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Servizi pubblici locali: nulla cambia tutto si trasforma.
di Gerardo Guzzo 30 marzo 2010
Materia: servizi pubblici / disciplina

SERVIZI PUBBLICI LOCALI: NULLA CAMBIA TUTTO SI TRASFORMA.

 

SOMMARIO: 1. Introduzione. 2. La sentenza n. 1282 del 5 marzo 2010 della sezione V del Consiglio di Stato. 3. Il ricorso per legittimità costituzionale n. 6 della Regione Puglia depositato il 18 gennaio 2010. 4. La deliberazione n. 2 dell’AVCP  del 12 gennaio 2010. 5. La sentenza del T.a.r. Puglia – Lecce n. 622 del 24 febbraio 2010. Conclusioni.

 

1.         Introduzione.

 

L’odierno intervento, attraverso l’analisi di alcune significative pronunce giurisprudenziali, vuole stigmatizzare ancora una volta il clima di estrema incertezza e fluidità che si respira nel complesso universo delle società pubbliche, a riprova della circostanza che le ultime vicende legislative, lungi dall’aver introdotto un consolidato sistema organico di norme pacificamente interpretabili, hanno finito per alimentare ulteriormente una situazione di intollerabile incertezza. In questo quadro, dai contorni piuttosto rarefatti, si colloca il ricorso per legittimità costituzionale proposto dalla Regione Puglia avverso l’articolo 15 della legge n. 166/09, censurato per sospetta violazione degli articoli 114 e 117, comma 3, della Carta, seguito da quello proposto da altre cinque Regioni. Lo stesso Consiglio di Stato, con la sentenza della sezione V, n. 1282, del 5 marzo 2010, affermando il principio dell’extraterritorialità delle società a capitale interamente pubblico o misto, di cui all’articolo 13 del d.l. n. 223/06, riconoscendone la capacità di concorrere alla stessa stregua di un comune competitor privato, a patto che non producano beni e servizi strumentali alle attività degli enti costituenti o partecipanti, ha  contribuito, a sua volta, a creare un certo allarme negli addetti ai lavori per l’impatto destinato a produrre dalla novità sulle dinamiche concorrenziali. Peraltro, si tratta di un arresto che segue da vicino la determinazione n. 2 dell’AVCP del 12 gennaio 2010, depositata il successivo 18 febbraio, che compie un articolato ed invero puntuale richiamo della giurisprudenza e delle novità legislative succedutesi nel corso del tempo nel tentativo di armonizzare una disciplina sin dai tempi della sentenza “Teckal” flagellata da pronunce contraddittorie che hanno dato la stura alla recente novella introdotta dal legislatore italiano con l’articolo 23-bis della legge n. 135/08, di seguito modificata dall’articolo 15 della legge n. 166/09, innanzi richiamato. In una cornice così sfumata, dai contenuti sempre piuttosto mutevoli, rientra, a pieno titolo, la sentenza del T.a.r. Puglia – Lecce, n. 622, del 24 febbraio 2010 che ha affrontato un tema di assoluta novità per quanto riguarda il mondo delle partecipazioni pubbliche: quello delle “quote rosa”. Con un dictum  fortemente innovativo, i giudici pugliesi hanno ritenuto che il rispetto del principio delle pari opportunità trovi applicazione anche nei confronti degli enti strumentali in sede di nomina degli amministratori e dei sindaci da parte dell’organo che ha la rappresentanza pubblica, introducendo nel circuito giurisprudenziale un principio di assoluta importanza.

 

2.         La sentenza n. 1282 del 5 marzo 2010 della sezione V del Consiglio di Stato.     

 

La pronuncia in rubrica del supremo organo di giustizia amministrativa affronta un tema fortemente dibattuto: quello della extraterritorialità delle società pubbliche. La sentenza appare particolarmente significativa in quanto apre alla possibilità che le società costituite o partecipate da enti pubblici possano svolgere la propria attività di impresa al di fuori dell’ambito territoriale delle amministrazioni che vi hanno dato vita. Infatti, scrivono i magistrati di Palazzo Spada, “(…) l’obbligo per le società, a capitale interamente pubblico o misto, di operare esclusivamente con gli enti costituenti o partecipanti ed il connesso divieto di svolgere prestazioni a favore di altri soggetti pubblici o privati (né attraverso affidamento diretto, né attraverso gara) riguarda solo quelle “…costituite o partecipate dalle amministrazioni pubbliche regionali e locali per la produzione di beni e servizi strumentali all’attività di tali enti in funzione di tali attività”. E’ solo la specifica missione strumentale della società rispetto all’ente che l’ha costituita ovvero la partecipa a giustificare il divieto legislativo di operare per altri soggetti pubblici o privati, al fine di non godere della posizione privilegiata sul mercato, determinata proprio dalla predetta strumentalità, ritenuta dal legislatore fonte di alterazione o di distorsione della concorrenza e del mercato e di violazione del principio di parità degli operatori (…)”. Come può ben cogliersi, si tratta di un brano della sentenza che lascia spazio a pochi dubbi. In sostanza, il divieto di operare al di fuori dell’ambito territoriale degli enti costituenti o partecipanti le società pubbliche opera, per usare l’espressione impiegata dai giudici costituzionali (1), soltanto per quei moduli societari che svolgono attività amministrativa in forma privata e non anche quegli enti pubblici che svolgono attività di impresa. Si tratta di un principio destinato ad incidere sensibilmente sulle dinamiche di mercato e che incrocia, inevitabilmente, anche l’attuale codificazione legislativa contenuta nell’articolo 23-bis della legge n. 135/08, modificato dall’articolo 15 della legge n. 166/09 (2). La norma in discorso, infatti, nel momento in cui considera le società miste un sistema di affidamento “ordinario” della gestione del servizio pubblico locale di rilevanza economica, apre a tutti gli effetti il mercato ai moduli a composizione mista e tanto in ragione del fatto che la scelta del partner privato, cui viene demandata di fatto la gestione del servizio stesso, avviene nel rispetto di tutte le garanzie a tutela della libera concorrenza. Rispetto al dato legislativo, la pronuncia del Consiglio di Stato ha compiuto un passo in avanti estendendo tale possibilità anche alle società a capitale interamente pubblico che non svolgano attività strumentali nei confronti delle amministrazioni costituenti o partecipanti. In questo senso, la sentenza pone un problema di raccordo con quanto previsto dal comma 3 dell’articolo 23-bis nella parte in cui questi considera gli affidamenti in house una ipotesi eccezionale, derogatoria rispetto al più generale affidamento della gestione del servizio a terzi e comunque circoscritta all’ambito territoriale dell’ente costituente. Si tratta di un aspetto non marginale che non può ritenersi superato dal fatto che i supremi giudici chiariscano che “(…) la specialità della norma in questione poi non ne consente l’interpretazione analogica e l’applicazione a casi diversi da quelli espressamente previsti (...)”, dal momento che sono gli stessi magistrati ad affermare all’interno della trama motivazionale un principio generale che trascende l’applicazione alle sole società di cui all’articolo 13 del d.l. n. 223/06, dunque, di portata universale. Infatti, il Consiglio di Stato, al fine di giustificare il divieto di svolgimento dell’attività al di fuori del territorio degli enti partecipanti o costituenti, precisa che è “(…) proprio l’elemento oggettivo della strumentalità a giustificare il divieto di cui si discute e non già la partecipazione delle amministrazioni pubbliche al capitale delle predette società: ciò trova del resto conforto sia nella previsione del secondo comma dell’articolo 13, secondo cui tali società sono ad oggetto sociale esclusivo, sia in quella del successivo terzo comma dello stesso articolo 13 a mente del quale le predette società devono cessare le attività non consentite entro quarantadue mesi ed a tal fine possono cedere, nel rispetto delle procedure ad evidenza pubblica, le attività non consentite a terzi ovvero scorporarle, anche costituendo una separata società (…)”. Il punto è proprio questo. Se il divieto di extraterritorialità viene fatto discendere per le società previste dall’articolo 13 non dalla partecipazione pubblica quanto, piuttosto, dal carattere strumentale, per quale motivo il principio, la cui portata generale è indubbia, non deve trovare applicazione anche nei confronti di quelle società pubbliche alle quali viene richiesto di garantire un servizio pubblico locale anche al di fuori dell’ambito territoriale degli enti di appartenenza? Certo, riguardo alle società a capitale interamente pubblico, si pone il problema di coordinare il profilo dell’extraterritorialità con l’esigenza di tutela del principio della concorrenza e della parità di trattamento, attesa la natura derogatoria di tale tipo di affidamento. Tuttavia, il principio affermato dal Consiglio di Stato non patisce tali facili obiezioni se applicato alle società miste, la cui natura essenzialmente privata, per dinamiche costitutive e meccanismi di governance, consentirebbe loro di operare e competere con altri soggetti economici per l’aggiudicazione di servizi affidati da enti diversi da quelli partecipanti. In questo senso, la sentenza del Consiglio di Stato apre un varco e va accolta favorevolmente nell’ottica di un miglioramento degli standard dei servizi offerti alla collettività.     

 

3.         Il ricorso per legittimità costituzionale n. 6 della Regione Puglia depositato il 18 gennaio 2010.

Il ricorso per legittimità costituzionale depositato dalla Regione Puglia il 18 gennaio 2010 certifica, ulteriormente, la sostanziale incertezza che, a tutt’oggi, ancora governa la materia dei servizi pubblici locali di rilevanza economica (3). Nello specifico, la Regione Puglia ha impugnato l’articolo 15 della legge n. 166/09 per sospetta violazione degli articoli 114 e 117, comma 3, della Carta. In particolare, le disposizioni in parola sarebbero illegittime “(…) in quanto limitano la potestà legislativa regionale di disciplinare il normale svolgimento del servizio pubblico da parte dell'ente, sottoponendo tale scelta a vincoli sia sostanziali (“le peculiari caratteristiche economiche sociali ambientali e geomorfologiche del contesto territoriale di riferimento, non permettono un efficace e utile ricorso al mercato”) che procedurali (“l'onere di trasmettere una relazione contenente gli esiti della predetta verifica all'Autorità Garante della concorrenza e del mercato e alle autorità di regolazione di settore, ove costituite, per l'espressione di un parere sui profili di competenza”)”. Così facendo, il legislatore avrebbe privato l’amministrazione della possibilità di operare una “(…) valutazione comparativa (….) fra tutte le possibili opzioni di scelta della forma di gestione (…)”. Sul punto, tuttavia, è facile gioco rilevare quanto è stato debitamente riportato proprio nel corpo del ricorso, vale a dire che “(…) la giurisprudenza della Corte di Giustizia - proprio al fine di assicurare il rispetto di tali regole e sul presupposto che il sistema dell'affidamento in house costituisca un'eccezione ai principi generali del diritto comunitario - ha imposto l'osservanza di talune condizioni legittimanti l'attribuzione diretta della gestione di determinati servizi a soggetti “interni” alla compagine organizzativa dell'autorità pubblica (…)”. In altri termini, la natura derogatoria dell’affidamento in house impone, gioco forza, la codificazione di limiti stringenti nella scelta e tanto in ragione delle pericolose ricadute che tale forma di gestione può produrre sul corretto funzionamento del mercato dei servizi pubblici locali. La naturale conseguenza che discende da tale stato di fatto è, appunto, l’affievolimento della libertà di scelta tra il sistema ordinario di affidamento della gestione e quello derogatorio, senza che, tuttavia, quest’ultima opzione sia preclusa alle amministrazioni. In quest’ottica, del resto, la giurisprudenza comunitaria e nazionale si sono spese nel corso degli anni, e non senza evidenti contraddizioni, al fine di meglio definire contenuti e limiti dei due presupposti legittimanti un affidamento in house: il controllo analogo e il concetto di prevalenza dell’attività. La disciplina nazionale, rispetto all’elaborazione giurisprudenziale europea e interna, ha indubbiamente introdotto un ulteriore elemento costituito proprio dalle “peculiari caratteristiche economiche sociali ambientali e geomorfologiche del contesto territoriale di riferimento”, ma nella sostanza non ha inteso privare la pubblica amministrazione della libertà di scelta tra il sistema ordinario di gestione e quello derogatorio, in quanto si è limitata a cercare un giusto equilibrio tra il principio di autonomia, cristallizzato nell’articolo 114 della Costituzione, e quello della tutela della concorrenza dettato dall’articolo 117, comma 2, lett. e) della Carta. Particolarmente rilevante, invece, è sembrata la questione di illegittimità costituzionale relativamente al comma 1-ter dell’articolo 15, nella parte in cui questi detta “(…) una disciplina articolata e specifica, invasiva delle competenze regionali (…) in materia di regolazione del servizio idrico integrato (…)”. Il viatico logico argomentativo seguito dalla Regione Puglia è certamente condivisibile. Infatti, è innegabile che la materia del servizio idrico integrato incroci beni costituzionalmente garantiti, quali quello della tutela della salute e dell’alimentazione, la cui disciplina viene ricondotta dall’articolo 117, comma 3, all’interno della competenza legislativa concorrente Stato-Regioni. E’ evidente che proprio tale configurazione, costituzionalmente orientata, privi il servizio idrico integrato di quella rilevanza economica che lo aveva attratto nell’orbita della tutela della concorrenza, riservata dall’articolo 117, comma 2, lett. e) alla competenza esclusiva dello Stato. La questione, posta in questi termini, evidenzia un chiaro vulnus alle prerogative regionali, sostanzialmente svuotate di qualsivoglia potere di intervento gestionale, nonostante l’accessibilità all’acqua costituisca un diritto universale inviolabile e inalienabile che richiede, come giustamente osservato dalla Regione Puglia, (…) forme e modalità di gestione che garantiscano un governo pubblico partecipato e un finanziamento attraverso meccanismi perequativi e di equità sociale: senza finalità lucrativa e nel rispetto dei diritti delle generazioni future e degli equilibri ecologici (…)”. In questa ottica, la legislazione statale, al massimo, avrebbe potuto disciplinare quegli aspetti che, secondo quanto affermato dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 246/09 (4), appaiono indispensabili a garantire condizioni concorrenziali uniformi nei mercati di riferimento ma che appaiono difficilmente rintracciabili nell’ambito della gestione del servizio idrico integrato, in quanto sostanzialmente privo di rilevanza economica, proprio in ragione del fatto che l’acqua costituisce un bene comune, di proprietà collettiva, indispensabile per la vita di ogni essere umano, prima ancora che per l’ambiente e, pertanto, non commerciabile.

 

4.         La deliberazione n. 2 dell’AVCP  del 12 gennaio 2010.

 

La deliberazione n. 2 dell’AVCP del 13 gennaio 2010 (5), depositata il successivo 18 febbraio 2010, prende le mosse da una deliberazione del Consiglio dell’Autorità che, con deliberazione n. 53 del 26 novembre 2008, “(…) ha disposto l'avvio di un'indagine conoscitiva sullo stato di attuazione del sistema di gestione integrata dei rifiuti da eseguirsi a cura delle Direzioni Generali OSAM ed OSIT di quest'Autorità (…)”. A seguito di tale indagine, con deliberazione n. 53 del 17 giugno 2009, lo stesso Consiglio ha disposto l'avvio di un procedimento volto ad accertare la legittimità degli attuali affidamenti in house ai soggetti gestori pubblici del servizio dei rifiuti urbani, allo scopo di assicurarne la conformità alle disposizioni di legge e alla giurisprudenza prevalente in materia, anche in relazione alla previsione contenuta nell'art. 23-bis della legge 133/2008, recentemente modificato dall'art. 15 del decreto-legge 25 settembre 2009 n.135, convertito, con modifiche, nella legge n. 166 del 20.11.2009. Dall’indagine conoscitiva sono emerse alcune criticità riguardanti il sistema di gestioni riguardanti il settore dei rifiuti urbani per lo più determinate dalla mancata delimitazione degli Ambiti Territoriali Ottimali (A.T.O.) e dalla mancata costituzione, ad opera di tutti gli enti locali ricompresi nel territorio delle A.T.O., delle Autorità d'Ambito. Nello specifico, l’Autorità ha rilevato che  le criticità riscontrate risultano in contrasto con le indicazioni del Codice Ambientale che orientano le varie fasi di gestione del ciclo dei rifiuti verso una gestione unitaria e ne determinano le modalità organizzative che debbono essere adottate sull'intero territorio nazionale, lasciando alle Regioni, tra l'altro, il compito di regolamentare le attività, ivi compresa la raccolta differenziata dei rifiuti urbani. Inoltre, dall’attività istruttoria è emerso che la maggior parte dei casi di affidamento della gestione del servizio dei rifiuti urbani ha avuto luogo mediante affidamento in house. Tale circostanza ha consentito all’Autorità di fare il punto dell’attuale stato di implementazione della disciplina dei servizi pubblici locali, fornendo alcune significative indicazioni in merito a taluni aspetti controversi, in un’ottica di auspicabile chiarificazione. In prima battuta, l’Authority ribadisce che “(…) l'ente in house non va considerato "terzo" rispetto all'amministrazione procedente, ma piuttosto come uno dei servizi propri dell'amministrazione stessa. In presenza di tali condizioni, quindi, non c'è neppure il contratto perché esso implica l'esistenza di almeno due soggetti che siano sostanzialmente distinti e tra i quali vi sia una relazione intersoggettiva. C'è, al contrario, un rapporto organico o di delegazione interorganica (…)”. Da tanto ne discende che l’affidamento in house non costituisce una fattispecie contrattuale eccezionalmente sottratta alle prescrizioni del diritto comunitario ma, al contrario, “(…) una fattispecie non contrattuale (perché manca la relazione intersoggettiva), che, come tale, per sua stessa natura, si sottrae al diritto comunitario degli appalti e delle concessioni e, quindi, all'applicazione delle regole che impongono la gara per la scelta del contraente (…)”. Successivamente, l’Autorità passa ad esaminare i due requisiti richiesti dalla giurisprudenza comunitaria in tema di affidamento in house: controllo analogo e criterio della prevalenza dell’attività. E’ interessante sottolineare come l’AVCP evidenzi che, nella elaborazione europea, tale sistema di gestione venga considerato una “deroga” alle regole di evidenza pubblica e che, pertanto, il giudice europeo ha ritenuto necessaria la predisposizione di strumenti che consentano all'ente pubblico un controllo stringente, maggiore di quello ottenibile con gli ordinari strumenti previsti dal diritto civile. Nello specifico, viene ricordato che ai fini della sussistenza del controllo analogo, occorre: a) che il Consiglio di Amministrazione della società in house non deve avere rilevanti poteri gestionali e l'ente pubblico deve poter esercitare maggiori poteri rispetto a quelli che il diritto societario riconosce alla maggioranza sociale; b) che l'impresa non deve avere una vocazione commerciale; tale vocazione risulterebbe implicita in caso di ampliamento dell'oggetto sociale, apertura obbligatoria della società ad altri capitali, espansione territoriale; c) che le decisioni più importanti devono essere sottoposte al vaglio preventivo dell'ente affidante; d) che il controllo analogo è da ritenersi escluso nel caso in cui nello statuto sia prevista la possibilità di cedere quote a soggetti privati (sul punto, però, occorre tener presente il recente orientamento della Corte di Giustizia espresso nella sentenza del 10 settembre 2009, resa nella causa C-573/07); e) che il controllo analogo non è escluso dalla circostanza che il pacchetto azionario della società sia posseduto da una pluralità di enti pubblici, anche in misura esigua per ciascuno di essi. In tal caso, la verifica sul "controllo analogo" si sposta necessariamente nel rinvenimento di clausole o prerogative che conferiscono agli enti locali partecipanti con quote societarie esigue, effettive possibilità di controllo nell'ambito in cui si esplica l'attività decisionale dell'organismo societario attraverso i propri organi (assembleari o di amministrazione). Tale controllo deve intendersi esercitabile non soltanto in chiave propulsiva o propositiva di argomenti da portare all'ordine del giorno del consesso assembleare bensì, e principalmente, di poteri inibitivi di iniziative o decisioni che si pongano in contrasto con gli interessi dell'ente locale nel cui ambito territoriale si esplica il servizio (TAR Lazio, sentenza 16 ottobre 2007, n. 9988) (6) . Quanto al criterio della prevalenza dell’attività, l’Autorità ricorda che la giurisprudenza prevalente ritiene che tale condizione sia soddisfatta quando l'affidatario diretto non fornisca i suoi servizi a soggetti diversi dall'ente controllante, anche se pubblici, ovvero li fornisca in misura quantitativamente irrisoria e qualitativamente irrilevante sulle strategie aziendali, ed in ogni caso non fuori dalla competenza territoriale dell'ente controllante (7). A margine di tale ricostruzione, l’AVCP osserva che per la gestione integrata dei rifiuti urbani l'ATO aggiudica il servizio di gestione integrata dei rifiuti urbani mediante “gara” e che, pertanto, è scomparsa la possibilità di scelta tra diversi modelli di gestione come consentito dal previgente comma 5 dell'art. 113 del TUEL, sostituita dalla previsione della procedura ad evidenza pubblica per la scelta del gestore. Il che significa che è ammessa dal Codice dell’ambiente una sola modalità di affidamento del servizio, in ragione del fatto che in questo settore esiste un mercato dove operano soggetti economici con la conseguenza che il legislatore è intervenuto a tutela di quel mercato, e in definitiva della concorrenza, creando per i rifiuti una disciplina di settore diversa rispetto a quella ordinaria. La novella del 2008-2009, che ha riscritto le regole in materia di servizi pubblici locali di rilevanza economica, a sua volta, ha introdotto un regime transitorio a tenore del quale le gestioni in house, esistenti alla data del 22 agosto 2009, cessano al 31 dicembre 2011, se conformi ai principi comunitari, ed al 31 dicembre 2010, se difformi rispetto a detti principi, salvo che entro il 31 dicembre 2011 le amministrazioni cedano almeno il 40% del capitale attraverso modalità competitive e di evidenza pubblica (8). In conclusione, l’Autorità al termine dell’istruttoria ha fotografato la sussistenza dei seguenti casi: a) affidamenti in house ritenuti conformi alle disposizioni di legge e alla giurisprudenza prevalente in materia; b) affidamenti la cui conformità è subordinata all'adeguamento delle clausole statutarie; c) affidamenti che non sono stati ritenuti conformi alle disposizioni di legge e alla giurisprudenza prevalente in materia. A fronte di tali risultati, l’AVCP ha invitato i Comuni nei quali l'affidatario del servizio di gestione integrata dei rifiuti non rispetti i requisiti necessari per l'in house, in alternativa: a) ad adeguarsi ai requisiti richiesti affinché possa ritenersi ammissibile la modalità di affidamento in house providing, fermo restando l'obbligatorietà, entro il 31 dicembre 2011, di procedere a gara ad evidenza pubblica per l'affidamento del servizio di gestione dei rifiuti urbani; b) a procedere, in alternativa, senza attendere la scadenza del 31 dicembre 2010, ad espletare una gara di evidenza pubblica per l'esternalizzazione del servizio, secondo le previsioni dell'art. 23-bis citato. Opportunamente l’Autorità ha escluso dall'obbligo della esternalizzazione del servizio con procedure concorsuali, ai sensi del comma 3 dello stesso articolo, solo quegli affidamenti per i quali situazioni eccezionali, a causa di peculiari caratteristiche economiche, sociali, ambientali e geomorfologiche del contesto territoriale di riferimento non permettono un efficace e utile ricorso al mercato. Significativa è l’osservazione finale compiuta dall’AVCP a tenore della quale un'applicazione non corretta di tale disposizione, da riferirsi esclusivamente a contesti ambientali particolari, rischia di produrre l'inefficacia della norma con conseguente tacita disapplicazione. In conclusione, si ritiene che l’intervento dell’AVCP sia decisamente salutare in quanto puntualizza alcuni aspetti, quale il carattere derogatorio ma concorrente dell’in house providing, per come esso è stato configurato a livello comunitario e nazionale, oggi oggetto di censure costituzionali da più parti sollevate.

 

5.         La sentenza del T.a.r. Puglia – Lecce, n. 622 del 24 febbraio 2010.

 

La sentenza del T.a.r. Puglia – Lecce, n. 622, del 24 febbraio 2010 (9) costituisce un unicum nel panorama giurisprudenziale nazionale in quanto non solo afferma l’applicabilità del principio delle pari opportunità alle società strumentali degli enti locali, sviluppando un articolato ragionamento che prende le mosse dalla natura di società in house del soggetto economico scrutinato, cui viene riconosciuta la natura strumentale, ma configura la nomina dei rappresentanti del Comune espressione del più generale potere di nomina attribuito al Sindaco dall’articolo 50, comma 8, del d.lgs. n. 267/2000, affermando l’applicabilità del principio costituzionale di pari opportunità all’accesso agli uffici pubblici, anche mediante nomina diretta, e questo indipendentemente da un intervento normativo o specificativo di dettaglio. Si tratta, pertanto, di una sentenza coraggiosa che va accolta con favore. In termini più specifici, il T.a.r. Lecce opera un’attenta ricostruzione dei sistemi di governance vigenti all’interno delle società in house evidenziando come i requisiti della totale partecipazione pubblica, della realizzazione dell’attività esclusivamente in favore dei soci (nella fattispecie del Comune di Lecce) e del controllo sia “strutturale” (mediante nomina degli organi amministrativi e di controllo) che “funzionale” (sull’attività svolta), da parte dell’ente pubblico, concorrano a garantire all’azionista pubblico l’esercizio di un controllo analogo a quello svolto nei confronti dei propri servizi. La conseguenza di tale situazione sarebbe la sostanziale subordinazione gerarchica della società di gestione nei confronti dell’ente pubblico in quanto completamente priva di una propria autonomia imprenditoriale e di una propria capacità decisionale. Una volta configurato l’affidataria del servizio in house un ente strumentale, i giudici hanno compiuto il passo successivo che riguarda l’inquadramento giuridico dell’atto di nomina dei rappresentanti del Comune. Secondo i magistrati pugliesi, si tratta di un atto di alta amministrazione i cui riferimenti di diritto positivo andrebbero ricercati nell’articolo 50, comma 8, del d.lgs. n. 267/2000 (10). La conclusione cui approda il collegio leccese discende dal fatto che la nomina degli organismi societari, in ipotesi del genere, avvenga in base alla circostanza che il Comune opera come autorità pubblica preposta al controllo ed al coordinamento della società, il che consente, ai fini della determinazione della giurisdizione, anche di superare il richiamo compiuto dallo statuto all’articolo 2439 del codice civile che, in quanto norma di carattere sostanziale, risulta assolutamente irrilevante a tale scopo. Quanto all’aspetto più innovativo della pronuncia, vale a dire l’applicazione del principio della parità di trattamento ai casi di nomina diretta anche all’interno di società pubbliche, il T.a.r. pugliese afferma, con coraggio, il principio in base al quale la derivazione costituzionale dello stesso ne determinerebbe l’immediata e concreta applicazione nei rapporti intersoggettivi indipendentemente dalla presenza o meno di norme integrative di dettaglio. Indubbiamente, questo è il passaggio più controverso ma anche più interessante dell’intera sentenza in quanto stabilisce una sorta di auto-applicabilità dei principi costituzionali, appena mediati da una disposizione programmatica, sulla scorta di un’interpretazione storico evolutiva di una fonte ordinaria. A parere dei magistrati, infatti, “(…) non è corretto parlare di norme ad efficacia programmatica in contrapposizione a norme ad efficacia obbligatoria, e ciò in quanto ogni norma giuridica è per sua stessa natura obbligatoria, se non altro per il solo fatto di essere inserita in un ordinamento normativo che valga a qualificarla come tale (…)” con la conseguenza che l’efficacia delle norme cosiddette programmatiche “(…) non rimarrà sospesa, occorrendo invece ricavare, dall’intero “sistema”, limiti e modalità connesse all’esercizio di siffatto diritto (…)”. La norma programmatica in discorso viene identificata nell’articolo 6, comma 3 (11), del d.lgs. n. 267/2000 la quale introduce nel sistema ordinamentale una regola giuridicamente rilevante “(…) la cui inosservanza costituirà violazione del principio delle pari opportunità (…)” ed opererà anche in essenza di una espressa previsione statutaria essendo fatto carico “(…) agli organi competenti valutare caso per caso le modalità attraverso cui ottemperare all’obbligo in questione, e ciò tenuto anche conto delle singole circostanze che caratterizzano il caso concreto (…)”. Applicando i principi appena enunciati, i giudici hanno affermato che “(…) il Sindaco del Comune di Lecce, nell’ambito della procedura svolta per le nomine di cui si controverte, avrebbe comunque dovuto tenere conto del principio delle pari opportunità, eventualmente riservando una aliquota dei membri da nominare (la cui consistenza doveva a sua volta formare oggetto di valutazione in concreto, sulla base delle singole circostanze) al sesso generalmente sottorappresentato, ossia quello femminile (…)”. In generale, può affermarsi che, con la decisione in commento, il T.a.r. pugliese abbia attribuito alla norma di rango superiore, cioè l’articolo 6, comma 3, il carattere di fonte eteronoma di un atto interno qual è, appunto, lo statuto di una società pubblica. Il principio potrà avere delle importanti ricadute sul piano dell’ortodossia dell’azione amministrativa, in quanto obbliga, di fatto, gli amministratori ad una attività organizzativa più attenta al rispetto dei principi costituzionalmente garantiti, la cui operatività non può essere condizionata o, peggio ancora, sospesa a causa dell’assenza di disposizioni di dettaglio.

 

Conclusioni.

 

Le recenti fibrillazioni che hanno attraversato la materia dei servizi pubblici di rilevanza economica dimostrano che, a più di dieci anni dalla storica sentenza “Teckal”, la disciplina degli affidamenti in house rimane ancora una “questione aperta”. Il continuo lavoro di cesellamento operato dalla Corte di giustizia nel corso del tempo se, da un lato, ha contribuito a definire il contenuto dei requisiti fondanti dell’in house providing (controllo analogo e criterio della prevalenza dell’attività), da un altro, paradossalmente, ha finito per alimentare un clima di incertezza attorno a tale modalità di gestione di cui le recenti sortite del legislatore italiano ne costituiscono l’espressione più autentica. In questo contesto, si collocano i ben sei ricorsi per legittimità costituzionale proposti dalle Regioni Puglia, Emilia Romagna, Piemonte, Liguria, Marche e Umbria tutti aventi ad oggetto la presunta violazione dell’articolo 15 della legge n. 166/09 degli articoli 114, 117 e 118 della Costituzione. Il minimo comune denominatore che unisce le censure costituzionali in parola è rinvenibile nella circostanza costituita dal fatto che la legislazione italiana, a differenza di quanto espresso dalla disciplina comunitaria, prevede per gli affidamenti in house delle stringenti motivazioni a carico degli enti pubblici che vogliano avvalersene, diversamente da quanto stabilito per l’affidamento della gestione del servizio a terzi o a società a capitale misto, notoriamente considerate dal legislatore ipotesi ordinarie di affidamento. Tale circostanza determinerebbe una compromissione della potestà legislativa regionale e una limitazione dell’autonomia degli enti locali in materia di organizzazione e gestione dei servizi pubblici locali, con conseguente violazione del principio della sussidiarietà. Le censure sollevate dalle Regioni, tuttavia, prestano il fianco ad una facile obiezione. Infatti, l’affidamento in house, come ha avuto modo di sottolineare anche l’AVCP con la determinazione n. 2/2010, costituisce un’eccezione rispetto al più generale meccanismo di aggiudicazione di un servizio che avviene con gara in quanto trattasi “(…) di una fattispecie non contrattuale (perché manca la relazione intersoggettiva), che, come tale, per sua stessa natura si sottrae al diritto comunitario degli appalti e delle concessioni e, quindi, all'applicazione delle regole che impongono la gara per la scelta del contraente (…)”. Se questo è il presupposto, il punto di partenza, va da sé che rispetto all’affidamento della gestione con gara, l’in house providing deve, inevitabilmente, atteggiarsi ad ipotesi eccezionale e residuale e non a caso la giurisprudenza comunitaria, nel corso degli ultimi undici anni, si è prodigata faticosamente nel difficile compito di definire il contenuto dei due requisiti richiesti: controllo analogo e criterio della prevalenza dell’attività. In un contesto del genere, pertanto, pare immune dalle censure sollevate dalle Regioni una norma che si continui a considerare l’affidamento in house come una possibile soluzione di gestione dei servizi pubblici locali, ancorché eccezionale, ancorata, però, a precise garanzie di salvaguardia proprio al fine di evitare che si possano verificare effetti distorsivi sul piano della concorrenza. In altri termini, la legislazione italiana limita l’utilizzo di un siffatto sistema di gestione dei servizi pubblici locali nella misura in cui esso appare coerente con principi costituzionalmente garantiti quali quello della tutela della concorrenza e, in ultima analisi, dell’efficacia e efficienza dell’azione amministrativa, valori tutti di derivazione costituzionale (art. 97). Diversamente, immaginare che gli affidamenti in house possano essere considerati alla stessa stregua dell’affidamento del servizio con gara a terzi, o a moduli societari misti, significherebbe incoraggiare certe pratiche gestionali volte a creare dispendiose ed inutili strutture societarie, nella maggior parte dei casi destinate a generare solo disavanzi nei bilanci degli enti pubblici costituenti e partecipanti.   

 

* Gerardo Guzzo Professore di Organizzazione Aziendale presso l’Università degli Studi della Calabria e partner in New York dello studio legale Cristofano, Guzzo & Associates.

 

Note:

1) Sentenza della Corte costituzionale n. 326/08. Per un commento sulla pronuncia in questione si rimanda a G. Guzzo, Le società costituite e partecipate dagli enti locali tra incertezze giurisprudenziali e codificazione legislativa”; in www.lexitalia.it; n. 8/2008.

2) Per un commento sul testo della riforma dei servizi pubblici locali di rilevanza economica si rinvia a G. Guzzo, La controriforma dei servizi pubblici locali e il problema irrisolto dell’operatività delle società miste, in www.dirittodeiservizipubblicilocali.it, 13 ottobre 2009. 

3) Pare opportuno evidenziare che anche le regioni Liguria, Emilia-Romagna, Marche, Umbria e Piemonte hanno sollevato contestualmente alla regione Puglia la questione di legittimità costituzionale innanzi al giudice delle leggi in ordine all’articolo 15 della legge n. 166/09 per sospetta violazione degli articoli 3, 5, 114, 117, comma 4, e 118 della Carta, riproducendo, grosso modo, le stesse censure.

4) La Corte costituzionale è ritornata sul tema del servizio idrico integrato con la pronuncia n. 29/2010 affrontando il tema della determinazione della tariffa relativa ai servizi idrici confermando che trattasi di aspetto “(…) ascrivibile alla materia della tutela dell’ambiente e a quella della tutela della concorrenza, ambedue di competenza legislativa esclusiva dello Stato (…)”. I Giudici costituzionali, inoltre, hanno ricordato che “(…) come ribadito da questa Corte con la sentenza n. 246 del 2009, “attraverso la determinazione della tariffa nell’ambito territoriale ottimale, il legislatore statale ha fissato […] livelli uniformi di tutela dell’ambiente, perché ha inteso perseguire la finalità di garantire la tutela e l’uso, secondo criteri di solidarietà, delle risorse idriche, salvaguardando la vivibilità dell’ambiente e “le aspettative ed i diritti delle generazioni future a fruire di un integro patrimonio ambientale” e le altre finalità tipicamente ambientali individuate dagli artt. 144 (Tutela e uso delle risorse idriche), 145 (Equilibrio del bilancio idrico) e 146 (Risparmio idrico)” del d.lgs. n. 152 del 2006. Nella medesima pronuncia si è altresì rilevato che “la finalità della tutela dell’ambiente viene […] in rilievo anche in relazione alla scelta delle tipologie dei costi che la tariffa è diretta a recuperare”, tra i quali il legislatore ha incluso espressamente quelli ambientali, da recuperare “anche secondo il principio “chi inquina paga” (art. 154, comma 2)”. Per una consultazione integrale del testo si rimanda al sito istituzionale www.cortecostituzionale.it.

5) Per una consultazione del testo integrale della determinazione n. 2/2010 si rimanda a questa Rivista.

6) Per un approfondimento sul tema del controllo analogo si rinvia a G. Guzzo, I nuovi limiti del “controllo analogo” secondo la più recente teorica del Consiglio di Stato e  della Commissione europea; in www.dirittodeiservizipubblici.it; G. Guzzo, Società miste e affidamenti in house nella più recente evoluzione legislativa e giurisprudenziale; Giuffrè, 2009; G. Guzzo, La riforma dei servizi pubblici locali; Vallo della Lucania, 26 giugno 2009; atti del Convegno in www.giustizia-amministrativa.it. 

7) G. Guzzo: Affidamenti in house: criterio della “prevalenza” e bisogno di certezza del diritto”; in www.public-utilities.it ; ottobre 2008.

8) Sul punto si rinvia a G. Guzzo, La controriforma dei servizi pubblici locali e il problema irrisolto dell’operatività delle società miste, in www.dirittodeiservizipubblicilocali.it, 13 ottobre 2009, cit..   

9) Per una consultazione integrale del testo della sentenza si rimanda a questa Rivista.

10) L’articolo 50, comma 8, del d.lgs. n. 267/2000 dispone che “(…) sulla base degli indirizzi stabiliti dal consiglio il sindaco e il presidente della provincia provvedono alla nomina, alla designazione e alla revoca dei rappresentanti del comune e della provincia presso enti, aziende ed istituzioni (…)”.

11) L’articolo 6, comma 3, stabilisce che “(…) gli statuti comunali e provinciali stabiliscono norme per assicurare condizioni di pari opportunità tra uomo e donna ai sensi della legge 10 aprile 1991, n. 125, e per promuovere la presenza di entrambi i sessi nelle giunte e negli organi collegiali del comune e della provincia, nonché degli enti, aziende ed istituzioni da essi dipendenti (…)”.

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