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Affidamenti in house: il "controllo analogo" è un requisito da accertarsi in concreto.
di Michele Nico 23 maggio 2008
Materia: servizi pubblici / affidamento e modalità di gestione

 

Servizi pubblici locali

 

AFFIDAMENTI IN HOUSE: IL “CONTROLLO ANALOGO”

È UN REQUISITO DA ACCERTARSI IN CONCRETO

 

Alcune recenti pronunce giurisdizionali non hanno mancato di offrire spunti di particolare interesse per chi sia coinvolto, a diverso titolo, nell’attività organizzativa e gestionale dei servizi pubblici locali.

Di qui sorge il tentativo di cogliere, per quanto possibile, alcune utili indicazioni operative nella materia anche se, bisogna riconoscere, non sempre queste si rivelano in grado di orientare in maniera coerente ed organica l’azione amministrativa.

Un caso emblematico, a tale riguardo, è la sentenza del TAR Puglia sez. II, 11 febbraio 2008 n. 432, che se da un lato segnala alcune rimarchevoli novità sul versante dei rapporti tra ente locale e società interamente partecipate, dall’altro evidenzia, nel contempo, la difficoltà di individuare orientamenti univoci sul controverso tema dell’in house providing.

È noto, d’altro canto, che le perplessità interpretative indotte dall’oscillante giurisprudenza costituiscono un pesante fardello nell’ambito di un contesto giuridico - amministrativo già incerto e problematico, a causa della carenza ormai cronica di un ordinamento normativo ben delineato per la disciplina dei servizi pubblici locali.

Si tenga inoltre presente che questo specifico settore della nostra economia è per di più sottoposto alle pressioni di un mercato vieppiù competitivo e concorrenziale, nel cui ambito le procedure di affidamento diretto non soltanto sono guardate con diffidenza ma, in molti casi, vengono impugnate in sede giurisdizionale da chi si ritenga leso nelle proprie legittime aspettative e intenda confutare la scelta della Pubblica Amministrazione di non procedere all'indizione di una pubblica gara.

Il contenzioso di cui si occupa la sentenza in esame si sviluppa, per l’appunto, in questo terreno propenso alle controversie e nasce dal ricorso proposto da un terzo avverso le delibere con cui un Comune della regione pugliese ha disposto l’affidamento in house providing della gestione in esclusiva del servizio parcheggi nella città, per una durata quinquennale, a favore di una società interamente partecipata dall’Ente locale stesso.

Nel contestare la legittimità dell’affidamento disposto dal Comune, il soggetto ricorrente solleva alcune specifiche obiezioni che investono i profili di maggiore criticità del controverso istituto dell’in house providing, sollecitando così il Tribunale Amministrativo a prendere posizione in esito ad un articolato percorso analitico degli aspetti più salienti della materia.

Un primo elemento di sicuro interesse per gli operatori del settore è la disamina che nella sentenza viene svolta rispetto ad una clausola per così dire standard, piuttosto ricorrente negli statuti delle società di capitali a prevalente o totale partecipazione pubblica, che traccia l’identikit dell’organo esecutivo nei seguenti termini:

”Il Consiglio di Amministrazione esercita, nell’ambito degli obiettivi e degli indirizzi strategici individuati dal Comune, i poteri di amministrazione sia ordinaria che straordinaria, salvo quanto espressamente riservato dalla legge e dal presente Statuto all’Assemblea dei soci”.

Questa clausola – perfettamente in linea con quanto dispone l’art. 2384 del codice civile – è additata in giudizio dalla parte ricorrente quale prova inconfutabile e certa per identificare l’attribuzione statutaria di “poteri forti” al board della società, e per dimostrare la conseguente incompatibilità di tale previsione con l’esercizio sulla società, da parte dell’Ente locale, di un “controllo analogo” a quello esercitato sui propri servizi.

Di qui l’asserita illegittimità dell’affidamento in house deciso dal Comune pugliese, dacché, alla luce dei principi affermati dalla Corte di giustizia a partire dalla sentenza Teckal del 18 novembre 1999, C-107/98, è fuori discussione che senza l’effettiva, contestuale presenza degli elementi costituiti dal “controllo analogo” e dalla “destinazione prevalente dell’attività” l’ente controllato deve ritenersi soggetto terzo rispetto all’amministrazione controllante e non può quindi considerarsi come uno dei servizi propri dell’amministrazione stessa.

Questo motivo di contestazione, a ben vedere, appare tutt’altro che privo di fondamento, specie se considerato alla luce della massima desunta dalla decisione della Corte di Giustizia europea, Sez. I, 13/10/2005 n. c-458/03, secondo cui «allorché un ente concessionario - una società per azioni nata dalla trasformazione di un'azienda speciale - fruisce di un margine di autonomia caratterizzato dal fatto che l'oggetto sociale è stato esteso a nuovi importanti settori, il cui capitale deve essere a breve termine obbligatoriamente aperto ad altri capitali, il cui ambito territoriale di attività è stato ampliato a tutto il paese e all'estero, e il cui Consiglio di amministrazione possiede amplissimi poteri di gestione che può esercitare autonomamente, è escluso che l'autorità pubblica concedente eserciti sull'ente concessionario un controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi».

Di qui l’interesse a prendere attentamente in rassegna le diverse valutazioni eseguite dal TAR Puglia per censurare, nonostante ciò, l’asserito motivo di contestazione e giudicarlo istanza non meritevole di accoglimento.

Il TAR riconosce, innanzitutto, che secondo la Corte di Giustizia europea la partecipazione pubblica totalitaria è elemento necessario, ma non sufficiente, per integrare il requisito del “controllo analogo”, e che per poter utilmente rinvenire la sussistenza di quest’ultimo devono darsi i seguenti presupposti:

1) il Consiglio di Amministrazione della S.p.A. in house non deve avere rilevanti poteri gestionali e l’ente pubblico deve poter esercitare maggiori poteri rispetto a quelli che il diritto societario riconosce alla maggioranza sociale;

2) l’impresa non deve aver “acquisito una vocazione commerciale che rende precario il controllo” dell’ente pubblico;

3) le decisioni più importanti devono essere sottoposte al vaglio preventivo dell’ente affidante (in questo senso, la pronuncia del Consiglio di Stato, sezione V, 8 gennaio 2007 n. 5).

A questo punto il Collegio si fa carico di esaminare in concreto l’attività di controllo esercitata dall’Ente locale nei confronti della propria Società partecipata, ed accerta minuziosamente quanto segue:

a) l’art. 1 dello statuto della società prevede che “E’ costituita una Società per azioni con la denominazione “(...)”. La Società è soggetta all’attività di direzione e coordinamento di cui agli artt. 2497 e 2497 bis del codice civile da parte del Comune e riveste le caratteristiche previste dall’art. 113 comma 5 lett. c) del decreto legislativo 267/2000”;

b) all’art. 4, dopo essersi specificato l’oggetto della società, si rileva che “le attività sono svolte nella parte prevalente per conto del Comune”;

c) la società è amministrata da un Consiglio di Amministrazione composto da tre membri, tutti nominati dall’Assemblea dei Soci, il quale esercita nell’ambito degli obiettivi e degli indirizzi strategici individuati dal Comune, i poteri di amministrazione sia ordinaria che straordinaria;

d) il contratto di affidamento del servizio in questione riserva incidenti controlli anche di natura economico-finanziaria da parte del Comune specificandosi che “la Società è tenuta a produrre al Comune, entro le scadenze del 31 dicembre e 30 giugno di ogni anno, il dettaglio della contabilità specifica riferita agli incassi per il servizio effettuato, nonché i dati relativi alla affluenza ed utilizzo degli stalli di sosta”.

Dopo aver eseguito questi accertamenti, il TAR ne trae il convincimento che la società in questione altro non sia che un ente strumentale del Comune, e considera perciò positivamente «verificata la sussistenza dei presupposti per l’affidamento del servizio in questione mediante lo strumento dell’in house providing».

Non ci si può nascondere che la disamina eseguita dal Collegio presta il fianco ad alcune obiezioni, che in questa sede è opportuno passare brevemente in rassegna.

Per quanto riguarda, in primis, l’indizio evocato alla precedente lettera a), non c’è dubbio che appare scarsamente significativa la norma statutaria che assoggetta la società “all’attività di direzione e coordinamento di cui agli artt. 2497 e 2497 bis del codice civile da parte del Comune e le attribuisce le caratteristiche previste dall’art. 113 comma 5 lett. c) del decreto legislativo 267/2000”.

Infatti, la sussistenza effettiva delle caratteristiche de quibus, imprescindibili per poter legittimamente procedere con l’affidamento in house alla società, non può ritenersi acclarata in virtù di una mera petizione di principio contenuta nello statuto sociale, ma costituisce piuttosto il fine stesso che l’indagine esperita dal Collegio si propone in concreto di accertare.

Per quanto poi concerne, in particolare, l’analoga asserzione statutaria per cui la società è soggetta all’attività di direzione e coordinamento di cui agli artt. 2497 e 2497 bis del codice civile da parte del Comune, si può osservare che non occorre uno statuto sociale siffatto per certificare la sussistenza di una responsabilità che già sussiste e compete per legge al Comune – socio unico in quanto tale.

Giova rammentare a questo riguardo che l’art. 2497 c.c., nella versione introdotta dalla recente riforma del diritto societario, individua la responsabilità degli Enti che, «esercitando attività di direzione e coordinamento di società, agiscono nell’interesse proprio o altrui in violazione dei principi di corretta gestione societaria e imprenditoriale delle società medesime» .

Questa fattispecie di responsabilità, connaturata alla fisionomia dei rapporti societari intrapresi dall’Ente locale nella veste di azionista unico, ha come presupposto la sussistenza di una soggezione all’altrui attività di direzione e di coordinamento e si presenta nei seguenti casi:

a) quando l’Ente sia tenuto a consolidare i bilanci della società;

b) quando l’Ente dispone della maggioranza dei voti nell’assemblea ordinaria della società.

Occorre peraltro notare che, dinanzi a questi presupposti, il legislatore presume, salvo prova contraria, l’esercizio dell’attività di direzione e di coordinamento della controllata, con tutte le responsabilità conseguenti (art. 2497 – sexties c.c.).

A fronte di ciò, risulta quindi pacifico che la fonte di responsabilità prevista dall’art. 2497 è applicabile ai rapporti tra l’Ente locale e le società a capitale interamente pubblico di cui all’art. 113 del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267, ma tale constatazione di portata generale, con tutta evidenza, non sembra assumere carattere determinante per accertare in concreto la sussistenza del requisito del “controllo analogo” nella fattispecie in esame.

Inoltre, la generica circostanza che la società operi “nell’ambito degli obiettivi e degli indirizzi strategici individuati dal Comune” non appare per sé elemento bastevole e sufficiente per testimoniare che l’Ente locale esercita sulla società un controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi.

Perché tale presupposto davvero si realizzi, occorre che il Comune sia in grado di imporre gli indirizzi alla Società attraverso gli organi assembleari e in qualità di socio con poteri speciali, nonché mediante strumenti di controllo ulteriori e più pregnanti rispetto a quelli previsti dal diritto comune in capo ai soci.

Sotto questo profilo, da parte del TAR è stato però ritenuto dirimente, ai fini decisionali sulla causa in questione, la circostanza che il contratto di affidamento del servizio prevedesse controlli anche di natura economico-finanziaria da parte del Comune, con l’obbligo a carico del gestore di fornire – mediante appositi rendiconti a scadenze temporali periodiche – il dettaglio della contabilità riferita agli incassi per il servizio effettuato, nonché i dati relativi alla affluenza ed utilizzo degli stalli di sosta.

Questo punto ha un’importanza chiave per cogliere le priorità che l’organo giudicante ha inteso privilegiare per riconoscere o no la sussistenza di un rapporto di delegazione interorganica che intercorre tra due enti, per cui il relativo passaggio merita tutta la nostra attenzione.

È ben vero che il contratto di servizio esula dalle procedure c.d. interna corporis relative alla società, e che, a stretto rigore, il rapporto tra quest’ultima e l’ente locale “è di assoluta autonomia, sicché non è consentito al Comune incidere unilateralmente sullo svolgimento del rapporto medesimo e sull’attività della società per azioni mediante l’esercizio di poteri autoritativi o discrezionali” (Cassazione, Sezioni unite, 6 maggio 1995 n. 4991).

Ciò non di meno, gli obblighi stringenti imposti per effetto dell’autonomia contrattuale privata vengono ritenuti bastevoli dal giudice amministrativo per documentare, nel caso de quo, un effettivo rapporto di delegazione interorganica tra gli enti interessati, tale da potervi riconoscere il requisito del “controllo analogo”, necessario per avvalorare la legittima applicazione dello strumento dell’in house providing.

Come si può notare, il Tribunale ha sostanzialmente privilegiato nella propria indagine la concretezza dei rapporti di dipendenza tra l’Ente locale e la relativa società, anche in mancanza di una vera e propria previsione, nello statuto sociale, di pregnanti poteri d’indirizzo riconosciuti al soggetto pubblico (nella veste di socio unico, in sede di assemblea) rispetto alla sfera di operatività del Consiglio di Amministrazione.

Occorre aggiungere per completezza che, ad avviso del ricorrente, gli atti gravati in sede giurisdizionale sarebbero stati illegittimi anche per un’altra ragione, ossia per la circostanza che lo statuto della società a partecipazione pubblica prevedeva espressamente l’ipotesi di partecipazione azionaria di parte privata negli articoli rubricati “Consiglio di Amministrazione” e “Collegio Sindacale”, lasciando con ciò intendere una chiara volontà del socio pubblico di cedere in futuro una parte della propria quota.

Ad opinione della controparte, quindi, il rischio della futura cedibilità di parte del capitale della società a privati, avrebbe fatto venir meno il presupposto del ricorso all’istituto dell’in house providing, in applicazione dei principi sanciti sia dal Consiglio di Stato (sentenza n. 4440/2006), sia dalla Corte di giustizia (sentenza C-410/04 del 6 aprile 2006), secondo cui il possesso dell'intero capitale sociale da parte dell'ente pubblico, pur astrattamente idoneo a garantire il controllo analogo a quello esercitato sui servizi interni, perde tale qualità se lo statuto della società consente che una quota di esso, anche minoritaria, possa essere alienata a terzi.

Anche in questo caso, i giudici sembrano muoversi nel solco dell’antico adagio di diritto per cui “res ipsa indicat, loquitur, clamat”, ossia mostrano di voler prestare fede non tanto alle dichiarazioni formali programmatiche o d’intenti, quanto invece alle evidenze oggettive, tangibili e concrete.

Il TAR Puglia, di fatto, non accoglie la tesi della controparte, sulla base della pragmatica considerazione per cui il contratto di affidamento in house prevede una clausola risolutiva espressa, a mente della quale ove cessino le condizioni che legittimano al momento presente l’affidamento in house, farà seguito la decadenza e, in tal caso, «il contratto perderà automaticamente efficacia» .

L’insieme di queste considerazioni dimostra come il giudice nazionale, nel valutare le modalità applicative dell’in house providing, non esiti talora a discostarsi – se pure in maniera plausibile e motivata – da taluni principi generali di diritto scanditi con forza dalla giurisprudenza comunitaria.

Tra le maglie dell’incertezza interpretativa che caratterizza la materia dei servizi pubblici non si può fare a meno di osservare, in definitiva, come le argomentazioni svolte dai giudici denotino una certa prudenza nell’accogliere ricorsi con istanze suscettibili di destabilizzare i delicati equilibri dello status quo.

Un fenomeno questo che, a dire il vero, si riscontra non di rado, specie allorquando le procedure amministrative impugnate in giudizio non risultino palesemente illegittime per una flagrante violazione di legge, o non presentino i connotati di un’evidente ed incontrovertibile antigiuridicità, come nel classico caso da manuale del damnum iniuria datum.

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