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Il recesso degli enti locali dalle società di capitali
di Studio Commerciale Associato Boldrini Rimini 5 novembre 2015
Materia: società / disciplina

Il recesso degli enti locali dalle società di capitali

a cura di Studio Commerciale Associato Boldrini Rimini

Dott. Roberto Camporesi,  Dott.ssa Annalisa Galanti 

 

 

1.      L’istituto del recesso societario previsto per le società di capitali dal Codice Civile dopo la riforma del 2003

Il diritto di recesso del socio è un istituto generale previsto dal Codice Civile che si sostanza in un atto unilaterale recettizio tramite il quale un socio esercita il proprio diritto in merito allo scioglimento del rapporto sociale. Tale potere si esercita mediante una dichiarazione negoziale che tuttavia non ha autonoma efficacia, ma è appunto recettizia, ovvero deve pervenire all’altra parte al fine di produrre i propri effetti[1]. 

La ratio dell’istituto, profondamente riformato ad opera del D. Lgs. 6/2003, può essere ravvisata nella tutela della minoranza societaria. Essendo infatti l’azione deliberativa della società permeata sul principio maggioritario, si delinea un’inevitabile prevalenza dell’interesse del gruppo rispetto all’interesse del singolo azionista. Il favor legislativo, mediante l’adozione delle deliberazioni a maggioranza, ha difatti privilegiato la stabilità societaria, nonchè l’efficienza ed il funzionamento dell’organo assembleare, determinando tuttavia al contempo una penalizzazione per i soci di minoranza. Pertanto, in tale contesto normativo, il diritto di recesso del socio può essere interpretato come un istituto posto a tutela della minoranza della compagine sociale che, in presenza di particolari delibere modificative o di peculiari situazioni in cui versa la società, può esercitare il proprio diritto relativamente allo scioglimento del rapporto sociale e alla conseguente liquidazione della propria quota o azioni.

2.      Le cause di recesso: cenni

I confini del diritto di recesso sono stati notevolmente ampliati dalla riforma del 2003. La previgente disciplina prevedeva infatti solamente tre cause di recesso, ovvero il cambiamento dell’oggetto sociale, la trasformazione e il trasferimento della sede sociale all’estero. L’articolo 2437 del C.C. per le S.p.a. e l’articolo 2473 C.C. per le S.r.l. espandono il novero delle circostanze che consentono il recesso, che possono ora essere suddivise in cause legali inderogabili, cause legali derogabili per espressa previsione statutaria e cause convenzionali espressamente stabilite dallo statuto.

Cause di recesso

Tipologia societaria

Derogabilità

Soggetti che possono recedere

1.      Ipotesi di recesso a seguito di decisioni prese dai soci tramite delibera assembleare

Modifica della clausola dell’oggetto sociale quando consente un cambiamento significativo dell’attività della società

S.p.a.; S.a.p.a.; S.r.l.

 

Inderogabile

 

Soci dissenzienti, assenti o astenuti dalla delibera che fa sorgere il diritto di recesso

Trasformazione della società

Trasferimento della sede sociale all’estero

Revoca dello stato di liquidazione

Eliminazione di una o più cause di recesso previste dallo statuto, in aggiunta a quelle disposte per legge

Introduzione o soppressione di clausole compromissorie

Modifica dei criteri di determinazione del valore dell’azione in caso di recesso

S.p.a.; S.a.p.a.;

 

 

Inderogabile

 

Modificazioni dello statuto concernenti i diritti di voto o di partecipazione

Proroga del termine di durata della società

Derogabile dallo statuto

Introduzione o rimozione di vincoli alla circolazione dei titoli azionari

Delibera di fusione o scissione della società

Solo S.r.l.

 

Inderogabile

 

Compimento di operazioni che comportano una sostanziale modifica dei diritti particolari attribuiti ai soci riguardanti l’amministrazione o la distribuzione degli utili

Compimento di operazioni che comportano una sostanziale modifica dei diritti particolari attribuiti ai soci riguardanti l’amministrazione o la distribuzione degli utili

Delibere particolari per le società soggette ad attività di direzione e coordinamento

Società soggette ad attività di direzione e coordinamento

Inderogabile

2.      Ipotesi di recesso previste dall’atto costitutivo

Cause di recesso previste dallo statuto

Solo società che non fanno ricorso al mercato del capitale di rischio

/

Socio che si trova nelle situazioni descritte dallo statuto

3.      Situazioni relative alla società

Società con durata indeterminata o non specificata

Solo società non quotate

Inderogabile

Ogni socio con un preavviso di 180 giorni

Conferimento di beni in natura o crediti e in sede di revisione della relazione di stima risulta che il loro valore è inferiore di oltre 1/5 a quello per cui avviene il conferimento

S.p.a.; S.a.p.a.;

 

Inderogabile

Socio conferente

 

3.      La procedura di recesso per le società per azioni e per quelle a responsabilità limitata

Nelle società per azioni, la volontà del socio di sciogliere il rapporto sociale deve essere comunicata, mediante lettera raccomandata alla società, entro 15 giorni dall’iscrizione della delibera nel registro delle imprese, qualora il recesso sia legittimato da una delibera assembleare ed entro 30 giorni dalla sua conoscenza da parte del socio in tutti gli altri casi[2]. Se, infine, il recesso avviene a seguito di costituzione a tempo indeterminato della società, tale diritto può essere esercitato con un preavviso di 180 giorni purché la società non sia quotata in un mercato regolamentato. Per la corretta osservazione di tali termini temporali, l’art 2437 bis riformulato, sancisce espressamente che si deve fare riferimento alla data di spedizione della raccomandata e non a quella del ricevimento della stessa da parte della società.

Il perfezionamento del diritto di recesso si ha, invece, con la ricezione da parte della società della suddetta comunicazione, essendo infatti la dichiarazione di recesso un atto unilaterale recettizio, è solamente a seguito dell’avvenuta conoscenza della volontà del socio recedente ad opera della controparte che si producono gli effetti giuridici.  Pertanto, da tale momento, le azioni recedute divengono incedibili e devono essere depositate presso la sede sociale, tuttavia, il socio, anche se receduto, non perde immediatamente la sua qualifica e rimane tale fino a che la società non porta a compimento l’operazione di liquidazione delle azioni. La società diviene dunque obbligata al rimborso delle azioni al quale può sottrarsi solo ed unicamente se revoca la delibera che legittima il recesso entro novanta giorni dal suo perfezionamento.

Affinché gli effetti del recesso si producano anche nei confronti dei terzi, sarà necessario che il recesso sia reso pubblico mediante iscrizione della delibera presso il registro delle imprese. Solamente da tale momento infatti, il socio receduto non risponderà più delle obbligazioni sociali verso i terzi.

La procedura di recesso per le società a responsabilità limitata è invece caratterizzata da un silenzio normativo in merito alle modalità ed ai termini da osservare. Autorevole dottrina[3] ha dunque ritenuto che ci si debba rifare alle disposizioni statutarie, formulate secondo la disciplina delle S.p.a. alla quale si ricorre in via analogica. L’unica norma di carattere procedurale prevista dall’art. 2473 del C.C. riguarda il termine entro il quale deve essere effettuato il rimborso delle partecipazioni per le quali è stato esercitato il diritto di recesso che viene stabilito in centottanta giorni, decorrenti dalla comunicazione di recesso del socio.

Le azioni o quote del socio che recede devono essere innanzitutto offerte in opzione agli altri soci in proporzione alla loro partecipazione al capitale sociale. Se nessuno dei soci è interessato all’acquisto, per le S.p.a., le azioni non acquistate potranno essere collocate sul mercato, mentre per le S.r.l. le quote potranno essere offerte ad un terzo concordemente individuato dai soci medesimi. Se neppure la procedura di collocamento presso terzi ha esito favorevole, sarà la stessa società a doversi fare carico delle azioni o quote recedute secondo una procedura che differisce in base alla tipologia societaria considerata. Per le S.p.a., le azioni saranno acquistate alla società medesima, rispettando il limite delle riserve disponibili e degli utili disponibili, in assenza dei quali sarà necessario convocare l’assemblea straordinaria per deliberare la riduzione del capitale sociale o lo scioglimento della società. Per le S.r.l., invece, poiché per tale fattispecie societaria vige un divieto assoluto in merito all’acquisto di azioni proprie, il rimborso delle quote recedute verrà effettuato utilizzando riserve disponibili. L’immediata conseguenza sarà quindi un proporzionale accrescimento delle quote dei soci superstiti, si delinea quindi un risultato assimilabile all’acquisto proporzionale della quota da parte dei soci medesimi. In mancanza di riserve disponibili si dovrà inevitabilmente procedere alla riduzione del capitale sociale o allo scioglimento della società.

4.      Criteri per la determinazione del valore delle azioni o quote recedute

La riforma del 2003 ha apportato sostanziali modifiche anche alla determinazione del valore delle azioni o quote per le quali è stato esercitato il diritto di recesso.

Per le S.p.a. non quotate, tale valore non viene più quantificato sulla base del patrimonio netto risultante dal bilancio dell’ultimo esercizio, ma viene determinato dagli amministratori, tenuto conto della consistenza patrimoniale della società e delle sue prospettive reddituali, nonché dell’eventuale valore di mercato delle azioni, purchè lo statuto non abbia disposto diversamente. Questa riformulazione dell’art 2437 ter, come enunciato nella relazione accompagnatoria del D. Lgs. 3/2006, ha quindi determinato la “non vincolabilità dei dati contabili ponendo l’accento sulle prospettive reddituali come elemento correttivo della situazione patrimoniale”.

Dalla lettura dell’art. 2437 ter emergono, in particolare, tre differenti ed alternativi criteri di valutazione ai quali gli amministratori dovranno obbligatoriamente attenersi nel seguente ordine: innanzitutto un criterio statutario, se infatti lo statuto preveda esplicite modalità di determinazione del valore delle azioni in caso di recesso bisognerà osservare tali disposizioni statutarie nel determinare il valore delle azioni da rimborsare; in assenza di espresse previsioni dello statuto, ci si dovrà rifare al criterio legale enunciato nell’art. 2437 ter il quale tiene conto tanto della consistenza patrimoniale della società quanto delle sue prospettive reddituali, nonché dell’eventuale valore di mercato delle azioni[4]. In caso di disaccordo in merito al valore così determinato sarà necessario ricorrere al terzo ed ultimo criterio fondato sull’arbitrium boni viri di un esperto nominato dal Tribunale.

Gli amministratori, una volta quantificato il valore delle azioni da rimborsare, hanno l’obbligo di chiedere un parere in merito ai criteri di valutazione al collegio sindacale e al soggetto incaricato della revisione legale dei conti, tuttavia, tale parere non è vincolante in quanto gli amministratori possono non osservarlo dandone adeguata motivazione nella relazione informativa che devono obbligatoriamente redigere al fine di esporre le modalità di determinazione del valore delle quote da liquidare. In caso di mancata informativa ai soci, difatti, è possibile ravvisare un difetto di procedimento della deliberazione che pertanto diviene annullabile[5].

Il valore delle azioni recedute deve essere comunicato, almeno 15 giorni prima dell’assemblea relativa alla delibera di recesso, ai soci recedenti i quali possono, in caso di disaccordo, contestare il valore di liquidazione che verrà così determinato da una relazione giurata di un esperto nominato dal Tribunale.

Nelle società con azioni quotate, invece, fino alla modifica introdotta dall’art. 20 comma 3 del D.L. 91/2014, il valore di liquidazione delle azioni recedute veniva determinato facendo esclusivo riferimento alla media aritmetica dei prezzi di chiusura nei sei mesi che precedono la convocazione dell’assemblea. A seguito della novità legislativa, si prevede che il valore di liquidazione possa essere determinato, oltre che sulla base della previgente disposizione normativa, anche secondo il criterio statutario o legale sopra descritti, purché, dall’applicazione di questi ultimi, non emerga un valore inferiore rispetto a quello che si avrebbe calcolando la media aritmetica dei prezzi di chiusura nei sei mesi precedenti.

Infine, per le S.r.l. il valore di liquidazione viene determinato, ex art. 2473, in proporzione al valore di mercato del patrimonio sociale al momento della dichiarazione di recesso. La prassi prevede quindi che gli amministratori redigano una situazione patrimoniale straordinaria dalla quale deve emergere il valore di mercato del patrimonio riferito al momento della comunicazione del recesso. Quest’ultimo verrà determinato sulla base dei criteri di valutazione previsti dalla dottrina aziendale ed, in particolare, utilizzando il modello valutativo che risulterà più idoneo rispetto alle caratteristiche della società, al settore in cui essa opera ed alla composizione del suo patrimonio[6]. In caso di disaccordo la relazione viene redatta da un esperto nominato dal Tribunale.

La valutazione della quota da liquidare si basa dunque sul valore effettivo della società e non su quello legale risultante dal bilancio di esercizio, facendo sì che il valore di liquidazione della partecipazione risulti il più aderente possibile al suo valore di mercato.

Tali conclusioni devono tuttavia essere verificate per la liquidazione delle quote di partecipazioni di società degli enti locali in quanto la formazione del patrimonio sociale può essere avvenuta con contributi o finanziamenti pubblici o con conferimenti di reti, impianti e dotazioni patrimoniali  del demanio comunale o comunque asserviti a pubblico servizio come in appresso precisato.

5.      La dismissione delle società a partecipazione locale

Molteplici e frammentari sono stati i recenti interventi legislativi volti a regolare il fenomeno delle società partecipate dagli enti pubblici, finalizzati al perseguimento di una progressiva riduzione di tali partecipazioni societarie.

In tal senso opera infatti l’art. 3 della legge 244/2007 che testualmente recita:

“27.  Al  fine  di  tutelare  la  concorrenza  e  il   mercato,   le amministrazioni  di  cui  all'articolo  1,  comma  2,   del   decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, non  possono  costituire  società aventi per oggetto attività di produzione di beni e di  servizi  non strettamente necessarie per il perseguimento delle proprie  finalità istituzionali, ne' assumere o mantenere direttamente  partecipazioni, anche  di  minoranza,  in  tali  società.  E'  sempre   ammessa   la costituzione di società che producono servizi di interesse  generale e che forniscono servizi di committenza o di centrali di  committenza a livello regionale a supporto di enti senza  scopo  di  lucro  e  di amministrazioni aggiudicatrici di cui all'articolo 3, comma  25,  del codice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture, di cui al decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163, e  l'assunzione di partecipazioni in tali società da parte delle amministrazioni  di cui all'articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30  marzo  2001, n. 165, nell'ambito dei rispettivi livelli di competenza. 

 28. L'assunzione di nuove partecipazioni e il  mantenimento  delle attuali devono essere autorizzati dall'organo competente con delibera motivata in ordine alla sussistenza dei presupposti di cui  al  comma 27. La delibera di cui al presente comma è  trasmessa  alla  sezione competente della Corte dei conti.

29. Entro trentasei mesi dalla data  di  entrata  in  vigore  della presente legge, le amministrazioni di cui all'articolo  1,  comma  2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n.  165,  nel  rispetto  delle procedure ad evidenza pubblica, cedono  a  terzi  le  società  e  le partecipazioni vietate  ai  sensi  del  comma  27.  (…)”

La ratio della norma è chiaramente desumibile dalla sentenza n. 148/2009 della Corte Costituzionale, chiamata a pronunciarsi sulla norma per presunta eccezione di incostituzionalità richiesta da una Regione: “lo scopo delle norme censurate, le quali, in considerazione del loro contenuto, sono appunto dirette ad evitare che soggetti dotati di privilegi svolgano attività economica al di fuori dei casi nei quali ciò è imprescindibile per il perseguimento delle proprie finalità istituzionali, ovvero per la produzione di servizi di interesse generale (casi compiutamente identificati dal citato art. 3, comma 27), al fine di eliminare eventuali distorsioni della concorrenza, quindi sono preordinate a scongiurare una commistione che il legislatore statale ha reputato pregiudizievole della concorrenza (sentenza n. 326 del 2008).

Sulla base del più recente arresto giurisprudenziale si deduce che: “ l’art. 3 comma 27 della legge 244/2007, che non si limita a regolare le società strumentali, o a ricondurle nello schema dell’affidamento in house, ma vieta agli enti pubblici di assumere o conservare partecipazioni azionarie quando le stesse non siano strettamente necessarie per il perseguimento delle finalità istituzionali. Così impostata, la norma ha un’estensione molto ampia, e può essere riferita a tutte le società partecipate, comprese quelle che si occupano di servizi di interesse generale (ossia di servizi pubblici). La specificazione che segue immediatamente, ossia l’inciso sull’ammissibilità delle partecipazioni in società che producono servizi di interesse generale, individua una facoltà, non un obbligo. In altri termini, la norma pone un principio (la tendenziale coincidenza tra partecipazioni azionarie e funzioni istituzionali), ma quando si tratta di servizi pubblici lascia alle singole amministrazioni ogni valutazione circa l’estensione dei rispettivi interessi istituzionali, con il solo limite che non vengano superati i livelli di competenza stabiliti dalla legge” (TAR Lombardia sezione Brescia sez. I, 13/10/2015 n. 1305).

Si deve concludere che le amministrazioni locali sono legittimate a detenere partecipazioni in società di capitali unicamente nel caso in cui queste abbiano ad oggetto: (i) la produzione di beni servizi strettamente necessari al perseguimento del fine istituzionale dell’ente stesso; (ii) nel caso in cui la società abbia ad oggetto la produzione di servizi di interesse generale e nei livelli di competenza degli enti locali (rectius servizi pubblici locali). Per servizi pubblici di interesse generale deve intendersi l’attività che, per le sue caratteristiche oggettive, riguarda un interesse diffuso nella collettività alla continuità di tali prestazioni, alla loro effettività ed alla loro qualità minima. Nella categoria dei servizi pubblici di interesse generale vi rientrano i servizi pubblici locali (cfr., da ultimo, Corte dei Conti, sez. Lombardia, parere n. 506 del 27 novembre 2012). Sul punto, inoltre, si osserva che l’art. 1 della direttiva 2006/123/CE e l’art. 14 del TFUE rimettono agli Stati membri il compito di definire, in conformità del diritto comunitario, quali essi ritengano essere servizi d’interesse economico generale ed in che modo essi debbano essere organizzati e finanziati, in conformità delle regole sugli aiuti concessi dagli Stati, ed a quali obblighi specifici essi debbano essere soggetti. L’espressione “servizi di interesse generale” non è presente nel trattato, ma è derivata nella prassi comunitaria dall’espressione “servizi di interesse economico generale” che invece è utilizzata nel trattato. E’ un’espressione più ampia di “servizi di interesse economico generale” e riguarda sia i servizi di mercato che quelli non di mercato che le autorità pubbliche considerano di interesse generale e assoggettano a specifici obblighi di servizio pubblico. (cfr. Libro Verde sui servizi di interesse generale, Commissione della Comunità Europea COM/2003/270)[7].

Per quanto attiene invece la definizione di servizi strumentali si deve fare riferimento a due concetti distinti: da un lato un rapporto bilaterale fra il Comune e la società che si connatura come un rapporto di appalto e non di concessione e dall’altro lato la configurazione della società, e non del singolo servizio svolto, come strumentale.

In tale senso: “….. le società strumentali costituiscono una longa manus delle amministrazioni pubbliche, operando essenzialmente per queste ultime e non già per la collettività, il che spiega la deroga ai principi di concorrenza, non discriminazione e trasparenza, poiché il divieto di cui all'art. 13 in parola discende non tanto dalla partecipazione delle amministrazioni pubbliche al capitale delle società predette, ma dall'elemento oggettivo della strumentalità, che fa di questo tipo di persone giuridiche null'altro che una naturale proiezione delle amministrazioni costituenti o partecipanti (Cons. Stato, V, 10 settembre 2010, n. 6527; id., 5 marzo 2010, n. 1282; id., 22 febbraio 2010, n. 1037; id., 16 gennaio 2009, n. 215; id., 14 aprile 2008, n. 1600).

Ciò posto e ricordato ancora che la qualificazione differenziale tra attività strumentale e gestione dei servizi pubblici deve essere riferita non all'oggetto della gara, bensì all'oggetto sociale delle imprese partecipanti ad essa, atteso che il divieto di fornire prestazioni a enti terzi, infatti, colpisce le società pubbliche strumentali alle amministrazioni regionali o locali, che esercitano attività amministrativa in forma privatistica, non anche le società destinate a gestire servizi pubblici locali che esercitano attività d'impresa di enti pubblici (Cons. St., sez. V, 29 dicembre 2011, n. 6974), le stesse deduzioni dell’appellante, secondo cui Te. Am. Teramo Ambiente S.p.A. svolge effettivamente anche servizi pubblici (come del resto confermata anche dalla certificazione della Camera di Commercio), esclude in radice che essa possa essere considerata una mera società strumentale del Comune di Teramo e che possa svolgere attività solo per quest’ultimo ente, circostanza che sola avrebbe potuto determinare l’illegittimità della sua partecipazione per violazione della normativa invocata. (CDS  sez. V  sent n. 257/2015).

Il dato che è emerso con chiarezza che nonostante gli enti locali abbiano provveduto nel termine del 31.12.2010 ad effettuare la ricognizione delle società detenibili e per quelle non più detenibili, in ottemperanza alla disposizione di legge in commento, hanno provveduto ad esperire le procedure di evidenza pubblica per la vendita con esiti del tutto infausti.

Né gli altri istituti propri del  diritto commerciale per ottenere l’exit del socio privato si sono rilevati efficaci: si fa riferimento al recesso e all’anticipato scioglimento del contratto sociale.

La norma è rimasta, nella maggior parte dei casi, inapplicabile.

Per ovviare allo stato di empasse, in cui si sarebbe venuto a trovare l’ente locale che, avendo ritenuto come “vietata” la partecipazione in società avrebbe dovuto, da un lato non esercitare i diritti di soci e dall’altro lato abbondare la compagine sociale ma che per effetto degli esiti infausti delle procedure di evidenza pubblica infruttuose si sarebbe di fatto trovato “prigioniero” nella società, il legislatore è intervenuto con una serie di norme che agevolassero o favorissero la fuoriuscita dalla società del socio ente locale

6.      Il regime speciale di exit dalle società a partecipazione pubblica locale

La prima norma emanata dal legislatore è stata il comma 569 bis dell’art. 1 della legge 147/2013, introdotto con il D.L. 78/2015 che recita:

“569.  Il termine  di  trentasei  mesi  fissato dal comma 29 dell'articolo 3 della legge 24 dicembre 2007, n. 244, e' prorogato di dodici mesi dalla data di entrata in  vigore  della  presente  legge, decorsi i quali la partecipazione non alienata mediante procedura  di evidenza pubblica cessa ad ogni effetto; entro dodici mesi successivi alla cessazione la società liquida in denaro il valore  della  quota del socio cessato in base ai criteri stabiliti all'articolo 2437-ter, secondo comma, del codice civile.“

Con tale norma si è introdotto un nuovo regime di exit dalla società a partecipazione pubblica se solo marginalmente può essere associato al diritto di recesso.

In primo luogo si sono riaperti i termini per effettuare la ricognizione delle società partecipate discriminando la detenibilità secondo il disposto dell’art. 3 comma 27 della legge 244/2007: termine portato al 31.12.2014. Entro tale data l’ente locale poteva deliberare la detenibilità o meno della partecipazione in società. Emerge un doppio effetto: da un lato la riapertura del termine ha avuto valenza di “sanatoria” a chi non avesse adempiuto nei termini originari e dall’altro lato ha determinato la possibilità di rivedere anche decisioni già assunte. La procedura indicata dalla legge prevede poi anche che entro il termine riaperto debba procedersi anche al tentativo di vendita, con forme di evidenza pubblica, come stabilisce anche lo stesso art. 3 comma 27 in commento e ritenuta fase indefettibile da Corte dei Conti sezione per il controllo Marche 16/04/2014  deliberazione n. 25/2014/PAR. Vale la pena evidenziare che se la delibera di dismissione della partecipazione fosse già stata assunta a suo tempo e anche la procedura di vendita infruttuosa fosse anch’essa già stata esperita allora i presupposti per l’applicazione della portata della norma sono già perfezionati ora per allora.

Trattandosi di norma di carattere eccezionale, in quanto introduce un regime speciale di exit dalla società, risulta necessario il rispetto della procedura presupposta per rendere efficace la portata della norma stessa.

E’ l’effetto della norma che è del tutto innovativo in quanto si afferma che la “partecipazione cessa ad ogni effetto” introducendo la cessazione automatica della condizione di socio di società a fronte del quale, a compensazione della automatica perdita di tutti i diritti di socio, rimane unicamente il diritto di credito alla liquidazione della quota di partecipazione.

Liquidazione che deve avvenire secondo i criteri “stabiliti all'articolo 2437-ter, secondo comma, del codice civile.“, unico punto di contatto con il recesso del codice civile e dal quale invece si discosta sia per la procedura che soprattutto per l’effetto. Infatti nel recesso previsto dal codice civile non vi è una cessazione ex lege della partecipazione ma un articolato procedimento, fra altro revocabile rimuovendo da parte degli altri soci la causa che ha dato luogo al diritto di recesso, con un procedimento scandito da tempi e compiti fra organi societari diversi ed infine con un esito differenziato ai fini patrimoniali. Infatti il recesso può essere attuato con la vendita delle partecipazioni ai soci o terzi ovvero riduzione di riserva ed infine riduzione di capitale.

L’elemento critico della norma è l’avere attribuito un automatismo alla cessazione “ad ogni effetto”, come se decorso il termine di legge (31.12.2014), avendo esperito la procedura di cui si è detto, anche contro la volontà dello stesso socio ente locale,  egli perde ( cessa ) la partecipazione senza più potere eccepire. Parimenti gli altri soci, la società e gli amministratori della società sono del  tutto impossibilitati ad intervenire nel procedimento, se si esclude la determinazione del valore da liquidate, stante l’automatismo di cui si è detto.

In merito alla norma, autorevole dottrina ha rilevato che la cessazione ad ogni effetto significa che: “ l'amministrazione pubblica cessa di essere socia fin dal 31 dicembre 2014: scaduto il termine finale, essa è ipso iure estromessa dall'organizzazione societaria e, medio tempore, in attesa della liquidazione della quota, non conserva affatto i diritti sociali e le eventuali prerogative attribuite dall'atto costitutivo (diversamente da quel che accade al socio receduto). Per contro, scattano subito gli adempimenti pubblicitari che caratterizzano le variazioni della compagine societaria: occorrerà procedere, per le Spa, all'annotazione a libro soci e, per le Srl, all'iscrizione nel registro delle imprese della cessazione della partecipazione ex articolo 1, comma 569 della legge 147/2013). La società, entro un anno dalla cessazione (quindi entro il 31 dicembre 2015), deve procedere alla liquidazione della partecipazione «cessata» e, ai fini della determinazione del valore, dovrà attenersi ai criteri indicati dall'articolo 2437-ter, comma 2 del Codice civile (quindi in funzione della consistenza patrimoniale della società e delle sue prospettive reddituali nonché dell'eventuale valore di mercato) da applicarsi – stabilisce il comma 569 – sia alle Spa sia alle Srl.” ( Davide Di Russo  - “Partecipate contra legem, così i rimborsi all’ente socio dopo la “cessazione” in il Quotidiano enti locali PA de il sole 24 ore del 18/2/2015).

Tale norma ha subito recentemente un intervento legislativo avente portata di norma di interpretazione autentica.

E’ stato introdotto il comma 569 bis, da parte dell’art. 7 comma  che recita: “569-bis. Le disposizioni di cui al comma  569,  relativamente  alla cessazione della partecipazione  societaria  non  alienata  entro  il termine ivi indicato, si interpretano  nel  senso  che  esse  non  si applicano agli enti che, ai sensi dell'articolo 1, commi 611  e  612, della legge 23 dicembre 2014, n. 190, abbiano  mantenuto  la  propria partecipazione, mediante approvazione di apposito piano operativo  di razionalizzazione, in società ed altri organismi aventi per  oggetto attività  di  produzione  di  beni  e  servizi   indispensabili   al perseguimento  delle  proprie  finalità  istituzionali,  anche  solo limitatamente  ad  alcune  attività  o  rami  d'impresa,  e  che  la competenza relativa all'approvazione del provvedimento di  cessazione della   partecipazione   societaria   appartiene,   in   ogni   caso, all'assemblea   dei  soci.   Qualunque   delibera    degli    organi amministrativi e  di  controllo  interni  alle  società  oggetto  di partecipazione che  si  ponga  in  contrasto  con  le  determinazioni assunte e contenute nel piano operativo di razionalizzazione e' nulla ed inefficace.”

In prima lettura si evidenzia che si tratta di norma di interpretazione autentica e quindi con efficacia retroattiva, vale a dire a valere dal 1/01/2015 e cioè dal momento in cui la norma avrebbe esplicato gli effetti dell’exit del socio privato .

In merito alla cessazione ex lege della partecipazione, si rileva che essa è stata eliminata in quanto:

- non opera quando l’ente locale abbia deciso, nel piano di razionalizzazione delle società partecipate, di mantenere la partecipazione in società ed altri organismi aventi per oggetto attività  di  produzione  di  beni  e  servizi   indispensabili  al perseguimento  delle  proprie  finalità istituzionali,  anche  solo limitatamente  ad  alcune  attività  o  rami  d'impresa;

- è necessaria l’approvazione del provvedimento di cessazione da parte dell’assemblea dei soci.

Non sfugge che diventa dirimente comprendere la portata della locuzione “approvazione da parte dell’assemblea”. Soffermandosi al tenore letterale sembra che l’assemblea debba esprimersi con le maggioranze statutarie perché deve assumere un atto di volontà e non meramente di ratifica o di ricognizione.

Essa dunque ha potere di sindacare il merito della richiesta di recedere. Potrà pertanto sindacare la corretta applicazione dell’art. 3 comma 27 L.F. 2008 nel senso che potrà eventualmente eccepire che l’oggetto della società è conforma alla disposizione di legge e quindi non può trovare applicazione la procedura speciale di exit prevista dalla norma in discussione, fatto salvo l’eventuale exit secondo l’ordinaria disciplina del recesso previsto per legge e per statuto.

L’assemblea potrebbe anche eccepire la scadenza dei termini o vizi di procedura.

Su altro piano si pone invece la valutazione degli effetti patrimoniali del recesso quando eseguibile unicamente con la riduzione del capitale della società, allorché ciò possa configurare un danno indiretto agli altri soci. In questo caso si verrebbe a scontrare il diritto di recedere con il diritto degli altri soci a mantenere inalterato il patrimonio sociale: la questione non può che trovare un giusto contemperamento nella determinazione del valore economico della quota da liquidare .

Ne consegue quindi che solamente a seguito di opportuna delibera assembleare, la partecipazione potrà considerarsi cessata ed il Comune recedente avrà diritto alla liquidazione del valore delle azioni.

7.      Primi arresti giurisprudenziali

Si registra il primo arresto giurisprudenziale sull’art. 1 comma 569 della Legge 147/2013 ed è del TAR Lombardia sezione Brescia sez. I, 13/10/2015 n. 1305 poiché la società alla quale era stata rivolta la richiesta di recesso ha impugnato la deliberazione del consiglio dell’ente che aveva stabilito che la partecipazione non era più detenibile e quindi procedeva ad uscire dalla compagine invocando la norma in discussione.

Deve precisarsi però che il giudicato non ha tenuto conto della sopravvenuta disposizione dell’art. 1 comma 569 bis la cui portata invece appare, come precisato precedentemente, elemento decisivo.

Ciò non dimeno sono comunque da tenere presente alcune precisazioni del giudice amministrativo di prime cure.

In primo luogo si afferma che la disposizione di carattere speciale in discussione contenuta nell’art. 1 comma 569 si applica alle società a totale partecipazione pubblica ed anche quelle ove partecipano privati.

In secondo luogo il giudice rileva che se il legislatore statale non impone direttamente l'uscita degli enti pubblici dalle società che gestiscono servizi pubblici, non esprime nemmeno una qualche opposizione a tale ipotesi, e certamente non costringe le pp.aa. a rimanere prigioniere delle società partecipate. Una volta che l'ente pubblico, esercitando la propria discrezionalità, abbia qualificato come non più strategica la presenza nel capitale di società affidatarie di servizi pubblici, si verifica una situazione equivalente al divieto di conservare partecipazioni azionarie estranee alle finalità istituzionali. Tale affermazione del giudice andrebbe ora rivista alla luce degli effetti dell’approvazione del provvedimento del recesso da parte dell’assemblea dei soci.

In terzo luogo il fatto che nell'art. 1 commi 611 e 612 della l.190/2014, che contiene la disciplina dei piani di razionalizzazione delle società a partecipazione locale,  non sia richiamata la facoltà di recedere, e di ottenere così la liquidazione delle azioni, non sembra costituire un ostacolo all'estensione di questo strumento in via interpretativa.

A tal riguardo non sfugge che la determinazione del valore della quota da liquidare in denaro non può seguire i normali criteri enunciati ai paragrafi precedenti.

Infatti il recesso prevede la liquidazione della quota in denaro e nel caso si debba procedere con la riduzione delle riserve o del capitale sociale, attraverso il reperimento delle relative risorse finanziarie da parte della società diversamente dall’anticipato scioglimento del contratto sociale ove invece è prevedibile anche l’assegnazione del capitale sociale in natura ai soci.

In questo caso la società deve quindi rendere liquido il proprio patrimonio. Inoltre si deve considerare che nelle società a partecipazione locale, soprattutto quelle che svolgono servizi pubblici locali, il patrimonio sociale è stato costituito attraverso finanziamenti o contributi pubblici erogati anche da soggetti non soci e comunque a destinazione vincolato. Come peraltro non è infrequente che il patrimonio sociale sia stato costituito con conferimento di beni mobili o immobili del demanio comunale (in vigenza l’art. 113 comma 13 del Tuel) ovvero asserviti a pubblico servizio.

Da ciò discende che nella determinazione del patrimonio sociale per la liquidazione della quota del socio i cespiti suddetti non potranno essere considerati in quanto:

-          da un lato non oggetto di contributi o di finanziamenti del socio recedente;

-          dall’altro lato segregati alla funzione strumentale per l’esercizio di pubblico servizio. In questo caso particolare attenzione andrà posta alla liquidazione del patrimonio quando l’ente locale recedente revoca alla società anche il servizio pubblico di cui è titolare.  

 

 



[1] Tribunale di Milano 5.3.2007 “Il recesso del socio rappresenta l'esercizio di un atto unilaterale recettizio e, come tale, non è revocabile, né assoggettabile a condizione (nella fattispecie: la condizione che la quota del socio sia liquidata ad un determinato prezzo), sia perché l'oggetto economico dell'atto di recesso non è soggetto a trattativa, sia perché la valutazione della quota va effettuata secondo un criterio predeterminato, rapportato al valore del patrimonio e alle prospettive reddituali dell'impresa gestita dalla società”.

[2] Si segnala tuttavia che in deroga a quanto stabilito nell’art. 2437 bis, il termine per l’esercizio del diritto di recesso in caso di deliberazione che introduca una clausola compromissoria statutaria è di 90 giorni.

[3] Massima del Comitato Notarile del Triveneto 2004 I.H.2

[4] Il valore di mercato delle azioni potrà essere desunto, qualora vi siano state transazioni recenti, dal prezzo di cessione delle suddette azioni o, in alternativa, dal valore di mercato di imprese con caratteristiche analoghe ed operati nel medesimo settore.

[5] Tribunale di Milano 30.4.2008

[6] Fondazione Nazionale Dottori Commercialisti, “La valutazione della partecipazione del socio recedente”.

[7] Le nuove discipline dei servizi pubblici - Libro dell'anno del Diritto 2013 (2013) di Giuseppe Caia

Nella materia dei servizi pubblici si registra una costante attenzione delle istituzioni comunitarie. Sul piano nazionale si segnala la scelta del legislatore italiano di consolidare la regolazione attribuendo le relative competenze ad apposite Autorità ma anche una persistente incertezza sulla disciplina dei servizi pubblici locali (nonostante gli sforzi del legislatore).

(……)

1.             La ricognizione

Le novità intervenute e da registrare riguardano gli atti europei, le nuove norme nazionali e le posizioni della giurisprudenza sui servizi pubblici.

1.1           I servizi di interesse generale negli atti comunitari

La locuzione «servizi pubblici» e l’istituto giuridico che essa identifica sono tipici dell’ordinamento italiano ed oggetto di ripetuti approfondimenti e di un dibattito non ancora pervenuto a risultati stabili1. Nel diritto comunitario, viene impiegata la più ampia locuzione «servizi di interesse generale»2; in particolare, le istituzioni europee, muovendo dall’art. 14 del TFUE3 hanno formulato i seguenti concetti base, ricavabili soprattutto dalle comunicazioni della Commissione:

Servizi di interesse generale (SIG): i SIG sono servizi che le Autorità pubbliche degli Stati membri considerano di interesse generale e pertanto sono oggetto di specifici obblighi di servizio pubblico (OSP). Il termine riguarda sia le attività economiche che i servizi non economici. Questi ultimi non sono soggetti ad una normativa UE specifica né alle norme del Trattato in materia di mercato interno e concorrenza.

Servizi di interesse economico generale (SIEG): i SIEG sono attività economiche i cui risultati contribuiscono all’interesse pubblico generale e che non sarebbero svolte dal mercato senza un intervento statale o sarebbero svolte a condizioni differenti in termini di qualità, sicurezza, accessibilità economica, parità di trattamento o accesso universale.

Servizi sociali di interesse generale (SSIG): comprendono i regimi di sicurezza sociale che coprono i rischi fondamentali dell’esistenza e una gamma di altri servizi essenziali forniti direttamente al cittadino con un ruolo preventivo e di coesione/inclusione sociale.

Obbligo di servizio universale (OSU): gli OSU sono un tipo di OSP con i quali si stabiliscono le condizioni per assicurare che taluni servizi vengano messi a disposizioni di tutti i consumatori e utenti di uno Stato membro, a prescindere dalla loro localizzazione geografica, a un determinato livello di qualità e, tenendo conto delle circostanze nazionali, ad un prezzo abbordabile. La definizione di OSU specifici è stabilita a livello europeo come componente essenziale della liberalizzazione del mercato nel settore dei servizi, quali le telecomunicazioni, i servizi postali e i trasporti.

Servizio pubblico: a livello europeo si ritiene che questa locuzione presenti ambiguità. Pertanto, si ritiene preferibile utilizzare la terminologia “servizio di interesse generale” e “servizio di interesse economico generale”, che peraltro ricomprendono il servizio pubblico in senso proprio.

Da segnalare la Comunicazione della Commissione sull’applicazione delle norme dell’Unione europea in materia di aiuti di Stato alla compensazione concessa per la prestazione di servizi di interesse economico generale 2012/C 8/02 dell’11.1.2012. Taluni SIEG possono essere forniti da imprese pubbliche o private senza ricevere un sostegno finanziario specifico dalle Autorità degli Stati membri; altri servizi possono invece essere prestati solo se le Autorità offrono una compensazione finanziaria al gestore. In assenza di norme specifiche dell’Unione, gli Stati membri hanno in genere la facoltà di determinare le modalità di organizzazione e di finanziamento dei loro SIEG. In relazione a ciò, la Comunicazione delinea le condizioni da rispettare affinché le compensazioni degli obblighi di servizio pubblico non costituiscano aiuti di Stato.

É poi in corso l’esame della nuova proposta di direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio sull’aggiudicazione dei contratti di concessione del 20.12.2011 - COM (2011)897 def. Si disciplinano i presupposti e le procedure per le concessioni di servizi e i limiti in cui sono ammesse le gestioni in house providing. Nulla si prevede per il modello del partenariato pubblico privato (società miste), lasciando dunque aperto il problema della identità o meno di regime rispetto alle concessioni.

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