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I diritti di operare del Gruppo misto monopersonale
di Maurizio Maria LUCCA 12 giugno 2023
Materia: enti locali / ordinamento

I diritti di operare del Gruppo misto monopersonale

Avv. Maurizio Maria LUCCA, Segretario Generale Enti Locali e Development Manager

Il Ministero dell’interno (Territorio e autonomie locali, 1° Giugno 2023, Categoria 05.02.03, Commissioni e gruppi consiliari) rispondendo ad un Ente Locale, con riferimento alle modalità di operare del “Gruppo misto monopersonale”, ha fornito la seguente massima riferendo che «compete al consiglio comunale, nella sua autonomia, fornire un’interpretazione delle norme statutarie e regolamentari di cui si è dotato».

Il regolamento consiliare

Seppure appare certo che l’interpretazione non possa che avvenire dall’organo che ha adottato l’atto, questo non esclude che il funzionamento del Consiglio comunale, come statuisce l’articolo 38, comma secondo del TUEL, opera sia nel quadro dei principi stabiliti dallo Statuto comunale ma anche non potendo contenere norme contrarie a disposizioni di legge, dovendo, in ogni caso, garantire idonea tutela alla minoranza, contemplando misure giuridiche volte a conservare il giusto criterio della proporzionalità della rappresentanza, senza negare l’esercizio del c.d. munus pubblico (rigore interpretativo che non può assecondare la volontà della maggioranza rispetto all’opposizione nel garantire e salvaguardare l’accesso al dibattito consiliare).

In termini brevi, il regolamento del Consiglio comunale indica le regole del procedimento di formazione della volontà deliberante, sia sotto il profilo prettamente amministrativo – autoritativo (esercizio del potere amministrativo, segnato da una discrezionalità del merito) che sotto il piano del dibattito politico – amministrativo, caratterizzando l’azione amministrativa in funzione diretta delle linee di mandato del Sindaco e del rispetto delle regole della partecipazione ai lavori del Consiglio: il regolamento dettaglia queste prestazioni e prerogative dell’eletto.

L’atto regolamentare, dotato di una propria autonomia, possiede carattere di stabilità in ordine alla gestione dell’attività consiliare, assume un ruolo nel sistema delle “fonti del diritto” ed ha una propria efficacia che si traduce in forza abrogativa rispetto alle precedenti norme in materia[1].

Il regolamento costituisce uno strumento adatto a istaurare un particolare rapporto dell’Amministrazione locale con la legge (alias Ordinamento giuridico, ex art. 5 della Costituzione) e il Consiglio comunale, in particolare, è il luogo deputato a raccogliere e a trasformare in misure di “azione giuridica” interessi popolari o di categorie di popolazione, dovendo rilevare che la struttura collegiale postula una libertà d’azione rispetto ai vincoli imposti dalla legge (rectiusAutonomia”): la sua destinazione, almeno sul piano dell’Amministrazione, è non nel senso di compiere atti d’imperio, ma di formulare misure più o meno generali per soddisfare concreti interessi collettivi[2].

A chiusura, un regolamento consiliare (rectius un’interpretazione) che privasse i singoli consiglieri comunali, specie non appartenenti alla maggioranza, dei loro diritti da fonte statutaria e normativa, si collocherebbe al di fuori del sistema ordinamentale, nuocerebbe alla democrazia (nel senso del diritto delle minoranze di poter esprimere il proprio dissenso), svuoterebbe il principio di legalità, espresso in una serie di precetti costituzionali (a partire dagli artt. 3, 51 e 54).

L’interpretazione e la regola

È noto, in generale, che l’interpretazione degli atti amministrativi soggiace alle stesse regole dettate dall’art. 1362 c.c. e seguenti per l’interpretazione dei contratti, tra le quali assume carattere preminente quella collegata alla interpretazione letterale in quanto compatibile con il provvedimento amministrativo, dovendo - in ogni caso - il giudice ricostruire l’intento dell’Amministrazione, ed il potere che essa ha inteso esercitare, in base al contenuto complessivo dell’atto (interpretazione sistematica), tenendo conto del rapporto tra le premesse ed il suo dispositivo e del fatto che, secondo il criterio di interpretazione secondo buona fede, ex art. 1366 c.c.[3], gli effetti degli atti amministrativi devono essere individuati solo in base a ciò che il destinatario può ragionevolmente intendere, anche in ragione del principio costituzionale di buon andamento, che impone alla PA di operare in modo chiaro e lineare, tale da fornire ai cittadini regole di condotta certe e sicure, soprattutto quando da esse possano derivare conseguenze negative[4].

Ne discende, in via logica, che l’esatta qualificazione del provvedimento amministrativo va effettuata tenendo conto del suo effettivo contenuto e della sua causa, anche a prescindere dal nomen iuris formalmente attribuito dall’Amministrazione, con la conseguenza che l’apparenza derivante da una terminologia eventualmente imprecisa od impropria, utilizzata nella formulazione testuale dell’atto stesso, non è vincolante, né può prevalere sulla sostanza e neppure determina di per sé un vizio di legittimità dell’atto, purché ovviamente sussistano i presupposti formali e sostanziali corrispondenti al potere effettivamente esercitato[5].

Traslando i principi in chiave di diritti del consigliere comunale, a fronte di una norma secondaria (quella regolamentare) rispetto ad un diritto riconosciuto da una fonte primaria (quella del d.lgs. n. 267/2000, c.d. TUEL) riferito alle prerogative dello stesso in seno all’organo consiliare, ovvero alla partecipazione attiva dell’attività dell’organo, anche in veste di capo gruppo o all’interno del gruppo, non può che preferirsi l’interpretazione che favorisca la massima partecipazione al dibattito da svolgersi nel plenum, compresi tutti gli istituti di partecipazione attiva presenti nel TUEL, piuttosto che quella dalla quale derivano ostacoli, preclusioni, discriminazioni di quorum, e sia meno favorevole in termini qualitativi e quantitativi, espressione di una libertà inerente allo status ricoperto (primato di una elezione diretta e di una rappresentanza che trova fonte diretta nella Costituzione).

Invero, viene riconosciuto al consigliere la legittimazione ad agire in giudizio, non tanto quando operi una deviazione dell’atto impugnato rispetto allo schema normativamente previsto, ossia in presenza di un suo dissenso, occorrendo (diversamente) quanto meno che da tale deviazione derivi la compressione di una sua prerogativa inerente all’ufficio e salve le questioni inerenti l’effettiva incidenza del vizio procedimentale sulla legittimità sostanziale dell’atto emesso in sede collegiale: si ammette la capacità di impugnare gli atti consigliari, e, dunque, il regolamento del consiglio comunale inerente i diritti del consigliere, qualora si controverta su un criterio di “rappresentanza”, definito direttamente dal legislatore, ove si traducano in una lesione dello ius ad officium[6].

L’approdo immediato, in piena assonanza con il criterio in claris no fit interpretatio, riscontra che l’esercizio del mandato politico – amministrativo del consigliere comunale avviene attraverso i poteri di impulso e le prerogative proprie dei gruppi consiliari, uno strumento previsto dalla legge di mediazione e confronto tra le attività prettamente dell’organo consigliare e i cittadini: privare l’eletto di questa attribuzione, con una disciplina regolamentare interna, o con una sua interpretazione tirannica (nel senso di escludere l’eletto dal manifestare il proprio pensiero e dissenso), priva il singolo consigliere dai propri diritti, indipendentemente dall’adesione di un gruppo esistente o di quello originario, e degli strumenti di mediazione in grado di incidere sulle decisioni amministrative, anche in via strumentale (non ultima, una mozione di sfiducia con lo scioglimento del Consiglio, quale massima espressione dei propri diritti, avendo il numero di voti necessari)[7].

Il parere del MI

Fatta questa anticipazione, e volendo analizzare il parere ministeriale, tutto nasce da una questione attinente al riconoscimento dello status di capogruppo in favore di un consigliere comunale che, uscito dal gruppo consiliare di appartenenza, è confluito nel gruppo consiliare misto unipersonale.

Si legge che «in assenza di una specifica disciplina regolamentare che preveda espressamente la situazione determinatasi, il consiglio comunale ha adottato la deliberazione n. ... del ... di interpretazione delle norme del regolamento del consiglio, votata a maggioranza assoluta, con la quale è stato deliberato che il consigliere comunale che confluisce nel gruppo misto …, viene invitato in conferenza dei capigruppo come uditore».

Il riflesso di tale inspiegabile carenza organizzativa (regolamentare) «al predetto consigliere comunale, unico componente del gruppo misto, non è stato quindi riconosciuto lo status di capogruppo, ma gli è stata consentita solamente la possibilità di essere invitato alla conferenza dei capigruppo quale consigliere “uditore”, senza diritto di voto».

Il consigliere confluito nel gruppo misto unipersonale contesta (giustamente) la deliberazione interpretativa, ritenendola viziata «dal momento che il mancato riconoscimento del pieno status di capo del gruppo misto unipersonale con diritto di voto nell’ambito della conferenza dei capigruppo configurerebbe una lesione delle prerogative del consigliere stesso».

Lasciando ogni ulteriore proseguo del parere:

·                   del fatto operato dal Segretario generale nel rivendicare l’ammissibilità di un gruppo misto unipersonale e la partecipazione dello stesso alla conferenza dei capigruppo in qualità di capo del gruppo misto;

·                   che la materia concernente la costituzione ed il funzionamento dei gruppi consiliari è demandata allo statuto ed al regolamento di ciascun Ente locale;

·                   che lo statuto del comune nel prevedere «che nel corso del mandato possono formarsi nuovi gruppi con un minimo di due consiglieri e che è ammessa la formazione del gruppo misto»;

·                   che il regolamento del Consiglio comunale prevedesse che «nel corso del mandato possono, comunque, formarsi nuovi gruppi con un numero minimo di due consiglieri»;

·                   questo non può essere dirimente (alias legittimo) nel consentire una soluzione interpretativa del Consiglio comunale, che nella sua autonomia, possa fornire un «un criterio interpretativo delle norme regolamentari», introducendo «di fatto… la figura del consigliere “uditore” non contemplata dal regolamento», privando il diritto del consigliere comunale fuoriuscito da un gruppo di esercitare le proprie funzioni alla pari di qualsiasi altro capogruppo (ne appare sufficiente l’invito all’Amministrazione a «rivedere il regolamento al fine di disciplinare in maniera più puntuale la fattispecie in esame»).

Sic semper tyrannis

A ben vedere, la querelle è stata affrontata compiutamente dalla giurisprudenza[8], nel delineare in modo cangiante la natura e i poteri dei gruppi consiliari, espressione di mediazione tra le istanze popolari organizzate nei partiti politici (o civici) e l’attività amministrativa all’interno dell’istituzione comunale, in un bilanciamento di competenze funzionali ad assicurare la vita dell’organo più rappresentativo della Comunità locale.

Se le Commissioni consigliari, da ricomprendere quella dei Capogruppo, devono riflettere la composizione delle forze presenti in Consiglio, secondo il criterio di proporzionalità, la partecipazione ai Gruppi consiliari consente di librare appieno le funzioni di consigliere comunale non potendo impedire l’esercizio completo delle funzioni sulla base di un’interpretazione (di parte) del Consiglio comunale, quando questa manifesta una evidente lesione alle potestà pubbliche, anteponendo in modo illegittimo una soglia minima di composizione del gruppo (escludendo quello misto uninominale, ossia anche di un solo componente), relegando l’eletto a semplice auditore.

Siamo in presenza di un palese deficit di democrazia e di rappresentatività, ove si consideri che la figura del “gruppo” è il «riflesso istituzionale del pluralismo politico», presente all’interno degli organi elettivi[9], assegnando al capogruppo, anche di un gruppo misto unipersonale, un ruolo gravitante nell’ambito pubblicistico, strumento necessario per lo svolgimento delle funzioni proprie degli organi assembleari (con criterio di proporzionalità), contribuendo ad assicurare l’elaborazione di proposte e il confronto dialettico tra le diverse posizioni politiche e programmatiche (ex art. 97 Cost.), ovvero definendo nel dettaglio l’attività propriamente del consigliere nel partecipare - senza limiti - alla Conferenza dei capo gruppo (senza discriminazioni di sorta).

L’art. 38, del cit. d.lgs. n. 267/2000, assegna ai gruppi, e non al singolo consigliere, una serie di prerogative e risorse, con la conseguenza che il Consiglio comunale - nella sua ampia autonomia – non può anteporre interpretazioni contra ius, ledendo un diritto proprio (ius suum unicuique tribuit) del consigliere comunale: confinando il singolo nella veste di “auditore, regimenterebbe il dissensus, trasformando un istituto di democrazia partecipata (l’eletto che rappresenta il “popolo sovrano”) in un muto spettatore, alimentando, ancor più, quella distanza che affiora armoniosamente in ogni elezione con l’astensione.

Considerazioni mancate

La vicenda offre uno spunto di vivente e vivida attualità, quando le norme giuridiche vengono calpestate in nome di un interesse superiore (quello della maggioranza in danno dell’opposizione), (altro) ieri la salute pubblica e (dopo) la pace, finanziando (con la ripresa e la resilienza) la produzione di armi (pallottole), domani la sicurezza (quella dei dati personali è già persa) di isolati perimetri comunitari quando altri (i salotti culturali oltreoceano) continuano ad inquinare e deforestare sistematicamente (in nome dell’economia green), sebbene il sistema ordinamentale (quello vigente, della “bellissima” Costituzione)[10] è stato forgiato dai “Padri” della Patria con il fine ultimo di tutelare i diritti della persona.

Tutelare i diritti primari proprio a fronte di coloro che quei diritti, in nome di un “interesse superiore” (“ragion di stato”, già presente prima nel GUICCIARDINI, poi canonizzata dal MACCHIAVELLI), mediano, interpretano, sentenziano ed eseguono la pena (assistendo muti auditori degli eventi).

La dottrina pura del diritto, l’imperativo categorico, e altro ancora (l’“ignoto irriducibile”)[11], posti a fondamento o base etica per assicurare la democrazia nei momenti gravi, la scrittura di testi normativi a protezione delle minoranze, non sono serviti nel momento del bisogno, quando l’equilibrio e il bilanciamento esigeva (ed esige) prudenza, equità, precauzione (umanità): il confinamento, senza considerare le imposizioni e gli obblighi privi di riscontri nei fatti e nella scienza (nel limitare il profilare del contagio), l’isolamento subito in violazione delle regole poste a garanzia delle libertà naturali e costituzionali (i c.d. diritti inviolabili) sono state la prova della fragilità del sistema ordinamentale e l’avviarsi di un nuovo umanesimo: la perdita dei diritti acquisiti e la loro legittimazione nel tessuto economico – sociale - digitale.

Sarebbe il momento di disvelare la strisciante ipocrisia e i suoi danni, «sacrificando l’orrore dei mali di un uomo solo sospetto reo in vista del ben generale della intera società… Anche i giudici che condannavano ai roghi le streghe e i maghi nel secolo passato credevano di purgare la terra da più fieri nemici, eppure immolavano delle vittime al fanatismo e alla pazzia»[12], donde l’appendice al romanzo storico[13].

Giova presidiare (più di prima) i diritti del consigliere comunale ad esercitare in piena libertà il proprio munus pubblico, non tollerando quelle limitazioni, seppure minime e a volte sfumate da fallaci interpretazioni (riduttive non indipendenti, nel pensiero di ROSMINI; illiberali, secondo la visione del giovane GOBETTI)[14], incidono sicuramente nel togliere, se non veri e propri diritti (la disputa, nella sostanza, sembrerebbe di poco conto), comunque aggiungendosi a diffondere quell’accettazione alla sfiducia (delle “future generazioni”, pure inserite recentemente in Costituzione)[15].



[1] L’efficacia «delle norme regolamentari è ampia, nel senso che i regolamenti sono la necessaria base di tutta l’attività amministrativa locale. Essi hanno quindi un’efficacia – anche propulsiva – verso tutti gli atti, ed anche verso i procedimenti amministrativi», ITALIA – CAMARDA, Il nuovo testo unico degli enti locali, Milano, 2011, pag. 45.

[2] BERTI, Caratteri dell’amministrazione comunale e provinciale, Padova, 1969, pag. 161.

[4] TAR Campania, Napoli, sez. II, 31 ottobre 2022, n. 6699, idem Cons. Stato, sez. V, 29 luglio 2022, n. 6699.

[5] TAR Veneto, sez. I, 14 gennaio 2021, n. 52, idem Cons. Stato, sez. VI, 2 dicembre 2019, n. 8214; TAR Calabria, Catanzaro, sez. II, 23 luglio 2020, n. 1361; TAR Sardegna, sez. II, 4 maggio 2020, n. 260.

[6] Cons. Stato, sez. IV, 13 aprile 2021, n. 3034, ove si evidenzia che il giudizio amministrativo non è volto a risolvere controversie tra organi dello stesso ente o a maggior ragione fra un componente dell’organo nei confronti di altro organo del medesimo ente, ma a risolvere conflitti intersoggettivi: conseguentemente il consigliere dell’Ente locale, in linea generale, non è legittimato ad impugnare le deliberazioni collegiali in ragione della sola qualità di componente che non abbia condiviso le determinazioni della maggioranza, ma è legittimato, al pari di tutti gli altri soggetti dell'ordinamento, ad impugnare le deliberazioni emanate dal Consiglio solo quando esse ledano un suo interesse personale diretto, sicché il consigliere dell’ente locale non può impugnare le deliberazioni con le quali è semplicemente in disaccordo, perché ciò significherebbe trasporre e continuare nelle sedi di giustizia la competizione che lo ha visto in minoranza, gravando le sedi medesime di decisioni che competono all’organo collegiale elettivo. Si rinvia, Legittimazione dei consiglieri comunali a tutela dei propri diritti, mauriziolucca.com, 26 agosto 2019.

[7] Cfr. MI, Territorio e autonomie locali. 29 Maggio 2023. Categoria 05.02.05 Consiglieri: prerogative e compiti, ove si chiarisce che «non sussiste un diritto dei consiglieri comunali a partecipare alle Conferenze dei Servizi ex art.14 e seguenti della L. 241/1990, in quanto prevista esclusivamente nei confronti dei soggetti direttamente interessati al provvedimento da emanare», rilevando che se una parte, il consigliere oltre ad esercitare, nell’ambito consiliare, le competenze previste dall’articolo 42 del d.lgs. n. 267/2000, con la possibilità di esprimersi in seno al consiglio comunale in merito allo strumento di pianificazione urbanistica, hanno facoltà di promuovere atti di sindacato ispettivo, come previsti dall’articolo 43, commi 2 e 3, del medesimo d.lgs. n. 267/2000, dall’altra parte, secondo quanto definito dal TAR Lazio con sentenza n. 9324 del 7 luglio 2022, richiamando il precedente del Cons. Stato, sez. II, 8 luglio 2019, n. 4734, precisa che «la partecipazione al procedimento e alla conferenza di servizi per il rilascio dell’autorizzazione unica è prevista esclusivamente nei confronti dei soggetti direttamente interessati al provvedimento da emanare; gli altri soggetti istituzionali o meno, che non hanno un interesse diretto nel procedimento in corso, possono essere facoltativamente invitati, senza che gli stessi possano incidere sulle decisioni da trattare», non escludendo, in ogni caso, un loro intervento, anche se non di merito procedimentale, potendo esercitare i loro diritti con altri strumenti assegnati dall’ordinamento.

[8] TAR Veneto, sez. I, 8 agosto 2022, n. 1273, per un commento, si rinvia, LUCCA, L’illegittima preclusione del consigliere comunale di accedere al gruppo misto, ildirittoamministrativo.it, 15 novembre 2022.

[9] Corte Cost., sentenza n. 49 del 1998.

[10] Vedi, puntualmente, SALAMONE, Le “Virtù e la Legge” un mito sempre attuale: il diritto alla “bellezza” nella Costituzione, giustizia-amministrativa.it, 2023, la limpida analisi del testo costituzionale comprende una costatazione dove «la persona, quale soggetto di diritti, e` un prius rispetto all’ordinamento: e` in virtù` dell’esistenza della persona che l’ordinamento giuridico ha ragione di esistere come suo complesso di regole e istituzioni. Infatti, rispetto alla norma, l’essere umano ed i suoi valori si pongono sempre necessariamente come un prius e non già` un posterius».

[11] Cfr., compiutamente, FOÀ, Il nuovo diritto della scienza incerta: dall’ignoto irriducibile come noumeno al mutamento di paradigma, Diritto amministrativo, Fasc. 3, 2022, pag. 821, ove si annota che «rassegnarsi allignoto irriducibile, connaturato alla ricerca scientifica e a ogni sua manifestazione, può, infatti, consentire al legislatore e alla pubblica amministrazione di sterilizzare la riserva di scienza, ammantando la scelta politica di valore scientifico, solo perché è stata considerata (ma non “ridotta”) lincertezza scientifica».

[12] VERRI, Osservazioni sulla tortura, 1776.

[13] MANZONI, Storia della Colonna Infame, che doveva essere un capitolo del Fermo e Lucia, ripercorrendo gli eventi, «l’ignoranza in fisica può produrre degl’inconvenienti, ma non delle iniquità; e una cattiva istituzione non s’applica da sé».

[14] Il riferimento è la scelta tra uguaglianza e libertà, tra industria e sognare una rivoluzione fanatica, dove «la storia recente ha dimostrato in modo indiscusso la superiorità degli incompetenti sui competenti», GOBETTI, I Repubblicani, in La Rivoluzione Liberale. Saggio sulla lotta politica in Italia, 1924.

[15] Vedi, significativamente, PORENA, «Anche nell’interesse delle generazioni future». Il problema dei rapporti intergenerazionali all’indomani della revisione dell’art. 9 della costituzione, fedaralismi.it, 1° giugno 2022.

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