HomeSentenzeArticoliLegislazionePrivacyRicercaChi siamo
L'ENTE LOCALE E LA GESTIONE DEGLI IMPIANTI SPORTIVI: LA PAROLA ALLA CORTE DEI CONTI
di Michele Nico 23 aprile 2012
Materia: concessioni / disciplina

L’ENTE LOCALE E LA GESTIONE DEGLI IMPIANTI SPORTIVI:

LA PAROLA ALLA CORTE DEI CONTI

 

La frequenza con cui in questi anni la Corte dei Conti si è occupata dei profili di responsabilità che possono sorgere in rapporto alla gestione degli impianti sportivi di proprietà pubblica è una testimonianza a riprova del fatto che la questione rappresenta ancor oggi un argomento scottante, nell’ambito dell’attività amministrativa dell’Ente locale.

 

Non è facile impresa, in linea generale, determinare in maniera corretta il canone di concessione per l’uso degli immobili pubblici, secondo una ponderata composizione dei contrapposti interessi patrimoniali in gioco.

 

Si può quindi immaginare come tale criticità sia destinata ad accentuarsi riguardo alla concessione degli impianti sportivi, sia per la mutevole redditività che l’uso di tali infrastrutture può generare a favore del gestore, sia per le aspettative di favore che i soggetti concessionari operanti in quest’ambito sociale nutrono, in genere, verso gli amministratori dell’Ente locale.

 

Proprio attorno a queste cruciali tematiche verte il parere della Corte di conti, sez. di controllo per la Lombardia, n. 349/2011/PAR, che si pronuncia sul quesito posto da un Comune per sapere se l’Ente possa concedere in via diretta alla locale associazione sportiva, unica presente sul territorio, la gestione degli impianti di proprietà comunale e dei relativi arredi, senza l’obbligo di versare alcun corrispettivo.

 

A tale quesito si accompagna l’ulteriore istanza volta a conoscere se l’Ente locale possa accollarsi, in tutto o in parte, gli oneri inerenti le spese per l’energia elettrica, la fornitura di acqua e il riscaldamento derivanti dall’uso dei locali da parte dell’utenza, pur restando a carico dell’associazione sportiva gli oneri per la manutenzione ordinaria delle strutture, a fronte del corrispondente diritto di percepire i proventi delle tariffe fissate dal Comune per l’uso degli impianti.

 

Chiede infine l’Ente se possa concedere all’associazione un ulteriore contributo da destinarsi al sostegno delle relative attività in programma e alla promozione della pratica sportiva da parte della popolazione, senza incorrere nelle maglie dell’art. 6, comma 9, del decreto legge 31 maggio 2010, n. 78, convertito nella legge n. 122/2010, che ha fatto divieto agli Enti locali, a decorrere dall’anno 2011, di effettuare spese per sponsorizzazioni.

 

Sotteso alla formulazione di quest'ultimo quesito, inutile dirlo, sta il sottile rilievo secondo cui, da un certo punto di vista, l’erogazione di un contributo pubblico a favore di un soggetto terzo per organizzare un’iniziativa sul territorio potrebbe configurarsi come un servizio di sponsor per promuovere l’immagine dell’attività svolta dal privato, e ricadere così nel divieto posto all’Ente pubblico dalla manovra d’estate 2010, nei termini sopra esposti.

 

Il parere espresso dal giudice contabile a fronte di tali istanze si distingue per l’esemplare chiarezza dell’analisi svolta e individua alcuni importanti punti fermi per orientare al meglio il percorso dell’azione amministrativa, nell’ambito di una materia che, come tutti sanno, non si presta a una facile gestione da parte dell’Ente locale.

 

Osserva la Corte, innanzitutto, che la concessione in uso gratuito di bene immobile, facente parte del patrimonio disponibile di un Ente locale, va qualificata in termini di attribuzione di un “vantaggio economico” a favore di un soggetto di diritto privato, anche se la disciplina codicistica del contratto di comodato pone a carico del comodatario le spese per l’utilizzo del bene, con la diretta conseguenza che la concessione risulta soggetta alle procedure amministrative prescritte dall’art. 12 della legge 7 agosto 1990, n. 241, in materia di provvedimenti attributivi di vantaggi economici.

 

Inquadrata la fattispecie nell’ambito di questo binario, rileva il collegio che, in linea di principio, “non esiste alcuna norma che ponga uno specifico divieto di concessione in uso gratuito di beni facenti parte del patrimonio disponibile dell’Ente locale”.

 

Tutto ciò presuppone l’assunto, beninteso, che rientra nella valutazione autonoma e discrezionale dell’Ente l’onere di evidenziare le finalità pubblicistiche che esso intende perseguire con il contratto di comodato, previa necessaria verifica che l’utilità sociale perseguita sia compresa nelle finalità istituzionali cui l’Ente locale è deputato.

 

È utile evocare, sul punto, una massima storica della Corte dei Conti – lontana nel tempo, ma tuttora valida – a mente della quale “le competenze generali del Comune trovano un limite nelle esigenze di carattere locale e, in particolare, la capacità di intervento sul territorio dell'Ente locale non può estendersi alle materie di competenza di altro Ente pubblico o dello Stato e, ove ciò si verifichi, si realizza un nocumento per l'Ente stesso in quanto l'utilizzo di risorse destinate per bilancio a determinate finalità, in materia difforme dalle previsioni, impedisce il perseguimento dei fini previsti ovvero la realizzazione di economie di esercizio (C. Conti, sez. I, n. 300/1991).

 

Una volta dunque che sia stata riscontrata, da parte dell’Ente, la sussistenza dei requisiti formali e sostanziali sopra esposti, afferma la Sezione che “la natura pubblica o privata del soggetto che riceve l’attribuzione patrimoniale o finanziaria è indifferente, purché detta attribuzione trovi la sua ragione giustificatrice nei fini pubblicistici dell’Ente locale”.

 

Per quanto riguarda poi la compatibilità o no dell’erogazione di un contributo, in siffatte circostanze, con il divieto di sponsorizzazioni sancito dall’art. 6, comma 9, del decreto legge 31 maggio 2010, n. 78, il suddetto parere n. 349/2011/PAR mette in chiaro la pregiudiziale necessità di un “vaglio di natura teleologica”, attraverso il quale l’Ente locale abbia cura di identificare con chiarezza la funzione del beneficio da erogare.

 

Secondo il giudice, infatti, “la spesa di sponsorizzazione presuppone la semplice finalità di segnalare ai cittadini la presenza del Comune, così da promuoverne l’immagine. Non si configura, invece, quale sponsorizzazione il sostegno d’iniziative di un soggetto terzo, rientranti nei compiti del Comune, nell’interesse della collettività anche sulla scorta dei principi di sussidiarietà orizzontale ex art. 118 Cost.”.

 

In definitiva, quindi, la contribuzione dell’Ente locale al soggetto privato deve ritenersi consentita ove risulti finalizzata al sostegno di un’attività propria del Comune in forma sussidiaria, mentre per converso risulta vietata a norma del suddetto art. 6, comma 19, ove l’impiego di risorse si traduca in una forma (anche indiretta) di promozione dell’immagine dell’Amministrazione.

 

Per mettere a fuoco da un diverso angolo visuale le delicate questioni sul tappeto, può essere utile considerare la vicenda, per alcuni versi similare, sottostante la pronuncia n. 725 in data 25 novembre 2010 della Corte dei conti – Sezione giurisdizionale per il Veneto, con la quale i funzionari e gli amministratori di un Comune sono stati condannati per danno erariale, in conseguenza di una irregolare concessione dello stadio comunale a favore di una società sportiva.

 

La fattispecie al vaglio della Corte prende le mosse, in questo caso, dalla delibera con cui la Giunta dell’Ente locale affida in concessione a una società di calcio l’uso del campo sportivo comunale per il periodo 1 settembre 2005 – 31 dicembre 2005, a fronte di un compenso di € 2.500,00 e con l’impegno a carico del soggetto concessionario di provvedere alla manutenzione ordinaria del bene, mediante la pulizia del terreno di gioco, la cura del tappeto erboso e il mantenimento in efficienza dell’impianto sportivo nel suo complesso.

 

Il problema nasce, con tutta evidenza, dalla successiva delibera con cui la Giunta comunale concede alla medesima società l’uso del campo sportivo per un ulteriore periodo a decorrere dal 1° gennaio 2006, questa volta però omettendo la previsione di un canone e ponendo a carico dell’Ente locale gli oneri per i consumi di energia elettrica e gas fino a un predeterminato importo.

 

Tutto ciò accade – ecco il punto! – in contrasto con le norme regolamentari dell’Ente, tra le quali, in particolare, il regolamento comunale per la concessione di sovvenzioni, contributi e agevolazioni economiche, ai sensi del quale “un impianto sportivo comunale può essere dato in utilizzo con incarico di gestione mediante la stipula di una convenzione che preveda: (…) canone e spese ordinarie a carico del concessionario”(art. 31).

 

È in tale peculiare contesto che il Procuratore regionale della Corte dei conti promuove un giudizio di responsabilità avverso i componenti della Giunta, il Segretario comunale e il responsabile tecnico dell’Ente, che con il loro operato avrebbero prodotto un danno alla Pubblica amministrazione.

 

È interessante notare che, secondo la delibera di Giunta censurata dal giudice contabile, la concessione gratuita del bene comunale non si palesava come una graziosa e immotivata elargizione alla società sportiva, dacché nel relativo atto si evidenziava che l’obbligo di pagare un canone risultava de plano sostituito dall’onere a carico della società terza di effettuare molteplici prestazioni di ordinaria manutenzione del campo sportivo, degli spogliatoi e strutture annesse (prestazioni che comunque, nel primo atto di concessione, andavano in realtà ad aggiungersi all’obbligo di versare il canone pattuito).

 

In sede di giudizio, la difesa legale dei soggetti convenuti sottolinea con vigore questo particolare aspetto del rapporto giuridico, sostenendo che le numerose prestazioni poste a carico della società affidataria risultano “chiaramente estranee alle spese gestionali ordinarie e ai compiti di ordinaria manutenzione”, rappresentando attività che, altrimenti, avrebbero dovuto essere svolte dal Comune, con accollo dei relativi costi.

 

Sulla base di questa ricostruzione, i legali del Comune concludono la loro difesa sostenendo che, nel caso di specie, il rapporto concessorio configurato nei predetti termini si atteggia quale evidente scelta discrezionale ispirata a criteri di ragionevolezza e congruità, e risulta – proprio in quanto tale – insindacabile dal giudice contabile, ai sensi dell’art. 1 della legge 14 gennaio 1994, n. 20.

 

Non si rivela però dello stesso avviso la sezione giurisdizionale della Corte, che si pronuncia senza indugio per la condanna al risarcimento del danno a favore dell’Amministrazione comunale, enunciando il principio in base al quale la concessione dello stadio comunale a una società sportiva, a fronte di norme regolamentari che ne prevedono l'onerosità, non può essere deliberata senza previsione del canone, talché rappresenta un danno erariale il mancato introito dei relativi canoni per tutta la durata della concessione (illegittimamente) accordata.

 

A questo punto vi sono alcuni aspetti della vicenda che meritano un approfondimento, per mettere a fuoco alcune utili indicazioni in tema di responsabilità amministrativa, con riguardo all’attività realizzata dall’Ente locale per la gestione del relativo patrimonio.

 

Si osserva in primo luogo che il collegio, facendo leva sul principio, pacifico in giurisprudenza, che sussiste discrezionalità solo quando vi è alternativa fra più comportamenti leciti (e non quando uno dei comportamenti debba escludersi sotto il profilo normativo), dichiara infondate le obiezioni della difesa in ordine alla scelta discrezionale operata dalla Giunta comunale in sede di predisposizione della convenzione, atteso che nella fattispecie in esame si trattava non già di esercizio discrezionale, bensì di applicazione della normativa – rectius di regolamenti approvati dallo stesso Comune – per la disciplina dell’uso degli impianti sportivi.

 

È proprio questo rilievo – ossia l’occorsa violazione delle norme di fonte giuridica secondaria – che fa la differenza, e che induce la Corte a ravvisare, per quanto riguarda l’operato dei funzionari, l’elemento soggettivo della colpa grave, che rende perseguibile la loro condotta antigiuridica.

 

Afferma infatti la Sezione che per l’affermazione della colpa grave occorre rinvenire un comportamento connotato da somma negligenza o da evidente incuria degli interessi pubblici, oppure caratterizzato da imperizia particolarmente intensa, anche mediante esercizio di attività in difetto di ogni minima cautela, non essendo sempre sufficiente la mera violazione di norme legislative o disposizioni di servizio.

 

Appare evidente, in ogni caso, che l’accezione stricto sensu della discrezionalità amministrativa si ricollega alla questione dell'insindacabilità nel merito delle scelte discrezionali operate dalla Pubblica amministrazione, ai sensi dell’art. 1, comma 1, della legge 14 gennaio 1994, n. 20.

 

La vicenda in esame dimostra in modo tangibile che il principio dell’insindacabilità delle scelte non priva la Corte dei conti, in sede di giudizio di responsabilità amministrativa, del potere di accertare la conformità alla legge dell'attività amministrativa in relazione ai fini imposti, in via generale o in modo specifico, dal potere legislativo, come ha da tempo rilevato in proposito la Suprema corte (Cassazione civile, Sezioni unite, sentenza 2 aprile 2007, n. 8097).

 

Per quanto riguarda poi i profili di specifica responsabilità cui risultano esposti gli amministratori della cosa pubblica nel disimpegno del loro mandato, è utile ricordare che, secondo un indirizzo giurisprudenziale ormai consolidato, la scriminante politica non è applicabile:

 

-          nelle materie riservate agli organi di governo, nelle quali gli uffici amministrativi e tecnici della struttura abbiano espletato funzioni istruttorie o consultive o, comunque, di mero supporto strumentale;

-          quando l’evidenza dell’erroneità dell’atto sia stata tale da escludere qualsiasi buona fede.

 

In conclusione, dunque, non può che assumere valenza prioritaria, nell’esercizio dell’azione amministrativa, l’osservanza delle fonti giuridiche di ordine primario e secondario, ed è alla luce di questo principio che il giudice contabile esegue una rigorosa valutazione delle responsabilità connesse al mandato dell’amministratore pubblico, per il quale l’esimente politica, sotto il profilo considerato, non trova margini di applicazione.

 

Michele Nico

(www.comuniminoriepartecipate.it)

 

HomeSentenzeArticoliLegislazioneLinksRicercaScrivici