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Servizi pubblici locali e società in house: ovvero la collaborazione degli enti locali per la realizzazione di interessi omogenei.
Sommario: 1. In house providing: istituto comunitario e norme di diritto interno. 2. Problematiche della fattispecie e metodo di approccio interpretativo. 3. In house providing e forma societaria. 4. Un’importante pronuncia del giudice amministrativo. 5. Suddivisione del capitale sociale tra più enti locali: ostacolo all’in house o manifestazione di cooperazione tra pubbliche amministrazioni? 6. Il coordinamento tra gli enti locali: in particolare le modalità del controllo congiunto. 7. Lo statuto della società, strumento di diritto privato al servizio del diritto amministrativo. 8. In house providing e mercato: sistemi paralleli e non comunicanti. 9. Decisioni sull’organizzazione del servizio pubblico: competenze e principi dell’azione amministrativa.
1. In house providing: istituto comunitario e norme di diritto interno.
La sentenza TAR Friuli – Venezia Giulia, 15 luglio 2005, n. 634, che si commenta, contiene interessanti considerazioni in ordine alla fattispecie della gestione dei servizi pubblici locali secondo il modello c.d. in house.
Si tratta di un modello trasversale (che interessa cioè sia appalti sia servizi pubblici) al quale, negli ultimi anni, si è sovente riferita la Corte di giustizia CE: infatti, il giudice europeo ha più volte ribadito che l’affidamento diretto di attività, da parte di una Pubblica amministrazione, è compatibile con il diritto dell’Unione quando l’Amministrazione esercita sul soggetto destinatario dell’affidamento «un controllo analogo a quello da esso esercitato sui propri servizi e questa persona realizzi la parte più importante della propria attività con l’ente o con gli enti locali che la controllano» (1).
Il legislatore statale ha recepito l’insegnamento del giudice comunitario tra l’altro attraverso l’art. 113, comma 5°, lett. c) del d.lgs. 18 agosto 2000, n. 267, il quale annovera tra le forme di gestione dei servizi pubblici locali di rilevanza economica anche quella del «conferimento della titolarità del servizio: … c) a società a capitale interamente pubblico a condizione che l'ente o gli enti pubblici titolari del capitale sociale esercitino sulla società un controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi e che la società realizzi la parte più importante della propria attività con l'ente o gli enti pubblici che la controllano» (2).
2. Problematiche della fattispecie e metodo di approccio interpretativo.
Intorno al modello organizzativo rappresentato dalla gestione in house di attività da parte dell’Amministrazione, si è da tempo aperto un ampio dibattito. Così ad esempio si è dubitato che tale modello organizzativo sia praticabile quando il rapporto intercorre tra l’Amministrazione e un organismo avente forma societaria (3); ovvero taluno ha ritenuto che si tratti di modello eccezionale, il quale – proprio per questo carattere – non potrebbe essere considerato di per sé alternativo rispetto al ricorso al mercato contemplato dal legislatore con riferimento alle altre forme di gestione dei servizi pubblici locali (per l’individuazione del gestore dell’attività o del socio privato nelle società a capitale misto: rispettivamente art. 113, comma 5°, lett. b nonché lett. c del d.lgs. n. 267 del 2000) (4).
Per contribuire al dibattito si può osservare che il diritto comunitario suole prescindere dalla forma, per concentrare l’attenzione invece sulla sostanza delle cose: si vuole dire che per l’ordinamento comunitario è essenziale il rispetto delle norme giuridiche, mentre esso lascia agli Stati membri e agli operatori l’individuazione delle modalità attraverso le quali assicurare il rispetto della norma giuridica.
Così il diritto comunitario esige che venga rigorosamente rispettato il diritto degli appalti e delle concessioni ogni volta in cui un’Amministrazione ricorre al mercato per individuare il soggetto che deve rendere un servizio all’Amministrazione stessa ovvero alla cittadinanza di riferimento.
Viceversa, tale diritto (degli appalti e delle concessioni) non viene in questione ogni volta in cui l’Amministrazione provvede all’esecuzione dell’attività con mezzi propri e cioè tramite «una struttura commerciale che di fatto è un’emanazione dello stesso soggetto-amministrazione» (5). Infatti, l’Amministrazione «ha la possibilità di adempiere ai compiti di interesse pubblico ad essa incombenti mediante propri strumenti, amministrativi, tecnici e di altro tipo, senza essere obbligata a far ricorso ad entità esterne non appartenenti ai propri servizi» (6). Si tratta appunto dell’istituto della produzione in house dell’attività da parte del settore pubblico e «in tal caso, non si può parlare di contratto a titolo oneroso concluso con un’entità giuridicamente distinta dall’amministrazione aggiudicatrice» (7); e cioè non si può parlare né di appalto né di concessione.
3. In house providing e forma societaria.
Orbene, la Corte di Giustizia CE non ha mai dubitato che la sopra ricordata relazione in house possa sussistere anche tra l’Amministrazione e un soggetto avente forma societaria (8).
In proposito, nella citata sentenza 8 maggio 2003, in Causa C-349/97, si legge quanto segue: «la Tragsa, benché costituita in forma di società per azioni assoggettata alle norme privatistiche, - è considerata, ai sensi dell’art. 88, n. 4 della legge spagnola 30 dicembre 1997, n. 66/97, recante provvedimenti a carattere fiscale, amministrativo e sociale (BOE n. 313 del 31 dicembre 1997, pag. 39589), che conferma il regime speciale di cui gode tale impresa sin dalla sua costituzione, come un “ente strumentale” (“medio proprio instrumental”) e come un “servizio tecnico” dell’Amministrazione (“servicio técnico de la Administraciòn”); - ai sensi della medesima norma nazionale sopra citata, è “tenuta ad effettuare, in via esclusiva, direttamente o per il tramite delle sue controllate, i lavori ad essa attribuiti dall’amministrazione generale dello Stato, dalle comunità autonome e dagli organismi pubblici da esse dipendenti”; - è dotata di un capitale pubblico» (p.to 186). Pertanto, conclude la Corte, un «tale organismo, che, malgrado la sua autonomia finanziaria e contabile, è interamente sottoposto al controllo dello Stato, deve essere considerato come uno dei servizi propri dell’Amministrazione spagnola …» (p.to 187).
Questa pronuncia conferma come l’approccio che deve guidare l’interprete nell’analisi della legittimità o meno dei rapporti messi in campo in applicazione del diritto comunitario è unicamente quello della piena rispondenza della situazione concreta alle norme di riferimento, a prescindere dalle modalità (forme) attraverso le quali viene data attuazione al precetto giuridico (9). Allora, a proposito del secondo dubbio interpretativo cui si è fatto riferimento al paragrafo precedente (quello sollevato con l’ordinanza del TAR Puglia), è vero che la giurisprudenza della Corte di giustizia CE ha rilevato come l’istituto dell’in house providing rappresenta un’eccezione all’applicazione delle direttive in materia di aggiudicazione degli appalti pubblici (10). Tuttavia, il giudice europeo non hai mai deciso alcuna questione basandosi su tale affermazione. L’eccezionalità cui si riferisce la Corte di giustizia consiste allora in ciò: vale a dire che non sono legittimi affidamenti diretti di attività da parte delle Pubbliche amministrazioni se non nei casi tassativi in cui ricorrono tutti i requisiti richiesti dall’ordinamento comunitario per l’istituto c.d. in house.
4. Un’importante pronuncia del giudice amministrativo.
La sentenza in commento fà corretta applicazione dei principi sopra ricordati: infatti, il giudice verifica la sussistenza dei requisiti propri dell’istituto in house, scendendo ad accertare se gli strumenti messi in campo nel caso concreto sono in effetti adeguati rispetto al precetto dell’ordinamento comunitario.
Come è noto, perché ricorra la fattispecie in house devono contemporaneamente sussistere i seguenti tre requisiti: i) il capitale interamente pubblico della società; ii) l’esercizio, da parte degli enti locali soci, di un controllo sulla società analogo a quello esercitato sui propri servizi; iii) la realizzazione, da parte della società, della quota più importante della propria attività con l’ente o gli enti pubblici che la controllano.
Dall’esposizione in fatto della sentenza in commento risulta che il primo e il terzo requisito non erano stati oggetto di contestazione da parte della ricorrente e pertanto in relazione ad essi il giudice non si dilunga; mentre la decisione svolge un approfondito esame circa la sussistenza del secondo requisito. Questo rende particolarmente interessante la decisione del TAR: infatti, sul piano teorico l’aspetto più problematico della fattispecie in house è proprio l’individuazione degli strumenti attraverso cui gli enti pubblici soci possono garantirsi il controllo sulla società analogo a quello esercitato sui propri uffici (anche considerato che il diritto comunitario non ha mai proposto soluzioni al riguardo). Il caso di specie è poi vieppiù significativo perché affronta la questione della sussistenza del rapporto in house in ipotesi di società partecipata da una pluralità di enti locali, con la conseguenza che il capitale risulta frazionato senza che alcuno di essi possieda la maggioranza assoluta delle azioni.
5. Suddivisione del capitale sociale tra più enti locali: ostacolo all’in house o manifestazione di cooperazione tra pubbliche amministrazioni?
Il TAR osserva anzitutto come la ridotta partecipazione degli enti locali al capitale della società non è di per sé decisiva al fine della realizzazione del requisito sopra ricordato al punto ii) e cioè del controllo degli enti locali sulla società analogo a quello esercitato sui propri servizi.
A questa conclusione il giudice perviene sulla base del puntuale esame di norme di diritto interno: l’art. 113, comma 4°, lett. a) nonché 5°, lett. c) del d.lgs. n. 267 del 2000 stabilisce infatti che l’esercizio del controllo sulla società, analogo a quello esercitato sui propri uffici, deve venire esercitato dall’«ente o gli enti pubblici titolari del capitale sociale». Dunque, il legislatore statale ammette che le società in house possono essere partecipate da più enti locali; sicché il requisito di cui si tratta non è – per il diritto interno – incompatibile, ma anzi del tutto coerente, con la presenza di più enti locali (con quote necessariamente frazionate) nel capitale della società.
Peraltro, occorre sottolineare che la conclusione è esatta anche sotto il profilo del diritto comunitario: infatti, le sopra elencate norme di legge statale riproducono testualmente le affermazioni delle decisioni della Corte di giustizia ricordate alla nota 1.
Inoltre, la Corte di giustizia CE, nella sentenza 18 novembre 1999, in Causa C-107/98, non aveva escluso la sussistenza di un rapporto in house benché l’affidamento diretto fosse stato disposto da un Comune nei confronti di un «consorzio costituito da diversi Comuni» (p.to 12). Ciò in coerenza anche con la giurisprudenza del Consiglio di Stato, ove si rileva come la circostanza che il capitale sociale sia frazionato tra i relativi soci enti pubblici evidenzia essersi in presenza di un fenomeno di cooperazione tra pubbliche amministrazioni, tale per cui il controllo sulla società viene esplicato necessariamente dall’insieme degli enti soci, portatori di interessi omogenei, e non da ciascuno di essi singolarmente considerato, per modo che ogni ente locale è legittimato all’affidamento diretto del servizio pubblico in favore della società (11).
6. Il coordinamento tra gli enti locali: in particolare le modalità del controllo congiunto.
Proseguendo nelle sue argomentazioni, la sentenza in commento sottolinea invece che, a prescindere dalla quota di capitale posseduta da ciascun socio, per garantire che la fattispecie sia rispettosa del diritto comunitario (e cioè effettivamente rispondente al modello in house) è indispensabile che gli enti locali si siano assicurati «un controllo in comune» sulla società, analogo a quello esercitato sui propri servizi. Quello che conta è cioè che la società sia davvero espressione della collaborazione intercomunale, vale a dire essa sia il soggetto strumentale organizzato dagli enti locali soci per lo svolgimento in maniera unitaria e coordinata di determinati servizi pubblici.
In breve, come ha osservato la Corte di giustizia CE (12), l’organizzazione in house è ravvisabile solo se il destinatario dell’affidamento diretto non è autonomo sul piano decisionale rispetto all’Amministrazione di riferimento. Con la precisazione che, quando nella società sono presenti più enti locali, il rapporto in house sussiste unicamente se la società è soggetto strumentale comune di tutti gli enti locali soci.
Per il profilo ora ricordato, la fattispecie in commento è particolarmente significativa perché gli enti locali soci hanno stabilito che il controllo sulla società (analogo a quello esercitato sui propri servizi), richiesto dall’ordinamento ai fini della legittimità dell’affidamento diretto, avvenga attraverso il ricorso a strumenti aggiuntivi rispetto agli ordinari strumenti di diritto societario: i Comuni si sono cioè riservati diritti ulteriori e più incisivi rispetto a quelli degli azionisti di società per azioni.
A questo risultato gli enti locali sono pervenuti mediante la stipula di una convenzione di diritto pubblico ai sensi dell’art. 30 del t.u. d.lgs. n. 267 del 2000, la quale a sua volta disciplina apposita Assemblea di coordinamento intercomunale nella quale sono presenti tutti gli enti locali soci. Questa Assemblea di coordinamento intercomunale è, a ben vedere, un “ufficio comune” ex art. 30, comma 4° del cit. art. 30 del d.lgs. n. 267 del 2000, autonomo rispetto agli organi societari, attraverso il quale gli enti locali esercitano – tutti assieme – una serie di compiti e funzioni preordinati ad indirizzare la vita della società, a controllarne lo svolgimento e a formare le decisioni che dovranno poi essere assunte dagli organi societari (13).
Come riconosce la sentenza in commento, la convenzione di diritto pubblico, quando presenta clausole del tipo di quelle sopra ricordate, è in effetti uno strumento sia adeguato sia necessario ad assicurare che la società sia espressione di tutti gli enti locali soci e non (casomai) unicamente di quelli che detengono la maggioranza delle azioni. Invero, se il controllo analogo a quello esercitato sui propri uffici deve essere effettuato in maniera congiunta dagli enti locali presenti in società, allora è indispensabile coordinare i poteri di ciascuno così che la società risulti contemporaneamente manifestazione di tutti. Nel senso che ogni ente locale socio deve essere messo in condizione di incidere sulle scelte di programmazione dell’attività della società e di verifica dei risultati; sulle modalità e condizioni di svolgimento dei servizi pubblici; sulla composizione degli organi sociali. Ma tutto questo l’ente locale non deve farlo singolarmente, bensì assieme agli altri Comuni presenti nel capitale sociale: infatti, se la società operasse in base a condizioni determinate separatamente (e dunque in maniera episodica) da ciascuno degli enti pubblici soci, la fattispecie non sarebbe riconducibili al modello in house, ma dovrebbe venire ascritta alle concessioni di servizi pubblici. Con la conseguenza dell’illegittimità dell’affidamento del servizio pubblico alla società se non preceduto da sufficienti misure di pubblicità e trasparenza (14).
Per concludere sul punto si precisa peraltro che la sussistenza del controllo comune da parte degli enti locali sulla società (organismo in house) dovrà essere verificato tenendo adeguatamente conto dell’aspetto sottolineato sia dal Consiglio di Stato (v. ad esempio le decisioni ricordate in chiusura del paragrafo 5.) sia dalla Corte di giustizia CE (v. il punto 50 della sentenza 11 gennaio 2005, in Causa C-26/03): vale a dire che gli enti locali presenti nella società sono portatori di intessi pubblici comuni e non tra loro contrapposti. Sicché non sarebbe proporzionato (e legittimo) pretendere l’introduzione di strumenti di controllo, anche extrasocietari, eccessivamente rigidi e invasivi e cioè che vadano al di là della garanzia del necessario coordinamento tra gli enti locali soci. Altrimenti, ad essere oltremodo rigorosi, il rischio è di arrivare ad un risultato non voluto dall’ordinamento comunitario (e nemmeno dal legislatore statale) e, cioè, al risultato che «le forme giuridiche di diritto privato della società per azioni o della società a responsabilità limitata non potrebbero essere più utilizzati ai fini di una mera riorganizzazione interna. Al relativo ente resterebbe soltanto l’alternativa tra la privatizzazione dei suoi servizi e l’esecuzione diretta di essi per mezzo dei propri servizi amministrativi oppure di aziende autonome … In taluni casi le società controllate esistenti potrebbero addirittura essere ritrasformate in aziende autonome. Tuttavia, un intervento così incisivo sulla supremazia organizzativa degli Stati membri e segnatamente sull’autogoverno di tanti Comuni non sarebbe affatto necessario neppure alla luce della funzione di apertura dei mercati svolta dalla disciplina sugli appalti» (15).
7. Lo statuto della società, strumento di diritto privato al servizio del diritto amministrativo.
Dunque, in ipotesi di società con più enti locali soci, è proprio il profilo della collaborazione intercomunale l’aspetto che vale a differenziare la società dagli ordinari operatori commerciali presenti sul mercato e perciò l’elemento qualificante della fattispecie in house.
Da qui la necessità di una convenzione intercomunale che – come si evidenzia nella sentenza in commento – permetta e insieme regolamenti l’esercizio del controllo congiunto (comune) sulla società, analogo a quello esercitato dagli enti locali sui propri servizi.
Naturalmente, come conferma anche il TAR Friuli – Venezia Giulia, assieme alla convenzione di diritto pubblico non potrebbero mancare apposite disposizioni nello statuto della società: infatti, la convenzione vincola i soci nei reciproci rapporti, mentre lo statuto obbliga altresì gli organi sociali. Sicché anche le disposizioni dello statuto societario sono indispensabili per rimarcare il carattere strumentale della società rispetto ai soci enti locali.
8. In house providing e mercato: sistemi paralleli e non comunicanti.
In considerazione di tutto quanto sopra, la società in house pluricomunale appare una sorta di organizzazione comune creata dagli enti locali per lo svolgimento di fasi di attività (erogazione di servizi pubblici) rientranti nelle rispettive competenze.
A ben vedere si tratta - nella sostanza - di un soggetto che presenta caratteri per certi aspetti paragonabili ad una organizzazione consortile di coordinamento ai sensi dell’art. 2602 e seguenti del Codice civile: gli enti locali, invece di ricercare all’esterno (sul mercato) l’erogatore di prestazioni ovvero di provvedere essi stessi singolarmente a tale erogazione attraverso le proprie strutture tradizionali, costituiscono assieme un apparato specializzato dedicato, nel senso che espleta le fasi di attività indicate dagli enti locali medesimi (16).
Questa ricostruzione conferma che, come si è anticipato, requisito ineliminabile di un rapporto in house è altresì che la società svolga la parte più importante dell’attività con gli enti che la controllano: se la società è l’apparato strumentale degli enti locali associati, allora la conseguenza è che essa deve operare (e quindi vivere) pressoché integralmente in base ad incarichi di questi ultimi. Naturalmente, non è impedito agli enti locali intraprendere comuni attività imprenditoriali, avvalendosi della capacità di diritto privato propria anche delle Amministrazioni pubbliche (17); non è impedito cioè agli enti locali di costituire società destinate ad operare liberalmente sul mercato. Ma si tratterebbe di un’iniziativa di tipo ontologicamente diverso rispetto all’organizzazione in house, che – lo si ribadisce – è per natura destinata ad esaurire la propria funzione al servizio degli enti soci (e delle collettività di riferimento).
In definitiva, quando gli enti soci indirizzano assieme la vita della società, assieme dettano le condizioni dell’attività della società stessa ed infine quando l’attività della società si svolge pressoché integralmente con gli enti soci, allora è ravvisabile nel caso concreto il rapporto in house la cui definizione astratta risulta formulata dall’ordinamento comunitario attraverso le decisioni della Corte indicate alla nota 1.
9. Decisioni sull’organizzazione del servizio pubblico: competenze e principi dell’azione amministrativa.
Da ultimo, si sottolinea come proprio il fatto che, in caso di società pluricomunale, elemento caratterizzante del modello in house è che la società medesima sia effettivamente espressione della collaborazione degli enti locali, conferma l’esattezza di un’ulteriore conclusione cui perviene la sentenza in commento. E cioè che rientra nella competenza del Consiglio dell’ente approvare tutti gli atti necessari all’affidamento del servizio pubblico.
Infatti, in base all’art. 42, comma 2° del d.lgs. n. 267 del 2000 rientra nelle funzioni del Consiglio deliberare circa «organizzazione dei pubblici servizi, … partecipazione dell'ente locale a società di capitali, affidamento di attività o servizi mediante convenzione» (lett. e) ed altresì in ordine a «convenzioni tra i comuni» (lett. c).
Orbene, nel caso della creazione di società in house pluricomunale, l’organizzazione del servizio pubblico si estende necessariamente ad una pluralità di aspetti: definizione delle attività da gestire tramite l’organismo comune; determinazione dei rapporti con gli altri enti locali; previsione delle modalità del controllo congiunto sulla società; condizioni e modalità di svolgimento del servizio pubblico da parte della società.
Si tratta di profili che devono venire definiti in maniera unitaria perché tutti tra loro connessi e determinanti ai fini dell’organizzazione del servizio pubblico.
Non potrebbe dunque essere condivisa una soluzione interpretativa che volesse frammentare le competenze al riguardo tra diversi organi dell’ente locale (Consiglio, Giunta Dirigenti). Una simile soluzione sarebbe in contrasto, oltre che con le sopra richiamate disposizioni dell’art. 42, comma 2° del d.lgs. n. 267 del 2000, anche con i principi di economicità ed efficacia dell’azione amministrativa. Ed inoltre con il principio di trasparenza: appare infatti doveroso che ogni aspetto delle condizioni dell’organizzazione dei servizi pubblici venga definito, all’esito di un dibattito quanto più democratico e pubblico, in seno all’unico organo dell’ente locale (il Consiglio) espressione diretta delle popolazioni cui tali servizi sono immediatamente destinati.
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NOTE
(1) V. sentenza 18 novembre 1999, in Causa C-107/98, anche in Riv. Ital. Dir. Pubbl. Comunitario, 2000, p. 1393; ordinanza 14 novembre 2002 in Causa C-310/01, in Urbanistica e appalti, 2003, p. 1143; sentenza 8 maggio 2003, in Causa C-349/97, in http://europa.eu.int.; sentenza 11 gennaio 2005, in Causa C-26/03, anche in http://europa.eu.int.
(2) In argomento per tutti G. CAIA, Autonomia territoriale e concorrenza nella nuova disciplina dei servizi pubblici locali, in http://www.giustizia-amministrativa.it.
(3) Cons. Stato, sez. V, ord. 22 aprile 2004, n. 2316, anche in Foro amm.- CdS, 2004, p. 1134.
(4) Così TAR Puglia, Bari, sez. III, 8 settembre 2004, n. 885, anche in Foro amm.-TAR, 2004, p. 2648.
(5) L’espressione è di TAR Toscana, sez. II, 28 luglio 2004, n. 2833, anche in http://www.giustizia-amministrativa.it.
(6) Così Corte di giustizia CE, sentenza 11 gennaio 2005, in Causa C-26/03, cit., p.to 48. Si noti l’assoluta sintonia tra quanto af-fermato dalla Corte europea e da Cons. Stato, sez. V, 23 aprile 1998, n. 477, in I contratti dello Stato e degli enti pubblici, 1998, pagg. 462 e segg.: «l'organizzazione autonoma delle pubbliche amministrazioni rappresenta un modello distinto e alternativo rispetto all'accesso al mercato». Questo significa che «la tutela comunitaria del mercato non interferisce sino a disconoscere ai singoli apparati istituzionali ogni margine di autonomia organizzativa nell'approntare la produzione e l'offerta dei servizi e delle prestazioni di rispettiva competenza». Dunque, le pubbliche amministrazioni possono legittimamente «optare per schemi di coordinamento e formule organizzatorie, teoricamente alternative rispetto all'acquisizione delle prestazioni destinate alla collettività per il tramite del mercato. // In sostanza, si tratta dell'e-stensione alla pubblica amministrazione della libertà di autopruduzione». Il «ricorso alla produzione privata, disciplinato dalle regole di salvaguardia della concorrenza, e l’esercizio del potere di organizzazione, sottratto ai vincoli concorsuali o concorrenziali validi per il ricorso al mercato, costituiscono due schemi distinti che vanno preservati da ogni equivoca commistione».
(7) Ancora Corte di giustizia CE, sentenza 11 gennaio 2005, in Causa C-26/03, cit., p.to 48.
(8) In tema A. Clarizia, Appalti in house: il Consiglio di Stato tenta di forzare la Corte di giustizia, in http://www.giustamm.it.
(9) In questo senso v. anche TAR Campania, Napoli, sez. I, 30 marzo 2005, n. 2784, anche in Foro amm.-TAR, p. 794.
(10) V. ancora la sentenza 8 maggio 2003, in Causa C-349/97, cit., p.to 204.
(11) Ad esempio Cons. Stato, sez. V, 6 maggio 2002, n. 2418, anche in Foro amm.-CdS, 2002, p. 1231; id., 30 aprile 2002, n. 2297, in Foro it., 2002, III, col. 553; nonché id., 19 aprile 2004, n. 679, in Foro amm.-CdS, 2004, p. 461.
(12) Ad esempio decisione 18 novembre 1999, in Causa C-107/98, cit., p.to 50.
(13) Dalla sentenza in commento risulta che, a mezzo dell’Assemblea di coordinamento intercomunale, gli enti locali soci: i) approvano il piano industriale della società e gli altri documenti societari di tipo programmatico; ii) approvano il bilan-cio di esercizio della società; iii) acquisiscono la relazione, resa dal revisore o dalla società incaricata del controllo conta-bile, contenente il giudizio sul bilancio societario; iv) verificano – avvalendosi anche della specifica Commissione prevista dalla convenzione di diritto pubblico – lo stato di attuazione degli obiettivi determinati con l’approvazione dei documenti ricordati al p.to i); v) deliberano, sugli argomenti all’ordine del giorno, prima dello svolgimento delle assemblee straordinarie della società e prima delle assemblee della società aventi per oggetto la l’approvazione dei bilanci o la nomina di amministratori o sindaci; vi) approvano gli schemi tipo dei contratti di servizio disciplinanti lo svolgimento dei singoli servizi pubblici da parte della società; vii) approvano le modifiche allo statuto societario.
(14) V. in proposito la sentenza della Corte di giustizia CE, 21 luglio 2005, in Causa C-231/03, anche in http://europa.eu.int., ove si qualifica come concessione (e non come riconducibile al modello in house) un rapporto instaurato tra un Comune ed una società da esso partecipata in misura ridotta, in assenza di strumenti di coordinamento tra gli enti locali soci e, per di più, in presenza di un socio privato.
(15) Così ai p.ti 70 e 71 delle conclusioni presentate il 1° marzo 2005 dall’Avvocato Generale presso la Corte di giustizia, Juliane Kokott (in http://www.europa.eu.int.), nell’ambito della questione pregiudiziale sollevata dal Consiglio di Stato, sez. V, con la ricordata ordinanza 22 aprile 2004, n. 2316.
In argomento anche S. Colombari, Organismo di diritto pubblico e delegazione interorganica tra diritto comunitario e diritto nazio-nale, in Urbanistica e appalti, 2003, p. 1139.
(16) In dottrina, G.F. Campobasso, Diritto commerciale. 1. Diritto dell’impresa, Torino, 2004, p. 270, osserva che «funzione tipica di un consorzio (con attività esterna) è quella di produrre beni o servizi necessari alle imprese consorziate ed almeno tendezialmente destinati ad essere assorbiti dalle stesse». Nel caso delle società in house, i beni o servizi da esse prodotti vengono “assorbiti” dagli enti locali e dalle collettività di cui essi sono esponenziali.
(17) V. ora l’art. 1, comma 1 bis della legge 7 agosto 1990, n. 241 come introdotto dalla legge 11 febbraio 2005, n. 15: «La pubblica amministrazione, nell'adozione di atti di natura non autoritativa, agisce secondo le norme di diritto privato salvo che la legge disponga diversamente». |