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La liberalizzazione dei servizi pubblici locali dal monopolio al ... monopolio.
di Bruno Spadoni 15 aprile 2009
Materia: servizi pubblici / disciplina

LA LIBERALIZZAZIONE DEI SERVIZI PUBBLICI LOCALI

DAL MONOPOLIO AL…MONOPOLIO

 

 

Mentre per effetto della crisi in atto si assiste ad un crescente peso dello Stato nell’economia, il dibattito sui servizi pubblici locali sta prendendo recentemente tutt’altra direzione. Sulla scia delle recenti prese di posizione dell’Antitrust alcuni commentatori, lamentando la timidezza e l’inefficacia del processo di liberalizzazione del settore, prospettano l’esigenza di una più decisa apertura dei mercati. La critica da cui vengono prese le mosse, in effetti, non si limita alla denuncia di un fatto indubbio, costituito dai modesti risultati conseguiti dalle norme di liberalizzazione, generali e settoriali, succedutesi in questi anni, ma si concentra sullo stesso disegno istituzionale giudicato insufficiente se non proprio elusivo. In particolare si osserva che l’articolo 23 bis della legge 133/2008, contenente norme di riforma dei servizi pubblici locali di rilevanza economica costituisce, di fatto, un compromesso al ribasso con cui si finisce per legittimare e perpetuare lo statu quo a tutto vantaggio dei monopoli pubblici in essere. In particolare si sostiene che in queste norme e in quelle che le hanno precedute l’orientamento alle gare per l’affidamento del servizio non è stato né completo, né rigoroso e coerente e che quindi che, dati i risultati e le difficoltà, è preferibile superare anche questo approccio e prevedere una completa apertura dei mercati alla concorrenza. Si tratterebbe, insomma, di passare dalla concorrenza “per” il mercato alla concorrenza “nel” mercato non più in una logica di sussidiarietà orizzontale ma in modo pressoché generalizzato.

Un’affermazione così decisa e radicale meriterebbe un’accurata discussione in ordine ai diversi aspetti del problema e alle conseguenze che potrebbero derivare dalla concreta adozione di un tale orientamento. In questa sede ci limiteremo solo ad alcune notazioni che scaturiscono soprattutto dall’osservazione dei fatti. A questo proposito una prima domanda concerne i motivi per i quali il percorso istituzionale, iniziato oltre dieci anni fa, non si sia ancora concluso e non abbia centrato il bersaglio comune a tutti i provvedimenti succedutisi, vale a dire il superamento degli affidamenti diretti e l’affermazione della concorrenza. Queste norme, in effetti, hanno presentato generalmente un carattere di uniformità con l’intento di ricondurre ad una disciplina comune situazioni molto diverse tanto sul piano settoriale che territoriale. Tuttavia sono proprio le specificità a determinare le condizioni di percorribilità e di convenienza e i tempi per attuare la liberalizzazione e non considerarle significa seguire un percorso astratto e inefficace. Si consideri che il passaggio dall’affidamento diretto alla gara pur consentendo potenziali miglioramenti di efficienza comporta anche una maggiore complessità regolatoria e un più o meno intenso aumento dei cosiddetti costi di transazione. La principale condizione affinché il miglioramento delle performances di efficienza da potenziale divenga reale è che il mercato presenti un sufficiente spessore, mentre l’aumento dei costi di transazione sarà tanto più elevato quanto maggiori sono le difficoltà di specificazione dei contratti e, soprattutto, quanto minori sono le capacità di monitoraggio e controllo degli enti locali. E’ pertanto possibile che, pur nel quadro di un disegno di liberalizzazione, sia preferibile nel breve periodo ricorrere temporaneamente ad un affidamento diretto. Ciò vale, in particolare, in situazioni di accentuata frammentazione con la diffusa presenza di gestioni in economia. In questi casi generalmente la scelta più opportuna consiste in un percorso di transizione, rigorosamente delimitato nel tempo, volto a creare le condizioni di economicità e imprenditorialità per il  ricorso al mercato mediante l’unificazione di reti e servizi e la loro gestione in forma aziendale anche mediante una società pubblica. Nell’ipotesi, poi, di un insufficiente numero di competitori (fino al caso limite di assenza di una pluralità di essi) e/o di un’evidente incapacità dell’ente locale di esercitare il ruolo di indirizzo e monitoraggio la scelta migliore può risultare il passaggio temporaneo per un affidamento in house nel corso del quale migliorare le capacità e gli strumenti degli enti locali nella prospettiva di un “ispessimento” del mercato.

Si tratta, come si può notare, di un semplice ricorso alla ragionevolezza che di per sé è assai lontano da prese di posizione di stampo ideologico. Seguire la strada di una liberalizzazione forzata per legge espone infatti a reazioni di rigetto che, nel migliore dei casi, ne vanificano i risultati, nel peggiore producono l’esito opposto. Si pensi a tale riguardo a due diverse esperienze: da un lato quella del trasporto pubblico locale per il quale la legge (il d.lgs 422/1997) ha previsto la gara quale unica forma di affidamento. Dopo dodici anni questa norma non è ancora divenuta obbligatoria e le poche gare effettuate hanno visto immancabilmente il prevalere delle ex municipalizzate uscenti. Per quanto riguarda, poi, il servizio idrico integrato il 70% delle gare indette per la scelta del gestore o anche solo per la selezione del socio privato nelle società miste è andata deserta o ha avuto la presenza di un solo partecipante. Prevalgono a seconda dei casi due principali ordini di remore: da un lato gli stringenti vincoli regolatori, non sempre definiti in modo coerente, volti a garantire l’universalità del servizio e la sostenibilità delle tariffe, dall’altro la presenza di barriere all’entrata costituite sia dall’elevato valore delle reti, sia (soprattutto nel settore del trasporto) dall’obbligo ad assorbire il personale dell’incumbent.

Quindi già la forma meno “spinta” di apertura del mercato, anche in conseguenza dell’eccessiva astrattezza e semplificazione delle norme che l’hanno promossa, è rimasta molto distante dai risultati voluti. Ben più complicata e rischiosa è la strada della concorrenza “nel” mercato che costituisce l’ultima scoperta dei liberalizzatori “nostrani”. Si deve pensare, infatti, che alcuni servizi pubblici contengono una componente di monopolio naturale non contendibile e in molti casi si è in presenza di oneri di universalità che impongono trasferimenti pubblici o sussidi incrociati. Quindi l’affidamento completo al mercato in tali circostanze non è in sé attuabile salvo che non si decida di accettare situazioni di monopolio privato o non si accetti di rinunciare alla garanzia di universalità. Naturalmente si possono ricercare strade che, almeno parzialmente, rendono percorribile questa soluzione. La più nota è quella consistente nella  separazione tra la proprietà e la gestione delle reti e l’erogazione del servizio lasciando quest’ultimo segmento della filiera al libero gioco della concorrenza in virtù della possibilità di accesso libero e indiscriminato alle reti stesse. La concreta realizzazione di tale disegno, in effetti,  non è affatto agevole. Innanzitutto occorre evitare conflitti di interessi e quindi assicurare la rigorosa separazione tra gestori delle reti ed erogatori dei servizi. Sotto quest’ultimo aspetto un semplice unbundling non è ritenuto adeguato e occorre seguire la via della separazione societaria o di quella proprietaria che fornisce le maggiori garanzie. Al di là della complessità di tale disegno organizzativo e regolatorio, peraltro, occorre sottolineare che questa soluzione in alcune circostanze non è attuabile e ciò,in particolare, per quei servizi (quali ad esempio quelli idrici) che  si caratterizzano per le loro specificità qualitative in quanto ciò che è immesso nella rete non può essere esattamente ciò che ne esce. Le esperienze concrete non hanno prodotto risultati particolarmente incoraggianti. Un caso di scuola molto significativo è quello che concerne la separazione della rete fissa di trasporto dal servizio. La coincidenza proprietaria delle società di gestione dei due segmenti della filiera, infatti, non ha assicurato interamente l’indipendenza e la parità di accesso per quanto riguarda soprattutto l’allocazione delle tratte. La scelta, poi, di attribuire al gestore del trasporto parti accessorie ma determinanti del servizio lo ha di fatto posto in posizione di vantaggio rispetto agli altri. Infine la proprietà del materiale rotabile di ammontare molto ingente in capo a quest’ultimo ha determinato un’elevata barriera all’ingresso. In sostanza l’esito attuale della vicenda (anche se in via di parziale superamento per l’ingresso nel mercato dell’alta velocità di un altro operatore) è un doppio monopolio pubblico: il primo, quello delle reti, regolato, il secondo, quello del trasporto, del tutto libero in quanto, proprio per effetto della liberalizzazione “per decreto” può operare in assenza di indirizzi da parte della pubblica autorità relativamente agli standard quali-quantitativi di prestazione e alle tariffe (che in effetti negli ultimi mesi sono ripetutamente e significativamente aumentate per decisione del gestore). L’altro grande problema che complica la scelta della concorrenza “nel” mercato consiste, come si è anticipato, negli oneri di universalità. Uno dei modi in cui questi ultimi sono stati finanziati (oltre ai trasferimenti pubblici) è stato quello dei cosiddetti “sussidi incrociati” che consiste in sostanza nell’impiegare i surplus delle parti redditizie del servizio (ad esempio, per restare al trasporto pubblico, le tratte più frequentate o, considerando il servizio postale, i recapiti nei centri urbani più densamente popolati) per coprire i deficit di quelle necessarie a garantire l’accesso per tutti i cittadini. Una scelta di piena apertura dei mercati provocherebbe effetti cosiddetti di “scrematura” (cream skipping) nel senso che tutti si concentrerebbero sui segmenti convenienti del servizio lasciando deserti gli altri. Allora, per assicurare l’universalità, si avrebbe, come unica possibilità quella di affidare ad un soggetto, presumibilmente pubblico, sovvenzionato da trasferimenti, il compito di gestire i “rami secchi”. Il brillante risultato di tutta l’operazione sarebbe dunque che un disegno di deregulation per essere sostenibile dovrebbe tramutarsi nel suo opposto, e cioè nella necessità di assicurare la proprietà pubblica.

Ciò, naturalmente, non significa che sia impossibile collocarsi su un sentiero di apertura della concorrenza. Ciò che si vuole sottolineare con forza è che una scelta del genere, sia nella forma della concorrenza “per” il mercato, sia, soprattutto,  in quella della concorrenza “nel” mercato, deve essere realizzata con consapevolezza ed attenzione ai termini concreti e specifici del problema non perdendo mai di vista alcuni aspetti fondamentali. In particolare occorre sempre osservare il reale spessore del mercato di riferimento al fine di evitare il passaggio da monopolio a monopolio, poi, non meno rilevante, essere consapevoli della reale capacità dei soggetti pubblici di esercitare il complesso ruolo loro assegnato in una prospettiva di liberalizzazione. Si pensi, infatti, alla delicatezza e alla difficoltà sia delle fasi di definizione dei contenuti del un bando di gara e della sua aggiudicazione, sia in quelle a valle di negoziazione, monitoraggio e controllo del Contratto di servizio. Il processo in corso di riorganizzazione della Pubblica Amministrazione dovrebbe trovare su questo terreno una materia privilegiata di sviluppo. Innalzare la competenza e la professionalità dei soggetti posti a presidiare queste funzioni insieme alla disponibilità di adeguate strutture costituisce, infatti, uno dei principali presupposti per passare, come si usa dire, “dalle parole ai fatti”.

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