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Project financing: sistema di finanziamento a geometria variabile (tra dubbi di legittimità costituzionale, eclissi del promotore ed incertezze legislative).
di Gerardo Guzzo 10 gennaio 2008
Materia: appalti / disciplina

Project financing: sistema di finanziamento a geometria variabile (tra dubbi di legittimità costituzionale, eclissi del promotore ed incertezze legislative).

 

1. Premessa. 2. I dubbi di legittimità costituzionale dell’art. 143, comma 7, del d.lgs. n. 163/07 e la decisione Eurostat dell’11 febbraio 2004. 3. La fine del promotore e i coni d’ombra che avvolgono la futura disciplina della finanza di progetto. 4. Considerazioni finali.

 

1.         Premessa.

 Il legislatore italiano nel suo perenne moto centrifugo volto a disegnare una stabile ed efficiente disciplina della materia delle opere pubbliche e di pubblica utilità non ha risparmiato nel suo slancio riformatore il meccanismo del project financing. A poco più di un anno dall’entrata in vigore del “Codice degli appalti” (d.lvo 12 aprile 2006, n. 163) possono essere registrati ben due decreti correttivi (il n. 6/07 ed il n. 113/07), una sentenza della Corte costituzionale, la 401 del 23 novembre 2007, ed un parere dell’Autorità di vigilanza sui contratti pubblici (n. 8 dell’11 ottobre 2007) che hanno inciso non poco su alcune disposizioni del d.lgs. n. 163/06, in taluni casi modificando il corredo cromosomico di alcuni istituti, in altri congelando l’entrata a regime di qualche norma. Il vento riformista, dunque, non ha risparmiato la finanza di progetto, dal momento che proprio il secondo decreto correttivo voluto dal ministro delle infrastrutture ha espunto dal sistema ordinamentale italiano il diritto di prelazione demandando ad un terzo decreto il riordino dell’intera procedura. In questo solco si colloca anche la modifica dell’articolo 143, comma 7, del “Codice degli appalti” che ha introdotto una sorta di bonus assicurativo per il promotore, aggiudicatario della concessione, qualora alla scadenza del contratto non abbia interamente ammortizzato i costi dell’opera, con conseguente assunzione, seppure parziale, del rischio economico da parte della P.A.. Proprio questa ultima sortita del legislatore del 2007 ha suscitato non poche perplessità sotto il profilo della tenuta comunitaria e costituzionale. In effetti, già il Consiglio di Stato, con il parere n. 1750 dell’Adunanza Generale dello scorso 6 giugno 2007, aveva posto l’accento sugli effetti che una norma del genere avrebbe prodotto sul piano della coerenza con il diritto del Trattato, suggerendo che non venisse varata. Ciononostante, com’è noto, il decreto n. 113/07 è entrato pienamente a regime lo scorso 1 agosto 2007 senza che la disposizione in parola venisse eliminata dal testo, dando corpo ad una sorta di compensazione dettata dall’intervenuta cancellazione del diritto di prelazione prima riconosciuto in favore del promotore. Ma la vis riformista dell’Esecutivo, lungi dall’essersi esaurita. Infatti, i futuri interventi correttivi, più volte annunciati, dovrebbero riguardare proprio il project financing la cui dinamica procedurale sarebbe in procinto di essere ridotta ad una sola gara pubblica in luogo delle tre tutt’oggi previste con conseguente ulteriore abbassamento della soglia di garanzia e di sicurezza nell’affidamento della concessione.

 

2.         I dubbi di legittimità costituzionale dell’art. 143, comma 7, del d.lgs. n. 163/07 e la decisione Eurostat dell’11 febbraio 2004 .

L’art. 1, comma 1, lett. q) del d.lgs. n. 113/07 ha introdotto una importante modifica all’art. 143, comma 7, innestando nella disciplina delle concessioni di lavori pubblici un vero e proprio paracadute economico - finanziario per il concessionario (1). E’ di tutta evidenza come la norma in parola sia destinata a spiegare i suoi effetti anche sui soggetti affidatari di una concessione all’esito della procedura disciplinata dagli articoli 153 e seguenti del “Codice degli appalti”. In particolare, stando all’art. 153 del T.U. delle opere pubbliche (d.lvo 12 aprile 2006, n. 163), così come indirettamente integrato dal comma 7 del precedente art. 143, il promotore è tenuto a presentare una proposta comprensiva, tra l’altro, di una bozza di convenzione e di un piano economico – finanziario. All’interno di tale ultimo documento, poi, devono essere indicate in modo chiaro le modalità con cui l’aspirante concessionario intende coprire gli investimenti e gestire l’opera, oltre che specificati il valore residuo, al netto degli ammortamenti annuali, e l’eventuale valore residuo dell’investimento non ammortizzato al termine della concessione, con l’espressa previsione del corrispettivo dovuto dalla P.A. per tale voce di spesa. Contro quest’ultima sortita legislativa si sono abbattuti gli strali dell’Adunanza Generale del Consiglio di Stato che ha considerato la norma un pericolo per i conti pubblici oltre che poco rispettosa dei principi comunitari (2). Il precetto, inoltre, trasferendo alla P.A. il rischio economico - mediante la previsione di un paracadute assicurativo - integrativo a beneficio del concessionario - ha finito per eludere anche la decisione dell’Autorità statistica della Commissione europea (Eurostat), risalente all’11 febbraio 2007 e, conseguentemente, per violare lo stesso principio di buon andamento, efficienza, efficacia ed economicità dell’azione amministrativa cristallizzato nell’art. 97 della Costituzione. Più nel dettaglio. Secondo l’Eurostat, perché una operazione di partnariato pubblico – privato possa essere considerata off balance per l’amministrazione concedente è indispensabile che il soggetto privato: 1) assuma il rischio di costruzione; 2) si accolli il rischio di domanda oppure quello di disponibilità dell’opera. Per quanto concerne il primo, esso può essere riassunto in via esemplificativa in alcune variabili quali il ritardo nei tempi di consegna dell’asset, l’aumento dei costi, la mancata ultimazione dei lavori; il secondo, invece, appare intimamente collegato alla capacità del concessionario di erogare le prestazioni concordate sia in termini di volume che di qualità. In sostanza, perché il rischio economico possa dirsi effettivamente trasferito al privato occorre che i pagamenti effettuati dall’amministrazione concedente siano proporzionali all’effettivo livello delle prestazioni fornite (rischio di disponibilità) mentre, nel caso in cui siano realizzate opere non disponibili in tutto o in parte all’uso (rischio di costruzione) la P.A. dovrebbe applicare al partner privato una sanzione pari al valore dell’asset non disponibile all’uso oppure proporzionale all’impatto negativo prodotto sugli utenti. Com’è evidente, i principi fissati da Eurostat, pur essendo stati dettati con specifico riferimento alle “opere fredde”, vale a dire quegli interventi infrastrutturali che vedono lo Stato principale beneficiario della iniziativa, avendo una intrinseca portata generale che ben si sposa con il principio costituzionale di economicità, finiscono per stridere con l’attuale formulazione dell’art. 143, comma 7, del d.lgs. n. 163/06, dal momento che esso ha introdotto una sostanziale “immunizzazione” economico - finanziaria del privato al quale è stato espressamente riconosciuto il diritto di indicare all’interno del piano economico – finanziario l’ammontare del corrispettivo dovutogli dalla parte pubblica tarandolo sul valore residuo dell’investimento non ammortizzato al termine della concessione. In breve, siamo di fronte ad una vera e propria assunzione di rischio economico da parte della P.A. che tradisce lo spirito della decisione Eurostat dell’11 febbraio 2004 e si pone in evidente contrasto anche con il principio del contenimento della spesa pubblica a sua volta corollario del più generale principio di buon andamento dell’azione amministrativa. Molto probabilmente, l’innesto di tale norma è stato determinato dalla esigenza di rendere ancora appetibile il meccanismo della finanza di progetto considerato decisamente di scarso interesse dopo l’eliminazione del diritto di prelazione originariamente previsto a favore del promotore. In questo solco, del resto, si colloca anche la recente determinazione n. 8 dell’Autorità di vigilanza sui contratti pubblici di lavori, servizi e forniture, risalente allo scorso 12 ottobre 2007, che, al fine di allungare la vita al privilegio in parola, ha ritenuto ancora vigente il diritto di prelazione per quelle procedure di project financing iniziate prima dell’entrata in vigore del d.gs. n. 113/07 ( 1 agosto 2007) (3)            

 

3.         La fine del promotore e i coni d’ombra che avvolgono la futura disciplina della finanza di progetto.

Com’è noto, il diritto di prelazione è stato introdotto nel nostro sistema ordinamentale dall’art. 7, comma 1, lett. b) della legge n. 166 dell’1 agosto 2002 che ha integrato l’originario testo dell’art. 37 – ter della legge n. 109/94. Il precetto in parola riconosceva al promotore la facoltà di adeguare la propria proposta a quella che la stazione appaltante avesse ritenuto più conveniente facendolo risultare, di guisa, aggiudicatario della concessione di costruzione e gestione. La strutturazione della norma suscitò sin dal primo momento dubbi di tenuta con il diritto comunitario. Si trattava, in effetti, di una modifica che si esponeva decisamente al rischio di censura da parte degli organi dell’Unione; cosa che accadde puntualmente a seguito del parere risalente al 15 ottobre 2003 che segnò l’inizio di una procedura di infrazione avviata dalla Commissione europea ai danni dello Stato italiano sul presupposto dell’esistente contrasto del diritto di prelazione con il principio di parità di trattamento e di trasparenza. In particolare, gli Organi europei stigmatizzarono la circostanza che la norma, pur prevedendo la pubblicazione in G.U.C.E. di un avviso che rendesse noti gli interventi realizzabili mediante l’apporto partecipativo privato, non evidenziava, tuttavia, i benefici riconosciuti al promotore nella successiva fase della procedura negoziata, disciplinata dall’art. 37-quater. A seguito della procedura d’infrazione aperta contro la Repubblica italiana, il legislatore fu costretto a modificare l’art. 37-bis della legge quadro sulle opere pubbliche. Ciò avvenne con l’art. 24 della legge n. 62 del 18 aprile 2005 (legge comunitaria 2004) che aggiunse al comma 2 –bis della norma in parola sostanziali modifiche tese ad eliminare la rilevata violazione del principio della parità di trattamento. Più nel dettaglio, la novella del 2005 impose alle stazioni appaltanti: a) di rendere noti i criteri in base ai quali esse avrebbero proceduto alla valutazione delle proposte presentate dai partecipanti; b) di dare evidenza pubblica alla circostanza che il promotore poteva esercitare il diritto di prelazione all’esito della procedura negoziata calibrando la propria offerta su quella ritenuta migliore. La norma contenuta nell’art. 24 della L. n. 62/05 venne integralmente recepita dall’art. 153, comma 3, del d.lgs. n. 163/06 (T.U. degli appalti). La formulazione dell’art. 153 del d.lgs. n. 163/06, nella versione precedente il d.lgs. n. 113/07, dunque, ancora contemplava la presenza del diritto di prelazione che è stato definitivamente espunto dal sistema ordinamentale italiano soltanto con il recente secondo decreto correttivo del “Codice degli appalti” in virtù delle disarmonie con il diritto comunitario evidenziate nel ricorso introduttivo la causa C-412/04, tutt’oggi pendente innanzi alla Corte di giustizia del Lussemburgo. La nuova versione dell’articolo 153 del “Codice degli appalti” si apprezza per la cancellazione dall’originario testo dell’ultimo periodo il quale prevedeva che “nella procedura negoziata di cui all’art. 155 il promotore potrà adeguare la propria proposta a quella giudicata dall’amministrazione più conveniente. In questo caso, il promotore risulterà aggiudicatario della concessione”. Il promotore, dunque, stando all’attuale strutturazione della norma, si aggiudicherà automaticamente la concessione soltanto nell’ipotesi descritta dall’art. 155, comma 2, vale a dire in tutti quei casi in cui “non vi siano altre offerte nella gara” prevista dallo stesso articolo alla lett. a) del comma 1. Non vi è dubbio che la eliminazione del diritto di prelazione abbia prodotto degli effetti immediati all’interno del comparto delle opere pubbliche, basti considerare che nei mesi di agosto e settembre 2007 non è stato pubblicato alcun avviso di ricerca del promotore dal che ne discende che, oggi, la finanza di progetto suscita uno scarso appeal nei confronti degli investitori privati. Questo in qualche modo spiega la decisione del legislatore di introdurre una norma come quella contenuta nel comma 7 dell’art. 143 del T.U. delle opere pubbliche (d.lvo 12 aprile 2006, n. 163) ed anche la volontà di mettere nuovamente mano alla procedura di aggiudicazione di una concessione in regime di project financing. Tuttavia, non sembra che la strada seguita dal legislatore delegato sia immune da censure sul piano del diritto comunitario  e della tenuta costituzionale, almeno per quanto concerne la previsione del corrispettivo relativo al valore residuo dell’investimento non ammortizzato. Dalle scarne notizie che si apprendono in merito al varo di un terzo decreto correttivo, poi, sembrerebbe che la disciplina della finanza di progetto stia per subire un radicale riordino che si spera non si traduca in un irrimediabile disordine. Dagli organi di stampa è dato apprendere che la procedura si dovrebbe ridurre ad una sola gara aperta nel rispetto dei principi di efficacia, tempestività ed economicità fissati dall’articolo 2 del d.lgs. n. 163/06. Restano da capire le regole di dettaglio che scandiranno lo svolgimento della procedura selettiva. Al momento si può soltanto immaginare che molto probabilmente i concorrenti dovranno predisporre in luogo del preliminare, oggi richiesto dall’art. 153, quanto meno un progetto definitivo cui potrebbe aggiungersi anche quello esecutivo, con conseguente incremento dei costi che, per effetto del bonus assicurativo previsto dal comma 7 dell’art. 143, rischierebbero di ricadere integralmente sul bilancio della P.A.. Non marginale, inoltre, è il problema legato all’impatto ambientale dell’opera che viene valutato sulla base del progetto definitivo. Qualora si dovessero rendere necessari dei correttivi che comportano ulteriori voci di spesa resta da capire quid iuris se esse non appariranno coerenti (rectius: coperte dalle) con le previsioni contenute nel piano economico - finanziario. Insomma, in casi del genere, bisognerà capire chi si accollerà questi ulteriori costi: il concessionario oppure la P.A.. In definitiva, la sensazione che si ricava da tutto questo afflato riformatore è che con la fine del diritto di prelazione, anticamera della scomparsa del promotore, almeno nell’accezione odierna, è di fatto stata definitivamente seppellita la finanza di progetto quale sistema di drenaggio di risorse private al servizio del comparto delle opere pubbliche o di pubblica utilità.  

 

4.         Considerazioni finali.

Gli ultimi interventi del legislatore delegato mostrano, abbastanza nitidamente, la difficoltà in cui questi si è venuto a trovare - all’indomani della espunzione del diritto di prelazione - nell’elaborare un quadro normativo capace di rendere ancora appetibile il meccanismo del project financing agli occhi degli investitori privati. La risposta contenuta nel secondo decreto correttivo non pare convincente sotto diversi profili. Innanzitutto, come si è cercato di argomentare nel corso del presente lavoro, essa appare difficilmente raccordabile con il dettato comunitario (Vd. parere n. 1750 dell’Adunanza Generale del Consiglio di Stato) e ancor prima con il principio di buon andamento dell’azione amministrativa codificato dall’art. 97 della Costituzione. Inoltre, a causa delle ricadute che possono prodursi sui conti pubblici, risulta abbastanza difficile considerarla espressione di quel valore di economicità pure richiamato all’interno dell’articolo 2 del d.lgs. n. 163/06 che detta i principi generali cui deve uniformarsi l’affidamento e l’esecuzione di opere pubbliche e di pubblica utilità. Del resto, la evidente distonia rispetto a quanto stabilito nella decisione Eurostat dell’11 febbraio 2004 consente di affermare che l’art. 143, comma 7, del “Codice degli appalti”, lungi dallo scorporare integralmente dal deficit pubblico i costi dell’opera, ha finito per fare ricadere, almeno in parte, il rischio economico dell’investimento sull’amministrazione concedente. Sarebbe stato meglio se il legislatore, in luogo dell’inciso aggiunto al comma 7, avesse previsto una norma contenente la clausola del “take and pay”, vale a dire che quel che viene preso viene pagato. In estrema sintesi, invece di prevedere il pagamento di un corrispettivo equivalente al valore residuo dell’investimento non ammortizzato al termine della durata della concessione, sarebbe stato più opportuno se la norma si fosse limitata a disporre - previa adeguata verifica dei dati contabili denunciati - un allungamento dei termini della stessa in modo tale da garantire al concessionario l’equilibrio economico finanziario dell’investimento, come del resto già previsto nel successivo comma 8 (4). Invece, la modifica apportata al comma 7 ha finito per disapplicare implicitamente proprio il successivo comma 8. Parimenti, sarebbe auspicabile che in sede di stesura dell’annunciato terzo decreto correttivo si pensi, in un quadro generale di riordino della materia, non soltanto semplicisticamente a ridurre il momento concorsuale dalle tre gare  attualmente previste a una soltanto ma anche a prevedere l’istituzione di organismi specializzati, quali le PPP Taskforces, presenti nella quasi totalità dei Paesi dell’Unione, al fine di impostare al meglio i contratti che si vanno a stipulare con i partner privati. Molto probabilmente, il nuovo volto della finanza di progetto, al pari delle recenti modifiche apportate alla disciplina del project financing, aprirà nuovi tavoli di discussione finendo per non accontentare tutti: operatori del settore, giuristi, associazioni et ceteris. Una cosa, tuttavia, è possibile affermare sin da ora: con la cancellazione del diritto di prelazione è definitivamente tramontata l’era del promotore e con essa l’interesse incondizionato del privato ad investire nel comparto delle opere pubbliche.        

 

 

*Professore di Organizzazione Aziendale presso l’Unical  (guzzo@cgaalaw.com).

 

Note:

 

(1) In particolare, l’art. 1, comma 1, lett. q) del d.lgs. n. 113/07 ha aggiunto il seguente inciso “", anche prevedendo un corrispettivo per tale valore residuo".

 

(2) Il Consiglio di Stato con parere reso dall’Adunanza Generale il 6 giugno 2007, n. 1750, ha avuto modo di precisare, al punto 5.5. dei considerata, che “Nella disciplina attuale delle concessioni di lavori pubblici, si prevede solo che il piano economico finanziario debba indicare l’eventuale valore residuo non ammortizzato.

La modifica incide indubbiamente sulla sostanza dell’istituto, riducendo sensibilmente il rischio del concessionario, già avvantaggiato dalla eliminazione dei limiti alla integrazione del prezzo e alla durata del contratto.

In tale contesto essa appare poco coerente con i principi comunitari della materia.

Sotto il profilo interno, poi, la previsione di un prezzo di restituzione può mascherare una integrazione iniziale (“prezzo”) per le quali non vi siano le necessarie disponibilità finanziarie. Ciò può indurre ad avviare opere senza una reale copertura, con gli effetti distorsivi ben noti e che la legge 109 ha cercato a suo tempo di scongiurare (opere non finite, aumento dell’indebitamento).

Pertanto in ordine a tale modifica si esprime parere negativo”.

 

(3) In particolare, l’Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici di lavori, servizi e forniture ha stabilito che “(omissis) per le procedure i cui avvisi indicativi siano stati pubblicati anteriormente all’entrata in vigore del d.lgs. n. 113/07, contenenti espressamente la previsione del diritto di prelazione in favore del promotore, continua ad applicarsi il previdente assetto normativo contemplante tale diritto (omissis)”.

 

(4)Il primo e secondo periodo del comma 8 dell’articolo 143 del d.lgs. n. 163/06 infatti stabiliscono che “La stazione appaltante, al fine di assicurare il perseguimento dell’equilibrio economico – finanziario degli investimenti del concessionario, può stabilire che la concessione abbia una durata superiore a trenta anni, tenendo conto del rendimento della concessione, della percentuale del prezzo di cui ai commi 4 e 5 rispetto all’importo totale dei lavori, e dei rischi connessi alle modifiche delle condizioni di mercato. I presupposti e le condizioni di base che determinano l’equilibrio economico – finanziario degli investimenti e della connessa gestione, da richiamare nelle premesse del contratto, ne costituiscono parte integrante”.

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