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L'in house providing fra giustizia amministrativa e Corte Costituzionale
di Giovanni Cocco 5 luglio 2013
Materia: servizi pubblici / affidamento e modalità di gestione

l’in house providing  fra giustizia amministrativa e corte costituzionale

 

1. Con alcune sentenze recenti la giustizia amministrativa ha proclamato il venir meno del principio della eccezionalità del modello in house per la gestione dei servizi pubblici locali di rilevanza economica (così Cons. Stato, Sez. VI, 762/2013, e, sulla sua scia, T.A.R. Campania Napoli, Sez. I, 11/4/2013, n. 1925).

Il messaggio è esplicito nella recentissima sentenza del T.A.R. Lombardia Brescia, Sez. II, 11/6/2013, n. 558, ove si afferma che l’ordinamento nazionale “non indica un modello preferibile – ossia non predilige né l’in house, né la piena espansione della concorrenza nel mercato e per il mercato, e neppure il partenariato pubblico – privato – ma rinvia alla scelta concreta del singolo Ente affidante”.

In effetti la strada sembrava spianata dalla nota sentenza della Corte Costituzionale n. 199 del 20 luglio 2012 che aveva dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 4 del d.l. n. 138/2011, norma, a sua volta, più restrittiva dell’art. 23-bis del d.l.  n. 112/2008. In quella occasione il Giudice di costituzionalità delle leggi aveva affermato che la disciplina “volta a restringere, rispetto al livello minimo stabilito dalle regole concorrenziali comunitarie, le ipotesi di affidamento diretto e, in particolare di gestione in house dei servizi pubblici locali di rilevanza economica, consentite solo in casi eccezionali ed al ricorrere di specifiche condizioni” era stata cancellata dalla consultazione referendaria, venendosi in tal modo a realizzare l’intento referendario di escludere l’applicazione delle norme contenute nell’art. 23-bis che limitano, rispetto al diritto comunitario, le ipotesi di affidamento diretto e, in particolare, quelle di gestione in house di pressoché tutti i servizi pubblici locali e di consentire conseguentemente l’applicazione della normativa comunitaria conferente.

Nelle condizioni attuali, dunque, secondo i giudici amministrativi la scelta dell’ente locale sulle modalità di organizzazione dei servizi pubblici locali, e in particolare l’opzione tra modello in house e ricorso al mercato, deve basarsi sui consueti parametri di esercizio delle scelte discrezionali, vale a dire:

“- valutazione comparativa di tutti gli interessi pubblici e privati coinvolti;

- individuazione del modello più efficiente ed economico;

- adeguata istruttoria e motivazione” (così ancora Cons. Stato, Sez.VI, n. 762/2013 e T.A.R. Campania Napoli, Sez. I, n. 1925/2013).

Di più, fa notare il T.A.R. Brescia nella menzionata sentenza n. 558/2013, il legislatore nazionale si è uniformato alla pronuncia della Corte (è da presumere si faccia riferimento a Corte Cost., sentenza 28/3/2013, n. 50), con il d.l. 18 ottobre 2012, n. 179, conv. in L. 17 dicembre 2012, n. 221. In particolare, l’art. 34 comma 20 prevede che ”per i servizi pubblici locali di rilevanza economica, al fine di assicurare il rispetto della disciplina Europea, la parità tra gli operatori, l’economicità della gestione e di garantire adeguata informazione alla collettività di riferimento, l’affidamento del servizio è effettuato sulla base di apposita relazione, pubblicata sul sito internet dell’ente affidante, che dà conto delle ragioni e della sussistenza dei requisiti previsti dall’ordinamento Europeo per la forma di affidamento prescelta e che definisce i contenuti specifici degli obblighi di servizio pubblico e servizio universale, indicando le compensazioni economiche, se previste”.

Ad ulteriore conforto di questa tendenza all’equiparazione tra i diversi moduli di svolgimento dei SPL di rilevanza economica si può citare pure un parere del Comitato economico e sociale europeo del 26 aprile 2012 in merito alla proposta di direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio relativa all’aggiudicazione dei contratti di concessione  Com (2011) 897 final  - 2011/0437  COD (punto 5.5) laddove afferma che le autorità nazionali, regionali e locali devono poter “stabilire liberamente i criteri di aggiudicazione – sociali, ambientali e di qualità – secondo loro più adeguati rispetto all’obiettivo del contratto. Le autorità pubbliche non dovranno in nessun caso essere obbligate a liberalizzare o a esternalizzare la prestazione dei servizi di interesse economico generale contro la propria volontà o i propri criteri. Il CESE invita a ricordare chiaramente che alle imprese incaricate della gestione di servizi di interesse generale si applicano le norme in materia di concorrenza e di mercato interno, conformemente all’art. 106 del TFUE, ossia nei limiti in cui l’applicazione di tali norme non osti all’adempimento, in linea di diritto e di fatto, della specifica missione loro affidata”.

Fin qui, nel rispetto dei requisiti comunitari che caratterizzano l’affidamento in house, parrebbe restaurata in pieno la possibilità di scelta ad opera degli enti locali secondo i moduli tradizionali.

2. Però, a turbare queste convinzioni, è intervenuta in parallelo una decisione della Corte Costituzionale, pur’essa recente. Infatti, con la sentenza del 20 marzo 2013, n. 46, il giudice di costituzionalità delle leggi ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 25, comma 1, lettera a), del decreto legge sulla concorrenza (d.l. 24 gennaio 2012 n. 1).

Questa norma, a sua volta, ha introdotto un peculiare meccanismo normativo che si risolve in una situazione di svantaggio pratico per l’affidamento in house dei SPL di rilevanza economica, sia pur riconducibile ad una fonte normativa diversa da quella già abrogata.

Questo il tenore della norma appena citata: “A decorrere dal 2013, l'applicazione di procedura di affidamento dei servizi a evidenza pubblica da parte di regioni, province e comuni o degli enti di governo locali dell'ambito o del bacino costituisce elemento di valutazione della virtuosità degli stessi ai sensi dell'articolo 20, comma 2, del decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98, convertito, con modificazioni, dalla legge 15 luglio 2011, n. 111.”.

A sua volta la norma di cui all’art. 20 del decreto legge n. 98/2011, recante “Disposizioni urgenti per la stabilizzazione finanziaria”, prevede una divisione in due classi degli enti considerati (regioni, provincie e comuni) a seconda del loro grado di virtuosità, in forza di una serie di indici tra cui è contemplata l’adozione di procedure ad evidenza pubblica.

Dall’inclusione nel novero degli enti virtuosi discende l’attribuzione di un premio, per meglio dire discende la possibilità di sottostare a vincoli finanziari meno pesanti (o, come recita più pudicamente il comma 2 dell’art. 20, a vincoli connessi “al fine di distribuire il concorso alla realizzazione degli obiettivi di finanza pubblica”).

Da qui l’evocata situazione di disfavore per gli affidamenti in house se posti in comparazione con l’evidenza pubblica. Situazione di disfavore che, evidentemente, va in senso opposto rispetto all’equiparazione tra i diversi modelli per lo svolgimento del SPL cui è approdata la più recente giurisprudenza amministrativa.

3. Vi è da aggiungere che la disposizione che premia il ricorso all’evidenza pubblica è stata portata all’attenzione della Corte Costituzionale dalla Regione Veneto nel giudizio al cui esito è stata depositata la cennata sentenza n. 46/2013.

Queste le argomentazioni dell’Ente regionale.

Il disposto normativo in questione finirebbe per estromettere nei fatti la possibilità di affidamenti in house, in seguito ad una valutazione negativa operata ex ante e oltretutto senza possibilità di contraddittorio, laddove, invece, sarebbe ben possibile che, in concreto, questa tipologia di affidamenti possa dimostrarsi più efficiente e virtuosa.

Tutto ciò – secondo l’ente impugnante – porta a dire che, in tal modo, si priverebbero gli enti territoriali della possibilità di valutare le proprie esigenze e di scegliere le modalità di gestione dei servizi a loro più convenienti, violando l’autonomia regionale, prevista dall’art. 118 Cost., nell’esercizio delle funzioni amministrative.

Ed in sostanza il meccanismo di “premialità” previsto dall’art. 25 del d.l. n. 1/2012 scoraggia il ricorso all’affidamento in house a prescindere da ogni considerazione circa la maggior rispondenza, in concreto, di questa modalità di svolgimento del SPL di rilevanza economica alla singola realtà locale. Gli argomenti addotti sono suggestivi in fatto, però non scalfiscono, sul piano del diritto, la legittimità costituzionale della norma impugnata, almeno stando al profilo fatto valere dalla Regione Veneto.

Infatti, a differenza di come operavano l’art. 23-bis  del d.l. n. 112/2008 o l’art. 4 del d.l. n. 138/2011, la norma in discussione non incide sui presupposti per l’affidamento, il che sarebbe stato precluso dagli esiti referendari e dalla giurisprudenza della stessa Corte Costituzionale che li aveva asseverati, tanto che oramai, come si è visto, nella giurisprudenza amministrativa, l’affidamento in house non viene più qualificato come un’eccezione rispetto all’evidenza pubblica.

Il decreto legge sulle liberalizzazioni imbocca una strada diversa, che è quella promozionale.

Siffatta tecnica consente di perseguire il duplice vantaggio: di superare le strettoie di un oramai impossibile inasprimento dei presupposti per accedere all’in house e di lasciare intatte le competenze degli enti territoriali nelle materie economiche.

L’ente territoriale non è obbligato a rinunciare all’affidamento domestico, bensì orientato a scegliere l’evidenza pubblica, ossia quella modalità che, essendo conforme al principio della concorrenza, lo Stato ritiene economicamente più conveniente e, quindi, funzionale al contenimento della spesa pubblica (per una più diffusa esplicitazione di queste argomentazioni si rimanda a Corte Costituzionale, 23 gennaio 2013, n. 8).

4. L’intarsio normativo, particolarmente nell’interpretazione offerta dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 46/2013, pare all’apparenza inossidabile.

Ma, forse, ha un tarlo.

Il ragionamento si fonda sul fatto che l’affidamento in house assuma carattere derogatorio e, per ciò stesso di eccezione, rispetto all’evidenza pubblica.

Secondo logica, però, un’eccezione deve viaggiare sullo stesso piano della regola cui viene a derogare. Ma è proprio questo il punto di cui è lecito dubitare, ossia che si tratti di due moduli di svolgimento del SPL di rilevanza economica che si collocano nella stessa dimensione valutativa e giuridica.

Tenendo in disparte l’abuso che è stato fatto nel nostro Paese dello strumento giuridico del quale si discute, è lecito pensare che allorché un ente pubblico si volga ad utilizzare il modulo dell’in house ponga in essere una valutazione di efficienza ed economicità tale per cui il ricorso anche alla sola concorrenza per il mercato non sarebbe profittevole.

Almeno nella sua accezione fisiologica non viene in questione un’eccezione alla regola del mercato, bensì un’ipotesi in cui al mercato non si può far ricorso pena l’impossibilità per le imprese incaricate del servizio di adempiere in linea di diritto o di fatto alla loro missione. Come suggerisce la sentenza della II Sezione del T.A.R. Brescia n. 558/2013 si tratta di casi in cui “non sussistono i presupposti per applicare le norme comunitarie a tutela della concorrenza”.

Così si può dire che il ricorso all’in house trova applicazione a monte della decisione dell’ente pubblico e quando non ci sono le condizioni per rivolgersi al mercato.

Non risponde, o almeno non dovrebbe rispondere, a finalità di “auto protezione” degli apparati pubblici, bensì ad elementi oggettivi.

Conseguentemente applicare, in questo caso, una logica di premialità a favore dell’evidenza pubblica non è ragionevole perché così facendo si sovrappongono due piani che sono distinti.

Ad ausilio di questa impostazione soccorre la giurisprudenza comunitaria, che – come è noto – ha riconosciuto che rientra nel potere organizzativo delle autorità pubbliche “autoprodurre” beni, servizi o lavori mediante il ricorso a soggetti che, ancorché giuridicamente distinti dall’ente conferente, siano legati a quest’ultimo da una “relazione organica” (in senso adesivo, anche recentemente, si è espressa la nostra Corte Costituzionale, sentenza 28 marzo 2013, n. 50). Né ha mai colorato questa scelta di connotati svalutativi.

Neppure va sottovalutato che la giurisprudenza comunitaria si concentra, in particolar modo, sulla verifica di quei requisiti che impediscono di ritenere che la scelta dell’in house venga a costituire una impropria modalità per falsare la concorrenza nell’arena economica. Se, in più occasioni, la Corte di Giustizia ha attestato che, in presenza di tali requisiti, lo svolgimento fisiologico del mercato non risulta turbato, se ne deve dedurre che la gestione di un SPL di rilevanza economica può svolgersi anche al di fuori del mercato (come nel caso dell’in house). Perché se così non fosse la giustizia comunitaria, che è universalmente considerata il massimo custode e patrono del mercato e della concorrenza, non potrebbe restare indifferente rispetto ad un fenomeno che impropriamente avesse aggirato questi valori.

Siffatte considerazioni trovano, poi, conforto nei successivi passaggi della stessa sentenza n. 46/2013 ove si conferma l’assoggettamento delle società in house al patto di stabilità interno.

Secondo il diritto comunitario – si rammenta in scia alla sentenza della Corte Cost. n. 325/2010 - è da escludere che l’in house contract configuri, nella sostanza, un rapporto contrattuale intersoggettivo tra aggiudicante ed affidatario, perché quest’ultimo è, in realtà, solo una longa manus del primo.

Onde una disciplina che esentasse dai vincoli del patto di stabilità le società in house finirebbe per collocarle in una condizione di favore rispetto a quella di un’Amministrazione pubblica che, invece, si orientasse per l’aggiudicazione ad evidenza pubblica, ponendosi in contrasto con la disciplina comunitaria e determinando una condizione di ingiustificato favor nei confronti della gestione del servizio in autoproduzione.

La distinzione tra la situazione in cui l’Amministrazione agisce esternalizzando il servizio in outsorcing e quella in cui agisce in autoproduzione attraverso una società che è una sua longa manus risulta netta, e, solo su questa base, si giustifica l’assoggettamento al patto di stabilità.

5. Chiarito questo in merito alla possibilità di contestare la ragionevolezza della scelta del legislatore, il problema pratico del diverso trattamento riservato dal nostro ordinamento agli affidamenti in house, tramite la ricordata norma del decreto sulle liberalizzazioni, resta.

Quindi pare difficile recepire acriticamente la già menzionata affermazione della sentenza del T.A.R. Brescia, Sez. II, n. 558/2013, secondo cui: “L’ordinamento nazionale non indica un modello preferibile ….omissis…. ma rinvia alla scelta concreta del singolo Ente affidante”, venendosi a delineare in concreto un percorso di adeguatezza alle condizioni esistenti, ossia “al tipo di servizio, alla remuneratività della gestione, all’organizzazione del mercato, alle condizioni delle infrastrutture e delle reti, e soprattutto all’interesse della platea degli utenti”.

È necessario, infatti, prestare attenzione alla circostanza che la scelta dell’in house comporta, per l’ente che la abbraccia, possibili restrizioni finanziarie in relazione alla normativa sulla spending review.

E al fine di evitare questa situazione di svantaggio non è sufficiente che ricorrano le condizioni di legittimità, per così dire intrinseche dell’affidamento in house (secondo la definizione data dal diritto comunitario), perché ciò non sgombra il campo da quel diverso ordine di impedimenti cui si è fatto riferimento.

Semmai bisognerebbe riuscire a contestare vittoriosamente sul piano della legittimità costituzionale (non trascurando la possibilità di vagliarne l’applicabilità anche alla luce del diritto comunitario, facendo tesoro delle conclusioni del citato parere del CESE del 26 aprile 2012) la scelta del legislatore nazionale, che, sul piano dei presupposti per l’affidamento ha equiparato impropriamente, ad avviso di chi scrive, due modalità di svolgimento dei servizi che rispondono a presupposti diversi perché si pongono nell’ambito di orizzonti normativi diversi (seppur tangenti).

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