni e benefici di tali scelte.

Una tale disciplina, aderente agli orientamenti comunitari e condivisibile in linea di principio, presenta tuttavia non trascurabili complessità pratiche. Innanzitutto occorre garantire un nesso tra questa norma e quanto previsto dall’articolo 3-bis sopra illustrato concernente gli ambiti e i bacini territoriali ottimali e omogenei. Ciò implica che la verifica in questione e la connessa delibera quadro non debbano fare riferimento ai singoli enti locali, bensì agli ambiti suddetti, come definiti dalle Regioni relativi a ciascun servizio disciplinato dall’articolo 4 e, di conseguenza, ai soggetti di governo individuati in ciascun ambito. Non ci si sofferma sull’evidente difficoltà dovuta all’incertezza a seguito della soppressione delle Autorità d’ambito dei settori idrico e dei rifiuti (operata dalla legge 42/2010) ed al rischio di eterogeneità delle discipline regionali a cui si demanda. Il punto che si intende sottolineare consiste piuttosto nell’arduo compito di far convergere su una scelta condivisa enti locali diversi quanto a dimensione, caratteristiche territoriali e sociali e connotati  politici.

L’altro rilevante nodo risiede nella definizione delle procedure mediante le quali impostare la verifica e redigere la delibera quadro; compiti assegnati ad un decreto da emanare entro marzo 2012 da parte del Ministro degli Affari regionali di concerto con il Ministero dell’Economia e delle Finanze e con il Ministero dell’Interno sentita la Conferenza unificata.

Senza entrare nel merito di tali procedure si può tentare di indicarne i principali passaggi logici:

-        innanzitutto va rilevata la presenza di un bisogno pubblico suscettibile di tutela per la soddisfazione del quale occorre garantire determinati requisiti in termini di universalità, accessibilità, qualità e sostenibilità economica;

-        se si accerta che tutto ciò è garantito dal mercato senza necessità di un intervento pubblico ci si trova ancora fuori della categoria del servizio pubblico;

-        se viceversa si rileva la non percorribilità dell’ipotesi precedente e si impone l’esigenza di un’azione regolatoria allora si entra nella categoria del servizio pubblico;

-        la verifica, da condurre –è bene ribadirlo- su scala d’ambito territoriale ottimale, consiste nel valutare se l’assetto di mercato sia o meno tale (grado di concorrenza) da consentire una regolazione erga omnes lasciando libero  l’ingresso nel mercato, oppure se si imponga la necessità di ricorrere ad un affidamento da operare, di regola, mediante una gara;

-        nel primo caso (concorrenza “nel” mercato) occorre definire due ordini di requisiti: da un lato quelli, per così dire, oggettivi consistenti nell’indicazione degli obblighi di servizio pubblico a cui chi opera in questo mercato deve sottostare, dall’altro quelli soggettivi relativi all’affidabilità, competenza, esperienza, eventuale possesso di certificazioni di qualità e ambientali, ecc. di cui deve disporre l’operatore per accedere a questo mercato. A coloro che sono disponibili a rispettare le suddette condizioni e sono in possesso dei suddetti requisiti è possibile rilasciare le relative licenze; si tratta in questo caso di valutare se la presenza di una pluralità di concorrenti consenta un sufficiente grado competizione;

-        naturalmente è possibile che una tale verifica sia risolta ex ante senza la necessità di particolari indagini per la presenza di monopoli naturali (in particolare reti e infrastrutture non duplicabili a condizioni economiche) che rendono la concorrenza “nel” mercato non percorribile. In tal caso l’ulteriore analisi consiste nel valutare se sia possibile, a seguito di una separazione delle diverse fasi del servizio verticalmente integrato, isolare quella in cui si concentra il monopolio naturale riservandola in esclusiva, da quella o quelle in cui, tramite il riconoscimento di un diritto di accesso regolato e non discriminato all’infrastruttura fissa, sia possibile operare in condizioni di concorrenza;

-        quando per uno dei motivi a cui si è fatto riferimento non sia perseguibile la concorrenza “nel” mercato occorre ricorrere all’affidamento ad un gestore sottoposto ad una specifica regolazione tramite l’operare congiunto della gara e del contratto di servizio;

-        il ricorso ad un affidamento non comporta in tutte le circostanze un regime di esclusiva. A certe condizioni e in certi casi, infatti, l’affidamento del servizio ad un gestore selezionato con gara (o ad una società in house ove consentito) può essere compatibile con la presenza nel mercato di altri concorrenti;

-        tale questione (su cui non è possibile soffermarci) è assai delicata e complessa ed ha a che fare con il nodo del cream skimming. In sostanza, ove non vi fosse esclusiva, l’ingresso dei concorrenti si concentrerebbe nelle parti più redditizie del servizio lasciando all’operatore affidatario il compito di garantire gli obblighi di socialità e universalità con i connessi oneri. Ciò impedirebbe di utilizzare “sussidi incrociati” volti a  compensare con i surplus delle componenti redditizie i deficit di quelle più esposte ad oneri pubblici;

-        per affrontare il problema del finanziamento degli oneri del servizio universale al di fuori del regime di esclusiva l’alternativa è ricorrere a trasferimenti pubblici compensativi oppure (o contemporaneamente) imporre a chi accede a questi mercati il pagamento di un contributo per alimentare un fondo destinato alla copertura di tali oneri (soluzione quest’ultima possibile ma tutt’altro che agevole sul piano pratico).

In relazione al problema di promuovere la concorrenza ogni volta ciò sia possibile rileva citare un'altra misura compresa nell’articolo 25 posta a parziale modifica dell’articolo 202 del Codice ambientale (D.lgs 152/2006) riguardante gli affidamenti in materia di servizi rifiuti. Per dare conto in modo appropriato di questa disposizione occorre brevemente richiamare uno specifico problema concernente il settore dei rifiuti urbani: in particolare il trade-off tra l’esigenza di ricondurre le varie fasi del servizio ad una logica unitaria superando l’attuale accentuata frammentazione e quella di tenere conto che tra un segmento e l’altro della filiera esistono significative differenze riconducibili alle loro caratteristiche tecnologiche,  organizzative e di mercato. In particolare i servizi  a monte (raccolta, spazzamento, trasporto), prevalentemente labour intensive, hanno la natura di monopoli locali dovuta alla loro meritorietà e alle  esternalità positive che producono. La fase impiantistica, a valle della filiera, invece, è capital intensive e richiede investimenti ad elevato contenuto tecnologico. Ai sensi del Decreto Ronchi (D.lgs 22/2007) queste diverse fasi venivano disciplinate in modo distinto: le attività di servizio assegnate alla responsabilità degli enti locali e sottoposte ad un regime di affidamento, le attività impiantistiche, invece, aperte alla concorrenza “nel” mercato e gestite mediante semplici autorizzazioni (in base agli indirizzi della programmazione regionale e provinciale circa la localizzazione e le caratteristiche degli impianti da realizzare). Le successive norme contenute nel “Codice ambientale” hanno modificato tale disciplina prevedendo un affidamento unico per l’intera gestione del ciclo. Tali misure, in effetti, oltre a  determinare prevedibili difficoltà applicative in una realtà molto variegata (per la presenza di gestioni integrate insieme a diffuse situazioni di proprietà e gestione separate nelle fasi a valle), avrebbero rischiato di ostacolare lo stesso processo di  liberalizzazione: sia la concorrenza “nel” mercato per la fase impiantistica, sia la concorrenza “per” il mercato, in quanto la partecipazione alle gare per la gestione dei servizi sarebbe potuta risultare condizionata alla disponibilità degli assets.

In effetti le specificità tecnologiche, organizzative e gestionali che distinguono i servizi dalla componente impiantistica definiscono mercati rilevanti diversi e agevolmente identificabili che è preferibile disciplinare separatamente con misure appropriate.  Per quanto riguarda gli impianti i fabbisogni sul territorio sono indicati dai Piani regionali in base ai quali le imprese predispongono i progetti di costruzione e gestione da sottoporre ad autorizzazione. Il problema sul piano regolatorio consiste nella disciplina dei rapporti tra la gestione degli impianti e quella dei servizi. A tale riguardo, oltre all’obbligo di garantire un accesso libero e non discriminato alle infrastrutture, si pone l’esigenza di definire un prezzo che garantisca la copertura dei costi e la remunerazione del capitale ma che non contenga rendite di monopolio nei contesti territoriali in cui l’offerta di servizi di trattamento e smaltimento è inferiore alla domanda.  La regolazione del prezzo di accesso alle infrastrutture costituisce una condizione proconcorrenziale per l’affidamento dei servizi a monte della filiera in quanto pone i potenziali competitori su un piano di parità eliminando le barriere all’entrata costituite dalla disponibilità degli assets. Come si è anticipato in virtù delle disposizioni contenute nell’articolo 25 si è riusciti ad affrontare il problema in questione in modo appropriato sia consentendo una gestione separata delle diverse componenti della filiera mediante la rimozione dell’obbligo di affidare l’intero ciclo integrato dei rifiuti, dall’altro garantendo agli affidatari dei servizi di raccolta, raccolta differenziata e avvio allo smaltimento l’accesso agli impianti a tariffe regolate e predeterminate.

 Un altro aspetto di rilievo della nuova disciplina, soprattutto a seguito del maxiemendamento del Governo, concerne le forme di gestione del servizio nel caso di ricorso ad un affidamento. In continuità con le più recenti norme la soluzione indicata come regola è la gara ad evidenza pubblica. Come risultava già implicito nell’articolo 23-bis della legge 133/2009 abrogato a seguito del Referendum, viene ora esplicitato che la società mista in cui il partner privato venga selezionato mediante una gara cosiddetta “a doppio oggetto” e in cui venga ceduto almeno il 40% del capitale pubblico, è accomunata al gestore scelto con gara. Il fatto nuovo, a seguito delle modifiche introdotte dall’articolo 25 del dl 1/2012,  è che alla società mista vengono rimossi i vincoli di operatività (divieto di exraterritorialità, inibizione alla partecipazione alle gare, ecc.) a cui era prima assoggettata al pari degli affidamenti diretti.

La precedente disciplina, in effetti, provocava un significativo vulnus a danno di queste società condannandole ad un futuro di staticità e al loro pressoché inesorabile declino. Un tale trattamento, peraltro, era tanto meno giustificabile in quanto i suddetti vincoli non operavano e non operano nei confronti delle società partecipate quotate pur titolari (a differenza delle miste) di un affidamento diretto senza gara. L’esito di questa disciplina sarebbe stato presumibilmente una forte concentrazione del mercato con l’assorbimento delle società in house in fase di cessazione e delle società miste, impedite a svilupparsi, da parte delle società quotate e di alcuni operatori privati di maggiori dimensioni (in larga misura esteri).

Un esito del genere non sarebbe stato di per sé discutibile in quanto avrebbe pur sempre consentito di affrontare il problema della frammentazione con l’affermazione di un numero ristretto di gestori di rango almeno nazionale. Il problema è che tale esito non si sarebbe verificato come uno spontaneo processo ispirato a motivi di convenienza, bensì in larga misura per effetto delle condizioni di disparità determinate da disposizioni legislative, assumendo così una connotazione almeno in parte artificiosa e rischiando di restringere lo spessore del mercato.

Al riguardo c’è inoltre da sottolineare che nella disciplina transitoria prevista dall’articolo 4, ereditata dall’abrogato articolo 23-bis, l’affidamento diretto a società quotate viene protratto fino alla scadenza naturale a condizione che esse privatizzino la maggioranza del capitale facendo scendere la quota pubblica al di sotto del 40% entro giugno 2013 e al di sotto del 30% entro dicembre 2015. Il rischio, quindi, considerando quanto appena visto circa il favor concesso dalla legge a queste società, sarebbe stato la progressiva privatizzazione di un mercato con forti connotazioni monopolistiche; anzi, ad essere più brutalmente chiari, un incentivo a privatizzare i monopoli pubblici. Un’ulteriore accentuazione di questa non commendevole prospettiva, peraltro, sarebbe venuta dall’obbligo imposto dalla legge alle società miste di cedere almeno il 40% del capitale pubblico non concedendo loro la possibilità di acquisire altre partecipazioni. L’inevitabile risultato sarebbe stato dunque la conquista di questi capitali da parte di società quotate e private a cui, di fatto, sarebbe stata concessa una sorta di “riserva di caccia”.

Con l’articolo 25 del dl 1/2012, come si è detto, queste disparità sono state rimosse e si sono create le condizioni per sviluppare i necessari processi industriali di aggregazione come risultati di confronti paritari tra concorrenti fondati su convenienze imprenditoriali, estendendo la platea dei competitori.

Sempre dal punto di vista della liberalizzazione e da quello della politica industriale un’altra misura di rilievo riguarda la disciplina degli affidamenti diretti in house. Come si è detto questa modalità è stata considerata un’eccezione rispetto alla regola costituita dalla gara e ammessa solo nel quadro di condizioni estremamente rigide. L’articolo 4 ha previsto tale affidamento esclusivamente per servizi di valore non superiore a 900 mila euro e con l’articolo 25 questa cifra è stata abbassata a 200 mila euro. E’ del tutto evidente che una condizione così drasticamente restrittiva non consentirebbe il ricorso a questa forma di gestione in nessun servizio a rete anche considerando quanto previsto dal già citato articolo 3-bis relativamente alla gestione in ambiti territoriali non inferiori di norma alla Provincia.

L’in house, quindi, viene di fatto confinata ai soli servizi non a rete, di minore impatto economico, localizzati nei comuni di più modeste dimensioni. Questo risultato, del resto, corrisponde alle esplicite  finalità del legislatore volte a  restringere al massimo gli affidamenti diretti riducendoli ad un ruolo marginale. A regime, dunque, il nuovo assetto normativo è del tutto in armonia con l’obiettivo di aprire i mercati e sviluppare la concorrenza. Nell’immediato resta tuttavia aperto il problema di numerosi servizi localizzati prevalentemente (ma non esclusivamente) nel Mezzogiorno caratterizzati da elevata frammentazione sia sul piano della frantumazione del servizio nelle sue diverse fasi, sia su quello della dispersione territoriale. C’è poi da aggiungere che in molti casi la minuscola dimensione è accompagnata da forme di gestione ereditate dal passato: quindi non solo società in house ma anche residue aziende speciali, gestioni in economia e affidamenti diretti a società miste. In queste condizioni verrebbero meno i presupposti minimi di convenienza gestionale e il ricorso alle gare da bandire –si rammenti- a livello di ambito territoriale ottimale, rischierebbe di risolversi in un nulla di fatto per assenza di concorrenti.

Per questo motivo nell’articolo 25 si è prevista una misura transitoria di ricorso all’in house volta a favorire l’aggregazione gestionale in una ravvicinata prospettiva di liberalizzazione. Più precisamente si è consentita la costituzione di una in house risultante dall’integrazione operativa di precedenti gestioni in affidamento diretto e in economia tale da configurare un unico gestore del servizio a livello di ambito territoriale ottimale con una durata non superiore al triennio. Questo periodo, peraltro, dovrà essere impiegato non solo per provvedere all’integrazione di gestioni frammentate, ma anche per conseguire condizioni di efficienza ed economicità (verificate periodicamente dall’Autorità di regolazione) al fine di realizzare le condizioni di competitività in vista dell’apertura del mercato. Si tratta, dunque, a ben vedere, non certo di misure elusive della concorrenza (come da alcune parti si è frettolosamente affermato) ma, al contrario, di una disciplina proconcorrenziale finalizzata proprio ad evitare il fallimento della liberalizzazione.

 

 

 

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