HomeSentenzeArticoliLegislazionePrivacyRicercaChi siamo
Le società patrimoniali nel Servizio Idrico Integrato
di Luca Manassero 18 maggio 2012
Materia: acqua / servizio idrico integrato

 

Le società patrimoniali nel Servizio Idrico Integrato

 

1 Il quadro giuridico in materia di società patrimoniali

 

1.a. L’evoluzione normativa

Le società patrimoniali detentrici delle reti e delle altre dotazioni patrimoniali asservite ai servizi pubblici locali sono una realtà consistente ormai da diversi anni; come si vedrà, infatti, l’attribuzione a soggetti strumentali degli Enti Locali di beni afferenti i servizi pubblici locali rappresenta un fenomeno che ha radici assai lontane nel tempo.

Nell’ultimo decennio, tuttavia, si è assistito ad un notevole sviluppo di queste particolari realtà sulla scia, essenzialmente, dell’art. 35 della Legge 28 dicembre 2001, n.448[1], che ha modificato in tal senso l’art. 113 del Testo Unico degli Enti Locali.

L’impianto normativo che ha dato impulso all’espansione di questo fenomeno era costituito, almeno sino al 2008[2]:

-        dall’art. 113, commi 2 e 13 del D.Lgs. n. 267/2000[3]

-        dal comma 7, dal comma 9 e dal comma 11 dell’art. 35 L.448/2001[4];

-        completava il quadro l’art. 12 della Legge 5-1-1994 n. 36 (c.d. Legge Galli)[5]; a partire dal 2006, tale ultima disposizione è stata sostituita con altra, di contenuto parzialmente innovativo, ossia l’art 143 del D.Lgs. 3 aprile 2006 n. 152[6].

 

Recenti orientamenti giurisprudenziali, ove se ne condivida l’impostazione, sono suscettibili di incidere significativamente sull’assetto organizzativo che da tale quadro giuridico è scaturito, in particolar modo (ma non solo) nel settore del Servizio Idrico Integrato.

La particolare rilevanza della fattispecie rappresentata dalle c.d. società patrimoniali impone, dunque, un approccio analitico, esaustivo e documentato al problema, al fine di analizzare i fondamenti su cui poggiano tali novità giurisprudenziali.

 

1.b La Sentenza n. 320/2011 della Corte Costituzionale.

 

La Corte Costituzionale, con sentenza 25/11/2011 n. 320, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale (per quanto qui interessa) del comma 2 dell'art. 49 della L. R. Lombardia 12 dicembre 2003, n. 26, nella parte in cui prevede che gli enti locali possano costituire una società patrimoniale d'ambito mediante conferimento della proprietà delle reti, degli impianti e delle altre dotazioni patrimoniali del servizio idrico integrato, in quanto in contrasto con il principio statale della proprietà pubblica delle reti.

Per la Corte il conferimento a soggetti di diritto privato dei beni appartenenti al demanio comunale comporta la perdita di una delle loro caratteristiche fondamentali, la inalienabilità (la partecipazione pubblica incedibile non muta, infatti, la disciplina della circolazione giuridica dei beni che formano il patrimonio sociale)[7].  In particolare, l'entrata in vigore dell'art. 23 bis, comma quinto, del D.Lgs. n. 112/2008 secondo la Consulta avrebbe determinato l'abrogazione tacita dell'art. 113, comma 13, del TUEL per incompatibilità con il medesimo art. 23 bis, comma quinto.

Di talché, l'art. 1, lettera t) della Legge Regione Lombardia 27.12.2010 n. 21 (di modifica dell'art. 49 della L.R. 26/2003), che avrebbe dovuto essere emanato in attuazione di specifica normativa statale (vertendosi nella materia di esclusiva competenza statale dell'ordinamento civile - art. 117, secondo comma, lettera l, Cost - ), è affetto da illegittimità costituzionale in quanto tale normativa statale manca, non potendosi più rinvenire tale fondamento nell'art. 113, comma 13, cit.

L'art. 23 bis, comma quinto, del d.lgs. n.112/2008, infatti, avrebbe stabilito, mediante l’inciso “ferma restando la proprietà pubblica delle reti..” il principio di “proprietà pubblica” delle reti, principio ritenuto dalla Corte in contrasto con il richiamato comma 13.

E’ il caso di evidenziare sin d’ora come, secondo l’impostazione che qui si accoglie, tale argomentazione esegetica non vada del tutto esente da censure.

Ed infatti, quella del comma quinto citato non sembra rappresentare altro che un’affermazione di principio, dettata con riferimento alle reti che già erano pubbliche all’entrata in vigore della norma; essa appare più che altro rivolta a disciplinare le nuove fattispecie, conservando, invece, le fattispecie precedenti il regime loro proprio[8].

Si osserva, inoltre, sempre per inciso, che il legislatore non pare in alcun modo aver abbandonato l’istituto delle società patrimoniali proprietarie delle reti di cui all’art. 113, comma 13 del TUEL; il decreto del Ministero dello Sviluppo Economico del 12 novembre 2011 , n. 226[9], nel disciplinare i criteri di gara nell’ambito del settore della distribuzione del gas naturale, espressamente prevede (art. 2) che “Gli Enti locali concedenti appartenenti a ciascun ambito demandano al Comune capoluogo di provincia il ruolo di stazione appaltante per la gestione della gara per l'affidamento del servizio di distribuzione del gas naturale in forma associata secondo la normativa vigente in materia di Enti locali, ferma restando la possibilità di demandare in alternativa tale ruolo a una società di patrimonio delle reti, costituita ai sensi dell'articolo 113, comma 13, del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267, ove presente”.

Ad ogni modo, secondo la pronuncia della Consulta in commento, la proprietà pubblica delle reti implicherebbe l’assoggettamento di queste (non solo delle reti idriche) al regime giuridico del demanio accidentale pubblico. Ciò implica, a sua volta, un divieto di cessione e di mutamento della destinazione pubblica, in conformità al disposto dell'art. 143 del d.lgs. n. 152 del 2006.

 

 

1.c Il parere della Corte dei Conti Emilia Romagna n.9/2012

 

Più  di recente, sul tema è intervenuta la Corte dei Conti - sez. regionale controllo per l'Emilia Romagna, con il Parere 13/2/2012 n. 9/PAR, reso a fronte di un quesito attinente l'obbligo di dismissione delle partecipazioni degli Enti Locali ai sensi dell'articolo 14, comma 32, d.l. 31 maggio 2010, n. 78 (relativo alle società partecipate dai Comuni di minori dimensioni), con una affermazione suscettibile di conseguenze di portata ancora maggiore.

Uno dei quesiti posti chiedeva alla Sezione di precisare se per tali Comuni alcune tipologie di società previste dal TUEL (fra cui le società patrimoniali alle quali sono state conferite le reti ex art. 113, comma 13) fossero da ritenersi consentite.

La Sezione, conformandosi expressis verbis alla pronuncia della Corte Costituzionale poc'anzi illustrata, ha  affermato che la società patrimoniale ex art. 113, commi 2 e 13, è da considerarsi una modalità organizzatoria superata e non più consentita, dovendo rimanere pubblica la proprietà delle reti, impianti ed altre dotazioni patrimoniali relative a servizi pubblici locali di rilevanza economica, potendo, al più, essere affidata a soggetti privati la sola gestione delle reti .

La Corte conclude che gli enti locali non solo non potranno costituire nuove società patrimoniali in ragione del divieto disposto dall’articolo 14, comma 32, d.l. 78/2010 cit, e della previsione contenuta nell’articolo 4, comma 28, d.l. 138/2011[10], ma dovranno anche dismettere le società patrimoniali ancora oggi operanti, non essendo più consentito che la proprietà delle reti, impianti ed altre dotazioni destinate all’esercizio di servizi pubblici locali a rilevanza economica sia detenuta da società.

 

 

1.d I primi commenti alla sentenza n. 320/2011

 

Entrambe le ricostruzioni (quella della Corte Costituzionale e quella della Corte dei Conti) sembrano giungere a conseguenze eccessive rispetto all'obiettivo perseguito (dichiarare la natura pubblica e l'incommerciabilità delle reti infrastrutturali dei pubblici servizi).

La sentenza della Consulta è stata sin dall’inizio oggetto di analisi critiche[11].

E' stato, fra l'altro, condivisibilmente sostenuto, da un lato, che all'art. 23 bis comma quinto del D.Lgs. n. 112/2008 non pare potersi attribuire un espresso carattere di incompatibilità con il comma 13 dell'art. 113 TUEL, che, infatti, si limiterebbe a prevedere la proprietà pubblica delle reti e l'incedibilità delle stesse, seppure con una formulazione infelice[12]. .

Sotto altro profilo, si è osservato che, mentre per la Corte “proprietà pubblica” appare essere esclusivamente sinonimo di proprietà di Enti Territoriali (con relativa ascrivibilità al demanio od al patrimonio indisponibile), a ben vedere proprietà pubblica può significare semplicemente proprietà in capo ad un soggetto pubblico, essendo dunque riferibile alla natura del soggetto proprietario, anziché, tassativamente, al regime speciale della demanialità[13].

Come si vedrà nel prosieguo, analizzando la problematica con un angolo visuale di maggiore ampiezza, peraltro, pare di poter sostenere che l’evoluzione della nozione di bene pubblico sembri  allontanarsi sempre più da quella della mera appartenenza giuridica del bene stesso, per ancorarsi alla sua destinazione, la quale deve essere assicurata a prescindere dal regime proprietario.

In particolare, attenta dottrina[14], pur sostenendo che la facoltà prevista dal comma secondo dell’art. 49 della L.R. 26/2003 rappresenta “un’aggressione particolarmente spinta al principio di proprietà pubblica delle reti”, finisce poi per ipotizzare l’ascrizione dei beni de quibus alla categoria dei c.d. beni comuni la quale, come si vedrà, prescinde dalla proprietà del bene, in un contesto giuridico della categoria dei beni pubblici oggi profondamente cambiato, e che ha dato luogo a riflessioni e proposte normative la cui applicazione potrebbe contribuire a risolvere i problemi qui analizzati.

 

2. I beni pubblici: beni demaniali e beni patrimoniali; la relativa disciplina; gli acquedotti (cenni).

 

La dottrina identifica i beni pubblici in base alla c.d. teoria mista (contrapposta alla teoria oggettiva ed a quella soggettiva), per la quale gli elementi costitutivi dei beni pubblici sono essenzialmente due: uno strutturale e l’altro funzionale. Il connotato strutturale è la proprietà da parte di un ente pubblico, quello funzionale è la sua finalizzazione alla soddisfazione di un pubblico interesse.

La distinzione tra beni demaniali e  beni patrimoniali, secondo la dottrina tradizionale, non ha carattere ontologico, ma va impostata alla stregua di un criterio meramente formale: la discriminazione fattane dal diritto positivo[15]. La discriminazione tra beni demaniali e beni patrimoniali è questione di opportunità, rimessa alle scelte politiche del legislatore e collegata essenzialmente a ragioni storiche e di convenienza pratica.

La indicazione dei tipi da parte del legislatore ha – per unanime dottrina e giurisprudenza[16] - valore tassativo e non possono ammettersi estensioni tali da farvi rientrare generi non considerati dai testi legislativi.

Dei beni demaniali, alcuni non possono appartenere che allo Stato, e si definiscono dunque demaniali per natura, costituendo il c.d. demanio necessario (art. 822, primo comma, c.c.).

Altri beni (che potrebbero appartenere anche a soggetti diversi) rivestono carattere demaniale solo se appartengono ad un qualsiasi Ente Territoriale; si tratta dei beni del demanio accidentale (o non necessario), che come detto potrebbero eventualmente appartenere a titolo patrimoniale a soggetti diversi dagli Enti Territoriali; in questa categoria rientrano gli acquedotti (che rivestono carattere di demanialità indipendentemente dal fatto che convoglino acque pubbliche): essi possono appartenere tanto a privati quanto ad enti pubblici, assumendo la natura di beni demaniali solo allorchè appartengano ad Enti Territoriali.

Ad integrare la normativa civilistica, in tema di acquedotti e di beni strumentali al Servizio Idrico Integrato, è poi intervenuto l’art. 143 del D. Lgs. 3 aprile 2006 n. 152, il quale, con contenuto parzialmente innovativo, ha ricompreso fra i beni demaniali, oltre agli acquedotti ed alle fognature anche gli impianti di depurazione e le altre infrastrutture idriche di proprietà pubblica[17].

Il regime giuridico dei beni demaniali è noto: l’art 822 cod. civ. dispone che essi sono inalienabili, e non possono formare oggetto di diritti a favore di terzi se non nei modi stabiliti dalle leggi che li riguardano.

Ne deriva che tali beni non possono formare oggetto di rapporti traslativi o costitutivi di diritti reali, di diritti a favore di terzi, non sono sottoponibili a procedure civilistiche di espropriazione coattiva e non possono formare oggetto di usucapione. Essi, inoltre, non sono espropriabili se non previo esperimento della procedura di sdemanializzazione (art. 829 c.c.).

Ne consegue, infine, la nullità degli eventuali atti dispositivi adottati dalla P.A. in assenza di disposizioni di legge legittimanti, ex art. 1418 cod. civ.

 

 

3 Le vicende storiche delle attuali società patrimoniali. L'art. 35 della L. 448/2001 ed il nuovo art. 113, comma 13, TUEL.

 

Le due pronunce in commento incidono – si diceva - su una realtà assai consistente sotto il profilo economico finanziario, che non nasce sotto l'egida dell'articolo 35 della Legge n. 448/2001, ma molto più in là nel tempo.

Il  fenomeno della c.d. municipalizzazione nasce proprio perchè gli Enti Locali avevano necessità di realizzare le reti di pubblici servizi (acqua e gas, in particolare), ed intendevano sottrarli al monopolio dell'industria privata che si era creato verso la fine dell'800, e che era stato causa di evidenti distorsioni per la collettività. Con la Legge Giolitti, n. 103 del 1903 ed il T.U. di cui al R.D. 15.10.1925 n. 2578 [18] viene disciplinata l'assunzione dei servizi pubblici, in privativa, da parte degli Enti Locali e la loro gestione tramite le aziende municipalizzate, organi-ente del Comune, dotate di autonomia economica ed organizzativa ma prive di personalità giuridica, i  cui risultati economico finanziari (ed il cui patrimonio, con i relativi cespiti) erano direttamente ascrivibili all'Amministrazione Comunale[19] (il quale non ne aveva, però, la libera disponibilità, in quanto i beni rimanevano nel godimento dell'azienda fintanto che non veniva a cessare la destinazione loro conferita, mediante atto formale di revoca dell'azienda); l'azienda poteva invece disporre dei beni assegnati dal Comune, i quali  acquistavano, per effetto dell'atto di assegnazione, una destinazione specifica, ossia erano destinati ai bisogni specifici dell'azienda medesima[20]. Questi Enti, nel corso di oltre settant'anni, hanno costruito, sviluppato e gestito le reti e le altre dotazioni patrimoniali strumentali ai servizi da essi gestiti[21].

Con l'avvento della riforma delle Autonomie Locali di cui alla Legge 8.6.1990 n. 142, tuttavia, ed in particolare con l'attribuzione alle Aziende Speciali della personalità giuridica, la situazione  muta significativamente. Quegli stessi beni patrimoniali, realizzati dalle precedenti aziende municipalizzate, divengono con la trasformazione in azienda speciale di proprietà delle aziende stesse, determinandosi così un fenomeno analogo a quello che si ha nel caso di costituzione da parte dello Stato o di altro Ente Pubblico del fondo di dotazione di un nuovo Ente, allorchè cioè il fondatore perde una propria situazione giuridica sostanziale che si trasmette a questo[22].

Con la trasformazione, dunque, le Aziende Speciali acquisirono la proprietà dei beni patrimoniali strumentali all'erogazione dei pubblici servizi, ivi compreso il servizio idrico[23]. Esiste, peraltro, un elemento testuale che, per quanto riguarda il Servizio Idrico  Integrato, sembra deporre nel senso della legittimità dell’attribuzione di tali cespiti alle aziende speciali; ci si riferisce all'art.  12,  comma primo, della Legge 5 gennaio 1994 n. 36 (Disposizioni in materia di risorse idriche, c.d.  Legge Galli) che disponeva che le opere, gli impianti e le canalizzazioni relative al servizio idrico, di proprietà degli Enti Locali “o affidati in dotazione” od in esercizio ad aziende speciali, sono affidati in concessione al soggetto gestore del servizio. Il Legislatore, pertanto,  appariva pienamente avveduto della spettanza di tali beni, in alcuni casi, alle aziende speciali (il capitale di dotazione rappresentava, appunto, il patrimonio di proprietà  dell'azienda).

In questo contesto si inserisce l'art. 35 della L. 448/2001: nel quadro  di una liberalizzazione assai spinta (la gara costituiva l'unico modello organizzativo per la gestione dei servizi pubblici locali), il legislatore si preoccupò di salvaguardare la proprietà pubblica degli asset, prevedendo il principio di  separazione della proprietà dalla gestione, e la necessaria appartenenza pubblica dei beni strumentali (con il novellato art. 133, comma secondo, TUEL). Pur affermando il principio della proprietà pubblica delle reti, la normativa consentiva, anzi in alcuni casi obbligava[24] a separare la proprietà delle reti, con il necessario conferimento delle stesse ad apposite società di diritto speciale.

Già durante la vigenza dell’art. 35 citato, comunque, assai vivace fu la disputa, in dottrina ed in giurisprudenza, riguardo alla possibilità di applicazione della nuova normativa ai beni demaniali (in particolare alle reti ed alle dotazioni  patrimoniali del servizio idrico integrato).

L'allora Comitato per la Vigilanza per le Risorse Idriche[25], in un primo momento prese atto, pur senza entusiasmo, della nuova disciplina, affermando che essa non modificava il regime giuridico delle reti e degli impianti afferenti il Servizio Idrico Integrato, né contraddiceva i termini essenziali della sua organizzazione prevista dalla L. 36/1994, prevedendo infatti  che le società patrimoniali ponessero le reti a disposizione dei gestori[26]. La critica che il Comitato rivolgeva all'impianto normativo era incentrata sulla proliferazione di nuovi soggetti societari, ed i maggiori costi derivanti dalla previsione del canone per le patrimoniali[27].

La posizione più radicalmente negativa (e che poi si rivelò largamente minoritaria) circa la compatibilità del regime demaniale dei beni con la disciplina del settore idrico fu assunta dal Ministero dell'Ambiente e della tutela del territorio, con la nota Circolare 18 marzo 2003, n. GAB/2003/2975/B01. In tale Circolare, il Ministero, dopo avere affermato che la natura demaniale delle reti idriche vietava il loro conferimento nelle società patrimoniali, invitava addirittura le amministrazioni interessate a disapplicare l'art. 35, comma settimo, della Legge 448/2001, recante l'obbligo di scorporo poc'anzi descritto[28].

La tesi fu successivamente ripresa in giurisprudenza[29] e dallo stesso Comitato di Vigilanza sulle Risorse Idriche[30], e poi ribadita dalla Commissione Nazionale di Vigilanza sulle Risorse Idriche, anche se in modo più sfumato [31]. 

La dottrina, di contro, ha sempre sostenuto, con sfumature variegate, la compatibilità del regime previsto dal nuovo art. 113 comma 13 TUEL con le specificità del servizio idrico e delle reti idriche in particolare.

E' stato posto in luce, in particolare, come l'inalienabilità del capitale delle società patrimoniali fosse stata sancita (benché con formulazione impropria) proprio al fine di assicurare che i beni fossero comunque destinati a soddisfare i bisogni collettivi rappresentati dai relativi servizi[32].

Riguardo all'obbligo di scorporo e di conferimento dei beni in società patrimoniali aventi le caratteristiche di cui all'art. 113, comma 13, del TUEL, previsto dal comma 7 dell'art. 35 cit., attenta dottrina ha evidenziato [33] che, sotto  il profilo societario, “conferire beni in società” letteralmente non poteva non comportare il “trasferimento della proprietà” dei beni dal socio alla società.

Circa il conferimento dei beni demaniali si confrontarono tre tesi: a) il conferimento non avveniva a titolo di proprietà, ma a titolo di concessione di bene pubblico[34]; l'ipotesi non parve coerente con la formulazione letterale dell'art. 113 comma 13, che – come detto - espressamente parlava di conferimento in proprietà; b) che fosse sottesa una sdemanializzazione tacita; c) che il comma 13 citato rappresentasse una norma eccezionale, derogatoria rispetto al regime giuridico proprio dei beni demaniali.

Tale ultima soluzione, preferita dalla migliore dottrina, sarebbe stata compatibile con lo specifico atto di trasferimento della proprietà di tali beni, grazie ai pesi ed ai vincoli di uso pubblico posti sui beni stessi[35].

Infine, quella dottrina che sin dall'inizio aveva salutato con favore l'introduzione delle società patrimoniali anche nel settore idrico, e che vedeva nelle stesse uno strumento di possibile sviluppo per il settore[36], assai persuasivamente argomentava  muovendo  dal  dato del comma 9 dell'art. 35 L. 448/2001, che se lo scorporo poteva avvenire “anche in deroga” alle singole discipline di settore, non vi era spazio per alcun dubbio interpretativo circa la valenza speciale e derogatoria della disciplina in esame[37].

Si tornerà più oltre, poi, su quelle tesi che, già in quel periodo, proponevano la discussione sulla natura dei beni pubblici e sulla prevalenza, con riguardo ad essi ed alla loro utilità, del criterio della funzionalità su quello dell'appartenenza, tesi che anticipavano il dibattito, oggi di grande attualità, sui c.d. beni comuni[38].

Ad ogni buon conto, dalla sintetica esposizione che precede può derivarsi, se non altro, il convincimento che i conferimenti di beni strumentali al servizio idrico integrato operati sotto l’egida dell’art. 35 L. 448/2001 e dell’art. 113, comma 13, TUEL, siano avvenuti legittimamente, ed i relativi beni (così come avvenuto per la trasformazione delle aziende speciali) siano altrettanto legittimamente entrati a far parte nel patrimonio delle società conferitarie.

 

 

4. Il valore giuridico da attribuire alla sentenza della Corte Costituzionale ed al Parere 9/2012 della Corte dei Conti.

 

Il Parere 9/2012 della Corte dei Conti è expressis verbis fondato sulla sentenza 320/2011 della Corte Costituzionale; indagando sulla portata della sentenza della Consulta, ne conseguiranno dunque anche le valutazioni sul valore da attribuirsi al parere del giudice contabile.

Peraltro, è d’uopo precisare che i limiti intrinseci della funzione consultiva della Corte dei Conti esclude qualsiasi possibilità di intervento della Corte  stessanella concreta attività gestionale ed amministrativa, che ricade nell’esclusiva competenza dell’autorità che la svolge. La responsabilità delle scelte rimane pacificamente di esclusiva pertinenza degli Enti Locali.

In ordine alla pronuncia della Consulta, in disparte le considerazioni di merito, occorre verificare: a) quale ne sia l'efficacia rispetto ai rapporti in corso (giacchè essi, secondo la Corte dei Conti, verrebbero ad essere inficiati dal contenuto della sentenza stessa), e b)  quale sia la valenza giuridica da attribuire all'attività interpretativa delle leggi da parte della Corte Costituzionale.

 

4.a Gli effetti della pronuncia  della Corte.

 

Posto che la declaratoria di illegittimità  costituzionale ha riguardato esclusivamente l'art. 49, comma secondo, della L.R. Lombardia 26/2003, solo tale declaratoria ha valore erga omnes e non altrettanto può dirsi dell'esegesi che ha condotto la Consulta a dichiarare tacitamente abrogato l'art. 113, comma 13 TUEL.

Pertanto, l’intervenuta abrogazione tacita dell’art. 113 comma 13 del TUEL, ipotizzata dalla Corte in via interpretativa non costituisce l’oggetto della pronuncia, ed a maggior ragione non può concernere i rapporti in corso.

Ad ogni buon conto, in base all'articolo 136, primo comma, Cost., la norma dichiarata incostituzionale cessa di avere efficacia dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione; allo stesso modo, l'art. 30 comma terzo della Legge 87/1953 prevede che le norme dichiarate incostituzionali non possono avere applicazione dal giorno successivo alla pubblicazione della sentenza. La sentenza ha valore costitutivo: è solo con la sentenza che la legge viene invalidata.

Perciò suole dirsi che i rapporti sorti in precedenza non cadono ipso iure, perché sono sorti in forza di una legge che fino a quel tempo era valida[39]; nell'ipotesi che ci occupa, tuttavia, quanto appena detto si intende riferito solo alle costituzioni di società patrimoniali avvenute esclusivamente in base all'art. 49, comma  secondo, della Legge della Regione Lombardia n. 26/2003, senza alcun riferimento all’art. 113 comma 13, in quanto solo l’art. 49 comma secondo è stato  dichiarato incostituzionale.

 

4b  il valore dell'attività ermeneutica della Corte Costituzionale.

 

Assume rilevanza centrale, nell’analizzare l’argomento oggetto del presente lavoro, comprendere l’eventuale portata vincolante dell’attività ermeneutica svolta dalla Consulta in ordine all’abrogazione tacita del comma 13 citato.

L'attività della Corte, per la dottrina tradizionale, consiste in un accertamento di tipo storiografico, non in un'interpretazione giuridica, in quanto vincolata dal diritto vivente consacrato dall'interpretazione giudiziale della Suprema Corte di Cassazione[40] .

Durante il periodo noto come “la guerra delle due Corti” [41] la Corte Costituzionale ha a lungo rivendicato al proprio giudizio l'interpretazione della norma  impugnata[42], necessario presupposto della comparazione, che ne consegue, fra la norma interpretata e la norma costituzionale.

I giudici ordinari, tuttavia, non hanno mai riconosciuto alla Corte tale potere interpretativo, fino a quando la Corte stessa ha riconosciuto che l'interpretazione legislativa è essenzialmente compito del giudice, avendo la Corte compito di porre a confronto le norme, nel significato comunemente attribuito, con la Costituzione[43].

Attualmente, dunque, la Corte procede ad interpretazione autonoma quando una giurisprudenza consolidata ( il c.d. diritto vivente) manca.

Solo alle decisioni della Corte che dichiarano l'illegittimità costituzionale di norme legislative è attribuita efficacia erga omnes.

Secondo la Corte di Cassazione[44] è unanime l'opinione per cui il giudice conserva il potere – dovere di interpretare in piena autonomia le disposizioni di legge, a norma dell'art. 101, comma secondo, cost., purchè ne dia una lettura costituzionalmente orientata.

In caso di contrasti ermeneutici, è la Corte di Cassazione il soggetto cui compete istituzionalmente di assicurare “l'uniforme interpretazione della legge e l'unità  del diritto oggettivo” (c.d. attività nomofilattica, art. 65 Ord. Giud.).

Come osservato dalla stessa Cassazione, l’attività interpretativa della Corte Costituzionale, per quanto rappresenti un precedente autorevole, non ha dunque efficacia vincolante né nei confronti del giudice né nei confronti della P.A.

Anche sotto questo profilo, dunque, la prescrizione posta dalla Corte del Conti dell’Emilia Romagna con Parere n. 9/2012 si rivela, a ben vedere priva di un solido presupposto giuridico.

 

 

5. I precedenti, nel diritto positivo, di beni demaniali assegnati in proprietà a soggetti formalmente privati.

 

Il caso dei beni acquedottistici non è l’unica ipotesi in cui la giurisprudenza, amministrativa e contabile, si è trovata dinanzi ad una fattispecie in cui beni di carattere demaniale sono stati trasferiti a soggetti di diritto privato; appare utile esaminarli, giacchè danno conto – come si vedrà – di una profonda trasformazione della stessa nozione di bene demaniale, tutt’ora in corso.

Ci si riferisce, in particolare, al caso delle Ferrovie dello Stato: ai sensi dell’art. 822, comma secondo, cod. civ., le ferrovie ed i connessi beni strumentali costituiscono il c.d. demanio ferroviario. Con la trasformazione delle Ferrovie dello Stato dapprima in Ente Pubblico Economico (L. 17 maggio 1985 n. 210) e, successivamente, in Società per Azioni (anzi, in Gruppo pubblico) i relativi cespiti sono entrati a pieno titolo nel patrimonio del nuovo soggetto.

Anzi, la normativa (art. 15 del d.l. 23.1.1993 n. 16) ha espressamente disposto il passaggio dei beni ad F.S. S.p.A. avvenisse a titolo di “trasferimento in proprietà”. Lo stesso contenuto è stato poi attribuito all’art. 43, comma secondo, della Legge 23 dicembre 1998, n. 448[45].

In occasione della trasformazione delle F.S. in Ente Pubblico Economico, di cui alla L. 210/1985), secondo parte della giurisprudenza e della dottrina[46] si è determinato un vero e proprio processo di sdemanializzazione ex lege dei relativi beni.

Secondo taluni la conseguenza era che i beni stessi sarebbero stati sottoposti al regime ordinario della proprietà privata[47]; secondo altra tesi, invece, si sarebbe verificata l’ascrizione dei beni al patrimonio indisponibile delle Ferrovie dello Stato[48].

Orbene, nonostante le opinioni dottrinali favorevoli all’abbandono di ogni profilo pubblicistico per i beni in questione, la giurisprudenza amministrativa, dopo aver assunto un iniziale orientamento favorevole alla cessazione ex lege del regime demaniale, ha successivamente (Consiglio di Stato, sentenza n. 6923 del 14.12.2002) escluso che le modifiche organizzative che hanno interessato nel tempo l’ente gestore abbiano interessato e modificato anche il regime giuridico dei beni ad esso trasferiti in proprietà, rispetto a quanto codificato nell’art. 822 cod. civ.; in tal senso, l’inclusione dei beni ferroviari e delle relative pertinenze nel demanio accidentale è compatibile con la forma societaria delle Ferrovie dello Stato S.p.A.: “..il passaggio dall’esercizio pubblico .. alla società di nuova istituzione non ha comportato la necessaria caduta del regime giuridico cui questi beni erano sottoposti.

Successivamente, il Consiglio di Stato ha parzialmente corretto tale impostazione, ma, pur superando l’accezione formale e rigida di demanialità, ha affermato essersi comunque al cospetto di una proprietà speciale, finalizzata all’esclusivo esercizio ferroviario[49].

Vicende consimili sono, inoltre, quelle che hanno coinvolto altri gruppi di impianti e beni asserviti a pubblici servizi e già appartenenti ad Enti Pubblici poi trasformati in Società per Azioni. E’ il caso della rete telefonica (a seguito della soppressione dell’Azienda di Stato per i Servizi telefonici) e della rete stradale ed autostradale, di cui oggi è titolare ANAS SpA (nata dalla trasformazione dell’omonima azienda di stato).

In tutti questi casi i beni, pur non rientrando più nella categoria del demanio o del patrimonio indisponibile, sono ancora contraddistinti da un vincolo di destinazione. Il legislatore, infatti, pur prevedendo la creazione di un nuovo soggetto di diritto privato, incaricato della gestione del pubblico servizio ha inteso preservare la destinazione a pubblico servizio dei beni, non più pubblici in senso soggettivo, ma di cui permane la destinazione a pubblico servizio, che coesiste con la proprietà di diritto comune della S.p.A.[50] .

Esemplare, sotto questo profilo, è la vicenda della Patrimonio dello Stato S.p.A., istituita (come Infrastrutture S.p.A.) con il d.l. 15 aprile 2002, n. 63, ancor più interessante perché direttamente menzionata nella pronuncia della Corte Costituzionale n. 320/2011[51].

Orbene, nel caso della Patrimonio dello Stato S.p.A., in base al comma 10 dell’art. 7 del d.l. n. 63/2002, il trasferimento dei beni statali alla società “non modifica il regime giuridico previsto dagli art. 823 ed 829, primo comma, del codice civile, dei beni demaniali trasferiti”. Si tratta dunque di un fenomeno di privatizzazione soltanto formale dei beni, dato che essi continuano ad essere assoggettati al loro originario regime pubblicistico.

Basti, per il momento, qui registrare come il fenomeno delle c.d. privatizzazioni formali dei beni pubblici abbia, nell’esperienza del diritto positivo, messo in evidenza come il vincolo di destinazione pubblicistico possa, anzi debba, permanere anche nel caso in cui il bene sia trasferito in proprietà a soggetti privati, e dunque, nei casi illustrati, non si sia fatta questione alcuna della compatibilità o meno del regime pubblicistico di tali beni con la proprietà in capo ad un soggetto formalmente privato.

 

 

6. Le possibili conseguenze delle due pronunce sotto il profilo del diritto civile e societario. Il principio di tutela dell’affidamento.

 

Come si è argomentato, all’indicazione della Corte dei Conti Emilia Romagna circa la dismissione delle società patrimoniali non è dato attribuire un significato vincolante; né sotto il profilo formale, né sotto il profilo sostanziale.

Può, peraltro, giovare, al fine della comprensione della rilevanza della posta in gioco, una rapida analisi delle possibili conseguenze che potrebbero derivare dall’applicazione pedissequa delle indicazioni della Corte dei Conti.

Vi è da chiedersi, anzitutto, quali potrebbero essere gli strumenti giuridici a disposizione degli Enti Locali per l’attuazione dell’obiettivo del rientro delle reti e degli impianti nella titolarietà degli stessi.

Per mero tuziorismo, è bene rammentare che, ai sensi dell’art. 42, comma terzo, Cost., e dell’art. 17 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea (Carta di Nizza, in G.U.C.E. 18.12.2000 n.364) del 17.12.2000,  la proprietà può essere espropriata solo nei casi previsti dalla legge per motivi di interesse generale (che debbono essere esplicitati nella norma) e salvo indennizzo.

La giurisprudenza amministrativa (nella specie, il TAR Lombardia) ha già avuto modo di affermare, con riguardo alle infrastrutture idriche, che “la nozione di proprietà pubblica di cui all’art. 143 del D.Lgs. n. 152/2006 deve essere interpretata in senso letterale, non potendosi ricomprendere nel suo significato anche quei beni appartenenti a soggetti privati, affidatari di un pubblico servizio oppure partecipati, in misura anche totalitaria, da un soggetto pubblico[52].

Tale precisazione è stata formulata dal TAR  a fronte di una fattispecie in cui un ATO aveva proceduto ad includere tra i beni da assegnare (gratuitamente, in conformità all’art. 153 del D.Lgs. 152/06) al soggetto gestore del Servizio Idrico Integrato anche un impianto di trattamento dei reflui di proprietà di un’azienda pubblica.

Al proposito, il TAR ha specificato che, trattandosi di un trasferimento coattivo (di carattere ablatorio) da un soggetto ad un altro, “non sembra possibile procedere ad interpretazioni estensive del concetto di proprietà pubblica che determinino un sacrificio – in evidente violazione del principio di legalità – del diritto di proprietà di soggetti non contemplati espressamente dalla normativa: ciò al fine di tutelare anche i terzi che intrattengono rapporti con il destinatario del provvedimento ablatorio e che hanno fatto affidamento su un determinato assetto di interessi”.

Alla luce della menzionata pronuncia, la CONVIRI, con parere del 14.10.2010 n. 5228  ha dovuto ammettere che, per quegli impianti il cui conferimento al gestore del Servizio Idrico non sia obbligatorio in quanto di proprietà di soggetti formalmente privati e destinati in prevalenza ad usi privati, ove si intenda comunque far luogo al trasferimento al gestore del SII, “esso dovrà avvenire esclusivamente con strumenti di tipo negoziale”.

Dunque, laddove gli Enti Locali intendessero riacquisire le reti e gli impianti idrici di proprietà delle società patrimoniali, ciò non potrebbe che avvenire, in primo luogo, che in base a strumenti di tipo contrattuale, quali l’acquisto dei medesimi beni dalle aziende.

In alternativa, laddove si ipotizzasse un atto di ritiro (annullamento, ove ne ricorrano i presupposti, o revoca) degli eventuali atti amministrativi prodromici al conferimento (ove, naturalmente, non si tratti di beni realizzati direttamente dall’azienda), con conseguente obbligo di retrocessione da parte della patrimoniale, non potrebbe comunque essere evitato, ad minima, un indennizzo per le patrimoniali stesse, a causa del carattere fondamentalmente ablatorio del provvedimento, nonché, più in generale, in base al principio di tutela dell'affidamento.

Com'è noto, si tratta di un principio di derivazione comunitaria che impone all'amministrazione, in sede di esercizio del potere di autotutela (e, nell'ipotesi, dato che i rapporti giuridici sorti in passato, come si è visto, non vengono ipso iure travolti dalla sentenza di accoglimento, la Corte dei Conti, con il menzionato parere 9/2012, parrebbe evocare l'esercizio da parte degli Enti Locali della potestà di autotutela, sub specie del ritiro degli atti amministrativi legittimanti il conferimento dei beni nelle società patrimoniali e/o lo scioglimento delle stesse), l'attenta salvaguardia delle situazioni soggettive consolidatesi per effetto di atti o comportamenti idonei ad ingenerare un ragionevole affidamento del destinatario. La situazione di vantaggio, inoltre, non può essere rimossa se non salvo indennizzo. In alcuni casi, la Corte di Giustizia Europea[53] ha affermato che il decorso di un consistente lasso temporale preclude l'esercizio stesso della potestà amministrativa di ritiro; in altri casi la Corte ha posto l'accento sulla necessità di un'attenta comparazione dell'interesse pubblico con l'interesse privato al mantenimento della posizione acquisita. Tale principio deve considerarsi ormai acquisito anche nel diritto nazionale, in virtù degli art. 21 octies e 21 quinquies della Legge 241/90, come introdotti dalla L. 15/2005.

Ove poi, gli Enti Locali intendessero adeguarsi all’orientamento della Corte dei Conti in parola sotto altra forma (la “dismissione” delle società non sarebbe possibile, proprio alla luce della natura demaniale del patrimonio), potrebbe procedersi allo scioglimento volontario della società (per deliberazione dell’assemblea: art. 2484, comma primo, n. 6 cod. civ.), ed alla relativa liquidazione, nella quale, in ipotesi, il criterio di riparto stabilito dall’Assemblea dei soci ai sensi dell’art. 2487, comma primo, lettera c, del codice civile  potrebbe stabilire l’assegnazione a ciascun Ente Territoriale dei beni relativi al servizio sul proprio territorio.

Proprio il menzionato parere della Corte dei Conti Emilia Romagna n. 9/2012 sovviene al riguardo. Infatti, nello stesso la Corte rammenta che, in materia di liquidazione delle società pubbliche, non essendovi norme speciali derogatorie, si applicano i criteri civilistici ordinari in materia di liquidazione di cui agli art. 2384 e ss. cod. civ.

Non sarebbe quindi corretto procedere ad un trasferimento all’Ente Locale dei valori patrimoniali attivi (siano essi mobiliari od immobiliari) durante lo svolgimento della fase liquidatoria: ciò contrasterebbe con la disciplina codicistica, che durante la fase liquidatoria non prevede confusione tra il patrimonio del socio e quello della società, e con il principio della responsabilità per debiti ex art. 2325 cod. civ. Solo ad esito della procedura di liquidazione, quindi, si potrà ripartire l’eventuale residuo attivo.

Scopo della procedura di liquidazione è quello di cedere l’intero patrimonio sociale al fine di soddisfare, con il ricavato derivante dalla vendita dei cespiti patrimoniali, dapprima i creditori sociali, e poi procedere all’eventuale ripartizione dell’attivo residuo tra i soci.

In pressoché la totalità dei casi, il valore delle reti, degli impianti e degli altri cespiti patrimoniali asserviti al Servizio Idrico Integrato (ma il discorso potrebbe valere anche per altri servizi) – come si è detto più sopra – sono stati trasferiti alla società pubblica con la medesima delibera di trasformazione da Azienda Speciale in società di capitali (in base alla normativa speciale di riferimento[54] il fondo di dotazione dell’Azienda Speciale è necessariamente andato a costituire il capitale sociale della nuova realtà). In altri casi (es.: partecipazione di un Ente Locale ad una società pubblica successiva alla costituzione) le reti e gli impianti sono verosimilmente stati oggetto di conferimenti in natura con correlativo aumento di capitale, ex art. 2343 cod. civ.

Ed allora, se è vero, come è vero, che il capitale sociale rappresenta il valore delle attività patrimoniali che i soci si sono impegnati a non distrarre dall’attività dell’impresa per tutta la durata della società[55], e se è vero, come è vero, che il capitale sociale rappresenta una garanzia per i creditori sociali in quei tipi di società ove mancano i soci illimitatamente responsabili, ben si comprende come nel caso di specie la procedura di liquidazione potrebbe comportare criticità assai ardue da superare.

Infatti, nell’ipotesi in cui, confidando nella garanzia offerta dal cospicuo capitale sociale, terzi creditori (verosimilmente, Istituti di Credito) abbiano concesso rilevanti finanziamenti al soggetto patrimoniale pubblico, l’ipotesi di riacquisire i cespiti al patrimonio degli Enti Locali liquidando i creditori con il residuo patrimonio della società potrebbe rivelarsi, in taluni casi, alquanto problematico.

Si tenga presente che, nel caso tali attivi patrimoniali venissero attribuiti ai soci pubblici prima della soddisfazione di tutti i creditori sociali, ai sensi dell’art. 2495 cod. civ. i creditori medesimi avrebbero la facoltà di far valere i propri crediti nei confronti degli stessi soci, fino alla concorrenza delle somme da questi riscosse in base al bilancio finale di liquidazione.

Astrattamente, infine, il risultato potrebbe essere conseguito anche mediante una delibera di riduzione volontaria del capitale sociale (art. 2445 cod. civ.); al riguardo, la delibera di riduzione dovrebbe (in deroga alla regola generale) motivare sulle ragioni in fatto ed in diritto della riduzione (anche se la riforma ha eliminato il requisito della c.d. esuberanza). Tuttavia i commi 4 e 5 dell’art. 2445 condizionano l’eseguibilità della delibera alla mancata opposizione dei creditori entro 90 giorni dall’iscrizione della delibera al Registro delle Imprese: possono riproporsi, al proposito,le medesime criticità sopra rilevate in merito allo scioglimento della società.

 

 

7. Le possibili soluzioni: una nuova teorica dei beni pubblici.

 

Come si è accennato più sopra, già nell’ambito del dibattito sviluppatosi nella vigenza del nuovo art. 113, comma 13, TUEL, come introdotto dall’art. 35 della L. 448/2001, parte della dottrina (muovendo anche dalle fattispecie di privatizzazione solo formale di alcune categorie di beni demaniali) ha prospettato una differente impostazione della problematica[56], sostenendo che le categorie tradizionali dei beni pubblici non sarebbero più adeguate al mutare del contesto economico e della stessa funzione amministrativa.

All’appartenenza pubblica si starebbe sostituendo il canone della destinazione pubblica, per cui i beni transitano da un regime orientato alla inalienabilità ad un vincolo di destinazione all’interesse pubblico specifico: o direttamente (con l’uso stesso del bene: ad esempio, lido del mare), o indirettamente, mediante la strumentalità allo svolgimento del servizio pubblico. In tale contesto “la proprietà pubblica cessa di essere un assioma per diventare espressione di un paradigma di funzionalità: è indefettibile solo quando sia l’unica garanzia per la soddisfazione di un interesse specifico e definito”.

Le problematiche sottese a tali ricostruzioni sono da tempo note al legislatore; in tale quadro, infatti, si inserisce la nomina, da parte del Ministro di Giustizia, della Commissione Rodotà, incaricata di redigere uno schema di disegno di legge delega per la riforma delle norme del codice civile relative ai beni pubblici[57].

Il 15 febbraio 2008 la Commissione ha consegnato al Ministro un Disegno di Legge delega ed una Relazione di accompagnamento, particolarmente significativi rispetto alle problematiche oggetto del presente lavoro.

La Commissione, in particolare, ha adottato una nozione di bene pubblico in senso “oggettivo”, cioè una nozione di bene pubblico che rimane tale, grazie al vincolo di destinazione gravante sullo stesso, anche se formalmente privatizzato e commerciabile con negozi privatistici. Un bene, quindi, che, nonostante la sua appartenenza non necessariamente pubblica, continua a non essere sottraibile alla propria destinazione istituzionale se non per scelta dell’amministrazione, e ad essere sottoposto a regolazione da parte dei pubblici poteri, nonché ad essere proteggibile mediante appositi poteri amministrativi[58]. La riforma proposta si propone di operare un’inversione concettuale rispetto alle tradizioni giuridiche del passato; invece del percorso classico che va “dai regimi ai beni”, l’indirizzo della Commissione procede all’inverso, ovvero “dai beni ai regimi”[59].

La Commissione evidenzia, al riguardo, che i cambiamenti tecnologici ed economici verificatisi fra il 1942 ed oggi hanno reso particolarmente obsoleta la parte del Codice Civile relativa ai beni pubblici. Alcune tipologie di beni pubblici sono profondamente cambiate negli anni: si pensi ai beni necessari a svolgere servizi pubblici, come le c.d. “reti”, sempre più variabili, articolate e complesse.

Nell’articolato proposto dalla Commissione, le reti di pubblici servizi vengono inquadrate nella categoria dei “beni pubblici sociali” (le altre due categorie identificate sono quelle dei beni ad appartenenza pubblica necessaria e dei beni fruttiferi), che prevede il seguente regime giuridico: “Sono beni pubblici sociali quelli le cui utilità essenziali sono destinate a soddisfare bisogni corrispondenti ai diritti civili e sociali della persona. Non sono usucapibili. Vi rientrano tra gli altri:.. le reti locali di pubblico servizio. E’ in ogni caso fatto salvo il vincolo reale di destinazione pubblica. La circolazione è ammessa con mantenimento del vincolo di destinazione. La cessazione del vincolo di destinazione e’ subordinata alla condizione che gli enti pubblici titolari del potere di rimuoverlo assicurino il mantenimento o il miglioramento della qualità dei servizi sociali erogati”.

Nell’ambito di una lettura orientata alla più moderna teorica dei beni pubblici, quindi, potrebbe senz’altro prospettarsi un’interpretazione dell’art. 113 comma 13 consimile alla citata proposta della Commissione Rodotà e che ne salvaguardi la vigenza, per cui le reti idriche di proprietà delle società patrimoniali potrebbero essere considerate oggetto (al pari dei beni del demanio ferroviario di cui si è discusso) di una proprietà speciale, di titolarietà di un soggetto solo formalmente privato, ma gravata del vincolo di destinazione pubblicistico. Non varrebbe, al proposito, l’obiezione della Consulta secondo cui i fenomeni sopra analizzati sarebbero insuscettibili di interpretazione analogica in quanto disciplinati da norme statali speciali, giacchè il valore di norma statale speciale sarebbe rivestito, appunto, proprio dall’art. 113 comma 13.

 

8 Conclusioni

 

Appare evidente che, allo stato, la costituzione di nuove società patrimoniali risulta, quantomeno, problematica, perlomeno sino a quando il quadro giuridico non sia stato sufficientemente chiarito pur se, secondo l’interpretazione qui accolta, è quantomeno dubbio che l’entrata in vigore del comma quinto dell’art. 23 bis abbia comportato l’abrogazione tacita dell’art. 113 comma 13 TUEL.

Per quanto attiene, poi, le società patrimoniali esistenti, posto che i risultati dell’attività ermeneutica svolta dalla Corte Costituzionale non possono considerarsi vincolanti, e posto che il Parere della Corte dei Conti Emilia Romagna n. 9/2012 parrebbe – limitatamente al tema delle società patrimoniali – quantomeno non disporre di solidissime basi giuridiche, non sembra revocabile in dubbio che esse possano legittimamente continuare ad operare ed a detenere i beni di cui si è discusso .

Come si è visto, infatti, la “dismissione” delle società patrimoniali esistenti non solo non appare in linea con i dettami dell’ordinamento, ma, anche se attuata con modalità giuridiche diverse (vuoi negoziali, vuoi societarie), non sarebbe in alcun caso neutra sotto il profilo degli oneri per la finanza pubblica, in quanto sarebbe necessario o indennizzare le patrimoniali stesse (proprietarie dei cespiti in continuità con le precedenti aziende speciali), ovvero tenere indenni i creditori delle società stesse risultando, in definitiva, antieconomica.

E’, comunque, indubbio che la regolazione di una materia di così grande rilevanza non possa essere lasciata all’estemporaneità di questa o quella decisione, acuendo ancor più il quadro di incertezza, ormai atavico, in cui debbono muoversi gli operatori del settore.

Per fare un esempio concreto, l’ATO Provincia di Milano (si rammenta che ben tre sentenze della Consulta hanno avuto ad oggetto, di recente, il Servizio Idrico Integrato in Regione Lombardia: la n. 307/2009, la n. 142/2010 ed, appunto, la 320/2011) ha appena varato[60] una complessa riorganizzazione del modello gestionale del Servizio Idrico Integrato con l’obiettivo di superare la separazione dell’erogazione del servizio dalla gestione delle reti (dichiarata incostituzionale, come è noto, dalla sentenza n. 307/2009 della Consulta).

La delibera prevede la riunificazione in un unico soggetto dei gestori ed erogatori esistenti. Per comprendere le dimensioni e la portata dell’operazione basti considerare che il soggetto derivante dall’operazione avrà un volume della produzione pari a 200 milioni di euro, oltre 750 dipendenti ed un patrimonio di oltre 600 milioni di euro, rappresentato, per la gran parte, da reti ed impianti strumentali al servizio idrico integrato[61]. E’ di tutta evidenza come un progetto di un tale valore economico – patrimoniale non possa rimanere soggetto all’incertezza che deriva da provvedimenti come quelli in commento. Ancora, è notizia dei giorni scorsi che un importante gestore del Servizio Idrico Integrato, proprio per motivi analoghi a quelli qui evidenziati, abbia deliberato in assemblea straordinaria una riduzione del capitale sociale a circa un terzo dell’attuale, proprio per riassegnare agli Enti Locali i relativi cespiti[62].

Forse, l’adozione del completo articolato risultante dai lavori della Commissione Rodotà ha necessità di una compiuta ponderazione ed assimilazione prima di essere trasposto nell’ordinamento giuridico (benché ormai siano trascorsi quattro anni dalla sua presentazione).

Tuttavia, un intervento, anche parziale (magari sotto forma di modifica dell’art. 113, comma 13, del TUEL, in attesa che sulla sua vigenza si pronunci il giudice ordinario), auspicabilmente nella direzione delineata dalla Commissione, appare quanto mai opportuno.

 

 

 

Legnano, 15 maggio 2012                            

 

 

 

 



[1]   Recante “Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2002)”.

E, cioè, perlomeno sino all’entrata in vigore dell’art. 23 bis (rubricato Servizi pubblici locali di rilevanza economica)  del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112, recante “disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria", convertito, con modificazioni, nella Legge 6 agosto 2008, n. 133, che al comma quinto ha previsto che “ Ferma restando la proprietà pubblica delle reti, la loro gestione può essere affidata a soggetti privati”.

[3]   Il comma 2 dell’art. 113 TUEL prevede che “Gli enti locali non possono cedere la proprietà degli impianti, delle reti e delle altre dotazioni destinati all’esercizio dei servizi pubblici di cui al comma 1, salvo quanto stabilito dal comma 13”, mentre il comma 13 del medesimo art. 113 dispone che “gli enti locali, anche in forma associata, possono conferire la proprietà delle reti, degli impianti e delle altre dotazioni patrimoniali a società di capitali di cui detengono la maggioranza, che è incedibile. Tali società pongono le reti, gli impianti e le altre dotazioni patrimoniali a disposizione dei gestori incaricati della gestione del servizio o, ove prevista la gestione separata della rete, dei gestori di quest’ultima, a fronte di un canone stabilito dalla competente Autorità di settore, ove prevista, o dagli enti locali. Alla società suddetta gli enti locali possono anche assegnare, ai sensi della lettera a) del comma 4, la gestione delle reti, nonchè il compito di espletare le gare di cui al comma 5

[4]  Abrogato dal comma 3 dell'art. 14, D.L. 30 settembre 2003, n. 269; la norma disponeva che le imprese concessionarie cessanti nei termini stabiliti dal regolamento di cui al comma 16 del presente articolo reintegrano gli enti locali nel possesso delle reti, degli impianti e delle altre dotazioni utilizzati per la gestione dei servizi. Ad esse è dovuto dal gestore subentrante un indennizzo stabilito secondo le disposizioni del comma 9 dell’articolo 113 del citato testo unico di cui al decreto legislativo n. 267 del 2000, come sostituito dal comma 1 del presente articolo. Il comma 9 dell’art. 35, prevedeva che “gli enti locali che alla data di entrata in vigore della presente legge detengano la maggioranza del capitale sociale delle società per la gestione di servizi pubblici locali, che siano proprietarie anche delle reti, degli impianti e delle altre dotazioni per l’esercizio di servizi pubblici locali, provvedono ad effettuare, entro un anno dalla data di entrata in vigore della presente legge, anche in deroga alle disposizioni delle discipline settoriali, lo scorporo delle reti, degli impianti e delle altre dotazioni. Contestualmente la proprietà delle reti, degli impianti e delle altre dotazioni patrimoniali, oppure l’intero ramo d’azienda, è conferita ad una società avente le caratteristiche definite dal citato comma l3 dell’articolo 113 del medesimo testo unico”. Il comma  11 dell’art. 35 prevedeva poi che, “in deroga alle disposizioni di cui al comma 2 dell’articolo 113 del citato testo unico, come sostituito dal comma 1 del presente articolo, e di cui al comma 9 del presente articolo, nonchè in alternativa a quanto stabilito dal comma 10, limitatamente al caso di società per azioni quotate in borsa e di società per azioni i cui enti locali soci abbiano già deliberato al 1º gennaio 2002 di avviare il procedimento di quotazione in borsa, da concludere entro il 31 dicembre 2003, di cui, alla data di entrata in vigore della presente legge, gli enti locali detengano la maggioranza del capitale, è consentita la piena applicazione delle disposizioni di cui al comma 12 dell’articolo 113 del citato testo unico. In tale caso, ai fini dell’applicazione del comma 9 dell’articolo 113 del citato testo unico, sulle reti, sugli impianti e sulle altre dotazioni patrimoniali attuali e future è costituito, ai sensi dell’articolo 1021 del codice civile, un diritto di uso perpetuo ed inalienabile a favore degli enti locali. Resta fermo il diritto del proprietario, ove sia un soggetto diverso da quello cui è attribuita la gestione delle reti, degli impianti e delle altre dotazioni patrimoniali, alla percezione di un canone da parte di tale soggetto. Non si applicano le disposizioni degli articoli 1024 e seguenti del codice civile”.

[5]   Recante Disposizioni in materia di risorse idriche, che, in materia,  così disponeva: Art. 12. Dotazioni dei soggetti gestori del servizio idrico integrato. 1. Le opere, gli impianti e le canalizzazioni relativi ai servizi di cui all'articolo 4, comma 1, lettera f), di proprietà degli enti locali o affidati in dotazione o in esercizio ad aziende speciali e a consorzi, salvo diverse disposizioni della convenzione, sono affidati in concessione al soggetto gestore del servizio idrico integrato, il quale ne assume i relativi oneri nei termini previsti dalla convenzione e dal relativo disciplinare.  2. Le immobilizzazioni, le attività e le passività relative ai servizi di cui all'articolo 4, comma 1, lettera f), ivi compresi gli oneri relativi all'ammortamento dei mutui, sono trasferite al soggetto gestore del servizio idrico integrato” omissis

[6]  Art 143. Proprietà delle infrastrutture.”1. Gli acquedotti, le fognature, gli impianti di depurazione e le altre infrastrutture idriche di proprietà pubblica, fino al punto di consegna e/o misurazione, fanno parte del demanio ai sensi degli articoli 822 e seguenti del codice civile e sono inalienabili se non nei modi e nei limiti stabiliti dalla legge. 2. Spetta anche all'Autorità d'ambito la tutela dei beni di cui al comma 1, ai sensi dell'articolo 823, secondo comma, del codice civile

[7]     C. Tessarolo, L'affidamento della gestione del Servizio Idrico Integrato, in questa Rivista, 11 aprile 2012

[8]  Il comma quinto dell’art. 23 bis, abrogato dal Referendum popolare del 12-13 giugno 2011 è stato pedissequamente riproposto con il comma 28 dell’art. 4 del d.l. 13 agosto 2011 n. 138, cov. In L. 14 settembre 2011 n. 148. Si veda, in proposito, il commento di G. Caia, S. Colombari e Daniela Masetti in Atti della giornata di studio “Dopo il terremoto la pronta ricostruzione del servizi pubblici locali : il decreto legge 13.8.2011 n. 138”, Pubblitecnica, Bologna 29 settembre 2011. Secondo gli A. “ sembra doversi ritenere che la norma non implichi una proprietà pubblica necessaria delle reti destinate a pubblico servizio locale. In sostanza, dovrebbero rimanere pubbliche (senza dunque possibilità di cederle) solo le reti che già lo sono o per le quali è prevista nei rapporti in corso la devoluzione all’ente locale. Ove invece si volesse sostenere che tali reti non possono mai appartenere a soggetti privati, la norma dovrebbe comunque essere applicata restrittivamente: non ogni impianto destinato a pubblico servizio, ma solo quelli che si sviluppano in reti (quindi un inceneritore non rientrerebbe nell’applicazione della norma, mentre un depuratore civile vi rientrerebbe perché acquedotto, fognatura e depurazione rappresentano tecnicamente un ciclo inscindibile). Inoltre, in questa seconda ipotesi, (proprietà pubblica necessaria) la disposizione sarebbe comunque da applicare alle nuove fattispecie che si verificano dopo l’entrata in vigore delle norme così introdotte. Le precedenti fattispecie conserverebbero il regime loro proprio al momento della realizzazione (a seconda che sia stato convenuto tra le parti: permanenza nella proprietà privata; devoluzione all’ente locale alla scadenza del rapporto). L’applicabilità solo alle nuove fattispecie si deve sostenere anche per la mancanza di indicazioni nella legge circa l’avocazione coattiva delle reti al patrimonio pubblico (come invece imporrebbe l’art. 43 Cost).

[9]   Recante il Regolamento per i criteri di gara e per la valutazione dell'offerta per l'affidamento del servizio della distribuzione del gas naturale, in attuazione dell'articolo 46-bis del decreto-legge 1° ottobre 2007, n. 159, convertito in legge, con modificazioni, dalla legge 29 novembre 2007, n. 222.

[10]  Che ha ripristinato pedissequamente il contenuto dell’art. 23 bis, comma quinto, del D.Lgs. n. 112/2008, abrogato dal Referendum popolare del 13 e 13 giugno 2011 (ma che non riguarda servizio idrico, escluso dal campo di applicazione dell’art. 4)

[11]   Per tutte, si veda S. Ferla, Le società patrimoniali delle reti dopo la sentenza della Corte Costituzionale n. 320/2011, in Public Utilities, 6.2.2012

[12]   Secondo la Corte Costituzionale, invece, la previsione da parte dell'art. 113 comma 13 dell'incedibilità del capitale totalmente pubblico delle società patrimoniali non ha rilevanza riguardo alla potenziale alienazione dei cespiti delle stesse (comprese le reti) facenti parte del patrimonio sociale. Diverse, infatti, sono le nozioni di capitale sociale e di patrimonio sociale (art. 2740 c.c.): i beni in esso compresi sono suscettibili, infatti, di circolare liberamente. Come vedremo, è possibile fornire una chiave di lettura della disposizione ben diversa da quella della Corte, pur concordando che la lettera della norma offre il fianco a più di una critica. In realtà, il  vincolo di destinazione delle reti e degli  altri beni strumentali rispetto al servizio testimonia che la mens legislatoris aveva, probabilmente, sullo sfondo una nozione evolutiva dei beni pubblici, come  si tenterà di dimostrare.

[13]   S. Ferla, Le società patrimoniali …, cit.

[14]   Luca Longhi, Le reti idriche: beni patrimoniali, beni demaniali o…. beni comuni? Note minime su C. Cost, sent. N. 320/2011, in Giustizia Amministrativa n. 1-2012

[15]   A.M. Sandulli, Manuale di diritto amministrativo, XIV edizione, Jovene, Napoli, 1984, Vol. 2, p. 740 e ss.

[16]   Cfr. Casetta, Manuale di diritto amministrativo, Milano, 2007, pp. 180 e ss.; in giurisprudenza v. Cass S.U. 13.11.1977, n. 12119

[17]   Prima dell’emanazione del D.Lgs. n. 152/2006 solo gli acquedotti rientravano pacificamente tra i beni demaniali di cui all’art. 822 c.c.; le altre infrastrutture idriche, invece, se appartenenti ad un ente pubblico, si ritenevano comprese nel patrimonio indisponibile dell’Ente in quanto destinate ad un pubblico servizio (art. 826 c.c.); cfr. F. Dallari, commento all’art. 143 del D.Lgs. 152/2006 in Nuovo Codice dell’Ambiente, Maggioli, 2009

[18]   Vedasi Municipalizzazione dei pubblici servigi, di Giovanni Montemartini, Società Editrice Libraria, 1917

[19]   Sul fenomeno della municipalizzazione si veda: Giuliano Pischel – La municipalizzazione in Italia. Ieri, oggi, domani, Roma, 1965 e L’azienda municipalizzata, Roma, 1970;  A.Berselli  (a cura di),  La municipalizzazione in area padana. Storia ed esperienze a confronto, Milano, Angeli 1988; G. Bigatti, A. Giuntini, A. Mantegazza, C. Rotondi, L’acqua e il gas in Italia. La storia dei servizi a rete delle  aziende pubbliche e della  Federgasacqua, Angeli, 1997. B. Spadoni, l'evoluzione istituzionale organizzativa dei servizi pubblici locali dalla municipalizzazione alla liberalizzazione – ISSIRFA – CNR, 2004.

[20]   C. Tessarolo, l'Azienda Speciale e le altre forme di gestione dei servizi pubblici locali, Ed. Pubblitecnica, Roma, 1994, p. 144 e ss.

[21]   Mentre nel 1901 i comuni italiani gestivano infatti un discreto numero di servizi “tradizionali” (171 macelli, 151 acquedotti, 20 lavatoi), ma ancora pochissimi servizi “industriali” (24 officine elettriche, 15 officine del gas e una

      sola tramvia elettrica), alla vigilia della guerra risultavano operanti sotto la forma dell’azienda speciale (prevista per le realizzazioni di maggior rilievo) 136 imprese con un capitale complessivamente investito di 136.5000.000 di lire (Claudio Pavese, Le Municipalizzate in Italia, in atti della Seconda Conferenza Nazionale dei Servizi Pubblici Locali, Officine del Gas AEM SpA, Milano 3-4-5 ottobre 2000.

 

[22]   C. Tessarolo, L'Azienda Speciale.., cit.

[23]  E’ il caso, in questa sede, di dar conto della circostanza per cui la prassi invalsa nei primi anni ’90, periodo di massimo sviluppo delle trasformazioni delle ex aziende municipalizzate in aziende speciali, anche alla luce di alcuni orientamenti giurisprudenziali un diffusa corrente di pensiero tendeva a non ricomprendere, nel capitale di dotazione dell’azienda (derivante, per la quasi totalità, dallo stato patrimoniale delle vecchia municipalizzata), ai fini della delibera consiliare di trasformazione in azienda speciale, alcuni cespiti afferenti il servizio idrico (nella specie: i pozzi e le principali reti di adduzione idrica, c.d. “dorsali”), in quanto (solo) ad essi era attribuito carattere demaniale (è stato poi ripetutamente chiarito dalla giurisprudenza come rientrino nella nozione di acquedotto tutte le reti e gli impianti ad esse serventi). In ogni caso, la nautura di entre strumentale dell’Ente Locale che la normativa attribuiva alle aziende speciali indusse i più a ritenere legittima l’assegnazione dei beni idrici in proprietà alle aziende stesse

[24]  Ci si riferisce all’ipotesi dello scorporo obbligatorio delle reti previsto dall’art. 35 comma 7 cit. nel caso fossero contenute in una società  di gestione dei servizi – che avrebbe  potuto essere privatizzata – con destinazione necessaria delle stesse ad una società a totale capitale pubblico incedibile

[25]   Poi divenuto Commissione nazionale di Vigilanza per le Risorse Idriche, recentemente destinata a trasformarsi in Agenzia Nazionale per le risorse Idriche (art 10, commi 14 e 15 del decreto legge 13 maggio 2011 n. 70, come convertito nella  legge 12 luglio 2011 n. 106) , che tuttavia non ha mai visto la luce in quanto le relative competenze sono state suddivise tra l'Autorità  per l'Energia Elettrica ed il Gas ed il Ministero  dell'Ambiente (art. 21 del decreto legge 6 dicembre 2011, n.  201, come convertito nella legge 22 dicembre 2011, n. 214, c.d. “Salva Italia”).

[26]   Comitato di Vigilanza sulle Risorse Idriche, parere 28.11.2002 n. 129

[27]   Canone non previsto, invece, dall'art. 12 della Legge Galli  per il caso in cui fossero gli enti locali ad assegnare i beni in concessione al gestore

[28]   E' appena il caso di rammentare come, in quel periodo, la teoria anglosassone dei c.d. common carrier, ossia delle reti come infrastrutture di proprietà pubblica che avrebbero dovuto consentire lo sviluppo della concorrenza da parte  degli erogatori dei servizi, era pensata anche per il servizio idrico, sulla scia di quanto avveniva in Inghilterra (dove, peraltro, la sperimentazione fu poi abbandonata). Vedasi, al riguardo, l'interessante studio di Luca Arnaudo, Gestione giuridica delle acque e concorrenza nei servizi idrici, in Orizzonti, 2004, pp. 579 e ss, che riferisce come il progetto prevedesse che le imprese che avessero disponibilità idrica (es. in quanto disponessero di una fonte idrica, ovvero acquistassero acqua dalle imprese già insediate in aree confinanti a quella in cui la nuova entrante volesse operare) e fossero dotate di un’apposita licenza rilasciata dal Director General of Water Services, avrebbero potuto introdurre acqua potabile nella rete di distribuzione per venderla a clienti selezionati (eligible customers), collocati cioè oltre una determinata soglia di consumo. La licenza, nelle intenzioni del progetto di riforma, garantiva all’impresa il diritto di accesso, «on reasonable terms and conditions», alla rete di distribuzione gestita dalle imprese titolari, tenute a pubblicare un Access Code  in cui specificare le condizioni di tale accesso.

[29]   TAR Liguria, Genova, Sez. II, sentenza 16 novembre 2004 n. 1716, relativa ad un ricorso proposto dall'Acquedotto De Ferrari Galliera SpA avverso la delibera del consiglio comunale di Genova di vendita di alcuni impianti di accumulo e trasporto idrico ad AMGA Genova SpA. Muovendo dal presupposto  che le infrastrutture idriche di cui era causa rientrassero nel concetto di beni demaniali (che, nel settore idrico, secondo il Tribunale non poteva essere circoscritto ai soli accquedotti, ma doveva necessariamente estendersi secondo un'interpretazione funzionale a tutte le altre opere accessorie che consentono la realizzazione delle finalità cui è preordinato l'acquedotto), il TAR , dato  atto che la caratteristica principale dei beni demaniali è l'inalienabilità ex art. 823 c.c., afferma che tale caratteristica appare inderogabile anche ad opera delle successive norme di rango legislativo, salvo che le stesse non introducano una espressa deroga alla stessa. L'inalienabilità, nella specie, prosegue il TAR, non è venuta meno per effetto dell'art. 35 della L. 448/2001; non dettando tale norma alcuna previsione specifica per i beni demaniali, ed anzi non menzionandoli neppure, deve escludersi che abbia introdotto una deroga alla disposizione dell'art. 823. Al riguardo, non pare che l'esegesi della norma compiuta dal Giudice Amministrativo sia pienamente rispettosa degli ordinari canoni ermeneutici: non si comprende, in particolare, in base a quale principio l'art. 35, lex posterior specialis, avrebbe dovuto contenere un'espressa deroga alla disciplina codicistica.

[30]   Cfr. il Parere 6.12.2006, avente ad oggetto “Separazione della gestione delle reti dall'erogazione del servizio idrico”, nel quale il Comitato affermò che non pareva possibile, alla luce della disciplina prevista dagli artt. 822 e ss. cod. civ., costituire nel settore idrico le società patrimoniali di cui all'art. 113, comma 13, TUEL, in quanto non era presente, nella nuova normativa, una  deroga espressa al codice civile (riecheggiando la ricostruzione del TAR Genova illustrata alla nota precedente)

[31]   Con una motivazione incentrata sulla necessaria gratuità della concessione d'uso dei beni idrici al gestore, che contrastava con l'onerosità prevista, per l'ipotesi della società patrimoniale, dall'art. 113 comma 13 TUEL, e perciò negando, di conseguenza, la possibilità di un conferimento dei beni a società pubblica mediante aumento di capitale CONVIRI, Parere n. 4479 del 1 marzo 2010 reso all'ATO Provincia di Milano

[32]    I Servizi Pubblici Locali, V. Italia (a cura di), Giuffrè, 2002, La proprietà, di G. Ruggeri, p. 99 e ss. Tale argomento è oggi contraddetto, come si è visto, dalla Consulta tramite l’assunto fondato sulla differenza tra capitale sociale e patrimonio sociale, tesi indubbiamente corretta sotto il profilo formale, ma che non pare tener conto della circostanza fatto che, probabilmente, proprio quella accennata era  la ratio nella mente del legislatore, nel contesto di una norma scritta con qualche approssimazione

[33]   G. Bassi, Le società a partecipazione pubblica locale, Maggioli, 2006

[34]   Per i conferimenti in natura, infatti, nel diritto societario non vi  è presunzione che il conferimento abbia avuto luogo a titolo di proprietà ovvero in godimento: occorre identificare il titolo giuridico in base al quale la società acquisisce il bene, in base alle regole generali dell'interpretazione del contratto (Cottino-Sarale-Weigmann, in trattato Cottino, 102 e ss.)

[35]   Fontana Panassidi -  Le Utilities nel Pantano, in Guida agli Enti Locali n. 7/2004

[36]   Derivante dalla possibilità di una migliore manutenzione dei beni, di un loro più accurato censimento, della loro rivalutazione a valori correnti di mercato con iscrizione nel patrimonio delle società con criteri di ammortamento conformi alla loro vita utile residua, ma, soprattutto, della profittabilità che tutto questo avrebbe comportato per gli enti locali

[37]   Fazioli, Matino, De Mita, Strategie di riorganizzazione nel settore idrico: la societarizzazione degli asset, Working Paper Laboratorio Utilities Enti Locali, 2003

[38]   Marco Dugato, I beni pubblici: tutela, valorizzazione e gestione, in Atti del convegno di studi, Ville Tuscolane, 16-18 novembre 2006, Giuffrè, 2008.

[39]   R. Bin, G. Pitruzzella, Manuale di diritto costituzionale, ed. Giappichelli, IX ed., 2008

[40]   Falzea, In tema di sentenze di accoglimento parziale, in Giur. Cost., 1986, p. 2603; Guastini, Il diritto come linguaggio, Giappichelli, Torino, 2006, p. 167; T. Ascarelli, Giurisprudenza costituzionale e teoria dell'interpretazione giuridica, in Riv.It. Dir. Proc., 1957, p. 351 e ss.

[41]   Cfr. C. Fatta, Attività ermeneutica della Corte Costituzionale, in Seminari 2007 Università di Genova : www.unige.it

[42]   Corte Cost. 19 febbraio 1965 n. 11

[43]   Corte Cost 28 maggio 1975 n. 129

[44]   Cass., SU, 23016 del 17.5.2004

[45]  Per cui “L'acquisizione, l'attribuzione e la devoluzione, avvenute in base a specifiche disposizioni di legge, dei beni immobili che risultano iscritti nel bilancio della società Ferrovie dello Stato Spa al 31 dicembre 1997, così come certificato dalla società di revisione ed approvato dall'assemblea dei soci, si intendono avvenute a titolo di trasferimento di proprietà”

[46] Saracco G.M., Ferrovie, in D.Disc.Pubbl., VI, Torino, 1991, p. 321; Consiglio di Stato, Sez. III, 11.12.1990 n. 1594; Consiglio di Stato, Sez. IV, 21.11.1990 n. 980; Consiglio di Stato, Sez. II, parere 4.3.1992 n. 224)

[47] V. Spagnuolo Vigorita, l’Ente Ferrovie dello Stato: natura e disciplina, in Rass. Giur. ENEL, 1986, p. 29 e ss.

[48] Cfr. D. Casalini, Proprietà pubblica, classificazione ed uso dei beni, in OpLab, Laboratorio Opere Pubbliche dell’Università di Torino – www.progetto.oplab-org , 2009

[49] Cons. di Stato, Sez. V, 4 giugno 2003 n. 3074. Sul medesimo argomento, si vedano A. Pajno, commento all’art. 822 del codice civile in La giurisprudenza sul codice civile coordinata con la dottrina, Libro III, della proprietà, diretto da Cesare Ruperto, Giuffrè, 2011, nonché Manuale di contabilità pubblica di Pelino Santoro, Maggioli, 2010

[50] R. Chieppa, V. Lopilato, Studi di diritto amministrativo, Giuffrè, 2006

[51]  Il riferimento alla Patrimonio S.p.A. era stato formulato dalla difesa della Regione Lombardia, come esemplificazione di una fattispecie in cui beni demaniali sono stati assegnati ad una società per azioni pubblica senza che il trasferimento modifichi il regime giuridico dei beni conferiti. La Corte Costituzionale, con motivazione assai scarna ed in qualche modo frettolosa, ha sostenuto che la speciale disciplina ivi prevista riguarda i soli beni demaniali dello Stato, ed è insuscettibile di applicazione analogica.

[52] TAR Milano, 2 luglio 2009 n. 4896

[53]   CGE, 26.2.1987

[54] Trattasi, com’è noto, di trasformazione costitutiva, inizialmente prevista dai commi da 51 a 57 dell'art. 17, L. 15 maggio 1997, n. 127 (sulla cui base numerosissime Aziende si sono trasformate), poi trasfusi nell’art. 115 del TUEL. Secondo tali disposizioni “ I comuni, le province e gli altri enti locali possono, per atto unilaterale, trasformare le aziende speciali in società di capitali... Il capitale iniziale di tali società è determinato dalla deliberazione di trasformazione in misura non inferiore al fondo di dotazione delle aziende speciali risultante dall'ultimo bilancio di esercizio approvato e comunque in misura non inferiore all'importo minimo richiesto per la costituzione delle società medesime. L'eventuale residuo del patrimonio netto conferito è imputato a riserve e fondi, mantenendo ove possibile le denominazioni e le destinazioni previste nel bilancio delle aziende originarie.”

[55] c.d. Funzione vincolistica del capitale sociale; cfr. Campobasso G., Diritto commerciale, Vol. 2, Diritto delle società, 7ma edizione, 2009

[56] Cfr. Marco Dugato, I beni pubblici..cit.

 

[57] La Commissione sui Beni Pubblici, presieduta da Stefano Rodotà, è stata istituita presso il Ministero della Giustizia, con Decreto del Ministro, il 21 giugno 2007, composta dal Prof. Stefano Rodotà, Presidente, dal Vice Presidente Prof. Ugo Mattei, dal Cons. Alfonso Amatucci, dal Prof. Felice Casucci, dal Prof. Marco D’Alberti, dalla Prof.ssa Daniela Di Sabato, dal Prof. Avv. Antonio Gambaro, dal  Cons. Antonio Genovese, dal Prof. Alberto Lucarelli, dal Prof. Luca Nivarra, dal Dott. Paolo Piccoli, dal Prof. Mauro Renna, dal Prof. Francesco Saverio Marini e dal Prof. Giacomo Vaciago

[58] M. Renna, I beni comuni e la Commissione Rodotà, in www.labsus.org

[59] Commissione Rodotà - per la modifica delle norme del codice civile in materia di beni pubblici (14 giugno 2007) – Relazione, reperibile online sul sito del Ministero della Giustizia, www.giustizia.it

 

[60] Deliberazione del Consiglio Provinciale n. 5 del 13 marzo 2012, successivamente approvata dalla prima Conferenza dei Comuni dell’ATO del 3 maggio 2012

[61] La parte più consistente del riassetto prevede la fusione tra le esistenti società patrimoniali, che attualmente provvedono anche alla gestione dei beni. E’evidente come gli orientamenti giurisprudenziali qui in commento siano suscettibili di generare più di un’incertezza  nell’istruttoria dei relativi incombenti societari; trattandosi del trasferimento di beni di questa natura, non potrà non porsi il problema della legittimità degli atti di fusione in quanto comportanti detto trasferimento. Secondo l’opinione qui accolta, la proprietà dei cespiti è detenuta legittimamente dalle suddette patrimoniali, e gli orientamenti sopra accennati non sono quindi suscettibili di influire sulla legittimità delle operazioni straordinarie che dovranno essere compiute per pervenire alla realizzazione del progetto, tenuto conto del fatto che il soggetto derivante dalla fusione sarebbe direttamente partecipato dagli Enti Locali, interamente pubblico ed informato ai principi dell’in house providing.

[62]    E’ il caso di un importante Gestore del Servizio Idrico Integrato del triveneto, che con assemblea straordinaria ha recentissimamente ridotto il proprio capitale sociale da circa € 66 milioni a circa € 23 milioni. La composizione societaria di questo gestore è stata oggetto, con riguardo alla proprietà delle reti, anche di un rilievo da parte dell’Autorità Garante della Concorrenza ed il Mercato; va peraltro rimarcato che, all’atto dell’espressione del parere da parte del Garante, il gruppo societario facente capo al gestore stesso vedeva al proprio interno una componente privata.

HomeSentenzeArticoliLegislazioneLinksRicercaScrivici