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Falsa autenticazione di firme nella presentazione di liste elettorali: non sono prove di reato le testimonianze dell'agente di polizia nel corso delle indagini
di Michele Nico 14 dicembre 2022
Materia: enti locali / ordinamento

FALSA AUTENTICA DI FIRME NELLA PRESENTAZIONE DI LISTE ELETTORALI: NON SONO PROVA DI REATO LE TESTIMONIANZE DELL’AGENTE DI POLIZIA NEL CORSO DELLE INDAGINI

 

Trattando un caso di falsa autentica di firme nella presentazione di liste elettorali, la Corte di Cassazione ha annullato la condanna a carico di un amministratore locale e ha sovvertito l’esito dei precedenti gradi di giudizio, a causa dell’erronea applicazione del codice di procedura penale in tema di testimonianza indiretta.

 

Non è prova di reato la dichiarazione del teste di polizia ove questi riferisca, nell'ambito delle indagini concernenti la falsa attestazione del pubblico ufficiale circa la sottoscrizione della lista elettorale, di avere appreso dagli apparenti sottoscrittori che essi non avevano apposto la propria firma.

Questo il principio affermato dalla Quinta Sezione penale della Corte di Cassazione con la sentenza n. 40892/2022.

Il fatto

Tenuto conto di ciò, la Suprema Corte ha annullato la sentenza del 20 aprile 2021 con cui la Corte d’Appello di Venezia aveva condannato un consigliere comunale con l’accusa di aver sottoscritto per autentica, in occasione delle elezioni regionali del 2015, moduli di raccolta di firma degli elettori per la presentazione delle liste dei candidati di una formazione politica, attestando falsamente di avere accertato di persona l’identità dei sottoscrittori e di avere presenziato all’apposizione delle firme da parte degli stessi.

Con la decisione impugnata i giudici veneti avevano ascritto all’amministratore locale il reato di cui dall'articolo 90, comma 2, del Dpr 570/1960, ai sensi del quale chiunque forma falsamente, in tutto o in parte, le schede o altri atti destinati alle operazioni elettorali o altera, sostituisce, sopprime o distrugge in tutto o in parte uno di tali atti è punito con la reclusione da uno a sei anni.

In tale contesto il ricorrente avrebbe agito di concerto con il segretario dell’organizzazione politica coinvolta al fine di attuare la materiale contraffazione di numerose firme, in seguito risultate non riferibili agli apparenti presentatori della lista dei candidati della formazione politica.

Di qui la condanna dell’amministratore, dapprima sancita dal Tribunale di Verona e poi confermata in sede di appello.

Con la pronuncia in esame la Cassazione ha accolto il ricorso dell’imputato e ha capovolto l’esito del giudizio sulla base di una censura avente a oggetto l’erronea applicazione del codice di procedura penale in tema di testimonianza indiretta.

Il quadro normativo

Va precisato che, nel codice vigente, la generale ammissibilità della testimonianza indiretta si accompagna alla definizione di un quadro di regole volte a prevenire un uso arbitrario dell’istituto e a offrire al giudice gli elementi necessari per compiere il controllo sulla credibilità dei dichiaranti e sull'attendibilità del loro racconto.

Nello specifico, l’articolo 195, comma 1, del codice prevede che “quando il testimone si riferisce, per la conoscenza dei fatti, ad altre persone, il giudice, a richiesta di parte, dispone che queste siano chiamate a deporre”.

Il comma 4 della norma dispone poi che gli ufficiali e gli agenti di polizia giudiziaria non possono deporre sul contenuto delle dichiarazioni acquisite da testimoni nello sviluppo delle indagini.

Innanzi alla Suprema Corte la difesa ha lamentato la violazione di tale divieto, tenuto conto del fatto nel corso del precedente giudizio era stata introdotta una sola testimone diretta, la quale affermò di non avere sottoscritto la lista, senza che tuttavia fosse stata esibita, ai fini del riconoscimento, la relativa sottoscrizione asserita come falsa.

Al che la Sezione ha dedotto l’inutilizzabilità della testimonianza dell'ufficiale di polizia giudiziaria, perché integrante, come si è detto, una violazione del divieto di cui all'art. 195, comma 4, del codice di procedura penale.

Di qui l’annullamento della sentenza impugnata con rinvio per nuovo giudizio ad altra sezione della Corte di appello.

 

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