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Manifesto per una riforma di sistema delle società a partecipazione pubblica.
di Perfetti, Maltoni, Goisis, Antonioli 9 marzo 2015
Materia: società / partecipazione pubblica

manifesto

per una riforma di sistema delle società a partecipazione pubblica

 

I.                   Premessa

1.      Il fenomeno della partecipazione di enti pubblici al capitale di società commerciali, piuttosto risalente nel tempo, ha prospettato al giurista – di tempo in tempo – problemi sempre nuovi e collegati all’evoluzione della realtà.

2.      Le dimensioni assunte da tale fenomeno pongono, tuttavia, questioni in parte nuove, per la cui soluzione è necessario un intervento legislativo che non può che scaturire da precise scelte di politica industriale. Nel nostro Paese sono presenti, infatti, circa 10.000 società pubbliche (di cui 1.444 sono società operanti nei settori dei servizi pubblici e 2.820 sono società di servizi strumentali); tra i Paesi OCSE l’Italia mostra una concentrazione di imprese pubbliche molto significativa e, nel 2014 il valore complessivo delle sole imprese dei servizi pubblici si stima sia pari a 26.359 milioni di euro, mentre quello delle società strumentali è pari a 11.759 milioni di euro (secondo i dati forniti dalla Corte dei conti nel 2014) .

Al profilo quantitativo – di per sé significativo – deve essere aggiunto quello qualitativo: le imprese pubbliche sono non di rado monopoliste in settori strategici, sono presenti nella produzione di beni o servizi essenziali per il godimento di diritti individuali, inglobano competenze e saperi superiori al settore privato, hanno dimensioni internazionali di primario livello, assolvono a funzioni di ricerca, innovazione e sviluppo fondamentali per l’intero settore manifatturiero.

Entrambe queste prospettive, impongono di riflettere sul tema delle imprese pubbliche in ragione della rilevanza che esso ha assunto non soltanto per il settore delle amministrazioni pubbliche ma anche, e soprattutto, per i cittadini.

3.       Sfortunatamente, nel nostro Paese – almeno negli ultimi decenni – le imprese pubbliche sono aumentate in modo abnorme, spesso costituite o mantenute in vita per gli scopi più diversi (strategici o solo occupazionali, ad esempio), sono disciplinate da normative eterogenee, più volte modificate in modo incoerente, spesso fonti di incertezze sul piano interpretativo, , non di rado risultano mal gestite (basti pensare che hanno accumulato perdite che nel 2014 sono stimate attorno ad 1,2 miliardi di euro), e in taluni casi hanno addirittura costituito occasione di scandali o fenomeni di corruzione.

Non sembra, quindi, eludibile il problema di una loro ri-definizione sul piano giuridico che deve trovare fondamento in un dibattito serio in ordine al loro ruolo e, più in generale, alla loro ragione d’essere.

In questa prospettiva, questo manifesto intende contribuire in modo chiaro al dibattito che ci si propone di promuovere .

II.                Il quadro normativo

4.       Il quadro normativo nazionale è frequentemente apparso altalenante e, comunque, scarsamente efficace nella realtà.

5.      Per un verso, il legislatore nazionale, di fatto svilendo, progressivamente, la possibilità degli enti pubblici di operare anche per il tramite di società di capitali disciplinate dal codice civile, ha – per lo più sulla base di scelte estemporanee – infittito il quadro di norme derogatorie, dirette ad alterare il regime delle società a partecipazione pubblica rispetto a quello fissato dal codice civile. Ne è conseguita una legislazione la cui applicazione appare talvolta incerta, ricca di aporie, che ha diluito la catena delle responsabilità – come conseguenza soprattutto delle difficoltà che ha prodotto sul piano dell’interpretazione giuridica – nel momento esatto in cui intendeva ampliarle.

Inoltre, la legislazione nazionale è apparsa troppo condizionata dall’esigenza di dare risposta a recenti fenomeni di corruzione ovvero a supposte necessità contingenti (evidenti esempi sono costituiti dalla normativa in materia di spending review e da quella in tema di anticorruzione), con la conseguenza che, ancora una volta, non è stato perseguito un coerente disegno unitario e di lungo periodo.

Infine, il diritto europeo è stato spesso utilizzato dalla giurisprudenza in modo distorto, per finalità diverse da quelle sue proprie, al fine di estendere sostanzialmente l’applicazione di regole pubblicistiche sul piano dell’ordinamento interno(ne costituiscono esempi la nozione di organismo di diritto pubblico e quella di società in house che, delineati dal diritto europeo sostanzialmente in relazione al perimetro degli obblighi di gara sono divenuti per il diritto interno delle specie di categorie ontologiche).

6.      Il diritto europeo, invece, – preoccupato essenzialmente di garantire la concorrenza all’interno dei Paesi dell’Unione – è intervenuto solo su alcuni aspetti – la nozione di impresa pubblica, il divieto di aiuti di stato, l’imposizione di obblighi di gara, il concetto di gruppo societario – senza dettare regole attinenti all’organizzazione delle imprese, quand’anche esse fossero partecipate da enti pubblici.

 

III.               Esigenze e proposte.

7.      E’ essenziale, quindi, che il legislatore nazionale metta mano ad un riordino della disciplina e, in questa auspicata prospettiva, si avanzano le proposte seguono che qui si indicano.

8.      Anzitutto, è necessario ri-affermare la vigenza della regola generale sulla capacità di agire delle pubbliche amministrazioni prevista dal codice civile – di recente menomata dalla giurisprudenza del Consiglio di Stato – o meglio la capacità di porre in essere anche qualsiasi contratto associativo purché sia strumentale alle finalità di interesse pubblico istituzionalmente perseguite.

9.      In secondo luogo, nell’ambito di detto riordino della disciplina in tema di società pubbliche, occorre dare piena attuazione al principio, già codificato dall'art. 4, co. 13, d.l. n. 95 del 2012, secondo cui tutte le disposizioni di carattere speciale si interpretano nel senso che al di fuori di quanto espressamente stabilito, si applica la disciplina del codice civile sulle società di capitali.

10.  In terzo luogo, il predetto intervento di riordino dovrebbe prendere le mosse da una seria ricognizione della situazione di fatto esistente al fine di addivenire alla fissazione di obiettivi di interesse pubblico e di politica industriale. Le società partecipate da enti pubblici, infatti, sono per questi ultimi uno strumento per il perseguimento di obiettivi di interesse pubblico e, quindi, questi – che come tali precedono il momento della regolamentazione giuridica – debbono essere definiti in termini chiari e puntuali.

11.  In quarto luogo, e per diretta conseguenza, non si può non avvertire l’esigenza di una chiara definizione del concetto di impresa pubblica e del suo regime.

Se sul versante della nozione non si sente il bisogno di introdurre altri parametri oltre a quelli fissati dal codice civile in ordine alla nozione di controllo (sicché sarà impresa pubblica quella controllata da enti pubblici, in aderenza a quanto chiarito dal diritto europeo), più forte è l’esigenza di prendere posizione sul suo regime. Da questo punto di vista occorre chiarire che ogniqualvolta gli enti pubblici decidano di perseguire i loro obiettivi (di interesse generale) attraverso l’istituzione o la partecipazione al capitale di società commerciali, essi debbono prendere atto che il regime della società e quello della sua attività non possono che essere quelli delineati dal codice civile. Le società di capitali – come ogni persona giuridica – sono caratterizzate dal regime che la legge (nella specie il codice civile) fissa con riguardo alle stesse, sicché l’ente pubblico dovrebbe fare ricorso allo strumento della società di capitali soltanto allorquando individui in quella forma organizzativa (cui si correla uno specifico regime) lo strumento più efficace per il perseguimento in concreto dei suoi fini. Per questa ragione appare importante che sia enfatizzato il regime del provvedimento amministrativo per il tramite del quale l’ente delibera di ricorrere a questa forma organizzativa, aderendo al suo regime. In questa prospettiva, verrebbero responsabilizzati gli enti pubblici, posto che sarebbe posto in capo ai medesimi – prima di sottoscrivere le quote o azioni della società, – l’obbligo di individuare in modo espresso le ragioni di interesse generale a fondamento dell’utilizzo dello strumento societario.

Proprio al fine di rafforzare detto obbligo dovrebbe, inoltre, essere definita in sede legislativa la categoria degli atti fondamentali ‘prodromici’ (i.e. atti a regime amministrativo, che costituiscono un numerus clausus, delle amministrazioni socie) destinati ad incidere sulla struttura o sul funzionamento delle società partecipate, sull’esempio di quanto previsto nell’ordinamento francese con riguardo agli enti locali che detengano partecipazioni in società. In altri termini, il regime amministrativo delle decisioni dei soci pubblici (i.e. le deliberazioni attraverso le quali si acquisiscono partecipazioni al capitale, le si conservano o si contribuisce alla decisione di momenti essenziali della vita della società) deve essere esplicitamente affermato dalla normativa di riordino.

12.  In quinto luogo, gli obblighi informativi gravanti sia sui soci pubblici che sulle società partecipate dai medesimi dovrebbero essere delineati in rapporto al tipo di attività svolta e non al mero fatto che una partecipazione alle stesse sia detenuta da uno o più enti pubblici.

13.  In sesto luogo, il chiarimento rispetto al regime pone in luce il profilo delle responsabilità. Nel nostro Paese frequenti oscillazioni giurisprudenziali e continui cambiamenti sul piano normativo hanno creato molta confusione in ordine al regime delle responsabilità; nella sostanza la natura pubblica dell’azionariato sottostante è stata causa di notevoli forzature da parte della giurisprudenza penale, civile e contabile, che, non di rado, ha considerato la forma societaria come una forma ”insincera”, determinando una estensione di regimi pubblicistici riferibili propriamente alle amministrazioni socie. Anche sul fronte della disciplina delle responsabilità, invece, deve essere tenuto fermo il regime del codice civile. In aggiunta a quest’ultima, dovrebbe prevedersi una responsabilità dei soci pubblici connessa al regime amministrativo degli atti fondamentali ‘prodromici’.

14.  La relazione tra interesse generale che l’ente pubblico persegue e la partecipazione al capitale di società privatistiche – in settimo luogo – dovrebbe anch’essa costituire oggetto di un serio intervento di disciplina. In particolare, dovrebbe essere dettata una disciplina sul conflitto di interessi che certamente ricorre allorquando l’ente pubblico sia socio della società che lo stesso ente incarica dello svolgimento di servizi di interesse generale (ed è questo il caso, assai diffuso e rilevante sul versante dei diritti dei cittadini, delle partecipazioni detenute dagli enti locali in società che erogano servizi pubblici affidati dall’ente). Infatti, in queste ipotesi, l’interesse dell’ente rispettivamente come socio (i.e. quello alla massimizzazione dei profitti) e come soggetto affidante il servizio (i.e. quello alla massimizzazione della qualità del servizio ed al contenimento delle tariffe), sono potenzialmente confliggenti.

15.  Tenuto conto che l’efficienza aziendale è la modalità più corretta per la produzione di beni e servizi, essa potrà anche essere scelta escludendo qualsiasi interesse al risultato economico. In questi casi, però, il ricorso alla società di capitali è soltanto lo strumento per rendere più efficiente ed efficace l’organizzazione aziendale, o meglio più adeguata rispetto a quella burocratica con riferimento ad una serie di attività. In questi casi, tuttavia, occorrerà –in ottavo luogo – operare una distinzione in termini di regime tra le ipotesi nelle quali l’ente acquisisce partecipazioni in società di capitali, in ragione del fatto che intende agire secondo quel regime, ed i casi nei quali, invece, mira soltanto a conseguire efficienze aziendali. In questa seconda categoria di ipotesi, si è innanzi ad una amministrazione indiretta – o a una quasi-amministrazione – come nel caso delle società in house. Si tratta di ipotesi nelle quali il regime della società e quello delle responsabilità debbono essere tenuti chiaramente distinti rispetto a quelli delle società commerciali (come avviene – e meglio dovrebbe avvenire – per le società in house); infatti, nell’ipotesi di partecipazione a società in house (sulle quali cioè l’ente dispone di un controllo analogo a quello che esercita nei confronti dei suoi uffici o servizi) ovvero di società strumentali il regime non può essere, almeno pienamente, quello codicistico previsto per le società commerciali; in particolare, non può essere trascurata la necessità di legittimare sul piano legislativo ogni specifica deroga allo scopo lucrativo codificato dall'art. 2247 c.c..

16.  Da ultimo, occorre molta chiarezza con riferimento ai regimi speciali che pure possono essere imposti alle imprese pubbliche. Tipico è il caso degli obblighi di selezione dei propri contraenti attraverso il ricorso a gare ad evidenza pubblica. Le ipotesi nelle quali il diritto europeo prevede simili obblighi sono dettate da singole norme derogatorie, mentre altre ipotesi differenziate sono prefigurate con riguardo alle società di capitali con azioni quotate nei mercati regolamentati. Esse, però, non possono essere trasformate in fondamenta di regimi complessivamente derogatori, che facciano delle società di capitali partecipate dagli enti pubblici un tipo sociale diverso da quello ordinario; una simile conclusione – che, invece, è presente nella prassi – finisce non solo per rendere inutile il ricorso alla forma societaria – che, invece, deve essere il frutto di una scelta ponderata e motivata – ma anche per diluire e rendere spesso incomprensibile proprio il regime delle responsabilità.

 

Luca R. Perfetti                                                Andrea Maltoni

Francesco Goisis                                  Marco Antonioli

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