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Affidamenti in house: Corte di Giustizia e Consiglio di Stato: convergenze parallele. Extraterritorialità, regime transitorio e concorrenza delle società miste secondo la più recente teorica del giudice amministrativo e del legislatore italiano.
di Gerardo Guzzo 2 agosto 2006
Materia: servizi pubblici / affidamento e modalità di gestione

AFFIDAMENTI IN HOUSE: CORTE DI GIUSTIZIA E CONSIGLIO DI STATO: CONVERGENZE PARALLELE.

EXTRATERRITORIALITA’, REGIME TRANSITORIO E CONCORRENZA DELLE SOCIETA’ MISTE SECONDO LA PIU’ RECENTE TEORICA DEL GIUDICE AMMINISTRATIVO E DEL LEGISLATORE ITALIANO.

 

 

Sommario: 1. Introduzione; 2. La sentenza del 6 aprile 2006: C- 410/04; 3. La sentenza della Corte di Giustizia dell’11 maggio 2006: C –340/04; 4. La sentenza del Consiglio di Stato n. 4440/06; 5. La sentenza del T.a.r. Puglia – Lecce n. 3533 del 23 giugno 2006; 6. La sentenza del T.a.r. Piemonte – Torino n. 2304 del 12 giugno 2006; 7. Il d.l. n. 223 del 4 luglio 2006 e il d.d.l. di delega n. S – 772 del 30 giugno 2006; 8. Considerazioni finali.

 

1. Introduzione.

L’odierno lavoro si propone di sviluppare il tema degli affidamenti in house partendo dall’esame delle due ultime pronunce della Corte di giustizia in quanto particolarmente importanti in chiave di definizione dei limiti esistenti a carico della p.a. in ordine all’affidamento diretto dei servizi pubblici locali aventi rilevanza economica. Di seguito verrà esaminata la sentenza del Consiglio di Stato n. 4440 del 13 luglio 2006 che ha recepito la nozione di “controllo analogo” per come emersa dall’intensa opera di chiarificazione svolta nel tempo dai giudici comunitari. Successivamente si affronteranno due spinosi argomenti oggetto, recentemente, di esame da parte dei giudici amministrativi nazionali: l’extraterritorialità delle società miste affidatarie della gestione di servizi pubblici locali e i principi regolatori il regime transitorio applicato all’affidamento dei servizi di distribuzione del gas metano.

Si tratta di due aspetti vivacemente dibattuti nell’ottica della più generale trattazione dell’affidamento dei servizi pubblici locali, soprattutto alla luce dei frequenti interventi “additivi” della Corte di giustizia del Lussemburgo che, com’è noto, negli ultimi diciotto mesi hanno condizionato, in modo quasi frenetico, la più attuale giurisprudenza interna. Proprio la traiettoria seguita dai magistrati europei, impegnati sempre più nel perpetuo moto di definizione del perimetro di concetti astratti quali quello del “controllo analogo” e “della parte più importante della propria attività”, codificati al tempo della nota sentenza “Teckal”, costituirà la direttrice lungo cui si muoverà l’analisi del percorso seguito dai giudici amministrativi nazionali a cominciare appunto dall’analisi della recentissima sentenza del Consiglio di Stato n. 4440 del 13 luglio 2006.

In questa ottica, la sentenza del T.a.r. Lecce, subito di seguito commentata, assume grande rilievo proprio perché segue, da vicino, l’ultima sortita dei giudici comunitari in materia di in house providing, risalente alla decisione dell’11 maggio 2006, C-340/04, con la quale i magistrati lussemburghesi, mediante un obiter dictum, hanno affrontato la specifica questione della possibilità per le società considerate in house providers di garantire, extra moenia, il servizio di cui risultano affidatarie.

In questa sede, inoltre, si intende approfondire il percorso logico argomentativo seguito di giudici piemontesi del T.a.r. Torino che, a loro volta, trovandosi ad affrontare una controversia legata all’interpretazione della griglia normativa dettata in materia di affidamento del servizio di distribuzione del gas metano, hanno fornito un’utile ricostruzione dei principi codificati in tema di regime transitorio.

Si tratta di un arresto significativo, dal momento che consente di integrare i principi fissati dalla Corte Costituzionale con la nota sentenza n. 29 dell’1 febbraio 2006 che ha stabilito l’illegittimità costituzionale della legge della Regione Abruzzo n. 23 del 5 agosto 2004 nella parte in cui questa vietava alle società già affidatarie in house di un servizio pubblico locale, a rilevanza economica, di partecipare alle gare indette prima dell’1 gennaio 2007, violando quanto previsto dall’art. 113, comma 15 - quater, del d.lgs. n. 267/00 e s. m. e i..

Il profilo esaminato, peraltro, è stato indirettamente oggetto di un recente intervento da parte del legislatore nazionale. Infatti, l’art. 15 del d.l. n. 223 del 4 luglio 2006 ha prorogato i termini di cui all’art. 113, commi 15 – bis e ter al 31dicembre 2007, salvo ulteriore proroga da concordarsi con la Commissione europea, qualora ricorrano le condizioni indicate nelle lettere a) e b) del citato comma 15 – ter. Ma vi è di più. Lo stesso legislatore, lo scorso 30 giugno 2006, ha licenziato un d.d.l. di delega, identificato con la sigla S –772, in tema di riordino della disciplina degli affidamenti dei servizi pubblici locali, introducendo significativi elementi di novità, in qualche modo, configgenti proprio con quanto disposto nell’art. 13 del citato d.l. n. 223/06, come meglio si spiegherà in seguito.

In conclusione, si ritiene che le due sentenze del T.a.r. in commento, in uno alle sentenze del Consiglio di Stato e della Corte Costituzionale e agli interventi normativi evidenziati, dimostrano l’attuale difficoltà sia della giurisprudenza – amministrativa e costituzionale- che della legislazione italiana a recepire le spinte più liberiste provenienti, in modo centrifugo, dai giudici comunitari e nazionali in tema di affidamenti in house, finendo per creare un clima di sostanziale incertezza del diritto e di scetticismo in tutti quegli operatori privati interessati a creare sinergie con i soggetti pubblici.

 

2. La sentenza della Corte di Giustizia del 6 aprile 2006: C-410/04

Lo scorso 6 aprile 2006 i giudici comunitari sono ritornati sul tema dell’affidamento diretto dei servizi pubblici locali. L’occasione è stata fornita dall’esame di una controversia sottoposta al loro vaglio dal TAR Puglia, sezione di Bari, ed ha investito il caso di un affidamento, senza gara, compiuto dal Comune di Bari del servizio di trasporto pubblico - da garantirsi all’interno del territorio comunale - ad una S.p.a. controllata interamente dall’ente locale affidante. L’affidamento del servizio era avvenuto in base al disposto dell’art. 113, comma 5, lett. c), del d.lgs. n. 267/00, come da ultimo novellato dall’art. 14 del d.l. n. 269/03, convertito nella legge n. 326/03 (1). Come è noto, tale norma riconosce agli enti locali la possibilità di affidare la gestione di servizi pubblici senza alcun filtro di evidenza pubblica a dei moduli societari che siano a capitale interamente pubblico, a patto che ricorrano le due condizioni fissate dalla sentenza Teckal: a) che l’ente titolare del servizio eserciti sul soggetto affidatario un controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi; b) che la società affidataria realizzi con l’ente che la controlla la parte più importante della sua attività. La Corte europea è stata chiamata a pronunciarsi in merito alla compatibilità del riformato art. 113, comma 5, lett. c) del d.lgs. n. 267/00 e s.m.e i., con il diritto comunitario, oltre che con gli obblighi di trasparenza e di libera concorrenza, in particolare, con gli articoli 43, 49 e 86 del Trattato Ce. Il percorso logico argomentativo svolto dai magistrati del Lussemburgo muove dalla considerazione che le concessioni di servizi pubblici sono escluse dal range applicativo della Direttiva n. 92/50, recepita dalla Direttiva 2004/18/Ce che, all’art. 17, ne ripropone il portato. Questo, ad avviso della Corte, non significa che le pubbliche amministrazioni che vogliano affidare i servizi pubblici mediante lo strumento della concessione non debbano osservare le regole fondamentali contenute nel Trattato Ce, a cominciare da quelle che fissano il divieto di discriminazione, sulla base della nazionalità, e della parità di trattamento, da riservare a tutti gli offerenti. Proprio l’osservanza dei citati principi impone alla p.a. un preciso obbligo di trasparenza che, per dirla con le parole impiegate dai giudici comunitari, “(…) consiste nel dovere di garantire, a ogni potenziale offerente, un adeguato livello di pubblicità, che consenta l’apertura della concessione di servizi alla concorrenza, nonché il controllo sull’imparzialità delle procedure di aggiudicazione”. In linea generale, secondo l’Organo di giustizia europea, l’assenza di un confronto competitivo in tema di concessione di servizi pubblici violerebbe i principi comunitari di parità di trattamento, di non discriminazione e, infine, anche di libera concorrenza, dal momento che l’art. 86, comma 1 del Trattato Ce, vieta agli Stati membri di “ (…) mantenere in vigore una normativa nazionale che consenta l’affidamento di concessioni di servizi pubblici senza procedura concorrenziale”. Tuttavia, la Corte, coerentemente con la propria elaborazione giurisprudenziale, rileva come nel settore delle concessioni di servizi pubblici sia possibile che, ricorrendo determinate condizioni, non trovino applicazione gli articoli 12, 43, 49 del Trattato Ce, con tutti i principi che da essi discendono (trasparenza, imparzialità, etc.). I giudici comunitari, dunque, operano un chiaro richiamo ai concetti di “controllo analogo” e di “parte più importante della propria attività” svolta dal soggetto affidatario, concetti già coniati all’epoca della sentenza “Teckal” per giustificare l’astratta compatibilità con il dettato comunitario di una norma di uno Stato membro che non preveda alcuna procedura selettiva per l’affidamento di un servizio pubblico .(2) La Corte, poi, in linea con quanto già stabilito nelle sentenze “Stadt Halle” e “Parking Brixen”, afferma che le due condizioni del “controllo analogo” e della “parte più importante della propria attività” devono essere interpretate in modo restrittivo, mentre “l’onere di dimostrare l’effettiva sussistenza delle circostanze eccezionali che giustificano la deroga a quelle regole grava su colui che intenda avvalersene”. In sostanza, i giudici non sembrano discostarsi dal solco della propria giurisprudenza, tuttavia, nel decisum in commento non viene compiuto alcun richiamo alla necessità di un sindacato concreto sui poteri gestionali del Consiglio di Amministrazione della società affidataria, sull’oggetto sociale e, più in generale, su tutto quanto previsto dallo statuto, al fine di inferire la effettività del cosiddetto “controllo analogo” a quello esercitato sui propri servizi, così come era accaduto in occasione della sentenza “Parking Brixen”.

 

3. La sentenza dell’11 maggio 2006: C- n. 340/04.

L’ultimo intervento in ordine di tempo della Corte di Giustizia in materia di affidamento in house risale alla sentenza dell’11 maggio 2006, conclusiva del procedimento C- 340/04. In quella occasione i giudici comunitari hanno avuto modo di affrontare una controversia riguardante la fornitura di combustibili e la manutenzione degli impianti termici a favore del Comune di Busto Arsizio (MI) disciplinata attraverso la stipula di contratti, qualificati come appalti di fornitura, aggiudicati, senza gara, alla società Agesp S.p.a. in ragione del controllo esercitato sul soggetto affidatario dal Comune mediante l’Agesp holding S.p.a, società a capitale interamente pubblico. Più nel dettaglio, mentre la Agesp holding S.pa. era interamente controllata dal Comune di Busto Arsizio, la Agesp S.p.a., affidataria del servizio, veniva controllata dalla Agesp holding S.p.a. nella misura del 99,98%. Proprio in virtù di questo controllo mediato, il Comune di Busto Arsizio riteneva che l’Agesp S.p.a. non costituisse una persona giuridica diversa dall’ente affidante e che, pertanto, non esistesse un vero e proprio contratto a titolo oneroso tra la p.a. aggiudicatrice ed il soggetto affidatario, versandosi, al contrario, in una ipotesi di affidamento in house, secondo quanto stabilito dalla Corte di Giustizia con la sentenza “Teckal”. I Giudici comunitari, dunque, sono stati chiamati a definire, ancora una volta, il perimetro del concetto di “controllo analogo” e di “svolgimento della parte più importante dell’attività a favore dell’ente locale”, trattandosi dei due invariabili requisiti richiesti perché si possa procedere all’affidamento diretto di un servizio. Quanto al “controllo analogo”, la Corte, riprendendo il ragionamento svolto nella sentenza “Parking Brixen”, improntato sull’effettività e concretezza del sindacato, riconduce la nozione di “controllo” nell’alveo dell’esercizio da parte dell’ente affidante di un’influenza determinante sia sugli obiettivi strategici che sulle decisioni importanti delle società partecipate, avendo cura di precisare che la detenzione in mano pubblica dell’intero capitale sociale dell’affidataria non è elemento sufficiente e decisivo ai fini della sussistenza del requisito in parola. Ancora. Ripercorrendo lo snodo argomentativo svolto nella sentenza “Parking Brixen”, i giudici europei escludono nel caso sottoposto al loro vaglio la sussistenza del “controllo analogo” in ragione oltre che dell’ampiezza dei poteri attribuiti al Consiglio di Amministrazione della società anche dell’assenza di specifiche riserve a favore del Comune. In sostanza, il controllo dell’ente pubblico, proprio perché circoscritto all’esercizio dei semplici poteri riconosciuti dal diritto societario ai soci di maggioranza, senza alcuna previsione aggiuntiva a beneficio della p.a., non garantisce al soggetto affidante alcuna significativa influenza sugli obiettivi strategici e sulle decisioni importanti dell’affidataria, anche in ragione di una vigilanza esercitata su quest’ultima mediante una holding pubblica. Quanto alla definizione dell’altro requisito richiesto dalla giurisprudenza comunitaria perché sia possibile l’affidamento diretto del servizio, vale a dire “lo svolgimento della parte più importante dell’attività a favore dell’ente controllante”, il ragionamento compiuto dalla Corte muove dall’esigenza di tutelare il libero gioco della concorrenza. Il naturale corollario che discende da tale presupposto è che i principi comunitari non trovino applicazione nei soli casi in cui l’impresa non sia attiva nel mercato, dunque, in concorrenza con altri soggetti economici, e che le sue prestazioni siano rivolte in via esclusiva all’ente partecipante. Dal che ne discende che ogni altra diversa attività da quella principale, svolta dalla affidataria, deve essere considerata assolutamente marginale. A tal proposito, la Corte di Giustizia evidenzia come il vincolo funzionale che lega l’affidataria all’amministrazione aggiudicatrice, in un certo senso, imponga all’impresa di svolgere la propria attività all’interno del territorio del soggetto pubblico, pur non considerando l’extra territorialità elemento decisivo ai fini della verifica della sussistenza del “controllo analogo”. Al contrario, osserva la Corte, appare decisiva la circostanza che l’affidataria realizzi il proprio fatturato direttamente nei confronti dell’ente pubblico, condizione, questa, che ricorre anche nel caso in cui l’attività svolta dall’impresa a favore della amministrazione aggiudicatrice sia fatturata agli utenti in ragione di una specifica decisione assunta dall’ente locale controllante. Interessante, poi, è il successivo sviluppo logico argomentativo compiuto dai giudici di Lussemburgo riguardante l’ipotesi di affidamento congiunto del servizio da parte di più comuni. In questi casi, i magistrati ritengono che la parte più importante dell’attività svolta dall’affidatario debba essere valutata con riferimento a tutti gli enti complessivamente considerati e non a questo, piuttosto che quell’altro, soggetto pubblico. Infine, i giudici comunitari sollevano la questione in merito all’applicazione dei principi codificati con la sentenza “Teckal” agli appalti di servizi. La Corte rileva che se l’applicazione dei citati principi in materia di appalti di forniture trova una sua evidente giustificazione nella circostanza che la Direttiva 93/36 non contiene alcuna disposizione che “escluda dal suo ambito di applicazione appalti pubblici aggiudicati, a talune condizioni, ad amministrazioni aggiudicatici”, il discorso con riferimento alla Direttiva n. 92/50, dettata in materia di appalti di servizi, può essere risolto indipendentemente dall’applicazione dei principi codificati dalla Corte europea, dal momento che l’art. 6 della citata direttiva contiene una disciplina derogatoria meno stringente rispetto ai requisiti fissati dalla giurisprudenza “Teckal” (3), con questo mettendo in discussione la stessa indispensabilità ed utilità della codificazione giurisprudenziale.

 

4. La sentenza del Consiglio di Stato, V Sezione, n. 4440 del 13 luglio 2006.

La decisione del massimo Organo di giustizia amministrativa in commento costituisce il primo importante precedente giurisprudenziale del Consiglio di Stato dopo la rivoluzionaria “stagione additiva” della Corte di Giustizia in tema di in house providing. I giudici di Palazzo Spada, con l’arresto in parola, sono stati chiamati a valutare la legittimità dell’affidamento del servizio di gestione di alcuni parcheggi a pagamento disposto dal Comune di Bolzano a favore della SEAB S.p.a., società a capitale interamente pubblico. In particolare, l’appellante deduceva che l’affidamento diretto del servizio, non preceduto da alcuna procedura di evidenza pubblica, si poneva in contrasto con gli articoli 12, 45, 46, 49 e 86 del trattato dell’Ue, in quanto costituiva violazione dei principi di non discriminazione, di libera prestazione dei servizi pubblici e di libera concorrenza.

La Sezione autonoma del Tribunale amministrativo di Bolzano, in primo grado, con la sentenza del 20 maggio 2003, n. 211, aveva rigettato il ricorso facendo propri i principi codificati dalla Corte di Giustizia del Lussemburgo a partire dalla nota sentenza “Teckal” del 18 novembre 1999, in quanto il possesso della totalità del capitale sociale da parte dell’amministrazione aggiudicatrice sarebbe stata condizione sufficiente a consentire a quest’ultima di esercitare sul soggetto affidatario un “controllo analogo” a quello esercitato sui propri servizi. Il Consiglio di Stato, invece, accogliendo l’appello, ha riformato la decisione del Tribunale amministrativo della Provincia autonoma di Bolzano, dopo aver posto alla Corte di Giustizia dell’Ue un quesito pregiudiziale in ordine alla compatibilità dell’art. 44 della legge della Regione Trentino Alto -Adige n. 1, del 4 gennaio 1993 - nel testo sostituito dall’art. 10, comma 1, della legge regionale n. 10 del 23 ottobre 1998 – con i principi fissati dal Trattato dell’Unione europea di divieto di discriminazione, di libera prestazione dei servizi pubblici locali e di libera concorrenza. Nello specifico, la Corte di Giustizia, lasciando intendere che la questione sottoposta al Suo esame era già stata risolta mediante la famosa sentenza del 13 ottobre 2005, cosiddetta “Parking Brixen”, ha finito quasi per rimproverare l’Organo a quo, evidenziando l’inutilità di una propria pronuncia. I magistrati di Palazzo Spada, dopo aver ripercorso l’asimmetrico viatico giurisprudenziale seguito dai giudici lussemburghesi, a cominciare dalla sentenza dell’11 gennaio 2005, meglio conosciuta come “Stadt Halle” - a tenore della quale la presenza di capitale privato in un modulo societario misto, anche se minoritaria, sarebbe stata in grado di sviare l’agere dell’affidataria dai tradizionali fini pubblicistici - hanno concluso che anche un soggetto economico a capitale interamente pubblico, resosi direttamente affidatario di un servizio pubblico locale, potrebbe dare corpo ad un assetto societario non idoneo a garantire all’amministrazione aggiudicatrice la possibilità di esercitare un “controllo analogo” a quello esercitato sui propri servizi, secondo quanto ritenuto dai giudici della Corte di Giustizia con l’arresto del 13 ottobre 2005 (caso “Parking Brixen”). Nel dettaglio, il Consiglio di Stato ha rinvenuto i germi della contaminazione della libera concorrenza nella circostanza che lo statuto della SEAB S.p.a. prevedeva la possibilità che una quota del capitale sociale, anche minoritaria, potesse essere ceduta a terzi (soggetti pubblici o privati). A questo si aggiunga che, sempre secondo i giudici del supremo Consesso amministrativo, i poteri attribuiti dal diritto societario alla maggioranza dei soci non sarebbero stati sufficienti a garantire all’ente un “controllo analogo” a quello esercitato sui propri servizi, con la conseguenza che, ricorrendo entrambe le condizioni descritte nel caso esaminato, occorreva che l’affidamento della gestione del servizio fosse stata preceduta dallo svolgimento di una procedura di evidenza pubblica (4). Se la trama argomentativa sviluppata può considerarsi in linea con quanto affermato in sede di elaborazione giurisprudenziale comunitaria, tuttavia, non convince il successivo snodo logico giuridico seguito dai supremi giudici amministrativi. Infatti, i magistrati di seconde cure, richiamando le sentenze della Corte Costituzionale n. 113 del 1985 e n. 389 del 1989, a tenore delle quali le pronunce della Corte di Giustizia “hanno efficacia diretta nell’ordinamento degli Stati membri, al pari dei regolamenti e delle direttive e delle decisioni della Commissione”, hanno ipotizzato la disapplicazione delle norme interne con esse confliggenti. L’assunto, seppur condivisibile in linea di principio, è stato, in realtà, impiantato in una fattispecie certamente non sovrapponibile a quelle che hanno dato luogo agli interventi della Consulta richiamati nella sentenza del Consiglio di Stato. Infatti, i Giudici costituzionali in entrambe le occasioni attribuirono alle pronunce chiarificatrici e integratrici della Corte di giustizia la stessa portata cogente delle direttive, delle decisioni e dei regolamenti comunitari, purché riferite a specifiche disposizioni del Trattato Ce. Nello specifico, invece, i magistrati di Palazzo Spada hanno disapplicato una norma interna e, per l’effetto, annullato il deliberato comunale di affidamento diretto del servizio di gestione del parcheggio senza indicare nel dispositivo quale precetto comunitario fosse stato violato dalla norma incriminata (art. 44 comma 6, lett. b) della legge della Regione Trentino Alto – Adige, n. 1 del 4 gennaio 1993, come modificato dall’art. 10, comma 1, della l.r. n. 10 del 23 ottobre 1999). La disposizione di legge nazionale è stata disapplicata non per violazione del precetto contenuto in una norma comunitaria, per come interpretato dalla Corte di Giustizia, quanto, piuttosto, per incompatibilità della disposizione interna con la recente elaborazione giurisprudenziale europea formatasi in tema di “controllo analogo”. Forse, del tutto inconsciamente i supremi giudici hanno inteso conformarsi a quanto Essi stessi hanno avuto modo di chiarire in sede di stesura della sentenza, dal momento che ai medesimi non è sfuggito affatto che all’epoca della deliberazione, oggetto di gravame in primo grado, trovavano ancora applicazione i principi codificati dalla nota sentenza “Teckal”. In sostanza, in quella occasione la Corte di Giustizia del Lussemburgo escluse la necessità di una procedura di evidenza pubblica nell’ipotesi in cui la società affidataria fosse costituita con capitale interamente pubblico, ritenendosi tale circostanza elemento sufficiente a consentire all’amministrazione aggiudicatrice l’esercizio di un controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi. Proprio tale elemento consente di affermare, oggi, che il ragionamento svolto dai giudici amministrativi appare decisamente fuorviante e contraddittorio, giacché la legittimità del deliberato comunale, annullato con la decisione in commento, troverebbe il suo riconoscimento proprio nella giurisprudenza operante al momento dell’affidamento che, come ha riconosciuto lo stesso Consiglio di Stato, all’epoca poteva avvenire direttamente. Diversamente opinando, infatti, si assisterebbe alla violazione del generale principio del tempus regit actum che tollera, quale unica eccezione, l’ipotesi in cui la norma che detta criteri determinativi della giurisdizione venga successivamente dichiarata illegittima (5), ovvero, venga disapplicata. Il principio “sinistro” stabilito dal Consiglio di Stato, pertanto, sembra deludere e eludere apertamente l’avvertita esigenza di certezza del diritto e la stessa effettività della tutela da riconoscere sempre e comunque a tutti i soggetti incisi (pubblici o privati che siano). Si tratta di garanzie, poi, particolarmente sentite in un settore estremamente “turbolento” quale quello degli affidamenti in house, soprattutto alla luce delle recenti sortite dei giudici europei che sembrano, paradossalmente, disconoscere proprio quelle fondamentali guarentigie, scolpite tre le pieghe dello stesso diritto comunitario, di cui si sono fatti paladini.

 

5. La sentenza del T.a.r. Puglia – Lecce – n. 3533 del 23 giugno 2006.

L’arresto, precedente alla pronuncia del Consiglio di Stato sopra commentata, si apprezza in quanto sembra prendere le distanze da certa recente giurisprudenza della Corte di Giustizia e, dunque, a posteriori, dalla stessa posizione successivamente assunta dai giudici di Palazzo Spada.

In particolare, i giudici pugliesi, pur riconoscendo l’astratta possibilità per una società mista pubblico – privata “ (…) di utilizzare la sua capacità imprenditoriale svolgendo la propria attività in ambito extraterritoriale (anche partecipando a gare pubbliche extra – moenia)”, finiscono per vincolare tale opzione “ (…) al migliore perseguimento dell’interesse della collettività locale di riferimento”, senza che ciò costituisca un “(…) ingiustificato aumento dei costi per la comunità stessa”.

Il principio scolpito dalla sezione si discosta da quanto affermato dai giudici europei non solo nella sentenza dell’11 maggio 2006, C-340/04, ma anche da quanto i medesimi magistrati comunitari hanno avuto modo di precisare nelle note sentenze “Stadt Halle”, dell’11 gennaio 2005, “Modling”, del 10 novembre 2005 e, nell’ultima dell’11 maggio 2006, meglio conosciuta come “Agesp” (6), analizzata nel corso del presente lavoro.

Infatti, proprio con il decisum dello scorso maggio, la Corte chiarì che il vincolo funzionale che lega l’affidataria alla p.a. aggiudicatrice, in qualche modo, obbliga la prima a svolgere la propria attività essenzialmente all’interno del territorio della seconda, pur non considerando l’extraterritorialità elemento decisivo ai fini della verifica della sussistenza del requisito del “controllo analogo” (7).

Il T.a.r. Lecce, invece, sembra ancorare la possibilità di svolgere l’attività d’impresa al di fuori dei confini territoriali dell’amministrazione aggiudicatrice non alla puntuale e concreta verifica che quest’ultima non si sia privata della chance di esercitare un controllo analogo a quello svolto sui propri servizi, ma all’inalterata capacità di perseguire “l’interesse della collettività locale di riferimento”; il che non necessariamente significa che l’amministrazione aggiudicatrice debba esercitare sull’affidataria un “controllo analogo” a quello esercitato sui propri servizi come richiesto dalla sentenza dell’11 maggio 2006 e, prima ancora, dalla storica sentenza “Teckal” del 1998.

Ma vi è di più. I giudici leccesi assumono decisamente una posizione più tollerante rispetto ai loro colleghi lussemburghesi anche in ordine ad un altro aspetto: l’affidamento in house a moduli societari misti.

Com’è noto, la Corte di Giustizia con la richiamata sentenza n. 2603/05 dell’11 gennaio 2005, meglio conosciuta come “Stadt Halle”, così come con la successiva decisione del 10 novembre 2005, cosiddetta “Modling”, aveva escluso categoricamente la possibilità di procedere a degli affidamenti diretti di servizi pubblici locali a rilevanza economica a beneficio di società miste a capitale pubblico – privato.

In entrambe le occasioni i giudici ritennero che la presenza di un apporto partecipativo privato inevitabilmente avrebbe introdotto all’interno del modulo societario dinamiche eminentemente imprenditoriali, poco compatibili con le finalità tipiche della pubblica amministrazione.

Pertanto, l’amministrazione aggiudicatrice non sarebbe stata in grado di esercitare alcun controllo assimilabile a quello esercitato sui propri servizi nei confronti di un soggetto in parte costituito con capitale privato.

Il concetto è stato portato alle estreme conseguenza dalla stessa Corte, proprio con la sentenza dell’11 maggio 2006, più volte richiamata, dal momento che con l’arresto in questione i giudici europei hanno escluso l’esercizio del controllo analogo da parte dell’ente affidante nei confronti della società affidataria (la Agesp S.p.a.) a capitale detenuto nella misura del 99,98 % dalla Agesp holding S.p.a. - a sua volta costituita con capitale integralmente di proprietà dell’amministrazione aggiudicatrice - mentre il rimanente 0,02% era detenuto da altre pubbliche amministrazioni.

All’epoca, i giudici comunitari ritennero che, nonostante la totale composizione del capitale sociale fosse riconducibile a soggetti pubblici, l’ampiezza dei poteri attribuiti al Consiglio di Amministrazione dell’affidataria escludeva la possibilità per l’affidante di esercitare un controllo analogo sovrapponibile a quello esercitato sui propri servizi; di qui la necessità dell’espletamento di una procedura di evidenza pubblica per la scelta del gestore del servizio (8).

Risulta di meridiana evidenza, dunque, come la sentenza del T.a.r. Lecce in parola prenda le distanze dalla più recente giurisprudenza comunitaria giacché non considera, aprioristicamente, l’apporto partecipativo privato come asservito a logiche che sviano dalle tradizionali finalità pubblicistiche ma, addirittura, riconosce la possibilità che il modulo societario misto, affidatario in house di un servizio pubblico locale, possa svolgere la propria attività anche extra – moenia, purché non venga compromesso l’ottimale perseguimento dell’interesse della collettività e l’affidamento non si traduca in un ingiustificato costo a carico della comunità locale.

Questa ricostruzione lascia inevitabilmente sullo sfondo il parametro del “controllo analogo” che appare assorbito e superato da quello più sostanziale del pieno soddisfacimento dell’interesse della collettività appartenente all’ente affidante.

 

6. La sentenza del T.a.r. Piemonte – Torino n. 2304 del 12 giugno 2006.

La decisione in commento si apprezza perché costituisce una sorta di completamento dei principi fissati dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 29 dell’1 febbraio 2006 in tema di regime transitorio applicato ai servizi pubblici locali (9).

Invero, la questione sottoposta all’esame della Consulta ha investito la tenuta dell’art. 7 comma 4, lett. b) della legge della Regione Abruzzo n. 23 del 5 agosto 2004 nella parte in cui essa vietava, prima dell’1 gennaio 2007, alle società a capitale interamente pubblico, già affidatarie di un servizio pubblico locale, di partecipare alle gare per l’aggiudicazione dello stesso, secondo quanto previsto dall’art. 113, comma 15 – quater del d.lgs. n. 267/00 e s.m. e i..

Attesa la portata generale, il caso esaminato dalla Consulta differisce dalla problematica scrutinata dal Tribunale piemontese che, invece, investe l’interpretazione di alcune norme di settore, quali l’art. 15, comma 7 del d.lgs. n. 164/00, come modificato dall’art. 1 comma 69, della legge n. 239/2004, a sua volta modificato dall’art. 23, comma 1 del d.l. n. 273/05, convertito nella legge n. 51 del 23 febbraio 2006; disposizioni, tutte, che riguardano il termine del periodo transitorio in materia di affidamento del servizio di erogazione del gas metano.

Dalla combinazione dei principi scolpiti nelle due sentenze si possono ricavare alcune importanti considerazioni: a) la fissazione di un regime transitorio risponde sempre all’esigenza di tutelare al meglio la concorrenzialità del mercato; dunque, la competenza a regolamentare lo specifico profilo spetta in via esclusiva allo Stato, secondo quanto previsto dall’art. 117, comma 2, lett. e) della Costituzione; b) il regime di proroga fissato dall’art. 15, comma 7, d.lgs. n. 164/2000 e s. m. e i., al pari di ogni altra ipotesi del genere, obbedisce all’esigenza di assicurare agli investimenti compiuti nelle gestioni più importanti un periodo di congruo esercizio, senza, con questo, pregiudicare la prevista liberalizzazione del settore.

Interessante osservare come la proroga della titolarità del servizio non costituisca una mera discrezionalità della pubblica amministrazione quanto, piuttosto, un atto a contenuto vincolato.

Infatti, secondo il T.a.r. Piemonte, sfugge al dominio della pubblica amministrazione ogni valutazione in termini di opportunità e di convenienza economica, in ragione del fatto che la scelta di accordare una proroga all’affidatario del servizio deve trovare la sua unica giustificazione nella esistenza di specifici presupposti fissati dalla relativa disciplina di settore.

In conclusione, secondo i giudici torinesi l’interesse pubblico ad un mero vantaggio economico derivante dal diniego della proroga della titolarità del servizio deve ritenersi recessivo rispetto alla tutelata aspettativa dell’affidatario ad ottenere la proroga del servizio stesso.

In questo modo i giudici torinesi hanno mostrato di saper coniugare le ineludibili finalità pubbliche, che sempre devono innervare e orientare l’azione amministrativa, con le parimenti rilevanti ragioni private, soprattutto quando esse sono al servizio della collettività.

 

7. Il d.l. n. 223 del 4 luglio 2006 e il d.d.l. di delega n. S -772 del 30 giugno 2006.

I principi fissati dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 29 dell’1 febbraio 2006 in tema di termine del regime transitorio sono stati, indirettamente, oggetto di “rivisitazione” da parte del Governo attraverso due recenti provvedimenti legislativi.

Infatti, con il d.l. del 4 luglio scorso, n. 223/06, l’Esecutivo ha avuto modo di stabilire, con una norma piuttosto contraddittoria, rubricata “Disposizione sulla gestione del servizio idrico integrato”, che i termini di cui all’art. 113, commi 15 – bis e ter - relativi a società affidatarie di servizi pubblici locali a rilevanza economica, selezionate mediante concessioni rilasciate con procedure diverse dall’evidenza pubblica (10)- sono prorogati di un anno, cioè, al 31 dicembre 2007.

Questo significa che il termine del 31 dicembre 2007 potrà essere ulteriormente differito ove verrà raggiunto un accordo con la Commissione europea, secondo quanto previsto proprio dall’art. 113, comma 15 – ter (11) del d.lgs. n. 267/00 e s. m. e i.. Ma vi è di più. Lo stesso d.l., all’art. 13 (12), rubricato “Norme per la riduzione dei costi degli apparati pubblici regionali e locali e a tutela della concorrenza”, ha disposto l’assoluto divieto per le società a capitale interamente pubblico o misto, costituite da amministrazioni regionali e locali per la produzione di beni e servizi nell’interesse degli enti che vi hanno dato vita, di svolgere prestazioni a favore di altri soggetti pubblici o privati. Si tratta di un divieto che trovando applicazione anche nei confronti di quei soggetti economici che sono stati selezionati mediante l’espletamento di una procedura di evidenza pubblica ha, dunque, una portata generale.

Tale norma appare fortemente restrittiva della libertà di iniziativa economica privata, soprattutto perché essa viene a regolamentare una ipotesi di apporto partecipativo teleologicamente indirizzato al soddisfacimento dell’utilità sociale, come, del resto, previsto dallo stesso art. 41 della Costituzione, sicché non convince la stessa previsione contenuta nel comma 4 del citato art. 13 che prevede la nullità dei contratti conclusi in violazione dei commi 1 e 2.

Ancora. Il precetto in esame risulta in stridente contrasto anche con la giurisprudenza più restrittiva della Corte di Giustizia. Infatti, i giudici europei, proprio con l’ultima sentenza dell’11 maggio 2006, meglio conosciuta come “Agesp” (13), non avevano negato affatto la possibilità che le società affidatarie in house potessero esercitare la propria attività al di fuori del proprio ambito territoriale di riferimento, purché ciò non costituisse alterazione del libero gioco della concorrenza e, dunque, violazione dell’art. 86 del Trattato. Tesi, questa, sostenuta, recentemente anche dal T.a.r. Lecce, con la decisione commentata nell’odierno lavoro.

Ad ogni modo, il legislatore, preoccupato degli effetti devastanti che potrebbero derivare dalla presenza nel mercato di una compagine societaria strutturata con capitale interamente o parzialmente pubblico, al comma 3 dell’art. 13 del d.l. in parola, ha stabilito che entro un anno dalla entrata in vigore del provvedimento legislativo, dunque, il 3 luglio 2007, “(…) le società di cui al comma 1 cessano (…) le attività non consentite”. Il modo suggerito è quello della cessione delle attività a terzi, si suppone con relativo avviamento da corrispondersi al cedente, oppure lo scorporo dell’attività stessa mediante la costituzione “(…) di una separata società da collocare sul mercato (…)”. La soluzione anche in questo caso non convince. Non si comprende, infatti, come il cessionario possa differenziarsi dal cedente e non rappresentare anch’esso un elemento destabilizzante l’ordinario assetto mercatile.

Quanto al d.d.l. di delega approvato dal Governo lo scorso 30 giugno 2006 (14), coerentemente con la scelta di operare un serrato controllo sull’affidamento dei servizi pubblici a rilevanza economica, esso prevede che la gestione di questi ultimi avvenga mediante lo svolgimento di una procedura selettiva e, soltanto eccezionalmente, o attraverso l’impiego di un modulo societario misto, con il partner privato scelto all’esito di una regolare gara improntata all’evidenza pubblica, oppure mediante affidamento in house.

In sostanza, mentre, da un lato, l’art. 13 del d.l. n. 223/06 sembra temere che i moduli societari a capitale interamente pubblico o misto - pubblico privato - possano destabilizzare il normale andamento del mercato, con buona pace della libera concorrenza, il d.d.l. di delega, siglato n. S-772, licenziato dallo stesso Esecutivo il 30 giugno scorso, al contrario, ne riconosce la legittimità a condizione, però, che tali soggetti economici siano individuati mediante una procedura concorsuale, se moduli societari a capitale interamente pubblico, oppure che il partner privato sia selezionato mediante l’espletamento di una vera e propria gara, se trattasi di compagini societarie costituite anche con apporto partecipativo privato. La contraddizione che si annida nei due provvedimenti governativi è evidente e svilisce la lodevole previsione di una carta dei servizi a tutela dei cittadini che il gestore è tenuto ad osservare, pena la perdita della titolarità del servizio, oltre che lo stesso obbligo stringente di motivazione a carico della p.a. nell’ipotesi in cui questa decida di affidare il servizio pubblico a rilevanza economica mediante l’impiego di una società mista o attraverso un vero e proprio affidamento in house.

 

8. Considerazioni finali.

Le sentenze in commento rientrano, sotto diverso profilo, nell’affannoso tentativo operato dalla giurisprudenza nazionale di adattarsi alla frenetica codificazione comunitaria in tema di in house providing.

Come si è già avuto modo di segnalare in altra occasione (15), il compito è tutt’altro che agevole attesa la discontinua linearità che accompagna l’esegesi dei giudici comunitari.

Tuttavia, le due decisioni dei Tar in commento si apprezzano per equilibrio e puntualità di argomentazioni prendendo le distanze, in particolare quella del T.a.r. Lecce, anche a causa del profilo scrutinato, dalla più restrittiva giurisprudenza nazionale - con in testa quella del Consiglio di Stato - e comunitaria sviluppatasi in tema di public utilities (16).

Infatti, i magistrati pugliesi nell’affrontare il tema della extraterritorialità dell’azione di una società affidataria della titolarità di un servizio pubblico locale non negano affatto tale possibilità ma si limitano ad ancorarla alla condizione che l’interesse della collettività di riferimento della p.a. affidante non sia in qualche modo pregiudicato (17).

Nel ragionamento svolto dai giudici non compare alcun riferimento al concetto del “controllo analogo”, ritenuto determinante dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia e da qualche altro T.a.r. nazionale (18)oltre che dallo stesso Consiglio di Stato con la recente sentenza n. 4440 del 13 luglio 2006.

In sostanza, proprio la circostanza che per i giudici pugliesi rilevi esclusivamente l’effettività dell’interesse pubblico perseguito, ai fini di un legittimo affidamento dei servizi in house, significa ridimensionare l’impatto ed il ruolo di un concetto piuttosto astratto quale quello del “controllo analogo” che resta, irrimediabilmente, sullo sfondo.

Sembra, infatti, che i magistrati del T.a.r. Puglia vogliano dire che il soddisfacimento dei bisogni della collettività dell’amministrazione aggiudicatrice possa avvenire anche attraverso l’affidamento diretto del servizio a un modulo societario misto non soggetto ad alcun “controllo analogo” da parte dell’ente pubblico affidante, assimilabile a quello esercitato sui propri servizi, e che la presenza di capitale privato nel soggetto economico affidatario non necessariamente obbedisca a logiche imprenditoriali che sviano dai tradizionali fini pubblici.

Se cogliamo nel segno, ci troviamo di fronte ad un vero e proprio rifiuto di quanto codificato dalla giurisprudenza comunitaria e accettato, forse un po’ troppo passivamente, da alcuni Tribunali amministrativi e dallo stesso supremo Organo di giustizia amministrativa, oltre che dal medesimo legislatore, come dimostrato dalle ultimissime sortite sopra commentate.

In particolare, si ritiene estremamente preoccupante che i magistrati di Palazzo Spada, nel tentativo di recepire le più recenti elaborazioni giurisprudenziali della Corte di giustizia, siano stati costretti a riconoscere efficacia retroattiva ai principi fissati dalle recenti pronunce dei giudici comunitari richiamando, indebitamente, due arresti della Corte Costituzionale, rubricati, rispettivamente, n. 113 del 1985 e n. 389 del 1989, a tenore dei quali le sentenze del Collegio europeo “(…) hanno efficacia diretta nell’ordinamento degli Stati membri, al pari dei regolamenti e delle direttive e delle decisioni della Commissione (…)”. Infatti, come si è già avuto modo di accennare in sede di commento dell’arresto in parola, i principi fissati dal Giudice delle leggi trovano applicazione soltanto nei casi in cui le pronunce della Corte di Giustizia abbiano una portata chiarificatrice ed integratrice di specifiche disposizioni comunitarie e non certamente anche nell’ipotesi in cui una norma interna si ponga in contrasto con un concetto elaborato dalla giurisprudenza europea, quale quello del “controllo analogo”. Così ragionando, infatti, si finisce per violare apertamente il principio del tempus regit actum creando un clima di sostanziale incertezza del diritto che non fa certo bene agli operatori di settore interessati a creare sinergie con la p.a...

Quanto al contributo ermeneutico fornito dalla sentenza del T.a.r. Piemonte – Torino, esso riguarda il delicato problema del termine del regime transitorio in materia di affidamento diretto dei servizi di distribuzione del gas metano.

Com’è noto, la disciplina è stata, anche recentemente, oggetto di rivisitazione da parte del legislatore. L’ultima modifica in ordine di tempo risale alla legge n. 51 del 23 febbraio 2006, di conversione del d.l. del 30 dicembre 2005 n. 273.

Con tale ultima revisione dell’art. 15, comma 5 del d.lgs. n. 164 del 2000, il termine del periodo transitorio è stato portato al 31 dicembre 2009, qualora si verifichi l’esistenza di almeno una delle condizioni indicate nel comma 7 dello stesso art. 15 d.lgs. n. 164/00 (19).

L’arresto in commento, per i puntuali chiarimenti forniti sul tema, si atteggia a naturale completamento dei principi affermati dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 29 dell’1 febbraio 2006 (20).

In quella occasione i giudici delle leggi stabilirono che il divieto di partecipare a gare indette per l’affidamento del servizio, già affidato direttamente a società a capitale interamente pubblico, cominciava a decorrere dall’1 gennaio 2007, con questo sancendo l’illegittimità costituzionale dell’art. 7, comma 4, lett. b) della legge della Regione Abruzzo n. 23 del 5 agosto 2004 che ne disponeva l’operatività da subito, violando l’art. 113, comma 15 – quater del d.lgs. n. 267/00 e s. m. e i.. Ciò che in questa sede rileva è che all’epoca la Consulta, coerentemente con quanto già affermato con la storica sentenza n. 272/04 (21), affermò che la regolamentazione del regime transitorio delle nuove norme contenute nella legge n. 326/03, produce delle ricadute sul piano della tutela della concorrenza che, notoriamente, costituisce materia attratta dalla competenza esclusiva dello Stato ai sensi dell’art. 117, comma 2, lett. e) della Costituzione.

Ne discende, secondo il ragionamento svolto dalla Corte, che ogni legge regionale che innovi in tale ambito materiale risulta costituzionalmente illegittima in quanto intervenuta in una materia riservata alla legislazione statale in via esclusiva.

Per questo motivo venne espunto dal sistema ordinamentale, una volta dichiarata l’illegittimità costituzionale, l’art. 7, comma 4, lett. e) della legge n. 23/04 approvata dalla Regione Abruzzo. Naturalmente, è scontato dire che il principio codificato dal Giudice delle leggi ha una portata generale ed è, pertanto, applicabile analogicamente ad ogni ipotesi di regime transitorio riguardante la materia dei servizi pubblici locali a rilevanza economica.

Ritornando alla pronuncia del T.a.r. Piemonte, si può dire che con l’arresto in commento, il tribunale torinese abbia aggiunto un ulteriore tassello in tema di termine finale del regime transitorio, anche se riferito ad un settore specifico quale quello della distribuzione del gas metano.

I giudici torinesi, infatti, hanno stabilito che la proroga dell’affidamento della titolarità del servizio non rappresenta una facoltà dell’ente locale che soddisfa esigenze di opportunità o di convenienza economica ma un vero e proprio atto a contenuto vincolato, dal momento che la ratio della previsione legislativa di un periodo transitorio risponde alla necessità di “proteggere gli investimenti effettuati dalle gestioni più importanti”. E’ in questa ottica che vanno lette anche le disposizioni contenute nei commi 15 –bis e ter dell’art. 113 del d.lgs.n. 267/00 e s. m. e i., recentemente interessate dalle modifiche introdotte dall’art. 15 del d.l. n. 223/06, dal momento che entrambi i precetti fissano precisi requisiti la cui presenza determina la cessazione - entro o oltre il 31 dicembre 2007 - delle concessioni rilasciate con procedura diversa dall’evidenza pubblica.

La vera anomalia delle norme contenute nel d.l. in parola, in particolare di quelle contenute nell’art. 13, risiede, invece, nella evidente contraddittorietà rispetto a quanto previsto dal d.d.l. di delega del 30 giugno 2006, soprattutto in tema di effetti distorsivi prodotti sul mercato dalle società a capitale interamente pubblico, proprio perché il d.d.l. in questione ne consente la costituzione, seppur qualora ricorrano determinate specifiche condizioni. La sensazione che si ricava dall’analisi dei due interventi legislativi scrutinati è di un sostanziale disorientamento del legislatore nazionale, evidentemente combattuto tra il desiderio di evitare effetti degenerativi sul piano della stretta concorrenzialità e l’ineludibile bisogno di avvalersi sempre più di risorse private, attesa la cronica difficoltà della p.a. di reperire risorse finanziarie.

Sarebbe opportuno, allora, cercare di individuare un punto di stabile equilibrio tra queste due esigenze contrapposte, magari facendo tesoro di quanto chiarito proprio dal T.a.r. Torino.

Infatti, il giudici piemontesi, con un inciso molto stringente, hanno evidenziato come neanche il prevalente interesse pubblico ad un vantaggio economico derivante dal diniego della proroga costituisca per la p.a. elemento decisivo per determinarsi in senso negativo nei confronti del privato, dovendosi attribuire, al contrario, pari dignità alla tutelata aspettativa dell’affidatario a vedersi prorogato l’affidamento .

E’ facile gioco cogliere quanta differenza vi sia rispetto alle sentenze della Corte di Giustizia “Stadt Halle”, “Modling” e “Agesp”, dove il semplice apporto partecipativo del privato veniva considerato “scientificamente” portatore di interessi differenti da quelli tutelati dalla pubblica amministrazione, e quanta differenza possa scorgersi da quanto, forse ancora più restrittivamente, hanno mostrato di voler ritenere sia il Consiglio di Stato che il legislatore nazionale i quali, in tempi di diffusa privatizzazione, hanno inteso chiaramente sottrarre la p.a. alla sfida lanciata dal mercato facendola ritirare sull’Aventino.

 

 

***

 

NOTE

 

(1) L’art. 113, comma 5, lett. e) del d.lgs. n. 267/00 e s. m. e i. così recita: “L’erogazione del servizio avviene secondo le discipline di settore e nel rispetto della normativa dell’Union europea, con riferimento della titolarità del servizio: (Omissis); c) a società a capitale interamente pubblico a condizione che l’ente o gli enti pubblici titolari del capitale sociale esercitino sulle società un controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi e che la società realizzi la parte più importante della propria attività con l’ente o gli enti pubblici che la controllano”.

 

(2) Afferma la Corte di Giustizia che le norme contenute negli articoli 12, 43 e 49 del Trattato Ce non trovano applicazione in materia di concessione di servizi pubblici qualora “ (…) il controllo esercitato sul concessionario dall’autorità pubblica concedente è analogo a quello che essa esercita sui propri servizi, e se il detto concessionario realizza la parte più importante della propria attività con l’autorità che lo detiene”, aggiungendo che giacché l’art. 113, comma 5, lett. e) contiene entrambe le condizioni richiamate, può, in linea di principio, essere considerato “(…) conforme al diritto comunitario, fermo restando che l’interpretazione di tale disciplina deve a sua volta essere conforme alle esigenze del diritto comunitario”. 

 

(3) L’art. 6 della Direttiva 92/50 così recita: “ La presente Direttiva non si applica agli appalti pubblici di servizi aggiudicati ad un ente che sia esso stesso un’amministrazione ai sensi dell’art. 1, lettera b), in base a un diritto esclusivo di cui beneficia in virtù delle disposizioni legislative, regolamentari od amministrative pubblicate, purché tali disposizioni siano compatibili con il trattato”.

 

(4) Il Consiglio di Stato, con la decisione in commento, preso atto della ricorrenza di entrambe le condizioni segnalate, ha riconosciuto “(…) l’impossibilità di derogare alla regola dello svolgimento delle procedure ad evidenza pubblica per la scelta del soggetto concessionario o affidatario dell’appalto del servizio pubblico in ossequio ai principi di diritto comunitario invocati dall’appellante” 

 

(5) Lo stesso Consiglio di Stato risolvendo la questione relativa all’atto di recesso del comune di Bolzano dalla precedente convenzione con l’originaria affidataria del servizio, nel denegare la propria giurisdizione a beneficio di quella del giudice ordinario a seguito della sostanziale riscrittura degli artt. 33, commi 1 e 2, e 34 del d.lgs. n. 80/98, come sostituiti dall’art. 7 lettere a) e b) della legge n. 205 del 21 luglio 2000, ha chiarito che “(…) Il principio enunciato dall’art. 5 Cod. proc. civ., infatti, a norma del quale la giurisdizione si determina con riguardo alla legge vigente al momento della proposizione della domanda, non opera quando la norma che detta i criteri determinativi della giurisdizione è successivamente dichiarata illegittima, in quanto l’efficacia retroattiva che assiste tale tipo di pronunce della Corte Costituzionale preclude che la norma dichiarata illegittima possa essere assunta a canone di valutazione di situazioni o di rapporti anteriori alla pubblicazione della pronuncia di incostituzionalità, ma non ancora esauriti al momento della pubblicazione della sentenza”. E’ del tutto evidente che il caso esaminato dal Consiglio di Stato non involgesse una questione di giurisdizione ma una semplice norma di diritto sostanziale ritenuta in contratsto con la più recente elaborazione giurisprudenziale comunitaria.

 

(6) Cfr. G. Guzzo “La giurisprudenza comunitaria detta ai giudici nazionali e al legislatore le nuove regole in materia di affidamenti in house”; in “Appalti&Contratti”; Luglio 2006;

 

(7) Cfr. G. Guzzo “Servizi pubblici locali e affidamenti in house nella più recente giurisprudenza comunitaria e nazionale”; in www.LexItalia.it; n. 7-8/2006;

 

(8) Cfr. G. Guzzo “Servizi pubblici locali e affidamenti in house nella più recente giurisprudenza comunitaria e nazionale“; in www.LexItalia.it; n. 7-8/2006;

 

(9) Cfr. G. Guzzo “Servizi pubblici locali nella più recente giurisprudenza comunitaria e nazionale“; in www.LexItalia.it; n. 7-8/2006;

 

(10) L’art. 113, comma 15 – bis, così recita:” Nel caso in cui le disposizioni previste per i singoli settori non stabiliscano un congruo periodo di transizione, ai fini dell’attuazione delle disposizioni previste nel presente articolo, le concessioni rilasciate con procedure diverse dall’evidenza pubblica cessano

comunque entro e non oltre la data del 31 dicembre 2006, senza necessità di apposita deliberazione dell’ente affidante. Sono escluse dalla cessazione le concessioni affidate a società a capitale misto pubblico privato nelle quali il socio privato sia stato scelto mediante procedure ad evidenza pubblica che abbiano dato garanzia di rispetto delle norme interne e comunitarie in materia di concorrenza, nonché quelle affidate a società a capitale interamente pubblico a condizione che gli enti pubblici titolari del capitale sociale esercitano sulla società un controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi e che la società realizzi la parte più importante della propria attività con l’ente o gli enti pubblici che la controllano.

Sono altresì escluse dalla cessazione le concessioni affidate alla data del 1º ottobre 2003 a società già quotate in borsa e a quelle da esse direttamente partecipate a tale data a condizione che siano concessionarie esclusive del servizio, nonché a società originariamente a capitale interamente pubblico che entro la stessa data abbiano provveduto a collocare sul mercato quote di capitale attraverso procedure ad evidenza pubblica, ma, in entrambe le ipotesi indicate, le concessioni cessano comunque allo spirare del termine equivalente a quello della durata media delle concessioni aggiudicate nello stesso settore a seguito di procedure di evidenza pubblica, salva la possibilità di determinare caso per caso la cessazione in una data successiva qualora la stessa risulti proporzionata ai tempi di recupero di particolari investimenti

effettuati da parte del gestore.

 

(11) L’art. 113, comma 15 –ter, così dispone: Il termine del 31 dicembre 2006, di cui al comma 15 -bis, puo' essere differito ad una data successiva, previo accordo, raggiunto caso per caso, con la Commissione europea, alle condizioni sotto

indicate:

a) nel caso in cui, almeno dodici mesi prima dello scadere del suddetto termine si dia luogo, mediante una o piu' fusioni, alla costituzione di una nuova societa' capace di servire un bacino di utenza complessivamente non inferiore a due volte quello originariamente servito dalla societa' maggiore; in questa ipotesi il

differimento non puo' comunque essere superiore ad un anno;

b) nel caso in cui, entro il termine di cui alla lettera a), un'impresa affidataria, anche a seguito di una o piu' fusioni, si trovi ad operare in un ambito corrispondente almeno all'intero territorio provinciale ovvero a quello ottimale, laddove previsto dalle norme vigenti; in questa ipotesi il differimento non puo' comunque essere superiore a due anni». ))

 

(12) L’art. 13 del d.l. n. 223 del 4 luglio 2006, prevede che: “1. Al fine di evitare alterazioni o distorsioni della concorrenza e del mercato e di assicurare la parità degli operatori, le società, a capitale interamente pubblico o misto, costituite dalle amministrazioni pubbliche regionali e locali per la produzione di beni e servizi strumentali all’attività di tali enti, nonché, nei casi consentiti dalla legge, per lo svolgimento esternalizzato di funzioni amministrative di loro competenza, debbono operare esclusivamente con gli enti costituenti ed affidanti, non possono svolgere prestazioni a favore di altri soggetti pubblici o privati, né in affidamento diretto né con gara, e non possono partecipare ad altre società o enti.

2. Le predette società sono oggetto sociale esclusivo e non possono agire in violazione delle regole di cui al comma 1.

3. Al fine di assicurare l’effettività delle precedenti disposizioni, le società di cui al comma 1 cessano entro dodici mesi dalla data di entrata in vigore del presente decreto le attività non consentite. A tale fine possono cedere le attività non consentite a terzi ovvero scorporarle, anche costituendo una separata società da collocare sul mercato, secondo le procedure del decreto – legge 31 maggio 1994, n. 332, con modificazioni, dalla legge 30 luglio 1994, n. 474, entro ulteriori dodici mesi.

4. I contratti conclusi in violazione delle prescrizioni dei commi 1 e 2 sono nulli.”

 

(13) Cfr. G. Guzzo “ La giurisprudenza comunitaria detta ai giudici nazionali e al legislatore le nuove regole in materia di affidamenti in house“; in “Appalti&Contratti; Luglio 2006;

 

(14) Cfr. G. Guzzo “La giurisprudenza comunitaria detta ai giudici nazionali e al legislatore le nuove regole in materia di affidamenti in house“; in “Appalti&Contratti; Luglio 2006;

 

(15) Cfr. G. Guzzo “Servizi pubblici locali e affidamenti in house nella più recente giurisprudenza comunitaria e nazionale“; in www.LexItalia.it; n. 7-8/2006;

 

(16) Cfr. G. Guzzo “La giurisprudenza comunitaria detta ai giudici nazionali e al legislatore le nuove regole in materia di affidamenti in house“; in “Appalti&Contratti”; Luglio 2006;

 

(17) Cfr. Tar Lecce, sentenza n. 3533 del 23 giugno 2006, Vd. par. 5; 

 

(18) Cfr. G. Guzzo “ Servizi pubblici locali e affidamenti in house nella più recente giurisprudenza comunitaria e nazionale“ in www.LexItalia.it; n. 7- 8/2006;

 

(19) L’art. 15,comma 5 del d.lgs. n. 164/00, come modificato dalla legge n. 51 del 23 febbraio 2006, così recita:” 1. Il termine del periodo transitorio previsto dall'articolo 15, comma 5, del decreto legislativo 23 maggio 2000, n. 164, e' prorogato al 31 dicembre 2007 ed e' automaticamente prolungato fino al 31 dicembre 2009 qualora si verifichi almeno una delle condizioni indicate al comma 7 del medesimo articolo 15.

2. I termini di cui al comma 1 possono essere ulteriormente prorogati di un anno, con atto dell'ente locale affidante o concedente, per comprovate e motivate ragioni di pubblico interesse.

3. Sono fatte salve le disposizioni di cui al comma 9 dell'articolo 15 del decreto legislativo 23 maggio 2000, n. 164, nonché la facoltà di riscatto anticipato durante il periodo transitorio, di cui al comma 1, se prevista nell'atto di affidamento o di concessione.

4. I termini di durata delle concessioni e degli affidamenti per la realizzazione delle reti e la gestione della distribuzione di gas naturale ai sensi dell'articolo 11 della legge 28 novembre 1980, n. 784, e dell'articolo 9 della legge 7 agosto 1997, n. 266, sono prorogati fino al dodicesimo anno decorrente dalla data di entrata in vigore del decreto legislativo 23 maggio 2000, n. 164, oppure, se successiva, dalla data di entrata in vigore del decreto del Ministero dell'economia e delle finanze di approvazione delle risultanze finali dell'intervento.

5. I termini, non ancora scaduti alla data di entrata in vigore del presente decreto, previsti per l'adeguamento alle prescrizioni contenute nei decreti autorizzativi di impianti che generano emissioni in atmosfera sono prorogati di sessanta giorni, decorrenti:

a) dalla «messa in esercizio dell'impianto», intesa come data di avvio delle prime prove di funzionamento del medesimo;

b) dalla «entrata in esercizio dell'impianto», intesa come data successiva al completamento del collaudo, a partire dalla quale l'impianto, nel suo complesso, risulta in funzione nelle condizioni operative definitive, ossia quando, decorsi sei mesi dalla comunicazione di cui all'articolo 8, comma 2, del decreto del Presidente della Repubblica 24 maggio 1988, n. 203, si prevede il passaggio del rilevamento delle emissioni da base giornaliera a base oraria.

5-bis. I termini scaduti nel 2005 per la presentazione delle domande di liquidazione degli interventi per le finalita' di cui all'articolo 103, comma 5, della legge 23 dicembre 2000, n. 388, sono prorogati fino al 31 marzo 2006. Le disponibilita' finanziarie per i medesimi interventi che a tale data dovessero risultare ancora non liquidate possono essere destinate alla prosecuzione delle incentivazioni al commercio elettronico con provvedimento del Ministero delle attivita' produttive da adottare entro il 30 giugno 2006.”

 

(20) Cfr. G. Guzzo “Servizi pubblici locali e affidamento in house nella più recente giurisprudenza comunitaria e nazionale“ in www.LexItalia.it; n. 7-8/2006;

 

(21) Cfr. G. Guzzo, Federico Jorio, Ettore Jorio, Eugenia Montilla, “Considerazioni sulla riforma dei servizi pubblici locali all’indomani della sentenza della Consulta n. 272 del 2004 e dell’ordinanza del Consiglio di Stato di rimessione alla Corte di Giustizia della Comunità europea; in Rivista Trimestrale degli Appalti; n. 4/2004.

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