La dismissione delle partecipazioni societarie delle pubbliche amministrazioni e le nomine nei CdA dopo la sentenza della Corte costituzionale n. 229/2013 *
Il quadro delle norme sulle società a partecipazione pubblica – eufemisticamente definibile come molto articolato – si arricchisce di un nuovo capitolo con la pronuncia della Corte costituzionale n. 229/2013.
I temi specifici su cui la Consulta è intervenuta, apportando ora innovazioni ora conferme alla normativa vigente, sono quelli delle nomine nei CdA di società partecipate da pubbliche amministrazioni e della dismissione delle società a partecipazione pubblica. O meglio, atteso che più disposizioni normative (e per ragioni fra loro eterogenee) impongono sia numerosi vincoli alle nomine nei CdA di società partecipate da amministrazione, che distinti obblighi di dismettere una data partecipazione societaria in mano pubblica, conviene chiarire che lo specifico segmento normativo su cui la pronuncia è venuta ad incidere è quello oggetto dell’art. 4 del d.l. 95/2012 convertito in legge n. 135/2012: provvedimento meglio noto come “spending review”.
Ebbene, prendendo le mosse dal tema della dismissione di partecipazioni societarie, è opportuno evidenziare che lo scenario preesistente alla pronuncia della Consulta risultava già di per sé sufficientemente articolato in quanto il legislatore era intervenuto sul tema delle partecipazioni societarie in mano pubblica imponendo la dismissione di una specifica “categoria” partecipazioni (che, a ben vedere, “categoria” non può dirsi stante la completa assenza di un criterio oggettivo che accomuni le società che rientrano nell’ambito applicativo della disposizione, ulteriore rispetto al mero dato fattuale di aver maturato una determinata quota percentuale di fatturato nei confronti delle pubbliche amministrazioni): si tratta delle “società controllate direttamente o indirettamente dalle pubbliche amministrazioni di cui all’articolo 1, comma 2, del decreto legislativo n. 165 del 2001, che abbiano conseguito nell’anno 2011 un fatturato da prestazione di servizi a favore di pubbliche amministrazioni superiore al 90 per cento” (art. 4, comma 1 d.l. 95/2012).
La disposizione sopra riportata, come noto, era stata emanata in un contesto che, di lì a pochissimo, sarebbe stato oggetto di modifiche radicali. La disposizione era stata infatti emanata nella vigenza del d.l. 138/2011, convertito in legge n. 148/2011, il cui art. 4 aveva riproposto – con analoghi stringenti limitazioni alle forme di in house providing – il quadro normativo relativo ai servizi pubblici locali di cui all’art. 23bis del d.l. 112/2008 convertito in legge n. 133/2008 (e relativo regolamento attuativo), il quale era venuto meno per effetto del referendum abrogativo del giugno 2011.
In sostanza, il legislatore, dopo che il corpo elettorale nel giugno 2011 aveva completamente ribaltato la disciplina allora inserita nel citato art. 23bis, aveva provveduto a riproporre una disciplina dei servizi pubblici locali del tutto analoga a quella abrogata. E ciò nel segno di una drastica chiusura all’intervento di società pubbliche in tale settore.
La disposizione normativa su cui è intervenuta la Corte costituzionale, sebbene non direttamente attinente al tema dei servizi pubblici locali, non poteva tuttavia non essere letta in combinato con la disciplina di tale settore, andando anch’essa nella medesima direzione di ostacolare la presenza di società pubbliche. In questo caso, l’oggetto delle limitazioni normative non aveva a riguardo esclusivamente la possibilità di operare affidamenti a società controllate da pubbliche amministrazioni; o meglio, tale intento non veniva palesato con interventi diretti (sebbene l’effetto della riforma portasse – e tutt’ora porta, laddove le disposizioni risultano ancora applicabili –ad una tale limitazione indirettamente), in quanto il meccanismo normativo individuato è stato il seguente: le società che abbiano superato una determinata soglia di fatturato nell’anno 2011 dovranno essere o privatizzate o sciolte, pena, altrimenti, l’impossibilità per dette società di beneficiare di affidamenti diretti.
Sullo sfondo, è bene ricordare, vi è il pregevole intento del legislatore nazionale – e prima di esso dell’ordinamento comunitario – di tenere ben distinti i due diversi fenomeni delle società partecipate da pubbliche amministrazioni che operino come una “quasi-amministrazione”, dalle società, pur esse a partecipazione pubblica, che agiscano invece quali veri e propri operatori di mercato.
In altri termini, il complicato tema della possibilità di una società soggetta a controllo di una determinata amministrazione (o di un determinato insieme di amministrazioni) di svolgere attività ulteriori rispetto a quelle oggetto di affidamento diretto da parte delle amministrazioni socie – emerso, inizialmente, sub specie dei limiti allo svolgimento di attività extra moenia da parte di società partecipate – è andato a coniugarsi con i principi, di matrice comunitaria, inerenti la tutela del mercato e della concorrenza, giungendo così all’esito della necessaria separazione fra affidatari diretti di servizi e operatori di mercato.
Tornando alla disposizione di cui all’art. 4 del d.l. 95/2012 è bene evidenziare, come pure la Corte costituzionale ha avuto modo di stigmatizzare, che il meccanismo volto ad imporre la dismissione delle partecipazioni oggetto della norma, non ha dato applicazione al predetto principio di separazione fra affidatari diretti e operatori di mercato, colpendo invece proprio quei soggetti che, nel rispetto di tale doverosa distinzione, avevano maturato una soglia percentuale di fatturato a favore di pubbliche amministrazioni tale da far presupporre il pieno rispetto della distinzione in parola.
Il legislatore, al comma 3 del d.l. 95/2012, aveva poi posto una limitazione al meccanismo sopra descritto, prevedendo che l’obbligo di dismissione (o di scioglimento) non sia applicabile ad una ampia serie di fattispecie, fra le quali spiccano le ipotesi delle “società che svolgono servizi di interesse generale, anche aventi rilevanza economica” e delle “società che svolgono prevalentemente compiti di centrali di committenza ai sensi dell'articolo 33 del decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163”; oltre a tali - ed altre - esenzioni, è altresì previsto che l’obbligo di dismissione non si applica “qualora, per le peculiari caratteristiche economiche, sociali, ambientali e geomorfologiche del contesto, anche territoriale, di riferimento non sia possibile per l'amministrazione pubblica controllante un efficace e utile ricorso al mercato” (prevendo, in tal caso, la trasmissione all'AGCM di una relazione contenente un'analisi del mercato in modo che essa possa esprimere parere vincolante in merito).
E’ da notare che il legislatore, nel definire l’ambito della deroga all’obbligo di dismissione delle partecipazioni, non abbia menzionato espressamente le società operanti nel settore dei servizi pubblici locali. Tale settore, tuttavia, come pure si afferma nella recente pronuncia della Corte costituzionale, è ricompreso nella nozione di “servizi di interesse generale”. In altri termini, le società operanti nel settore dei servizi pubblici locali, all’epoca in cui era stata emanata la previsione di cui all’art. 4 del d.l. 95/2012 già oggetto di una specifica (e significativamente limitativa delle possibilità di porre in essere affidamenti diretti) disciplina, non erano contemplate fra quelle oggetto dell’obbligo di dismissione.
I contenuti dell’art. 4 del d.l. 95/2011 avevano poi ad oggetto almeno altri due temi di interesse in riferimento alla innovazioni (ed alle conferme) derivanti dalla pronuncia n. 229/2013 della Corte costituzionale.
Si tratta, in primo luogo, dei commi 4 e 5, relativi all’inserimento di specifici obblighi in termini di individuazione del numero massimo dei membri di consigli di amministrazione in società a totale capitale pubblico, nonché di individuazione di specifici obblighi nell’attribuzione di tali cariche a specifici soggetti: sintetizzando e semplificando, i consigli di amministrazioni possono essere composti da tre o da cinque membri e due membri (o tre in ipotesi di consiglio con cinque membri) devono essere scelti fra i dipendenti delle amministrazioni (o delle società) socie, salva comunque la possibilità di optare per un amministratore unico della società.
In secondo luogo, ha rilievo che il comma 8 del medesimo art. 4 del d.l. 95/2012 avesse previsto, inizialmente, un limite massimo per gli affidamenti diretti a partire dal 1.1.2014 per un valore di euro 200.000 euro (in ciò riproponendo un limite quantitativo al valore dell’affidamento che già, in passato, era stato inserito nel settore dei servizi pubblici locali).
Su entrambi tali temi ha avuto modo di intervenire la Corte costituzionale con la pronuncia in esame.
Tuttavia, prima di giungere ai contenuti della pronuncia, al fine di fornire un esaustivo quadro di insieme della normativa, occorre dare conto della modifica normativa che era emersa all’indomani dell’entrata in vigore del d.l. 95/2012.
Come detto, tale disposizione, in combinato con la legislazione sui servizi pubblici locali, si muoveva nell’univoca direzione di ricondurre a stringenti limiti le possibilità di operare tramite società partecipate per le amministrazioni pubbliche (affiancate in ciò da ulteriori disposizioni recanti ulteriori divieti alla costituzione di nuove società quali l’art. 14, comma 32 del d.l. 78/2010, e l’art. 3, comma 27 della l. 244/2007).
Le disposizioni normative sui servizi pubblici locali di cui al d.l. 138/2011, tuttavia, subito dopo l’entrata in vigore del d.l. 95/2012 erano venute meno ad opera della pronuncia della Corte costituzionale n. 199/2012, rendendo così applicabile a tale settore la sola normativa comunitaria, ben più favorevole a forme di intervento delle amministrazioni tramite società partecipate. Con ciò introducendo nell’ordinamento una qual certa tensione fra un settore, quello dei servizi pubblici locali, caratterizzato adesso da un’ampia possibilità di intervento da parte delle società partecipate da amministrazioni pubbliche tramite affidamento diretto dei servizi e senza che ricorrano stringenti obblighi di dismissione di partecipazioni (o comunque con ben minori vincoli rispetto al settore delle c.d. attività strumentali), ed il limitrofo, e spesso difficilmente distinguibile, settore delle c.d. “attività strumentali”, nel cui ambito sono previsti, come visto, significative limitazioni a carico delle società pubbliche ivi operanti.
In questo scenario giunge la pronuncia della Corte costituzionale, introducendo ulteriori distinguo fra società partecipate.
Infatti, a fronte dell’impugnazione proposta da alcune Regioni nei confronti delle disposizioni di cui all’art. 4 del d.l. 95/2012, la Corte, nell’accogliere soltanto alcuni profili di censura, giunge, fra l’altro, a confermare la legittimità costituzionale dei commi 4 e 5 della disposizione relativi alle nomine nei CdA delle società a totale capitale pubblico, ed a dichiarare l’illegittimità costituzionale dei commi 1 e 2 (recanti il meccanismo di dismissione delle partecipazioni societarie), ma soltanto in riferimento alle società partecipate da Regioni e non anche in riferimento alle società partecipate da Enti locali.
Distinguendo i due temi, si evidenzia quanto di seguito.
In ordine al tema delle nomine nei CdA di società a totale partecipazione pubblica, si evidenzia che erano impugnate le disposizioni citate nella parte in cui determinano il numero massimo dei componenti dei consigli di amministrazione delle società pubbliche di cui al comma 1 (comma 4) e delle società a totale partecipazione pubblica (comma 5), individuando anche le modalità di composizione dei predetti consigli e le funzioni dei componenti.
La Corte costituzionale ha tuttavia rigettato l’impugnazione evidenziando che, una volta che la Regione, esercitando l’autonomia in ambito delle proprie scelte organizzative, abbia adottato il modello legale della società a totale partecipazione pubblica, non può non sottostare al regime giuridico che il legislatore statale abbia stabilito, in quanto la materia a cui è riconducibile la tematica in questione è quella dell’ “ordinamento civile”: materia, questa, attratta alla competenza esclusiva statale.
Da ciò l’infondatezza della domanda.
Semmai, al riguardo, conviene ricordare che il quadro normativo è andato successivamente a complicarsi ancor di più, in quanto con l’emanazione del d.lgs 39/2013 sono state inserite ulteriori forme di limitazione alle scelte relative ai membri di alcune società a partecipazione pubblica.
Con tale disposizione, infatti, sono state introdotte numerose ipotesi di inconferibilità di incarichi e di incompatibilità fra più incarichi contestuali; inconferibilità ed incompatibilità che hanno ad oggetto, fra l’altro, anche il ruolo di membro di consigli di amministrazione di società “soggette a controllo pubblico”. Al riguardo, giova evidenziare – semplificando di molto la complessa casistica presa in considerazione da tale fonte normativa – che il principio ispiratore della disposizione è quello di evitare che soggetti che rivesto funzioni anche soltanto latamente politiche beneficino, contestualmente o immediatamente dopo la cessazione della funzione politica, di incarichi dirigenziali. Ebbene – al di là della bizzarra previsione normativa secondo cui l’incarico di membro di un consiglio di amministrazione di una società controllata da un’amministrazione rientra sia fra gli incarichi politici che fra gli incarichi dirigenziali – è da sottolineare che i dirigenti delle amministrazioni locali risultano incompatibili con l’assunzione dell’incarico di membro di una consiglio di amministrazione in una società controllata, qualora siano ad essi conferite deleghe: cosa che apparirebbe contrastare con le previsioni dei sopra citati commi 4 e 5 del d.l. 95/2012.
Ora, riguardo all’interferenza fra le due fonti normative (ossia il d.lgs 39/2013 e i commi 4 e 5 dell’art. 4 dichiarato conforme alla costituzione da parte della Consulta) giova segnalare che al di là di una apparente incompatibilità fra le due fonti, in realtà vi è una possibilità di conciliare le due disposizioni. Da un lato, infatti, l’ambito di applicazione delle due disposizioni non è speculare (per cui già di per sé sussisterebbe uno spazio – se pur di molto complicata individuazione – di mancata sovrapposizione fra le disposizioni) e, dall’altro lato, le disposizioni “salvate” dalla Corte costituzionale impongono soltanto la presenza nei CdA di dirigenti, non imponendo affatto che essi possano essere destinatari di deleghe, mentre il d.lgs n. 39/2013 conduce all’incompatibilità fra incarichi dirigenziali e incarichi di membro di CdA che sia titolare di deleghe.
Passando quindi all’ultimo tema in analisi, ossia l’illegittimità costituzionale dei commi 1 e 2 (per quanto qui di interesse) dell’art. 4 del d.l. n. 95/2012, si evidenzia come la pronuncia della Corte costituzionale muova da un preciso e determinante assunto: ossia che la disposizione recante l’obbligo di dismissione delle partecipazioni societarie (ovvero di scioglimento della società partecipata) rientri nella materia del funzionamento e dell’organizzazione delle Regioni
Per giungere a tale esito, la Corte costituzionale ha ricordato che per identificare la materia in cui si colloca la disposizione impugnata occorre individuare l’oggetto o la disciplina da essa stabilita, sulla base della sua ratio, senza tenere conto degli aspetti marginali e riflessi.
Da ciò risulta rilevante che secondo la Corte costituzionale, l’oggetto della disposizione è quello ricavabile già dalla rubrica ed “è costituito dalla «messa in liquidazione e privatizzazione di società pubbliche», volta a ridurne il numero in vista della riduzione delle spese”.
Nella pronuncia viene poi evidenziato come alle disposizioni di cui ai commi 1 e 2 dell’art. 4, chiaramente finalizzate alla riduzione dell’uso delle società pubbliche strumentali, si aggiunga un’ulteriore serie di previsioni “che disciplinano l’organizzazione ed il funzionamento delle predette società, che siano rimaste operative in base all’applicazione della predetta normativa, sia imponendo limiti al numero dei componenti dei consigli di amministrazione (commi 4 e 5), nonché alle spese per il personale delle medesime società e per il relativo trattamento economico (commi 9, 10 ed 11), sia, infine ponendo in capo agli amministratori e dirigenti delle medesime società la responsabilità contabile in caso di violazione dei vincoli di spesa (comma 12)”.
La Corte costituzionale, infine, ricorda come queste disposizioni vadano ad aggiungersi ad una altra corposa serie di previsioni normative statali che, in ultima istanza, hanno condotto all’attuazione del principio – già sopra ricordato – della necessaria separazione fra società beneficiarie di affidamenti diretti e società che agiscono quali operatori di mercato.
Tuttavia, le disposizioni di cui al d.l. 95/2012 “lungi dal perseguire l’obiettivo di garantire che le società pubbliche che svolgono servizi strumentali per le pubbliche amministrazioni concentrino il proprio operato esclusivamente nell’“attività amministrativa svolta in forma privatistica” per le predette amministrazioni pubbliche e non operino sul mercato «beneficiando dei privilegi dei quali un soggetto può godere in quanto pubblica amministrazione» (sentenza n. 326 del 2008), colpisce proprio le società pubbliche che hanno realizzato tale obiettivo.”
La Corte Costituzionale conclude dunque il ragionamento affermando i citati commi del d.l. 95/2012 incidono sulla materia dell’ “organizzazione e funzionamento della Regione”; materia, questa che ai sensi dell’art. 117, quarto comma, Cost., deve ritenersi attratta alla competenza legislativa regionale residuale delle Regioni ad autonomia ordinaria.
Per cui esse risultano incostituzionali in quanto impongono “una disciplina puntuale e dettagliata che vincola totalmente anche le amministrazioni regionali, senza lasciare alcun margine di adeguamento, anche a Regioni e Province autonome, con conseguente lesione dell’autonomia organizzativa della Regione, nonché della competenza regionale concorrente in materia di coordinamento della finanza pubblica”.
All’esito di ciò, le disposizioni vengono dichiarate incostituzionali “nella parte in cui si applicano alle Regioni ad autonomia ordinaria”.
E tuttavia le disposizioni non vengono espunte completamente dall’ordinamento, in quanto le ragioni che hanno condotto alla declaratoria di incostituzionalità, come appena visto, sono attinenti alle attribuzioni alla competenza legislativa residuale regionale inerente l’organizzazione e il funzionamento della Regione.
Invece, l’organizzazione e il funzionamento degli Enti Locali sono correttamente resi oggetto di legislazione (esclusivamente) statale. Con la conseguenza che le disposizioni normative in riferimento alle quali è stata dichiarata l’incostituzionalità laddove applicabili alle Regioni, sono invece pienamente compatibili con il quadro costituzionale laddove la loro applicazione incida sul funzionamento e l’organizzazione degli Enti Locali.
Ecco allora che il portato finale della pronuncia è tale per cui le disposizioni di cui all’art. 4 dichiarate incostituzionali nei confronti delle Regioni, continuano invece ad essere valide nei confronti degli Enti Locali (dei soli territori ricadenti nelle regioni a statuto ordinario), così introducendo nell’ordinamento un ulteriore distinguo a cui, necessariamente, consegue un’ulteriore fonte di complessità per qualsiasi tentativo di coordinamento delle molteplici disposizioni aventi ad oggetto le società a partecipazione pubblica.
*Il presente articolo è stato precedentemente pubblicato sul sito www.altalex.com |