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SERVIZI PUBBLICI LOCALI E MEZZOGIORNO
di Bruno Spadoni 9 dicembre 2009
Materia: servizi pubblici / disciplina

Lo stato di arretratezza dei servizi pubblici e delle infrastrutture nel Mezzogiorno costituisce ad un tempo causa ed effetto del ritardo di queste aree, come è dimostrato da indagini svolte a livello sia nazionale che europeo in cui si evidenzia lo stretto legame tra dotazione di infrastrutture e servizi da un lato e grado di sviluppo economico e industriale dall’altro. L’attività economica, infatti, ha bisogno di alcuni presupposti fondamentali per essere esercitata: in particolare che le aree presentino un insieme minimo di servizi di base sia per la produzione in quanto tale, sia per i soggetti in essa coinvolti: dai lavoratori, al management, ai fornitori e ai clienti, a tutti gli altri stakeholders. Tanto più capillare è questa rete quanto più elevato è il grado di efficienza dei territori. Per rendersi conto dell’importanza di questo fattore di sviluppo basta riflettere sulle esperienze dell’intervento straordinario nel Mezzogiorno. L’esito insoddisfacente di molte iniziative in esso ricadenti, in effetti, è da ricondurre in misura assai rilevante all’assenza di un tessuto economico e sociale propizio al loro svolgimento. Come è stato sottolineato nei giorni scorsi dal Governatore della Banca d’Italia il nodo consiste nelle persistenti arretratezze infrastrutturali e negli scadenti livelli di qualità e di diffusione dei servizi pubblici e sociali senza il cui superamento si rischia di disperdere risorse o peggio di indirizzarle, di fatto, verso usi impropri.

In effetti gli squilibri che affliggono il Mezzogiorno si traducono anche in situazioni di degrado ambientale e sociale in conseguenza delle quali si innesta un circolo vizioso in cui lo stato di arretratezza infrastrutturale e di assoluta insufficienza di servizi a beneficio dei cittadini produce sfiducia nelle istituzioni e la ricerca di soluzioni individuali, non sempre lecite, ai bisogni collettivi. Tra i tanti possibili esempi si pensi al fenomeno delle discariche abusive di rifiuti, anche tossici, a quello degli allacci abusivi alle reti acquedottistiche, a quello dell’evasione dal pagamento dei biglietti nel trasporto locale. Una tale situazione favorisce, quindi, la proliferazione di comportamenti illegali (una sorta di “alegalità di massa”) che costituisce a sua volta il terreno di coltura della malavita organizzata. L’assenza di condizioni di sicurezza e di certezza inibisce le decisioni di investimento alimentando così una sorta di “trappola del sottosviluppo”.

Il ritardo infrastrutturale si manifesta innanzitutto nell’insufficienza degli impianti e delle reti. Una ricognizione sufficiente della situazione impiantistica non è disponibile a causa dell’incompletezza delle informazioni (mancano o sono del tutto carenti quelle relative alle gestioni dirette e alle concessioni ai privati). I dati di fonte Confservizi (gli unici attendibili),  forniscono comunque un quadro parziale ma significativo della situazione: a fronte di un valore complessivo delle immobilizzazioni di quasi 50 miliardi di euro, solo l’8% è localizzato al Sud contro il 67% del Nord e il 25% del Centro. Questo divario è il risultato di più cause: non solo il minor grado di infrastrurazione, ma anche la diffusione di gestioni dirette e il maggior peso di servizi caratterizzati da bassa intensità di capitale. Con le stesse avvertenze va anche considerato il dato relativo alla distribuzione territoriale del patrimonio netto che per il solo 5,5% appartiene ad imprese meridionali, il 68,5% a quelle del Nord e il 26% a quelle del Centro.

Un segnale significativo di tale arretratezza strutturale si può ricavare, almeno nei settori idrico e dei rifiuti, da alcuni dati relativi agli standard di prestazione dei servizi. In campo idrico le condizioni precarie delle reti nelle Regioni meridionali determinano dispersioni d’acqua molto più elevate. Secondo i dati contenuti nell’ultimo Rapporto Coviri,  a fronte di una percentuale media nazionale del 37% le dispersioni al Sud raggiungono una quota di oltre il 53%. Nel settore dei rifiuti lo stato di difficoltà del Mezzogiorno si evince, tra l’altro, sia dalla bassa percentuale di raccolta differenziata (il 9,85% al Sud e il 6,59% nelle isole a fronte di una media nazionale del 24,30%), sia dalla modesta quota di rifiuti avviati all’incenerimento (l’1,35% al Sud e il 5,97% nelle isole contro il 10,14% nazionale), sia, infine, per l’ancora prevalente importanza dello smaltimento in discarica (61,97% al Sud e 86,47% nelle isole da raffrontare con il 54,38% nazionale). Nel trasporto pubblico locale i ritardi si manifestano soprattutto nel parco mezzi la cui età media negli anni più recenti ha ripreso a salire e nella dotazione di reti metropolitane che, soprattutto nelle città del Sud, è molto lontana da quella delle metropoli europee in termini di numero e di lunghezza delle linee. Tenendo conto anche della situazione del settore energetico che richiede anch’esso la necessità di potenziare impianti e reti per superare i deficit e favorire sicurezza e continuità nelle Regioni meridionali si comprende come la dimensione complessiva degli investimenti da realizzare nel Mezzogiorno sia estremamente elevata.

Con riferimento ai soli settori di cui si dispone di informazioni, sia pure meramente orientative,  il fabbisogno di investimento è stimato in 24 miliardi di euro nei prossimi 10 anni nel settore idrico (per il 45% negli acquedotti e per il 55% nella raccolta e trattamento delle acque reflue), in 10 miliardi in un decennio nel settore dei rifiuti e in 26,5 miliardi nel settore dei trasporti. La quota da destinare al Mezzogiorno non è valutabile con un’approssimazione accettabile. Essa è diversa da settore a settore, con picchi molto elevati nei servizi idrici e ambientali in ragione dei più profondi ritardi infrastrutturali.

Cifre così imponenti impongono impegni altrettanto gravosi non esclusivamente  sul terreno finanziario ma anche su quelli gestionale, organizzativo e industriale. Nelle Regioni del Sud, in particolare,  sono concentrati i maggiori problemi di frammentazione produttiva: le gestioni hanno molto spesso scala comunale e, soprattutto in alcuni settori (idrico e rifiuti), sono ancora diffuse le gestioni dirette. Mancano insomma imprese di dimensioni consistenti in grado di realizzare piani di investimento proiettati nel medio periodo e dotate di adeguati livelli economicità per l’autofinanziamento e per la raccolta di risorse mediante la finanza ordinaria e di progetto.

In sostanza il problema degli squilibri del Mezzogiorno è collegato a prospettive di politica industriale e di innovazione gestionale e istituzionale. Come è noto sotto quest’ultimo aspetto sono di recente intervenute le norme di riforma dei servizi pubblici locali (l’art. 23-bis della Legge 133/2008 e l’art. 15 del DL 135/2009 convertito nella Legge 166/2009), le quali prospettano l’apertura dei mercati alla concorrenza e una progressiva privatizzazione delle gestioni. Non è questa la sede per entrare nel merito di tali norme se non per segnalarne alcuni aspetti attinenti al tema in esame.

Innanzitutto le disposizioni suddette dovrebbero favorire il definitivo superamento delle gestioni dirette, concentrate prevalentemente nel Mezzogiorno, che rappresentano un ostacolo assai ingombrante per l’innovazione imprenditoriale e per il conseguimento di economie di dimensione. In secondo luogo anche gli stringenti limiti e condizioni posti agli enti locali per l’affidamento diretto in house potrebbero, almeno in linea di principio, andare nella medesima direzione. Infine la previsione della gara come forma ordinaria di affidamento e, nel caso di società miste (quotate e non), l’obbligo di destinare elevate quote di proprietà ai privati dovrebbe, secondo le intenzioni, promuovere l’afflusso di capitali privati.

Ad una prima lettura, dunque, la riforma sembrerebbe andare nel verso giusto favorendo politiche e comportamenti che costituiscano i presupposti necessari per lo sviluppo dei servizi nel Mezzogiorno. Tuttavia questo giudizio positivo va accompagnato da alcune osservazioni che tengano conto della situazione presente nelle Regioni meridionali.

Ci si riferisce, in particolare, agli assetti produttivi, organizzativi e gestionali che non si prestano a scelte drastiche e di impatto immediato: sul piano produttivo lo stato precario delle infrastrutture e  la presenza di reti locali non interconnesse sul territorio; sul piano organizzativo la notevole dispersione ed  il prevalere assoluto di gestioni comunali dirette o di società pubbliche in house; sul piano economico il notevole divario tra costi e ricavi e la diffusa assenza di condizioni di economicità.

I presupposti per una tempestiva liberalizzazione, dunque, non sembrano al momento essere presenti e in numerosi casi (soprattutto nel settore idrico e dei rifiuti) l’esigenza più immediata è quella di costruirli. Del resto l’esperienza delle gare finora bandite (non solo per la gestione del servizio ma anche per la selezione del socio privato) non è particolarmente incoraggiante. Spesso esse sono andate deserte o hanno registrato la presenza di un solo partecipante.

 

Ciò naturalmente non significa che l’obiettivo di aprire i mercati dei servizi pubblici locali alla concorrenza non debba essere perseguito. Occorre però che esso venga calato nella specificità dei problemi settoriali e territoriali superando i caratteri di uniformità e drasticità che caratterizzano le attuali norme di riforma al pari delle precedenti.

In altri termini sembra improbabile il successo di gare relative a servizi che, al momento, sono frammentati e non economici e che prevedono massicci investimenti per la ristrutturazione e il potenziamento delle infrastrutture. Ciò richiama l’esigenza di adottare idonee misure in fase di transizione. In particolare, già in occasione del Regolamento attuativo dell’articolo 23-bis, attenendosi ai principi generali della Riforma, occorrerebbe prevedere che, in determinate circostanze (ove non si ravvisino le condizione per un’immediata liberalizzazione) gli enti locali possano passare transitoriamente per affidamenti diretti (in house o a società miste). In tal caso essi dovrebbero redigere programmi pluriennali, di durata corrispondente all’affidamento, recanti l’indicazione delle misure necessarie a promuovere la liberalizzazione, quali l’interconnessione delle reti, l’unificazione dell’insieme polverizzato delle gestioni e l’avvio di progetti di investimento volti a colmare i deficit strutturali e di prestazione. Al fine di evitare che ciò comporti un’elusione o un eccessivo allungamento dei tempi dell’apertura dei mercati si dovrebbe anche prevedere un intervento ex ante e in itinere  dell’Antitrust (meglio se associata all’Autorità di regolazione) che valuti e segua i suddetti processi. Tale intervento, quindi, come prevede la riforma, dovrebbe essere effettivamente fondato su un esame complessivo delle “caratteristiche sociali, ambitali e geomorfologiche del contesto territoriale di riferimento” e non limitarsi ad un mero giudizio sulla presenza o meno di una soglia economica di rilevanza concorrenziale. Una tale condotta, sostanzialmente seguita fino ad ora (in conseguenza della quale i pareri espressi sulla percorribilità della soluzione in house sono stati praticamente tutti negativi), oltre a non corrispondere alle disposizioni, determinano risultati controproducenti rispetto allo stesso obiettivo della liberalizzazione impedendo di adottare le necessarie misure transitorie per favorirne il reale conseguimento.

Il superamento degli squilibri strutturali dei servizi nel Mezzogiorno, oltre a richiamare l’esigenza di un assetto istituzionale certo e coerente, necessita dei necessari presupposti sul piano economico-industriale e su quello finanziario. La connessione tra i due aspetti, in effetti, è diretta ed evidente. L’economicità dei servizi, in particolare, rappresenta una condizione necessaria per garantire sia l’autofinanziamento sia il ricorso alla finanza ordinaria e di progetto necessari per non gravare interamente sul bilancio pubblico

Il problema tuttavia nel Mezzogiorno non sempre può essere affrontato prevedendo l’integrale copertura dei costi (comprensivi della remunerazione del capitale) mediante  i ricavi tariffari. E’ possibile che, soprattutto in alcuni settori e circostanze, si ponga un problema di sostenibilità sociale, in particolare quando si deve coprire il finanziamento di massicci programmi di investimento. In tali circostanze non è da escludere, né da considerare aprioristicamente negativo, il ricorso a risorse pubbliche da definire a monte nella dimensione e nel profilo temporale di somministrazione. Tale ricorso può avvenire in due possibili forme: o quella della copertura dei divari tra tariffa economica e tariffa regolata, o quella del finanziamento degli investimenti in infrastrutture.

Nel primo caso il problema più delicato consiste nelle modalità di fissazione del sussidio al fine di assicurare che esso realmente finanzi gli “oneri pubblici” e non eventuali inefficienze. Si tratterebbe in tal caso di adottare sistemi di costi standard che, come insegnano le esperienze, non sempre risultano  agevoli ed efficaci.

Il sistema alternativo, e cioè l’impiego diretto (in varie possibili forme) di capitali pubblici per il finanziamento parziale degli investimenti in infrastrutture, ha il pregio di garantire maggiore trasparenza circa l’uso delle risorse, ma il difetto di un impatto immediato sulla finanza pubblica. In questo caso, inoltre, occorrerebbe disciplinare adeguatamente i problemi relativi alle modalità di conferimento dei finanziamenti al soggetto gestore, quello della remunerazione del capitale di proprietà pubblica e quello, infine, del trasferimento delle obbligazioni finanziarie in caso di  subentro di un nuovo gestore.

In conclusione il ruolo strategico assegnato all’obiettivo di rafforzare la dotazione infrastrutturale e di servizi nel Mezzogiorno impone l’adozione di politiche che  integrino in un disegno unitario misure diverse: quelle istituzionali, quelle di politica industriale, quelle regolatorie e quelle finanziarie. Il problema, più in particolare, consiste nell’affrontare negli specifici contesti settoriali e territoriali, l’esigenza di garantire le finalità pubbliche, tra le quali lo sviluppo territoriale, in una prospettiva di liberalizzazione e in presenza di ristretti vincoli di finanza pubblica. E’ del tutto evidente che la complessità del compito non si presta a soluzioni semplificate e unilaterali ma impone scelte fondate su un’attenta valutazione delle specifiche realtà in cui si collocano e su una condivisione, il più possibile estesa, dei principali protagonisti del sistema decisionale, i cui comportamenti e le cui funzioni di reazione sono decisivi per il successo delle politiche adottate. Il sentiero da percorrere, occorre riconoscerlo esplicitamente, è stretto e impervio. Esso va ricercato in un non facile equilibrio tra le resistenze al cambiamento e l’adozione di soluzioni innovative evitando tanto la conservazione dello statu quo quanto controproducenti “fughe in avanti” di stampo ideologico.

 

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