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Opera pubblica e lotti funzionali, stop alla trattativa privata.
di Michele Nico 12 novembre 2008
Materia: appalti / appalti pubblici di lavori

Lavori pubblici

 

 

OPERA PUBBLICA E LOTTI FUNZIONALI,

STOP ALLA TRATTATIVA PRIVATA

 

 

È un dato di fatto che i margini di discrezionalità che connotano l’azione politico-amministrativa dell’ente locale, allorché questo si trova a decidere sull’impiego delle risorse economiche a disposizione per attuare le proprie finalità istituzionali, assumono un rilievo sostanziale nel campo delle opere pubbliche.

 

In quest’ambito, infatti, è compito specifico degli organi di governo locale definire gli interventi di manutenzione e realizzazione delle infrastrutture sul territorio, selezionando di volta in volta, tra le molteplici proposte astrattamente fattibili, quelle più consone ed adeguate a soddisfare le molteplici esigenze della collettività amministrata.

 

Va da sé che gli interventi progettuali siano da individuarsi, a cura dell’ente pubblico, in esito ad una scelta ben ponderata e sostenuta da circostanziata motivazione, comprensiva di un’analisi bilanciata dei diversi interessi in gioco che dimostri, nella maniera più oggettiva possibile, il perseguimento della soluzione ottimale sotto il profilo del rapporto tra costi e benefici.

 

Una volta che, assunte le correlative scelte strategiche, sia stata correttamente messa a punto la programmazione dei lavori pubblici con l’approvazione del programma triennale e dell’elenco annuale di cui all’art. 128 del codice dei contratti (d.lvo n. 163/2006), non è però da credersi che la fase esecutiva di realizzazione delle opere, attraverso le procedure di affidamento degli appalti, sia circoscritta ad un mero ambito tecnico privo di discrezionalità e rappresenti, per questo, una fonte di problematiche meno complesse e delicate per la stazione appaltante.

 

A riprova di ciò, è utile prendere in esame la decisione del Consiglio di Stato, sez. V, 9 giugno 2008, n. 2803, che offre alcuni spunti di notevole interesse in ordine all’uso della trattativa privata nel settore dei lavori pubblici, metodo di gara al quale, come si sa, spesso ricorrono gli enti locali, per procedere con maggiore celerità al disimpegno delle loro funzioni.

 

Nello specifico, la controversia addotta all’esame del giudice amministrativo nasce dal ricorso proposto da un’impresa (parte interessata, in quanto aspirante aggiudicataria delle gare informali di cui a breve si dirà) avverso la delibera di Giunta assunta in sede di autotutela da un piccolo Comune calabro, per annullare alcune delibere con cui l’organo esecutivo aveva disposto di procedere, mediante trattativa privata e per importi inferiori a 100.000,00 €, all’affidamento:

 

a)      dei lavori di adeguamento ed ampliamento della pubblica illuminazione nel centro abitato;

b)      di alcuni interventi di completamento di una sala polivalente con annessi servizi.

 

Le ragioni che inducono l’ente locale all’esercizio del potere di autotutela sono, nel caso di specie, alcuni profili di illegittimità delle deliberazioni annullate, come individuati in un apposito parere legale acquisito dal Comune stesso e addotto quale motivazione del riesame.

 

Ora, al di là dei valori economici piuttosto esigui della posta in gioco, gli argomenti invocati dall’ente locale a giustificazione del proprio operato, che sono all’origine del contenzioso insorto con l’impresa de qua, danno la misura delle importanti questioni di principio che formano oggetto della pronuncia giurisprudenziale in commento, con la quale peraltro il Consiglio di Stato conferma integralmente la decisione assunta in primo grado.

 

Ciò che, melius re perpensa, spinge il Comune a ritornare sui propri passi è, in primo luogo, una diversa, più rigorosa valutazione dei presupposti eccezionali d’imprevedibilità ed urgenza previsti dall’art. 41 del R.D. 23 maggio 1924, n. 827 per dare corso alla trattativa privata, che, alla luce del riesame così eseguito, non vengono per nulla rinvenuti nelle circostanze afferenti le gare informali originariamente indette.

 

Su questo punto invero il giudice amministrativo, nel valutare con favore il ripensamento dell’ente locale, non serba sorprese di sorta, dacché si limita a rievocare e ribadire un principio di diritto ormai consolidato, tutto proteso ad interpretare in maniera restrittiva l’applicabilità della trattativa privata, in quanto metodo che rappresenta un’eccezione ai principi di libera concorrenza.

 

Secondo una pacifica giurisprudenza, per poter ricorrere alla trattativa privata occorre, da un lato, che l’imprevedibilità dell’evento abbia carattere oggettivo – sia tale cioè da escludere che l’urgenza sia sopravvenuta per comportamento colpevole dell’amministrazione – ed è altresì necessario, dall’altro lato, che l’urgenza sia qualificata e non generica, ossia che venga motivata con esigenze eccezionali e contingenti tali da far ritenere che il rinvio dell’intervento comprometterebbe irrimediabilmente il raggiungimento degli obiettivi perseguiti dalla stazione appaltante.

 

Appare evidente, alla luce di queste considerazioni, che il Consiglio di Stato non ha potuto che censurare con drasticità l’operato antecedente dell’ente locale, ove risultava che la trattativa fosse utilizzata “come metodo ordinario di affidamento di affidamento degli appalti, anziché come sistema di carattere straordinario”.

 

Un discorso ben diverso vale, invece, per la seconda questione di principio affrontata nella sentenza, incentrata sulla tematica afferente la facoltà di frazionare in lotti l’opera pubblica, nei limiti consentiti dall’art. 24, commi 4 e 7, della legge n. 109/1994, trasfuso in maniera meno circostanziata, in parte qua, nell’art. 125, comma 13, del codice dei contratti.

 

Benché non escluso da un espresso divieto, il frazionamento in lotti di un’opera pubblica è guardato con circospezione non solo e non tanto allo scopo di evitare che una pluralità di contratti venga a comportare per l’ente affidante un incremento di costi e/o una disgregazione in più rivoli delle connesse responsabilità contrattuali, quanto soprattutto per evitare che la stazione appaltante, aggirando la normativa nazionale e comunitaria, disponga il frazionamento artificioso degli appalti con importi ridotti per far rientrare ogni intervento entro la soglia consentita per ricorrere alla trattativa privata, derogando così al metodo competitivo della libera concorrenza.

 

Intorno a questi argomenti si è sviluppata, nel corso degli anni, un’intensa attività interpretativa, cui l’Autorità per la Vigilanza sui Lavori Pubblici ha messo un punto fermo con la determinazione n. 5 del 9 giugno 2005.

 

Tale provvedimento, prendendo lo spunto dalle molteplici segnalazioni pervenute all’Autorità da varie stazioni appaltanti, mette a fuoco i connotati essenziali che ogni singolo lotto deve rivestire per attuare in maniera legittima alla suddivisione dell’opera, individuando il concetto di lotti “funzionali”, ossia delle parti di un lavoro generale la cui progettazione e realizzazione sia tale “da assicurarne funzionalità, fruibilità e fattibilità, indipendentemente dalla realizzazione delle altre parti”.

 

Secondo tale provvedimento, l’autonoma funzionalità ed utilità dei lotti così individuati ha il pregio di trovare una giustificazione in termini di efficienza ed economicità, nonché di evitare, nel caso di mancato completamento dell’opera, uno spreco di risorse economiche e, quindi, un danno per l’erario.

 

A titolo esemplificativo di quanto appena esposto, si rileva quivi che “se, dunque, l’opera consiste in un edificio, o un complesso di edifici destinati, per esempio, ad una scuola o ad un ospedale, o se trattasi di una strada, una fognatura o un acquedotto, i lavori realizzati con il singolo appalto devono consentire la parziale apertura al pubblico o, comunque, l’attivazione del servizio al quale l’opera è destinata”.

 

In maniera analoga e corrispondente, il concetto di lotto “funzionale” è la giusta chiave interpretativa, sempre ad avviso dell’Autorità, per dare corso al cosiddetto appalto “scorporato” di un’opera (quando ad esempio la stazione appaltante affida, con appalti separati, da un lato la realizzazione della parte edile di un’opera pubblica e dall’altro l’esecuzione delle opere impiantistiche) o, infine, all’assegnazione di lotti distinti in tempi successivi (art. 24, comma 7, della legge n. 109/1994).

 

È evidente che queste dettagliate precisazioni si sono dimostrate un prezioso ausilio alle stazioni appaltanti (e, segnatamente, al responsabile di procedimento sul quale grava l’onere di certificare, sotto il profilo tecnico, le correlative attestazioni) con l’aspettativa, talora, che la scrupolosa ottemperanza alle indicazioni dell’Autorità mettesse al riparo l’ente locale da un possibile addebito di responsabilità connesso al frazionamento artificioso in lotti di un’opera pubblica, nelle specifiche circostanze date.

 

D’altra parte, in una chiave di lettura positiva, la più autorevole giurisprudenza non ha mancato di mettere in luce i pregi che la corretta ripartizione di un’opera pubblica in lotti funzionali è in grado di offrire, per incrementare la qualità dell’intervento della Pubblica Amministrazione.

 

È utile ricordare, in questo senso, che ad avviso di Palazzo Spada “il frazionamento in lotti può essere legittimamente previsto sia per assicurare un migliore svolgimento del servizio per ragioni puramente organizzative sia per riservare alcune parti di un servizio più complesso ed articolato in più prestazioni solo a soggetti idonei perché in possesso di una qualificazione speciale e, comunque con un sostanziale rispetto delle regole di concorrenza e di apertura delle gare al numero più ampio possibile di partecipanti” (decisione n. 2346, Sezione V, del 10 maggio 2005).

 

Non bisogna però dimenticare che la condizione della funzionalità di ogni singolo lotto, da un lato, e l’osservanza della normativa comunitaria posta a tutela della libera concorrenza, dall’altro, non si misurano con gli stessi pesi al piatto della bilancia, con la pratica conseguenza che quando la somma degli importi dei singoli lotti supera la soglia comunitaria, per l’appalto relativo a ciascun lotto deve comunque applicarsi la disciplina comunitaria.

 

In questa direzione si è espressamente pronunciata la sezione IV del Consiglio di Stato con la sentenza 13 marzo 2008, n. 1101, la quale ha chiarito che “in sede di gara d'appalto di lavori pubblici, la suddivisione in lotti di un'opera non è in sé illegittima, ma impone l'applicazione comunque del diritto comunitario se la somma degli importi dei singoli lotti supera la soglia comunitaria (Consiglio di Stato, sezione VI n. 3188/04). Inoltre, l'art. 6 della Direttiva CEE n. 93/37 (che impone di sommare l'importo dei singoli lotti di un'opera unitaria, al fine della determinazione della soglia comunitaria e dell'applicazione della disciplina comunitaria) è immediatamente applicabile nell'ordinamento interno”.

 

Ora di nuovo il Consiglio di Stato, con la sentenza in esame della sezione V, n. 2803/2008, focalizza l’attenzione sull’esigenza fondamentale e prioritaria di non eludere il diritto comunitario in tema di libera concorrenza, ampliando, per così dire, il florilegio dei casi da ascriversi al frazionamento artificioso degli appalti.

 

Nel ritenere, infatti, illegittimi gli atti annullati per effetto della impugnata autotutela, il giudice amministrativo – riferendosi a lavori di cantiere commissionati in varie zone comunali che distano tra loro anche decine di chilometri – fa segno di disinteressarsi dell’autonoma fruibilità e funzionalità che gli interventi possono rivestire, per affermare che “nel caso di specie, la circostanza della distanza geografica non ha peso: (...) domina su tutto il fatto che si tratta di lavori pubblici comunali, vale a dire di un ambito territoriale per definizione circoscritto e tale da consentire il simultaneo controllo operativo, da parte dell’appaltatore, dei vari cantieri. Nulla consentiva dunque di derogare al principio moralizzatore del divieto del frazionamento artificioso degli appalti di opere pubbliche finalizzato alla elusione del divieto della trattativa privata al di sopra della soglia degli € 100.000,00”.

 

Il carattere lapidario dell’asserzione non lascia margini a dubbi, con l’effetto che se il valore di un intervento complessivo supera la soglia prevista dalla normativa comunitaria, soltanto questo conta e nessun’altra considerazione potrà essere addotta per ripartire l’opera pubblica in lotti.

 

L’ulteriore principio di diritto statuito con la sentenza in commento può forse considerarsi di carattere “accessorio” rispetto alla questione di fondo, ma non per questo appare di secondaria importanza nel delicato rapporto tra la Pubblica Amministrazione e i soggetti terzi.

 

Il giudice amministrativo ha potuto ritenere ineccepibile l’esercizio del potere di autotutela da parte del Comune, che con tale modus operandi ha annullato le gare in precedenza indette, grazie al fatto che la situazione giuridica soggettiva dell’impresa ricorrente – in qualità di soggetto partecipante alle gare medesime – poteva relegarsi ad una mera aspettativa di ottenere gli affidamenti dall’ente locale, non risultando intervenuta nel corso del relativo procedimento né l’aggiudicazione, né tanto meno la stipula del contratto.

 

Ne consegue che, nel caso di specie, rileva il giudice che “non era necessario motivare circa l’interesse pubblico concreto ed attuale, né circa la comparazione tra l’interesse pubblico e quello privato, dato che l’esercizio del potere di autotutela andava ad incidere su posizioni giuridiche non consolidate”.

 

Su questo punto vale soltanto la pena aggiungere che, secondo un indirizzo giurisprudenziale altrettanto consolidato in materia di appalti e contratti, alla pubblica amministrazione non è precluso di procedere con atto successivo perfino alla revoca d'ufficio e all’annullamento della stessa aggiudicazione, purché, in tal caso, il provvedimento sia adeguatamente motivato e faccia richiamo ad un preciso e concreto interesse pubblico (Consiglio di Stato, sezione IV, 14 gennaio 2000, n. 244; Consiglio di Stato, sezione IV, 12 settembre 2000, n. 4822; Consiglio di Stato, sezione V, 20 settembre 2001, n. 4973; Consiglio di Stato, sezione IV, 22 ottobre 2004, n. 6931).

 

Si tratta di una libertà di “fare marcia indietro” giustamente riconosciuta dall’ordinamento giuridico all’ente pubblico, perché ne faccia uso, all’occorrenza, in modo accorto e prudente, come del resto il caso considerato con la decisione in esame è, tutto sommato, una dimostrazione esemplare.

 

 

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