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Diritto nazionale dei servizi pubblici e diritto comunitario della concorrenza. Argomenti di riflessione su un equilibrio non ancora definito: il caso delle società a capitale misto pubblico/private.
di Stefano Ferla  (avv.stefanoferla@libero.it) 20 maggio 2005
Materia: servizi pubblici / disciplina

Diritto nazionale dei servizi pubblici e diritto comunitario della concorrenza. Argomenti di riflessione su un equilibrio non ancora definito: il caso delle società a capitale misto pubblico/privato.

 

 

1. Premessa: l’organizzazione dei servizi di interesse generale tra autonomia pubblica e vincoli comunitari.

 

Il  tema, così diffusamente e vivacemente dibattuto, circa le modalità di organizzazione e gestione dei servizi pubblici, rappresenta oggi uno snodo nevralgico dei rapporti tra gli ordinamenti nazionali e il diritto comunitario, nonché tra le prerogative delle rispettive istituzioni.

Da un parte si tratta di individuare ciò che appartiene alle prerogative delle istituzioni pubbliche nazionali per quanto concerne sia la definizione delle funzioni e dei compiti propriamente pubblici, ovvero la modulazione dei confini tra pubblico e privato, sia le scelte in ordine ai modelli organizzativi da assumere per lo svolgimento di quelle funzioni e di quei compiti.

Dall’altra parte si tratta di verificare il corretto ambito della doverosa attività delle istituzioni europee, ed in particolare della Commissione e della Corte di Giustizia, a presidio delle norme del Trattato CE e del diritto comunitario, con particolare riferimento alla tutela dell’effettività del mercato unico e della concorrenza.

La problematica è assai ampia e complessa e non si pretende certo di trattarla esaurientemente in questa sede.

Qui di seguito si propongono soltanto alcuni argomenti di riflessione, per evidenziare in concreto i termini giuridici della problematica in materia di servizi pubblici, alla luce dei più recenti pronunciamenti della Commissione e della Corte di Giustizia UE.

E ciò al fine di introdurre il tema specifico oggetto del presente lavoro – la legittimità sul piano comunitario del modello della società a capitale misto per la gestione di servizi pubblici locali –, il quale ci pare assuma una rilevanza emblematica rispetto a queste problematiche.

 

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1.1. Occorre accennare, innanzitutto, a quelli che appaiono i tre fondamentali limiti entro i quali il Trattato CE ha collocato il diritto comunitario della concorrenza.

 

A) Innanzitutto sono soggette alle norme comunitarie in materia di concorrenza soltanto le attività economiche, intendendosi per attività economica “ogni attività che implica l’offerta di beni e servizi su un dato mercato”, sulla scorta della definizione fornita dalla Commissione Europea nel Libro Verde sui servizi di interesse generale (1). All’ambito economico fanno riferimento, infatti, le libertà comunitarie di circolazione delle merci, dei capitali e dei lavoratori, nonché di stabilimento e prestazione di servizi. Con riferimento a questi ultimi, in particolare l’art. 49 (ex 59) del Trattato CE, sancisce la soggezione al diritto comunitario della concorrenza di tutti i servizi di natura economica, identificando l’oggetto di tali servizi con “le prestazioni fornite normalmente dietro retribuzione, in quanto non siano regolate dalle disposizioni relative alla libera circolazione delle merci, dei capitali e delle persone”. In particolare, come evidenzia la stessa norma, detti servizi ricomprendono le attività industriali, commerciali, artigianali  e libero professionali.

In sostanza – parrebbe potersi sintetizzare in modo, almeno apparentemente, chiaro – è economica qualsiasi attività esercitata in un determinato mercato, in competizione con altri operatori, diretta alla fornitura di beni o servizi dietro corrispettivo (non politico o simbolico, ma remunerativo), normalmente finalizzata al profitto o quanto meno oggettivamente idonea al conseguimento di risultati economici (2).

 

B) Sempre nell’ambito delle attività economiche, l’art. 86 (ex 90) del Trattato prevede che gli Stati membri possano riconoscere ad alcune imprese diritti speciali od esclusivi per la gestione di determinati servizi di interesse generale, ma vieta in generale misure contrarie al principio di non discriminazione e alle libertà comunitarie; stabilisce, poi,  che le imprese incaricate della gestione di servizi interesse economico generale sono soggette alle norme comunitarie ed in particolare a quelle in materia di concorrenza “nei limiti in cui l’applicazione di tali norme non osti all’adempimento, in linea di diritto e di fatto, alla specifica missione loro affidata”.

Questa disposizione appare diretta non già a regolare le modalità di affidamento o di organizzazione dei pubblici servizi, quanto ad evitare l’eventualità che il conferimento di diritti speciali ed esclusivi all’impresa di servizio pubblico non sia strettamente funzionalizzato alle finalità del servizio pubblico stesso, ma costituisca un’ingiustificata rendita di posizione per il gestore, idonea ad alterare la concorrenza al di là del compito ad esso affidato.

Non pare però che il Legislatore comunitario, con questa norma, abbia inteso limitare la discrezionalità politica degli Stati membri in ordine alla scelta della attività che possono essere sottratte al mercato per finalità pubbliche e di utilità sociale; e ciò soprattutto se si considera l’assetto delle economie dei Paesi europei al momento in cui la disposizione è stata introdotta, all’atto di costituzione della CEE.

 

C) Ai sensi dell’art 45 (ex 55) del Trattato, sono escluse dalle norme comunitarie sulla libertà di stabilimento e sulla libera prestazione di servizi, le attività  che “partecipino, sia pure occasionalmente, all’esercizio dei pubblici poteri”.

La norma, in quanto recante una deroga ad alcuni tra i fondamentali principi di libertà economica del Trattato, è stata letta dalla Corte di Giustizia in modo comprensibilmente restrittivo. Segnatamente, con riferimento ai servizi pubblici, sono state escluse dalla deroga le attività di carattere tecnico che non implicano l’esercizio di poteri d’imperio in senso stretto, ossia l’espletamento di procedimenti amministrativi volti all’emanazione di veri e propri provvedimenti di carattere autoritativo.

Non solo: anche quando si riscontra l’implicazione di poteri amministrativi in senso proprio, la giurisprudenza comunitaria sembra orientata a svolgere un’indagine supplementare: se tale elemento è meramente accessorio, non qualificante l’attività e dunque scindibile dalla stessa, esso non è sufficiente a legittimare la deroga di cui all’art. 45, cit. (3).

 

*****

 

1.2. In rapporto a queste coordinate fondamentali, sopra appena accennate, occorre valutare l’interazione tra le autorità nazionali e le istituzioni comunitarie nella materia che ci occupa.

Giova prendere la mosse da alcune recenti e significative affermazioni della Corte di Giustizia e della Commissione, e verificarle alla prova dei fatti.

Nel già citato Libro Verde sui servizi di interesse generale, netta è l’affermazione della Commissione secondo cui “spetta alle autorità pubbliche decidere se fornire questi servizi direttamente tramite la propria amministrazione oppure se affidarli a terzi (soggetti pubblici o privati)” (4).

La medesima posizione è confermata nel Libro Verde relativo ai partenariati pubblico-privati (5), laddove è resa esplicita la finalità del documento:

Il Libro Verde punta ad avviare un dibattito sull’applicazione del diritto comunitario degli appalti pubblici e delle concessioni al fenomeno dei PPP [partenariati pubblico-privati]. Tale dibattito si concentra dunque sulle norme che devono essere applicate quando si decide di affidare una missione o un incarico ad un terzo. Esso si colloca a valle della scelta economica e organizzativa effettuata da un ente locale o nazionale, e non può essere interpretato come un dibattito mirante a esprimere un apprezzamento generale riguardo alla scelta se esternalizzare o meno la gestione dei servizi pubblici; tale scelta compete infatti esclusivamente alle autorità pubbliche. Infatti, il diritto comunitario degli appalti pubblici e delle concessioni non si esprime riguardo  all’opzione degli Stati membri se garantire un servizio pubblico attraverso i propri stessi servizi o se affidarli invece ad un terzo”(6) .

Anche nell’ambito della giurisprudenza della Corte di Giustizia si ritrovano affermazioni analoghe, laddove, per esempio, in una recentissima sentenza che sarà meglio analizzata nel prosieguo, è statuito che “un’autorità pubblica, che sia un’amministrazione aggiudicatrice, ha la possibilità di adempiere ai compiti di interesse pubblico ad essa incombenti mediante propri strumenti, amministrativi, tecnici e di altro tipo, senza essere obbligata a far ricorso ad entità esterne non appartenenti ai propri servizi” (7).

Stando alle prese di posizione sopra riportate, le istituzioni comunitarie parrebbero accreditare l’esistenza di un generalizzato potere di auto-organizzazione delle pubbliche amministrazioni in ordine allo svolgimento dei compiti e dei servizi di propria competenza.

Senonchè, anche un sommario esame del diritto comunitario e della giurisprudenza della Corte di Giustizia, sembra sufficiente per ridimensionare considerevolmente una siffatta affermazione di principio.

 

1.2.1. E’ noto, innanzitutto, che, in svariati casi, specifiche direttive settoriali  hanno imposto la regola della necessaria esternalizzazione delle gestione di servizi pubblici, ovvero della realizzazione di attività e opere strumentali al soddisfacimento di pubblici interessi.

Qui di seguito si accenna soltanto ad alcuni significativi esempi.

1.2.1.a. Un primo, consistente esempio è rappresentato dalla Direttiva n. 98/30/CE, recante norme comuni per il mercato interno del gas naturale, attuata in Italia con d.lgs. n. 164/2000.

Per quanto riguarda il servizio pubblico di distribuzione del gas, l’art. 14 del suddetto decreto dispone che esso “è affidato esclusivamente mediante gara”. La trasformazione delle gestioni dirette esistenti in società partecipate dagli Enti locali, ammessa ai sensi dell’art. 15, d.lgs. n. 164/2000, costituisce un’alternativa soltanto in sede di prima applicazione della riforma, limitatamente al periodo transitorio.

“A regime” l’unica modalità ammessa di gestione del servizio è quella dell’affidamento esterno a gestori-concessionari, appositamente selezionati con gara. La gestione diretta, dunque, è radicalmente esclusa, anche nel periodo transitorio, durante il quale l’affidamento con gara può essere evitato soltanto tramite la costituzione di un soggetto ad hoc comunque esterno all’Amministrazione (società di trasformazione della gestioni dirette).

1.2.1.b. Altro ancor più noto esempio è costituito dalla normativa nazionale in materia di lavori pubblici – nella parte “derivata” dalla normativa comunitaria – laddove viene in rilievo, non l’espletamento di un pubblico servizio in senso stretto, ma sicuramente la realizzazione di opere finalizzate al perseguimento di doverose finalità istituzionali.

A norma dell’art. 19 della l. n. 109/1994, “i lavori pubblici di cui alla presente legge possono essere realizzati esclusivamente mediante contratti di appalto o di concessione di lavori pubblici, salvo quanto previsto dall’art. 24, comma 6”. Quest’ultima disposizione stabilisce che “i lavori in economia sono ammessi sino all’importo di 200 mila ECU [oggi: Euro]”.

Sopra la soglia comunitaria indicata, dunque, è esclusa l’esecuzione di lavori pubblici in forma auto-organizzata da parte delle Amministrazioni.

 

1.2.2. Più in generale, inoltre, merita attenta considerazione la giurisprudenza della Corte di Giustizia, la quale, in molti casi, ha messo in atto un sindacato assai pervasivo, volto a selezionare nel merito, sulla base di determinati criteri, attività e servizi che le autorità nazionali possono legittimamente sottrarre al mercato, da quelle che devono essere necessariamente esternalizzate, ovvero liberalizzate.

Una delle linee di più avanzate di questa giurisprudenza riguarda il tema della liberalizzazione dei servizi all’impiego.

In particolare, in tre note pronunce (8), la Corte di Giustizia ha affermato l’illegittimità, sul piano comunitario, dell’attribuzione in esclusiva, agli uffici pubblici di collocamento, dell’attività di intermediazione tra domanda e offerta di lavoro subordinato.

In questa sede – si premette – interessa considerare i principi giuridici che la Corte ha inteso affermare con riferimento al caso specifico, al di là dell’opinione, sicuramente giustificata e largamente condivisa, ma squisitamente politica, circa il carattere ormai inadeguato e anacronistico del sistema del collocamento pubblico.

Ora, sul piano dei principi, svariate sono le questioni di notevolissima rilevanza toccate dalla giurisprudenza in esame:

- se e in quale misura spetta alle autorità nazionali definire ciò che costituisce servizio pubblico, ossia attività che involge finalità di pubblico interesse rientranti nella competenza e responsabilità dei pubblici poteri, definirne l’ambito, e poi eventualmente sottoporlo ad un regime di esclusiva, sottraendolo al libero mercato;

- una volta definita la natura pubblica del servizio, il relativo ambito e il regime di prestazione dello stesso (monopolio pubblico o meno), se e in quale misura le suddette autorità possano auto-organizzasi per erogare “in house” tale servizio.

La legislazione italiana – ormai abrogata – in tema di collocamento comportava un’opzione netta nel senso sia della natura di servizio pubblico dell’attività di intermediazione tra domanda e offerta di lavoro, sia del regime di esclusiva, sia, infine, della sua organizzazione amministrativa.

Tali opzioni sembravano escludere l’esistenza di un’attività economica: si trattava, infatti, di un attività non implicante offerta di beni e servizi in un dato mercato (per usare la citata formula definitoria utilizzata dalla Commissione nel Libro Verde sui servizi di interesse generale), né svolta in ragione di corrispettivo, né idonea a determinare profitti; veniva in rilievo, piuttosto, un’attività svolta da apparati pubblici, implicante anche l’espletamento di formali procedimenti amministrativi (9), e chiaramente finalizzata al perseguimento di interessi pubblici (imparzialità e parità di trattamento tra i lavoratori nell’accesso all’impiego), la cui meritevolzza ovvero la cui attualità avrebbero dovuto essere oggetto di considerazioni politiche, non giuridiche.

Al contrario, la Corte ha ritenuto che l’attività degli uffici di collocamento avesse natura economica e che gli stessi uffici fossero da considerare imprese a tutti gli effetti.

Ciò sulla base di affermazioni che appaiono discutibili.

Si legge, in particolare, al punto 22: “La circostanza che le attività di collocamento siano di norma affidate ad uffici pubblici non incide sulla natura economica delle dette attività. Queste ultime non sono sempre state né sono necessariamente svolte da enti pubblici”.

Pare, allora, che la qualificazione della natura economica dell’attività avvenga sulla base di un giudizio non già sulle modalità reali ed effettive con cui l’attività viene espletata, per scelta politica delle autorità nazionali, bensì sull’astratta idoneità dell’attività medesima ad essere “economica”, ossia a  rispondere ad una domanda di mercato.

In breve, un’attività è economica non in quanto lo è effettivamente, ma in quanto lo potrebbe essere.

Senonchè, così ragionando, la Corte di Giustizia sembra restringere, se non, almeno potenzialmente, neutralizzare, il margine di scelta politica delle amministrazioni interne in ordine alla definizione di ciò che è servizio pubblico e può essere sottratto al mercato. E ciò – parrebbe – al di là dei vincoli effettivi emergenti dal diritto positivo contenuto nel Trattato.

Dal Trattato, infatti, non si evince affatto una nozione “virtuale” dell’economicità. Inoltre, le disposizioni del Trattato, preservando nell’esclusivo raggio di azione delle autorità nazionali, tanto l’identificazione/delimitazione dei servizi di interesse generale (che, infatti,  all’art. 86, figurano semplicemente come oggetto di possibile affidamento o incarico, da parte dello Stato, a favore di determinate imprese), quanto delle attività propriamente pubblicistiche che costituiscono estrinsecazione di poteri di carattere autoritativo (cfr. art. 45), sembrano, per così dire, porsi “a valle” della scelte delle amministrazioni nazionali al riguardo.

Nel caso di specie, peraltro – si nota incidentalmente – nessun peso ha rivestito, nelle valutazioni della Corte di Giustizia, il carattere procedimentalizzato dell’attività degli uffici di collocamento; attività che, in molti casi, ben poteva essere considerata espressione di poteri amministrativi, ancorché di carattere vincolato (cfr., per  es., il procedimento di avviamento al lavoro).

Anche prescindendo da quest’ultimo profilo, preme sottolineare come le disposizioni del Trattato sembrino presupporre, da un lato, una ricognizione dell’economicità reale dell’attività, “a valle” delle scelte statali e, dall’altro lato, un accertamento non già della meritevolezza delle finalità pubbliche alla base delle suddette scelte, bensì della proporzionalità delle misure normative e/o amministrative assunte a restrizione del mercato, rispetto a siffatte finalità.

Nel caso specifico pare che la Corte, per un verso, abbia ignorato la carenza di economicità reale dell’attività degli uffici di collocamento, per altro verso non abbia neppure indagato la finalità di interesse generale posta alla base del sistema del collocamento pubblico.

Tale finalità, come è evidente, non era quella di promuovere l’occupazione, quanto quella di garantire la distribuzione paritaria della domanda di lavoro esistente.

Non rileva che tale finalità appaia oggi superata e politicamente non più meritevole di tutela.

Rileva piuttosto che la definizione delle finalità – che è poi la definizione dell’oggetto del servizio pubblico – spetta alle politiche nazionali; così come a queste spetta modificare le finalità prescelte e, conseguentemente, la legislazione alle medesime ispirata. Alle istituzioni comunitarie (10) non dovrebbe competere un sindacato sulla scelta delle finalità sociali (e quindi sull’identificazione dell’oggetto del servizio pubblico), bensì accertare se quelle misure di restrizione della concorrenza e del mercato comunitario siano o meno  coessenziali a dette finalità.

La Corte, a ben vedere, giunge non solo ad alterare la natura dell’attività degli uffici di collocamento, facendone delle “imprese”, ma anche ad adottare un’interpretazione modificativa della loro finalità, “attualizzandola”, ossia identificandola con la promozione dell’occupazione.

Operato questo passaggio, i Giudici comunitari rilevano l’inadeguatezza pratica del monopolio pubblico degli uffici di collocamento al fine di raggiungere il “nuovo scopo” che viene loro assegnato. Essi valutano su questo terreno l’osservanza della regola di stretta proporzionalità di cui all’art. 86, comma, 2 del Trattato.

Premesso che gli uffici pubblici di collocamento sono soggetti alle regole di concorrenza ed, in particolare, al divieto di abuso di posizione dominante di cui all’attuale art. 90 “nei limiti in cui  l’applicazione di tale disposizione non vanifichi il compito particolare loro conferito”, la Corte ritiene, in sostanza, che essi siano soggetti a tale divieto, e in concreto lo violino quando “non sono palesemente in grado di soddisfare, per tutti i tipi di attività, la domanda esistente sul mercato del lavoro”. E ciò a condizione, naturalmente, che l’attività di intermediazione di manodopera rimanga vietata ad altri soggetti.

A parte, dunque, l’alterazione del compito affidato agli uffici pubblici di collocamento dalla legge nazionale (non già promuovere attivamente l’occupazione, ma garantire imparzialità e parità di trattamento nell’accesso all’impiego), la Corte mostra di ritenere che l’applicazione del criterio di necessaria proporzionalità di cui all’art. 86, comma 2, cit., comporti l’obbligo di aprire al mercato l’erogazione di un determinato servizio di interesse generale, allorchè un test di efficienza dell’organizzazione pubblico/monopolistica del  servizio medesimo dia esito negativo.

Ora, l’applicazione di tale criterio, che in effetti ricorre nella giurisprudenza della Corte di Giustizia, stimola una seria riflessione sulle sue estreme conseguenze, che non sembrano di poco conto.

In un'altra significativa pronuncia (11) la Corte ha considerato conforme al diritto comunitario della concorrenza l’attribuzione ad un fondo pensione, da parte delle autorità pubbliche nazionali, del diritto esclusivo di gestire un regime pensionistico integrativo, nell’ambito di un determinato settore produttivo, ivi compresa la previsione dell’obbligatorietà dell’iscrizione al fondo per tutti i lavoratori del settore.

Il giudizio di conformità si è fondato, anche qui, sull’applicazione della regola della corrispondenza “proporzionata” tra i diritti esclusivi attribuiti e la missione affidata.

Se è vero, allora, che, nel caso specifico, la missione era costituita dalla garanzia per tutti i lavoratori del settore di un trattamento pensionistico adeguato (ad integrazione del trattamento pubblico minimo, nella specie largamente insufficiente), tale missione non avrebbe potuto essere soddisfatta in assenza della suddetta esclusiva e della correlativa obbligatorietà dell’iscrizione per tutti i lavoratori: in mancanza di tali elementi, infatti – osserva la Corte – “le imprese aventi alle loro dipendenze personale giovane e in buona salute che svolge attività non pericolose cercherebbero condizioni di assicurazione più vantaggiose presso assicuratori privati. L’uscita progressiva dei rischi <buoni> lascerebbe al fondo pensione di categoria la gestione di una parte crescente di rischi <cattivi>, provocando così un aumento del costo delle pensioni dei lavoratori, ed in particolare di quelli delle piccole e medie imprese con personale anziano che svolge attività pericolose , alle quali il fondo non potrebbe più proporre pensioni a costi accettabili”.

Il ragionamento è sicuramente chiaro e condivisibile.

La finalità pubblica, in questo caso, a differenza della pronuncia sopra esaminata, viene correttamente individuata.

Ciò non di meno, non si può fare a meno di notare come in questo caso l’approccio “efficientistico” non venga portato sino alle sue estreme conseguenze.

Il fondo pensione in questione è realmente efficiente rispetto alla missione affidatagli? Sul mercato potrebbe esistere un’altra impresa che, nella sua medesima condizione (in caso, cioè, di attribuzione dei medesimi diritti speciali ed esclusivi), assicuri prestazioni previdenziali più soddisfacenti. Non sarebbe allora ugualmente idoneo a garantire le finalità pubbliche considerate, ma meno restrittivo del mercato comunitario, selezionare in modo concorrenziale il gestore del fondo pensione in questione?

Interrogativi non molto dissimili potrebbero essere sollevati anche con riguardo ad altri settori del tradizionale welfare europeo.

In tutti i Paesi europei esistono consistenti apparati pubblici preposti alla gestione dei servizi sanitari e di quelli relativi all’istruzione. Applicare il diritto comunitario significa davvero subordinare il mantenimento di tali apparati ad un test di efficienza circa la loro capacità di soddisfare adeguatamente i bisogni dei cittadini? Se il test non fornisse esito positivo, ciò sarebbe sufficiente per considerarli un’ingiustificata restrizione del mercato comunitario e per pervenire, se non alla totale liberalizzazione – che non sarebbe in grado di soddisfare i diritti sociali di tutti i cittadini, ivi compresi i meno abbienti – quanto meno all’esternalizzazione dei servizi sanitari e scolastici?

In sintesi: se si utilizza il criterio efficientistico per valutare la legittimità dei  regimi di esclusiva/monopolio legale, coerentemente sarebbe difficile non sostenere anche l’obbligo di esternalizzare i servizi erogati in regime di esclusiva, in quanto la gestione pubblica diretta difficilmente potrebbe essere giustificata sul piano dell’efficienza, a fronte di un’obiettiva restrizione del mercato che la medesima gestione pubblica comporta.

Si può comprendere, allora, come il parametro del test di efficienza tecnico-economica, se viene assunto come criterio giuridico rigoroso di distinzione tra ciò che può e ciò che non può essere sottratto al mercato, e coerentemente applicato, potrebbe condurre i Giudici comunitari ad occupare, con strumenti tecnico-giuridici, spazi che appartengono alla politica, ossia spazi concernenti scelte fondamentali relative all’individuazione e all’organizzazione dei servizi pubblici.

Un limite incisivo potrebbe essere rappresentato dalla natura economica delle attività a cui può applicarsi il diritto comunitario della concorrenza. Se, tuttavia,  si intende l’economicità così come l’ha intesa la Corte di Giustizia nella sua giurisprudenza in materia di collocamento, ossia come mera idoneità di una determinata attività a costituire oggetto di un mercato, per la presenza di una domanda – provenga esse dalle istituzioni pubbliche o dai singoli cittadini – e di un’offerta, quasi nessun settore potrebbe sottrarsi ad una definizione in termini economici, ivi comprese previdenza, sanità ed istruzione, e non solo, o prevalentemente, i servizi di carattere industriale (in particolare, i c.d. servizi di rete: energia, gas, telecomunicazioni, ecc.).

Certamente non è questo l’approdo attuale.

Come si è visto in apertura, permangono affermazioni nette circa i poteri di auto-organizzazione degli apparati pubblici, anche se poi le concrete prassi applicative e operative rivelano oscillazioni e nodi problematici che sembrano porre la necessità di pervenire ad un chiaro punto di equilibrio, oggetto di ragionevole certezza giuridica.

Paradigmatico delle incertezze e delle difficoltà in atto appare il tema specifico che sarà trattato qui di seguito, ossia quello dei limiti di ammissibilità del c.d. affidamento in house dei servizi pubblici locali, con particolare riferimento al modello della società a capitale misto pubblico-privato.

 

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2. Il problema della compatibilità con il diritto comunitario del modello della società a capitale misto pubblico/privato per la gestione dei servizi pubblici locali.

 

2.1. La legittimità, sul piano comunitario, del modello della società partecipata dall’Ente territoriale, quale opzione per la gestione dei servizi pubblici locali, originariamente prevista dall’art. 22, lett. e), l. n. 142/1990, è stata messa in discussione dalla Commissione Europea sin nell’Agosto 2000, allorché quest’ultima inviava al Governo Italiano una lettera di messa in mora, nella quale sosteneva l’incompatibilità del suddetto modello con l’art.11, paragrafo 1 della direttiva 92/50 in materia di appalti pubblici di servizi e con l’art. 20 della direttiva 93/38 in materia di appalti pubblici nei c.d. settori speciali.

In seguito ad una prima riforma della disciplina dei servizi pubblici locali, introdotta dall’art. 35, l. n. 448/2001 (12), il Legislatore italiano eliminava il modello in esame tra le opzioni utilizzabili per l’erogazione dei servizi di rilevanza industriale, ma lo manteneva per la gestione delle reti, degli impianti e delle altre dotazioni patrimoniali strumentali ai servizi medesimi, nei casi in cui tale gestione fosse separata dall’erogazione del servizio. In tali casi, gli Enti locali potevano avvalersi, per l’attività di gestione patrimoniale-infrastrutturale, “di soggetti allo scopo costituiti, nella forma di società di capitali, con la partecipazione maggioritaria degli enti locali, anche associati, a cui può essere affidata direttamente tale attività”  (art. 113, comma 4, d.lgs. n. 267/2000).

Si passava, dunque, dall’impiego del modello della società mista nell’ambito della gestione tout court dei servizi pubblici locali, alla sua utilizzazione limitatamente al “segmento” della gestione delle infrastrutture di rete, soltanto se ed in quanto separata dall’erogazione del servizio, e comunque nella sola accezione a capitale pubblico/locale maggioritario.

Inoltre, il modello in esame veniva mantenuto, nella medesima configurazione di cui all’originario art. 22, l. n. 142/1990, nell’ambito dei servizi privi di rilevanza industriale, i quali potevano continuare ad essere gestiti mediante affidamento diretto a “società di capitali costituite o partecipate dagli enti locali, regolate dal codice civile”.

Tuttavia, tale assetto – che in effetti aveva conservato lo strumento della società mista, pur limitandone l’impiego – non appariva ancora soddisfacente alla Commissione, la quale, con nuova lettera di costituzione in  mora in data 26.6.2002, ribadiva le proprie posizioni.

Il percorso logico-giuridico delineato dalla Commissione in questa seconda presa di posizione, appare il seguente.

1) L’Esecutivo di Bruxelles sottolinea, innanzitutto, che “l’affidamento dei servizi pubblici locali contemplati dall’art. 35 della legge 448/2001 può configurare, secondo i casi di specie, un appalto pubblico di servizi ovvero una concessione di servizi”.

Quando ricorre un appalto di servizi (ossia quando la fattispecie integra un contratto a titolo oneroso tra un prestatore di servizi e un’amministrazione aggiudicatrice, avente ad oggetto, per l’appunto l’erogazione di un servizio a benefico di detta amministrazione, dietro corrispettivo), esso deve essere affidato in applicazione delle procedure previste dalla direttiva 92/50, ovvero di quelle stabilite dalla direttiva 93/38, nel caso in cui l’oggetto dell’appalto rientri in uno dei c.d. settori speciali, sempre che il valore della commessa sia pari o superiore alle soglie quantitative stabilite, rispettivamente, dalle due direttive menzionate. In caso di appalti sotto-soglia, il loro affidamento “deve comunque avvenire nel rispetto delle norme e dei principi di diritto comunitario primario contenuti nel Trattato CE e segnatamente degli articoli 43 e 49 in materia di libertà di stabilimento e di libera prestazione di servizi, nonché del principio di non discriminazione sulla base della nazionalità sotteso a tali norme” .

Nel caso in cui venga in rilievo, invece, una concessione di servizi (ossia nel caso in cui, in sintesi, l’amministrazione aggiudicatrice trasferisca, secondo un modello sostitutivo/surrogatorio, ad un soggetto terzo il diritto di esercitare un’attività economica di propria pertinenza, direttamente rivolta alla soddisfazione dei bisogni dell’utenza, e parimenti il diritto di conseguire i proventi della relativa gestione, nonché l’onere del rischio imprenditoriale legato alla medesima), non trovano applicazione specifiche direttive, bensì le norme e i principi contenuti nel Trattato CE, ed in particolare i già citati artt. 43 e 49, così come dettagliato nell’apposita Comunicazione interpretativa della Commissione 2000/C 121/02 del 27 aprile 2000. In sintesi, le Amministrazioni sono tenute all’obbligo della messa in concorrenza degli operatori, garantendo parità di trattamento attraverso idonea pubblicità, nonchè attraverso una selezione dei concorrenti basata su criteri predeterminati, ragionevoli, proporzionati all’oggetto dell’affidamento, e non discriminatori.

2) Se ed in quanto ricorra l’affidamento di un servizio pubblico ad un soggetto terzo rispetto all’Ente territoriale, dunque, esso è un appalto o è una concessione.

Tertium non datur, secondo la Commissione.

Al di fuori di un’unica ipotesi, del tutto eccezionale.

Tale ipotesi sarebbe quella delineata dalla Corte di Giustizia nell’ormai famosa “sentenza Teckal”(13).

Secondo la Commissione, i principi sanciti da tale pronuncia consentirebbero agli Enti locali di affidare direttamente (senza gara) a soggetti formalmente terzi la gestione di un servizio pubblico, soltanto a condizione che “nel contempo l’ente locale eserciti sulla persona di cui trattasi un controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi e questa persona realizzi la parte più importante della propria attività con l’ente o con gli enti locali che la controllano”.

3) La Commissione conclude poi che “l’ipotesi eccezionale contemplata dalla sentenza Teckal non può valere ad escludere in maniera generale dal campo di applicazione delle regole comunitarie in materia di appalti pubblici e concessioni ogni affidamento di servizio che venga effettuato da un ente locale in favore di una società a capitale maggioritariamente o totalmente pubblico”. Si richiede, ad avviso della Commissione, non già la disponibilità, in capo all’Ente locale, dei meri strumenti propri del socio di maggioranza, secondo il diritto comune, bensì la titolarità di poteri pervasivi di “direzione, coordinamento e supervisione dell’attività del soggetto partecipato”, in modo tale che quest’ultimo non abbia “alcuna autonomia decisionale in relazione ai suoi più  importanti atti di gestione”, così da costituire, se non formalmente, sostanzialmente parte della P.A.

Di qui la difformità in parte qua della nuova disciplina dei servizi pubblici locali rispetto al diritto comunitario.

Il Legislatore italiano, con l. n. 269/2003, ha allora ulteriormente modificato la disciplina dei servizi pubblici locali, prevedendo l’opzione dell’affidamento diretto della gestione delle reti, non più a favore di società a capitale misto, ma soltanto a favore di società a partecipazione interamente pubblica, che soddisfino i requisiti della sentenza Teckal, come richiamati dalla Commissione nella sua lettera di messa in mora sopra esaminata (14). Per converso, veniva reintrodotto il modello della società a capitale misto tra le opzioni ammesse per l’erogazione dei servizi pubblici locali, con l’espressa condizione che il socio privato fosse scelto sulla base di procedure ad evidenza pubblica.

Infine, la rimodulazione della distinzione fondamentale delle tipologie di servizio pubblico locale, da servizi di rilevanza industriale/non industriale, a servizi di rilevanza economica/non economica, avrebbe potuto autorizzare il Legislatore nazionale ad una maggiore autonomia regolativa, risultando sottratte alle norme comunitarie in materia concorrenza (che, come è noto, si applicano alle sole attività economiche) le modalità di gestione dei servizi privi di rilevanza economica.

Tuttavia, l’art. 113 bis, d.lgs. n. 267/2000, nella versione modificata, contemplava, per questi ultimi, varie opzioni di auto-organizzazione degli stessi apparati pubblici, che, per un verso non includevano – in modo non ben comprensibile –  nè l’opzione dell’affidamento esterno nè quella della società mista, e per altro verso ricomprendevano il modello della società a partecipazione totalmente pubblica, con i requisiti di cui alla sentenza Teckal, secondo le indicazioni che la Commissione aveva riferito unicamente all’ambito delle attività economiche (15).

 

2.2. Ora, al di là delle, in verità, non lineari conclusioni a cui è giunto il Legislatore nazionale nel confrontarsi con le osservazioni della Commissione, in questa sede interessa rilevare come le indicazioni che quest’ultima ha ritenuto di poter trarre dalla sentenza Teckal, in merito al modello della società mista di gestione dei servizi pubblici locali, non appaiono, a ben vedere, corrette e pertinenti. Il che, peraltro, ha favorito la scarsa linearità del quadro giuridico determinato dalla l. n. 269/2003.                         

 Occorre innanzitutto dire che, nella sentenza Teckal, la Corte di Giustizia non si è confrontata specificamente con il tema delle modalità di gestione e/o affidamento dei servizi pubblici locali.

Il tema era, piuttosto, il seguente: valutare la sussistenza o meno di uno dei presupposti per l’applicazione delle direttive in materia di appalti di servizi e forniture, e precisamente quello della sussistenza o meno di un contratto a titolo oneroso concluso per iscritto tra un’amministrazione aggiudicatrice  e un prestatore di servizi ovvero un fornitore.

Ancor più specificamente si trattava di verificare se, nella fattispecie all’esame, ricorreva un contratto tra due soggetti distinti.

All’attenzione del Giudice comunitario, infatti, era stato sottoposto il seguente caso: un Comune aveva affidato, dietro corrispettivo, ad un Consorzio tra più Comuni – tra cui quello affidante – la conduzione e manutenzione degli impianti termici dei propri edifici; il Consorzio era stato costituito per finalità diverse, e precisamente sia per la gestione di alcuni servizi pubblici locali, sia per erogare servizi e forniture a soggetti pubblici e privati nel libero mercato del calore e dell’energia.

E’ evidente che, nella specie, non veniva in rilievo un servizio pubblico locale; non si trattava cioè del servizio di distribuzione del gas o dell’energia elettrica alla collettività locale. Si trattava piuttosto dell’erogazione di un servizio direttamente a favore dell’Ente locale, dietro corrispettivo, per la gestione di edifici di sua proprietà e godimento; ossia ciò che integrava sì il modello dell’appalto pubblico di servizio; non costituendo però, quest’ultimo, un servizio pubblico locale.

Ebbene, è in questo contesto che la Corte ha enucleato i criteri ai quali i giudici nazionali devono attenersi per valutare se un affidamento come quello in discussione possa essere considerato un appalto, alla stregua delle direttive comunitarie.

Come si è già accennato, secondo la Corte, “il giudice nazionale deve verificare se vi sia stato un incontro di volontà tra due persone distinte”, tenendo conto che non può parlarsi di persona distinta dall’Ente locale, ancorché formalmente lo sia, quando l’Ente medesimo “eserciti sulla persona di che trattasi un controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi e questa persona realizzi la parte più importante della propria attività con l’ente o con gli enti locali che la controllano”.

 

2.3. I sopra richiamati dicta della Corte di Giustizia, dunque, a differenza dell’impostazione assunta dalla Commissione, non investono direttamente le forme di organizzazione dei servizi pubblici locali e, in particolare, l’opzione della costituzione, allo scopo, di società a capitale misto pubblico/privato.

Il problema, a nostro avviso, deve essere posto in termini diversi, insieme più generali e articolati.

La domanda fondamentale ci appare la seguente: alla stregua del diritto comunitario, gli Enti territoriali mantengono effettivamente la libertà di organizzare i servizi pubblici che rientrano nella propria titolarità, nelle forme che ritengono più opportune, purchè senza né violare né eludere i vincoli derivanti tanto dalle norme del Trattato quanto dalla specifiche direttive in materia di appalti?

La risposta positiva a questa domanda dovrebbe costituire un postulato di fondo della materia che ci occupa.

Tale postulato sembra inscindibile rispetto all’originaria titolarità dei servizi pubblici in capo agli Enti territoriali. Originaria titolarità che appare presupposto condiviso anche dall’ordinamento comunitario,  laddove è ammesso il modello concessorio, ossia un modello di carattere sostitutivo/surrogatorio in cui il titolare del servizio trasferisce a un terzo il relativo esercizio, che, in assenza di titolo concessorio, spetterebbe esclusivamente al titolare medesimo.

Certamente qualche dubbio potrebbe sorgere laddove si intendesse dare rilievo ad un accezione comunitaria del modello concessorio di tipo strettamente economicistico, dove l’elemento connotativo, rispetto all’appalto, fosse considerato il trasferimento della gestione imprenditoriale e del correlativo rischio, senza dare rilievo invece al trasferimento di prerogative esclusive di carattere pubblicistico (comportanti o meno l’esercizio di poteri amministrativi veri e propri).

E i dubbi potrebbero rafforzarsi alla luce di quanto esaminato in Premessa (par. 1.), nella misura in cui la giurisprudenza comunitaria, a tratti, sembra esercitare un sindacato di merito sulla definizione di finalità e oggetto dei servizi pubblici, rendendone obbligatorie, in alcuni casi, la liberalizzazione e/o l’esternalizzazione, anche in esito a veri e propri test di efficienza.

In ogni caso, restando nell’orizzonte di un positivo riscontro alla domanda fondamentale sopra posta,  la posizione assunta dalla Commissione sulla specifico tema ora in esame appare ingiustificatamente rigida e formalistica, come tale singolarmente distante dagli approcci concreti e sostanzialistici a cui ci hanno abituato le istituzioni comunitarie.

Non è dato comprendere, infatti, perché i modelli organizzativi conformi al diritto comunitario debbano essere soltanto, da una parte, quelli dell’appalto e della concessione e, dall’altra parte, quelli della gestione in economia (la cui ammissibilità, peraltro, appare, per lo più, solo teorica (16) ), ovvero della gestione tramite entità sulle quali la P.A. eserciti un controllo analogo a quello esercitato sulle proprie stesse strutture (modello Teckal).

Il diverso modello, ben noto nella prassi italiana di applicazione dell’art. 22, lett. e), l. n. 142/1990, della costituzione ad hoc di una società di capitali, istituzionalmente investita del compito di gestire uno o più servizi pubblici locali, non pare di per sé incompatibile con la regole comunitarie in materia di concorrenza.

Naturalmente, è indispensabile che la scelta del socio privato avvenga tramite gara. Regola, peraltro, che si era consolidata nel nostro ordinamento sia con riferimento alle società a capitale privato maggioritario, per effetto del disposto del d.P.R. n. 533/1996, sia con riferimento alle società a capitale pubblico maggioritario, in virtù dei consolidati orientamenti della giurisprudenza amministrativa (17). In caso di mancata osservanza di tale regola, allora sì verrebbe elusa la normativa comunitaria in materia di affidamento delle concessioni e degli appalti pubblici, atteso che il socio privato diverrebbe, operativamente, il gestore del servizio, senza essere stato selezionato con idonea procedura di gara.

Quanto all’inquadramento giuridico del modello in parola, la giurisprudenza amministrativa nazionale lo ha sempre configurato come una forma di gestione diretta del servizio da parte dell’Ente locale, e non già come una forma di affidamento a terzi (18). La società, in questo modello, è iscritta in uno schema organizzatorio di tipo pubblicistico, nel quale l’Ente locale esercita una serie di poteri di indirizzo, coordinamento e controllo sulla società, anche al di là delle ordinarie prerogative del socio (di maggioranza o di minoranza).

Certamente, in questo tipo di società, il “pubblico” e  il “privato” mettono in atto una collaborazione istituzionale che richiede alcuni accorgimenti per evitare violazioni o elusioni dei principi di concorrenzialità; ma si tratta di accorgimenti che non coincidono, a nostro avviso, con i criteri della sentenza Teckal.

a) Già si è detto della regola dell’evidenza pubblica per la scelta del socio privato.

b) Un altro aspetto delicato è costituito dalla durata della società. E’evidente che una durata molto lunga sottrarrebbe per troppo tempo la società dal confronto concorrenziale, con effetti negativi sia per il mercato nazionale e comunitario del settore, sia per l’efficienza del servizio pubblico.

c) Un ulteriore profilo è dato dall’eventualità che la società orginariamente costituita per la gestione di uno o più servizi determinati, benefici, nel tempo, di altri affidamenti diretti, con riferimento alla gestione di altri servizi, prestazioni o commesse riconducibili o all’Ente locale partecipante o ad altre amministrazioni aggiudicatici. Tali affidamenti diretti costituirebbero, in effetti, un’indubbia violazione delle regole comunitarie in materia di appalti e concessioni, in quanto consentirebbero al socio privato della società, ossia al socio concretamente operativo, di fornire ad un Ente pubblico prestazioni diverse da quella per le quali era stato selezionato con gara.

Di una fattispecie del genere si è recentemente occupata la Corte di Giustizia (19). Si trattava, in particolare, di valutare se fosse legittimo, per un Ente locale, affidare un appalto per il trattamento e lo smaltimento di rifiuti, direttamente a favore di una società a capitale misto, la cui quota maggioritaria era detenuta dallo stesso Ente.

Pertinente, in questo caso, è stata la riaffermazione dei principi della sentenza Teckal. E’evidente, infatti, che la semplice partecipazione maggioritaria dell’Ente nella società non è condizione sufficiente per considerare la società parte dell’Ente stesso. Di qui la violazione della direttiva 92/50, determinata dall’affidamento diretto di un appalto di servizi alla società medesima; affidamento che metteva in condizione il socio privato di acquisire un contratto pubblico senza la previa selezione a mezzo di apposita procedura concorrenziale.

d) Sono possibili, peraltro, fattispecie la cui illegittimità non è così limpida, ma che costituiscono obiettivamente fenomeni di carattere elusivo. Particolarmente delicati appaiono i casi in cui si estende notevolmente l’oggetto della società, per affidare alla stessa, contestualmente o progressivamente, tutti o quasi i servizi pubblici di competenza dell’Ente. Qui la difficoltà è garantire che la selezione del socio privato abbia ad oggetto l’intero spettro dei servizi considerati, specialmente quando tutti gli affidamenti non sono contestuali alla costituzione della società, ma avvengono in tempi diversi.

e) Per quanto riguarda, infine, la possibilità, per le società miste, di partecipare a gare indette da amministrazioni aggiudicatici diverse da quella partecipante al capitale, la giurisprudenza interna più recente, in armonia con quella comunitaria (20), ha affermato che la società mista, essendo innanzitutto un soggetto imprenditoriale rientrante nello schema organizzativo delle società di capitali, non è sottoposta alle limitazioni di attività cui soggiacciono le aziende speciali, in qualità di enti strumentali, compiutamente inserite nell’apparato organizzativo dell’Amministrazione. L’ordinamento giuridico, dunque, non pone, in linea di principio, alcun limite all’assunzione, da parte delle società miste, di compiti ulteriori rispetto alla missione istituzionale affidata dall’Ente locale (21).

L’esigenza  che emerge al riguardo, come è noto, è quella di evitare un’alterazione del funzionamento del mercato, in particolare sotto il profilo della parità di trattamento degli operatori, per l’eventualità che al confronto concorrenziale prenda parte un soggetto sovvenzionato dal settore pubblico, sia pure nella semplice forma della partecipazione al capitale.

Non potendo qui approfondire il problema, si osserva soltanto che i riferiti orientamenti giurisprudenziali paiono valorizzare, implicitamente, il fatto che la società mista, a differenza di quella a totale partecipazione pubblica (22), “fa i conti” con la regola dell’evidenza pubblica, sia nel suo momento genetico-costitutivo, sia, poi, in ogni altra occasione intenda acquisire ulteriori commesse.

Probabilmente altri elementi dovrebbero essere attentamente valutati per evitare fenomeni elusivi, ma ci fermiamo qui per concentrare l’attenzione sulla problematica generale che è al centro del presente lavoro.

 

2.4. Come si può osservare, l’approccio che si è inteso proporre è di carattere concreto: esso esclude, in generale, l’inammissibilità del modello della società mista, ma tende ad individuare a quali condizioni esso è compatibile con le norme comunitarie in materia di concorrenza.

La Commissione Europea – almeno stando alla lettera di messa in mora del 26.6.2002 – ritiene invece che il modello in sé sia travolto dal divieto generale che concerne gli affidamenti diretti, non rientrando tale modello nell’ipotesi derogatoria di carattere eccezionale delineata dalla sentenza Teckal.

Nel recente Libro Verde relativo ai partenariati pubblico-privati, l’Esecutivo comunitario sembra però offrire significative aperture ad una linea più concreta e possibilista sull’argomento.

Il documento contempla espressamente, accanto ai partenariati di tipo puramente contrattuale (appalti e concessioni), anche  quelli di tipo c.d. istituzionalizzato.

“La creazione di un PPP istituzionalizzato – si legge  al punto 55 del Libro Verde – può avvenire sia attraverso la creazione di un’entità detenuta congiuntamente  dal settore pubblico e dal settore privato (3.1.), sia tramite il passaggio a controllo privato di un’impresa pubblica già esistente (3.2.)”.

Per quanto concerne la prima forma descritta (par. 3.1.), la Commissione così si esprime: “l’operazione consistente nel creare un’impresa a capitale misto, di per sé non è contemplata dal diritto degli appalti pubblici e delle concessioni. Tuttavia occorre garantire il rispetto delle norme e dei principi derivanti da tale diritto (i principi generali del Trattato e, in alcuni casi, le disposizioni delle direttive) quando tale operazione è accompagnata da un atto che può essere definito appalto o concessione”.

In altri termini, la Commissione ritiene che l’impiego del modello della società mista non possa valere ad eludere la normativa comunitaria in materia di appalti e concessioni: la scelta del partner privato destinato a fornire un apporto operativo al servizio pubblico deve essere compiuta in relazione alla sua offerta concernente tale apporto, secondo procedure di confronto concorrenziale conformi a quanto prescritto in materia di appalti o di concessioni, a seconda del caso concreto.

Secondo lo schema preferenziale adottato dalla Commissione, l’Amministrazione potrebbe indire una gara per l’affidamento di un appalto o di una concessione, prevedendo tra le condizioni del contratto da stipulare con l’aggiudicatario anche la costituzione di una società mista. Tale schema presuppone, quindi, che la costituzione della società segua la gara e, segnatamente, avvenga nella fase di esecuzione di un contratto di appalto o di concessione. La preferenza della Commissione si spiega chiaramente con la sua tendenza a concepire due soli modelli organizzativi per la gestione dei servizi pubblici – oltre a quello della auto-gestione amministrativa – , vale a dire appalto e concessione.

Il documento in esame non nega che la prassi contempli spesso l’adozione di schemi alternativi e, in particolare, quello che prevede, contestualmente, la costituzione della società, la scelta del socio privato e l’attribuzione dei compiti di servizio pubblico. Come è noto, questo è stato lo schema più spesso utilizzato in Italia, nel vigore dell’art. 22, l. n. 142/190, come tale accolto e sistematizzato dalla giurisprudenza amministrativa nazionale; uno schema diverso e alternativo tanto all’appalto quanto alla concessione, e rientrante nel genus delle forme di gestione diretta del servizio da parte dell’Ente pubblico.

Detto schema, tuttavia, è valutato dalla Commissione in modo certamente  problematico.

Per un verso si rileva la difficoltà per le Amministrazioni di adempiere all’obbligo di definire in modo puntuale l’oggetto dell’affidamento, contestualmente alla costituzione della società ed alla scelta del socio privato; obbligo di definizione puntuale da cui dipende la sostanziale osservanza e la non elusione della normativa in materia di appalti e di concessioni.

Per altro verso si paventa il rischio che l’eventuale non coincidenza tra la durata dell’impresa (più lunga) e quella del contratto o della concessione (più breve) susciti rinnovi contrattuali non preceduti da gara.

Ora, le esigenze rappresentate dalla Commissione sono perfettamente condivisibili: è necessario che il socio privato venga scelto con gara e sulla base di un’offerta specifica, di carattere non strettamente finanziario ma di tipo gestionale-operativo; ed è altresì necessario che sia precisamente definito il compito istituzionale della costituenda società, nonchè che tale compito sia coincidente con quello per il quale il socio privato viene selezionato. Quanto alla durata della società, essa dovrà essere corrispondente a quella del contratto di servizio.

Si tratta, invero, di condizioni sostanzialmente non dissimili da quelle più sopra rappresentate al par. 2.2. Non pare, però, che esse siano tali da subordinare l’ammissibilità del modello della società mista alla sua assimilabilità/compatibilità rispetto agli istituti dell’appalto e della concessione. Non sembra di poter rinvenire, infatti, giustificati motivi, sul piano del diritto comunitario, che impediscano di continuare ad utilizzare il modello della società mista, inteso quale tertium genus rispetto all’appalto ed alla concessione.

 

2.5. Va aggiunto che, a nostro avviso, dalle più recenti pronunce della Corte di Giustizia non sembra lecito trarre un’esplicita e diretta declaratoria di incompatibilità di tale modello rispetto al diritto comunitario.

Nella c.d. sentenza Stadt Halle (23), la Corte di Giustizia ha affermato chiaramente che una società mista al cui capitale partecipi, sia pure in misura minoritaria, un socio privato, non può integrare gli estremi della giurisprudenza Teckal, ed in particolare il primo requisito richiesto dalla medesima, ossia quello che esige, per legittimare l’affidamento diretto, che l’Amministrazione aggiudicatrice eserciti sulla società un controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi.

E’ assai importante rilevare, tuttavia, che oggetto del contendere era, nel caso specifico, l’affidamento di un appalto rientrante nell’ambito di operatività della direttiva 92/50 (appalti di servizi), a favore di una società, già costituita, partecipata in misura maggioritaria (indirettamente, tramite altra società a partecipazione pubblica totalitaria) dall’Ente affidante.

Fattispecie assai diversa e non assimilabile, come è facile constatare, rispetto a quella della costituzione ad hoc di una società mista per uno o più compiti di servizio pubblico, con tutti gli accorgimenti sopra considerati.

Analogamente deve dirsi per le recentissime conclusioni dell’Avvocatura Generale nella causa C-458/03, pubblicate in data 1.3.2005 (24). In tale fattispecie, al centro dell’attenzione era l’affidamento diretto della gestione di un parcheggio pubblico a benefico di una società preesistente (ASM Bressanone s.p.a.), questa volta totalmente partecipata dal Comune affidante, già incaricata dello svolgimento di altri servizi pubblici locali.

Anche in tale caso, dunque, veniva in rilievo l’assegnazione alla società di compiti diversi da quelli originari, senza previa selezione pubblica.

La differenza, rispetto alla sentenza Stadt Halle, è duplice: 1) da una parte, l’oggetto dell’affidamento (gestione di un parcheggio pubblico) non rispondeva ai dettami dell’appalto, bensì a quelli della concessione di pubblico servizio; 2) dall’altra parte, la società affidataria, a capitale interamente pubblico, si rivelava idonea, nella valutazione del Giudice comunitario, al fine di soddisfare i requisiti del modello Teckal.

L’Avvocato Generale, dunque, del tutto ragionevolmente, ha ritenuto che i criteri  Teckal  siano applicabili non solo nei casi che  rientrano nel “ambito di applicazione delle direttive in materia di aggiudicazione di appalti pubblici” (ai quali si riferivano sia l’originaria sentenza Teckal sia la più recente Stadt Halle), ma anche, e a maggior ragione, nei casi che rientrerebbero invece nello schema della concessione di pubblico servizio, per i quali trovano applicazione “requisiti di gara meno dettagliati, ossia requisiti soltanto generali, derivanti dal divieto di discriminazione e dall’obbligo di trasparenza”.

Si resta, insomma, ancorati all’impostazione originaria della giurisprudenza Teckal ed alla sua specifica finalità: verificare se ciò che corrisponde formalmente ad un rapporto intersoggettivo tra un’amministrazione aggiudicatrice ed una società terza (tra concedente e concessionario o tra stazione appaltante ed appaltatore), sia, dal punto di vista sostanziale, assimilabile ad un fenomeno di delegazione interorganica all’interno dell’apparato pubblico.

L’impressione è che la logica delle istituzioni comunitarie (tanto della Commissione quanto della Corte di Giustizia) tenda a non ammettere, concettualmente, forme organizzative distinte dalle seguenti: appalto, concessione o gestione totalmente rimessa alle strutture pubbliche.

E’ pur vero, però, che forme organizzative di tipo alternativo, quale quella della società mista, intesa con le specifiche caratterizzazioni di cui si è detto a tutela della concorrenza e del mercato, non sono investite negativamente da alcuna presa di posizione o decisione specifica della Corte di Giustizia, ivi comprese le conclusioni dell’Avvocatura Generale di cui si è appena detto (25).

Né pare di poter rintracciare, in atti comunitari, esplicite e consistenti ragioni di incompatibilità della suddetta forma organizzativa con le norme dell’ordinamento europeo.

Al contrario, i principi generali affermati, con chiarezza, nelle suddette conclusioni, non sembrano presentare siffatte ragioni: “…sulla base del principio della parità di trattamento di imprese pubbliche e private, segnatamente sancito dall’art. 86, n. 2, CE, un’impresa pubblica – fatte salve le deroghe contenute nell’art. 86, n. 2, CE – non deve ricevere un trattamento migliore rispetto alla concorrenza privata. Pertanto un’amministrazione aggiudicatrice non può incaricare direttamente della prestazioni di servizi una sua società controllata senza aver prima valutato le offerte degli altri partecipanti a avuto cura di espletare a tal fine una gara trasparente di aggiudicazione”.

Per quale ragione, allora, una gara siffatta non potrebbe essere legittimamente costituita dalla selezione del socio privato di una società mista cui affidare direttamente il servizio, sulla base del trasparente confronto tra più offerte gestionali, non senza tutte le ulteriori cautele di cui si è detto, finalizzate ad evitare ogni fenomeno elusivo?

 

2.6. E’ il caso, allora, di ritornare, in conclusione, al principio di autorganizzazione degli apparati pubblici ai fini dell’erogazione dei servizi di propria competenza.

Tale principio è riaffermato, con nettezza, nelle conclusioni dell’Avvocatura Generale sopra esaminate, simmetricamente rispetto al sopra menzionato principio di non discriminazione tra imprese pubbliche e private sul piano concorrenziale (applicabile, quest’ultimo, nell’ipotesi in cui l’Ente aggiudicatore decida di rivolgersi al mercato):

 “D’altro canto la pubblica amministrazione rimane senz’altro libera di svolgere completamente i suoi compiti con mezzi propri, ossia di assolvervi direttamente, senza ricorrere affatto alle prestazioni di imprese – pubbliche o private – giuridicamente autonome. In tal caso essa non è soggetta neppure ai vincoli fissati dalla normativa sugli appalti e dall’art. 86 CE”.

Questi assunti sembrano anticipare la risposta ad alcune questioni pregiudiziali recentemente sollevate dalla giurisprudenza amministrativa nazionale, ai sensi dell’art. 234 del Trattato, in merito alla compatibilità con il diritto comunitario del c.d. affidamento in house, nei termini sanciti dal “nuovo” art. 113, d.lgs. n. 267/2000.

2.6.1. Con una recente ordinanza (26), in particolare, il T.A.R. Puglia ha prospettato che il citato art. 113 non sia conforme al diritto comunitario in materia di concorrenza, in quanto esso generalizza l’istituto dell’affidamento in house, non prescrivendo alcun criterio-limite alla scelta di tale istituto da parte dell’Amministrazione, ma ponendolo esattamente sullo stesso piano dell’affidamento mediante gara. Ad avviso del Giudice Amministrativo, invece, l’affidamento in house dovrebbe costituire un’ipotesi eccezionale, giustificata solo da particolari esigenze del servizio. Pena sarebbe la violazione, in particolare, dell’art. 86 del Trattato, alla stregua del quale sarebbero ammesse deroghe alla concorrenza solo in relazione all’adempimento della missione di servizio pubblico.

In altri termini, il T.A.R. Puglia trae dall’art. 86, cit. un limite, per così dire “a monte”, rispetto alla scelta della P.A. in ordine all’organizzazione dei servizi pubblici: esso non autorizzerebbe l’opzione pubblicistica (ovvero quella dell’autorganizzazione, diretta o indiretta), se non in presenza di particolari condizioni che integrino quel rapporto di stretta proporzionalità, previsto dal comma 2 dell’art. 86, tra deroghe alla concorrenza e missione di servizio pubblico.

Non condivide tale approccio la giurisprudenza della Corte di Giustizia, (come risulta evidente dal passaggio sopra riportato del recente pronunciamento dell’Avvocatura Generale, ma che trova riscontro anche nella sentenza Stadt Halle), secondo cui l’osservanza dell’art. 86, cit. viene in rilievo, per così dire, “a valle” delle scelte organizzative della P.A, ossia una volta che quest’ultima abbia deciso di esternalizzare la gestione. La norma, infatti, intende semplicemente garantire parità di trattamento tra imprese pubbliche e private, nel rispetto delle precipue finalità di servizio pubblico; non già porre, in generale, la regola della liberalizzazione del mercato dei servizi pubblici, salvo eccezioni. Le specifiche opzioni liberalizzatici appartengono, infatti, ai Legislatori comunitario e nazionale.

2.6.2. Analogamente, anche il Consiglio di Stato, nel sollevare una questione pregiudiziale non molto dissimile a quella posta dal T.A.R. Puglia (27), aveva manifestato non poche perplessità, sul piano del diritto comunitario, circa l’estensione del modello dell’affidamento in house, concludendo, in particolare, che l’impiego sempre più frequente della deroga al metodo di scelta del contraente mediante procedura ad evidenza pubblica “comporta la sottrazione di aree assai ampie di attività economiche all’iniziativa imprenditoriale privata, in contrasto con la stessa ragion d’essere dell’Unione Europea”.

Anche qui, dunque, il Giudice nazionale sembra ritenere immanente all’ordinamento comunitario una “regola generale salvo eccezioni” – quella delle privatizzazione dei servizi di interesse economico generale – che la stessa Corte di Giustizia non sembra ravvisare, come si evince dalle conclusioni dell’Avvocatura Generale sopra richiamate (se verranno accolte e confermate).

Nello specifico, la questione sollevata dal Consiglio di Stato, in riferimento ad una legge della Regione Trentino Alto Adige, è la seguente: è sempre ammissibile l’affidamento diretto a beneficio di una società a partecipazione interamente pubblica?; ovvero, in altri termini, la partecipazione totalitaria da parte dell’Ente locale affidante è sufficiente ad integrare il primo requisito della giurisprudenza Teckal, ossia il controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi?

Anche a questo proposito le già più volte menzionate conclusioni dell’Avvocatura Generale – anche se pronunciate con riguardo ad un altro caso – sembrano anticipare una risposta diretta:

“Determinante ai fini dell’equiparazione di un’impresa ad un servizio amministrativo oppure ad altri operatori economici non è tanto il fatto che la pubblica amministrazione, sotto l’aspetto formale, abbia le stesse possibilità giuridiche di influenza che essa ha nei confronti dei propri servizi, come ad esempio un potere di direzione nel caso concreto. Determinante è piuttosto il fatto che all’interno di tale società l’amministrazione aggiudicatrice sia in qualunque momento concretamente in grado di realizzare pienamente gli obiettivi fissati nell’interesse pubblico (…). (…) quando un terzo privato sia socio di un’impresa, anche se in forma di mera partecipazione di minoranza, il fatto che la pubblica amministrazione debba tenere conto degli interessi economici di questi può costituire un impedimento alla piena realizzazione degli obiettivi propri dell’interesse pubblico… Laddove, invece, non sia necessario tenere conto degli interessi economici di terzi privati, dato che la pubblica amministrazione detiene il 100% delle quote societarie, l’affermazione dell’interesse pubblico all’interno della società è garantita anche senza un potere direttivo in senso tecnico già con gli strumenti del diritto societario e, in particolare, per mezzo della presenza all’interno degli organi societari del rappresentante nominato esclusivamente dalla pubblica amministrazione”.

Come si può osservare, la Corte sembra orientata a fornire una risposta affermativa all’interrogativo posto dal Consiglio di Stato.

Ma l’interesse delle statuizioni appena riportate non si limita a questo.

Se, per un verso, la partecipazione totalitaria dell’Ente pubblico affidante sarebbe sufficiente per autorizzare l’affidamento diretto a favore della società dallo stesso interamente controllata, per altro verso la partecipazione privata, anche minoritaria, sarebbe a sua volta sufficiente per equiparare la società in questione a qualsiasi altro operatore economico, rendendo obbligatorio l’espletamento delle procedure ad evidenza pubblica. Senonchè, questo schema argomentativo sembra trascurare la specifica funzione che potrebbe avere – e in genere ha – la partecipazione privata al capitale di una società dedita alla gestione di servizi pubblici locali: il privato è chiamato a collaborare con gli apparati pubblici per fornire competenze, risorse tecniche e organizzative, nonché, in sintesi, l’imprenditorialità propria del settore di riferimento, in

modo tale da rendere più efficiente e professionale la gestione del pubblico servizio. In altri termini, il modello della società mista, come la stessa Commissione UE ha evidenziato nel già citato Libro Verde (28), integra una forma di partenariato istituzionale, non già uno schema caratterizzato dall’opposizione tra interesse pubblico e interesse privato, come invece sembra orientata a ritenere l’Avvocatura Generale.

Il socio privato è chiamato a partecipare al capitale, ed è scelto con gara, proprio in quanto l’Amministrazione intende sì avvalersi delle competenze degli operatori presenti sul mercato, ma, nel contempo, desidera mantenere un ruolo nella struttura operativa preposta alla gestione del servizio.

Questo tipo di implicazioni sono estranee all’ambito dei ragionamenti svolti dall’Avvocatura Generale, ancorché – è necessario dirlo – la fattispecie all’esame di quest’ultima non imponeva di affrontarle (29).

Esse sono invece ben note alla giurisprudenza nazionale, che, tradizionalmente, come si è già accennato, configura il modello della società mista come forma di gestione diretta del servizio da parte dell’Ente locale, nella quale l’operatore privato (il socio) viene inserito in una schema organizzativo riconducibile all’Ente stesso, ancorché attuato con l’uso di istituti di diritto comune (società di capitali).

I Giudici amministrativi italiani, da questo punto di vista, non hanno mai dubitato che l’affidamento diretto del servizio fosse coessenziale alla scelta del modello gestorio della società mista: esso, infatti, è conseguenza logica e necessaria del fatto che la società è stata costituita ad  hoc per quel determinato servizio, con contestuale coinvolgimento di un socio privato partecipante al capitale, appositamente selezionato con gara..

Senza affidamento diretto, è evidente che verrebbe meno la stessa ragione d’essere di questo modello organizzativo (30).                                                                                     

 

2.7. In conclusione, la valutazione della compatibilità del modello societario in questione con i principi di concorrenzialità esige che si colgano le caratteristiche specifiche e le peculiarità del  modello stesso. Caratteristiche e peculiarità che non sembrano, per la ragioni anzidette, essere aprioristicamente contrastanti con i suddetti principi.

Da questo punto di vista, interessante sarà assistere alle sorti dell’ultima riforma dei servizi pubblici locali, nella parte in cui (art. 113, comma 5, d.lgs. n. 267/2000, coma da ultimo modificato dalla l. n. 269/2003) il Legislatore italiano ha inteso puntare ancora sul modello della società mista. Così come interessante sarà verificare quali saranno gli sviluppi normativi e giurisprudenziali del Libro Verde della Commissione CE relativo ai partenariati pubblico-privati.

Nell’auspicio che possa farsi strada un approccio che sappia cogliere come la tutela della concorrenza e del mercato, a livello comunitario, non può comportare ingiustificate compressioni dell’autonomia delle scelte pubbliche, ferme restando, ovviamente, le specifiche – e positivamente crescenti – opzioni liberalizzatici che ritengano di perseguire i Legislatori comunitario e nazionale.

 

Stefano Ferla

 

 

NOTE

 

 (1) Cfr, par. 44 del Libro Verde sui servizi di interesse generale, Bruxelles, 21.5.2003.

 

 (2)  Cfr., per es., Corte di Giustizia, sentenza 21.9.1999 causa C 67/96, più ampiamente citata nel prosieguo della trattazione, ed inoltre Corte di Giustizia, sentenza 17.2.1993, cause riunite C-159/91 e C-160-91; Corte di Giustiza, sentenza 16.11.1995, causa C-244/94.

 

 (3) Cfr. Corte di Giustiza, sentenza 21.6.1974, causa 2/74 Reyners.

 

 (4) Cfr. par. 79.

 

  (5)  “Libro Verde relativo ai partenariati pubblico-privati ed al diritto comunitario degli appalti pubblici e delle concessioni”, Bruxelles, 30.4.2004.

 

  (6) Cfr. par. 17.

 

  (7) Corte di Giustizia, sentenza 11.1.2005, causa C- 26/03 Stadt Halle.

  (8) Corte di Giustizia, sentenza 23.4.1991, causa C-41//90 Hofner;  sentenza 11.12.1997, causa C-55/96, Job Centre; sentenza 8.6.2000, causa C-258/98.

 

 (9) Era il caso, innanzitutto, del procedimento di avviamento al lavoro, disciplinato dalla l. n. 264/1949 e dalle altre norme collegate.

 

  (10) Perlomeno, se non  in sede di “produzione” della legislazione comunitaria,  senz’altro nell’attività di mera “applicazione” del diritto vigente, quale quella che viene qui in rilievo.

 

 (11) Corte di Giustizia, sentenza 21.9.1999, causa C-67/96.

 

(12) L’art. 35, cit., come è noto, ha emendato l’art. 113 del d.lgs. n. 267/2000 – T.U. delle leggi sull’ordinamento degli enti locali.

 

 (13) Corte di Giustizia, sentenza 19 novembre 1999, causa C 107/98.

 

(14) Cfr. il testo vigente dell’art. 113, comma 4, d.lgs. n. 267/2000. La medesima modifica ha interessato anche la società eventualmente costituita per la proprietà delle reti, ai sensi dell’art. 113, comma 13, d.lgs. n. 267/2000.

 

(15) Va ricordato, per completezza, che l’art 113 bis, d.lgs. n. 267/2000, è stato dichiarato costituzionalmente illegittimo, con sentenza della Corte Costituzionale n. 272 del 27.7.2004,  per lesione delle competenze regionali.

 

(16) La gestione in economia, di per sé concretamente inidonea con riferimento ai servizi di carattere industriale o comunque caratterizzati da una certa complessità tecnico-economica, è comunque spesso normativamentee esclusa, come avviene nel caso dell’art. 113, d.lgs. n. 267/2000 per i servizi di rilevanza economica, così come nel caso del servizio di distribuzione del gas naturale, ai sensi dell’art. 14, d.lgs. n. 164/2000.

 

(17) Cfr., tra le tante, Cons. St., Sez. V, n. 192/1998.

 

(18)  Cfr. Cons. St., Sez. V,  n. 3864/2003, oltre alla già citata Cons. St., Sez. V, n. 192/1998.

 

(19) Corte di Giustizia, sentenza 11.1.2005, causa C- 26/03 Stadt Halle, cit.

 

 (20) Corte di Giustizia, sentenza 7.12.2000, Arge Gewasserschuutz c. Bunesministerium fur Land und Forstwirtschaft.

 

(21) Cfr., da ultimo, Cons. St., Sez. V, n. 6325/2004 in www.dirittodeiservizipubblici.it.

 

(22) Le società a totale partecipazione pubblica, infatti, rientrano nell’ambito di applicazione dell’art.113, comma 6, d.lgs. n. 267/2000, secondo cui non sono ammesse a partecipare alle gare per l’affidamento di servizi pubblici locali “le società che gestiscono a qualunque titolo servizi pubblici locali in virtù di un affidamento diretto, di una procedura non ad evidenza pubblica, o a seguito dei relativi rinnovi”.

 

(23) Cfr. note 7 e 19.

 

 (24) Le conclusioni dell’Avvocatura Generale, ancorché non siano state ancora fatte proprie dalla Corte, rappresentano sicuramente un documento di notevole rilievo, considerato che è assai probabile  che  esse, come accede di norma,  vengano recepite nella sentenza definitiva.

 

(25) Di diverso avviso è RICCARDO URSI, in “Una svolta nella gestione dei servizi pubblici locali: non c’è <casa> per le società a capitale misto” (Foro It. 2005,  IV, 136), secondo cui, con la già citata sentenza “Stadt Halle”, “ (…) la Corte di Giustizia ha reso, se non palesemente illegittima, quanto meno inapplicabile, la citata disposizione di cui all’art. 113,  5° comma, lett. b)”, ossia la norma interna che ammette esplicitamente, tuttora, l’utilizzabilità del modello della società mista.

A nostro avviso, tuttavia, altro è affermare che una società a capitale misto non integri i criteri della giurisprudenza Teckal  questo dice la sentenza “Stadt Halle”, il che, peraltro, non ci pare discutibile –, altro è affermare che tali criteri debbano applicarsi al caso della società mista anche quando il socio privato sia scelto con gara, con riferimento allo specifico ambito dei servizi affidati alla società, e quando, più in generale, siano adottati tutti gli accorgimenti – di cui si è detto – volti ad evitare fenomeni sostanzialmente elusivi della concorrenza.

Non si ritiene che questa seconda affermazione sia contenuta nella sentenza “Stadt Halle”.

La fattispecie oggetto di tale sentenza non riguardava, infatti, la legittimità della costituzione di una società mista per la quale fossero stati posti in essere i suddetti accorgimenti, ivi compresa – soprattutto – la gara per la scelta del socio privato; riguardava piuttosto l’affidamento, a favore di una società mista già costituita, di un appalto avente ad oggetto attività ulteriori e diverse rispetto a quelle originariamente affidate a detta società. Indiscutibile era, in tal caso, allora, la violazione delle regole di concorrenza, perché era pacifico che l’ originaria selezione del socio privato – quand’anche fosse avvenuta con gara – non avrebbe comunque potuto concernere l’oggetto del successivo affidamento in appalto (cfr. supra, pp. 21-22).

Non ci pare, allora, giustificato far derivare dalla sentenza in questione l’illegittimità tout court, sul piano comunitario, del modello della società mista; ed in particolare ci parrebbe improprio applicare i criteri della giurisprudenza Teckal al caso della società mista correttamente costituita, in quanto, in tal caso, l’Amministrazione non mette in atto una scelta di  effettiva e totale auto-organizzazione, bensì si  rivolge al mercato – tramite idonea procedura di gara – per ottenere il coinvolgimento di un operatore imprenditoriale privato.

 

(26) T.A.R. Puglia-Bari, Sez. III, ordinanza n. 885 dell’8.9.2004.

 

(27) Cons. St., Sez. V, ordinanza n. 2316 del 22.4.2004.

 

(28) Libro Verde relativo ai partenariati pubblico-privati ed al diritto comunitario degli appalti pubblici e delle concessioni”, cfr. nota n. 5.

 

(29) Cfr. nota 25.

 

(30) Cfr., da ultimo, Cons. St., Sez. V, n. 272/2005 in www.giustizia-amministrativa.it, che continua a ritenere essenziale l’affidamento diretto, ma sembra ricondurre il modello della società mista allo schema concessorio,  a differenza dell’orientamento tradizionale che, come si è visto, lo configura come una peculiare forma di gestione diretta. In effetti, la tesi sposata dalla sentenza qui citata sembra porre dei problemi di carattere logico-concettuale, in quanto, una volta adottato lo schema concessorio, sembra difficile poi sostenere l’inapplicabilità delle norme e dei principi comunitari in materia di concessioni di pubblici servizi (cfr. Comunicazione interpretativa della Commissione UE 2000/C 121/02 del 27 aprile 2000).

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