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Le nuove regole dei SPL alla luce della disciplina attuativa introdotta dal D.P.R. n. 168/2010
di Gerardo Guzzo 22 ottobre 2010
Materia: servizi pubblici / disciplina

 

LE NUOVE REGOLE DEI SPL ALLA LUCE DELLA DISCIPLINA ATTUATIVA INTRODOTTA DAL D.P.R. N. 168/2010

 

SOMMARIO: 1. Premessa. 2. Le novità introdotte dal regolamento di attuazione. 3. Il regime delle deroghe e delle scadenze. 4. Le novità introdotte dall’articolo 14, comma 32, della legge n. 122/2010. 4.1. La deliberazione della Corte dei Conti/Puglia n. 76 del 22 luglio 2010 e il problema della costituzione di nuove società pubbliche. 5. La sentenza del T.a.r. Calabria, Sezione di Reggio Calabria, n. 561 del 16 giugno 2010. 5.1. Il parere dell’Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici n. 3/2009. 6. Considerazioni finali.

 

1.  Premessa.

 

L’odierno lavoro vuole rappresentare una sorta di “punto di sintesi” dell’attuale disciplina dei servizi pubblici locali di rilevanza economica, recentemente portata a compimento a seguito del varo del regolamento di attuazione n. 168/2010 previsto dal comma 10 dell’articolo 23-bis del d.l. n. 112/2008, convertito nella legge n. 133/2008, di seguito modificata dall’articolo 15 del d.l. n. 135/2009, a sua volta convertito con modifiche nella legge n. 166/2009.  Com’è noto, il regolamento di attuazione è stato licenziato dal Consiglio dei Ministri nella seduta n. 102 del 22 luglio 2010 ed è stato pubblicato sulla G.U. del 12 ottobre 2010, n. 239/2010[1]. Tuttavia, nonostante i vari emendamenti, diverse sono state le critiche mosse al testo, soprattutto dal Consiglio di Stato. Successivamente, a riprova della particolare vischiosità della materia dei servizi pubblici, per le ovvie ricadute che questa genera sulle dinamiche economiche e sociali, il  legislatore del 2010 ha trovato il modo nella legge contenente la manovra finanziaria per l’anno 2011 di intervenire nuovamente sull’argomento, introducendo significativi divieti di costituzione di società pubbliche per i Comuni con meno di 30.000 abitanti, ponendo un problema di raccordo con l’articolo 3, comma 27, della legge n. 244/2007 (finanziaria 2008). In questo solco, si colloca l’importante determinazione della Corte dei Conti/Puglia, n. 76, del 22 luglio 2010, di poco precedente la pubblicazione in G.U. della legge di conversione (n. 122) del d.l. n. 78/2010, risalente al 30 luglio 2010. Tra i punti più controversi della riforma dei servizi pubblici locali di rilevanza economica, un posto a parte merita la vexata quaestio dell’extraterritorialità delle società miste. Il tema è stato rigorosamente approfondito da una importante sentenza del T.a.r. Calabria, Sezione di Reggio Calabria, che ha risolto positivamente la questione. Altro aspetto particolarmente spinoso è quello del divieto posto dall’articolo 23-bis, comma 9, della legge n. 133/2008 e s. m. e integrazioni. A tal proposito, si segnala il parere n. 3/2009 dell’Autorità di vigilanza sui contratti pubblici di lavori, servizi e forniture che offre una chiave di lettura destinata ad entrare in rotta di collisione con la più recente giurisprudenza amministrativa. Com’è noto, la norma in parola riguarda il divieto per i titolari della gestione di servizi pubblici locali non affidati con gara e per i soggetti cui è affidata la gestione delle reti di acquisire  la gestione di servizi ulteriori o in ambiti territoriali diversi, oltre che di svolgere servizi o altre attività per altri enti pubblici o privati, sia direttamente che tramite loro controllanti o altre società che siano da essi controllate o partecipate, oppure partecipando a gare. Sul punto, come anticipato, sembra essersi aperto una sorta di conflitto tra la giurisprudenza amministrativa e la posizione assunta dall’Authority, soprattutto con riferimento alla operatività extraterritoriale delle società miste, che si cercherà di approfondire nel corso della trattazione.

 

2.  Le novità introdotte dal regolamento di attuazione

 

Con il varo del regolamento di attuazione dell’articolo 23-bis della legge n. 133/2008 e s. m. e integrazioni viene finalmente definito l’assetto dei servizi pubblici locali di rilevanza economica. Si tratta di un passaggio estremamente delicato in quanto orienta nella sostanza l’atteggiamento che le pubbliche amministrazioni dovranno assumere in specie riguardo al fenomeno degli affidamenti in house. Entrando nel merito del provvedimento, è agevole scorgere come l’articolato in parola non trovi applicazione nei confronti: a) del servizio di distribuzione di gas naturale, di cui al decreto legislativo 23 maggio 2000, n. 164; b) del servizio di distribuzione di energia elettrica, di cui al decreto legislativo 16 marzo 1999, n. 79 e alla legge 23 agosto 2004, n. 239; c) del servizio di trasporto ferroviario regionale, di cui al decreto legislativo 19 novembre 1997, n. 422; d) della gestione delle farmacie comunali, di cui alla legge 2 aprile 1968, n. 475; e) dei servizi strumentali all’attività o al funzionamento degli enti affidanti di cui all’articolo 13, comma 1, del decreto-legge 4 luglio 2006, n. 223, convertito, con modificazioni, dalla legge 4 agosto 2006, n. 248, e successive modificazioni. Per quanto concerne la gestione del servizio idrico integrato, lo stesso testo di legge stabilisce che restano ferme l’autonomia gestionale del soggetto gestore, la piena ed esclusiva proprietà pubblica delle risorse idriche, nonché la spettanza esclusiva alle istituzioni pubbliche del governo delle risorse stesse, ai sensi dell’articolo 15, comma 1-ter, del decreto-legge 25 settembre 2009, n. 135, convertito, con modificazioni, nella legge 20 novembre 2009, n. 166. L’articolo 2 introduce, a sua volta, un elemento di novità: la delibera quadro. Si tratta di uno strumento attraverso il quale gli enti locali sono chiamati a verificare “(…) la realizzabilità di una gestione concorrenziale dei servizi pubblici locali, limitando l’attribuzione di diritti di esclusiva, ove non diversamente previsto dalla legge, ai casi in cui, in base ad una analisi di mercato, la libera iniziativa economica privata non risulti idonea, secondo criteri di proporzionalità, sussidiarietà orizzontale ed efficienza, a garantire un servizio rispondente ai bisogni della comunità, e liberalizzando in tutti gli altri casi le attività economiche compatibilmente con le caratteristiche di universalità ed accessibilità del servizio (…)”. In altre parole, le delibera quadro “(…) evidenzia, per i settori sottratti alla liberalizzazione, i fallimenti del sistema concorrenziale e i benefici per la stabilizzazione, lo sviluppo e l’equità all’interno della comunità locale derivanti dal mantenimento di un regime di esclusiva del servizio (…)”. Si tratta di una verifica che, ai sensi dell’articolo 2 del regolamento, deve essere compiuta dagli enti locali una prima volta entro dodici mesi dall’entrata in vigore dello stesso e successivamente, in modo periodico, secondo quanto previsto dai rispettivi ordinamenti; comunque, prima di procedere al conferimento e al rinnovo della gestione dei servizi. La delibera quadro, dunque, può essere considerata, a giusto titolo, un documento all’interno del quale scorgere una puntuale analisi di mercato con la conseguenza che l’affidamento della gestione in house diventi espressione di una precisa strategia gestionale rinvenibile in una deliberazione ad hoc del consiglio comunale. Particolarmente importante sembra essere l’articolo 3 del regolamento che detta le norme generali applicabili agli affidamenti. La norma in parola stabilisce, al comma 2, il principio della partecipazione delle società a capitale interamente pubblico alle procedure competitive ad evidenza pubblica previste dall’articolo 23-bis, comma 2, lett. a), a condizione, però, che non vi siano particolari preclusioni imposte dal legislatore, cioè che non si tratti di società strumentali del tipo, ad esempio, di quelle previste dall’articolo 13 del d.l. n. 223/2006 e s. m. e integrazioni. Il successivo comma 4, invece, affronta il tema dell’affidamento della gestione del servizio ai moduli societari misti, sempre che le procedure competitive abbiano ad oggetto “(…) al tempo stesso, la qualità di socio e l'attribuzione di specifici compiti operativi connessi alla gestione del servizio (…)”. In tali casi, è espressamente previsto che il bando di gara assicuri che: a) i criteri di valutazione delle offerte, basati su qualità e corrispettivo del servizio, prevalgano di norma su quelli riferiti al prezzo delle quote societarie; b) il socio privato selezionato svolga gli specifici compiti operativi connessi alla gestione del servizio per l’intera durata del servizio stesso e che, ove ciò non si verifichi, si proceda a un nuovo affidamento ai sensi dell’articolo 23-bis, comma 2 e c) siano previsti criteri e modalità di liquidazione del socio privato alla cessazione della gestione. In sostanza, la disciplina di dettaglio ha integralmente recepito i principi codificati dalla corposa elaborazione giurisprudenziale e solo accennati nella disciplina generale. L’articolo 4 del testo in commento, a sua volta, definisce i casi in cui è richiesto il parere dell’Agcom prima di procedere ad un affidamento in house. La ratio della norma sembra essere quella di voler sottrarre l’affidamento delle gestioni di minore importanza al vaglio dell’Authority, residuando il relativo parere in capo ai soli affidamenti di valore superiore ai duecentomila euro[2]. Il valore annuo del servizio viene calcolato sommando tutte le entrate del gestore, tra le quali vanno sicuramente incluse le tariffe riscosse, eventuali corrispettivi parziali del servizio e contributi ottenuti per realizzare degli investimenti. I parametri così fissati, invero, rischiano di penalizzare gli affidamenti ai moduli societari multi-service proprio in ragione dell’unitarietà dell’oggetto dell’affidamento che, di fatto, potrebbe generare il rischio di un agevole superamento della soglia dei duecentomila euro l’anno. Va detto che il Consiglio di Stato, in sede di stesura del parere n. 2415/2010  sul regolamento di attuazione, aveva suggerito che il parere di cui all’articolo 23-bis, comma 4, fosse obbligatorio se il valore economico del servizio oggetto dell’affidamento superava la somma complessiva di: a) 200.000,00 euro annui, qualora la popolazione interessata fosse superiore a 50.000 unità; b) 50.000 euro annui, qualora la popolazione interessata non fosse superiore a 50.000 unità.  Il testo definitivo della norma, invece, si è limitato ad espungere l’intero secondo periodo che compariva nella versione originale dell’articolo 4 e che prevedeva che “(…) il detto parere è comunque richiesto, a prescindere dal valore economico del servizio, qualora la popolazione interessata sia superiore a 50.000 unità (…)”. L’articolo 5 affronta un tema particolarmente delicato quale quello dell’estensione del patto di stabilità interno alle società partecipate dagli enti locali. La norma stabilisce che “(…) al patto di stabilità interno sono assoggettati gli affidatari in house di servizi pubblici locali ai sensi dell’articolo 23-bis, commi 3 e 4 (…)”: vale a dire tutti quei casi di affidamenti in house di valore superiore (se autorizzati) o inferiore ai duecentomila euro. Nonostante l’apparente linearità della norma regolamentare, la questione dell’applicazione del patto di stabilità alle società partecipate appare lontana da un’auspicabile risoluzione. Le difficoltà nascono da due contraddittorie disposizioni, entrambe contenute nella legge n. 133/2008: l’articolo 18, comma 2-bis, e l’articolo 23-bis. Infatti, l’articolo 18 estende l’applicazione del patto di stabilità a tutte le società controllate, affidatarie dirette del servizio - ivi comprese le società miste che – una volta scelto il socio operativo, svolgano servizi di natura strumentale[3]. L’articolo 23-bis, invece, stabilisce che sono soggette al patto di stabilità soltanto le società in house  chiamate a gestire servizi pubblici di rilevanza economica. Il regolamento di attuazione non ha sciolto il dubbio, nonostante nella primitiva versione della norma comparisse un chiaro riferimento (poi scomparso) a tutti i soggetti individuati con il decreto interministeriale di cui all’articolo 18, comma 2-bis, del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112. Nella versione definitiva, l’articolo 5, al comma 2, si limita a stabilire che “(…) Le modalità e la modulistica per l’assoggettamento al patto di stabilità interno dei soggetti di cui al comma 1 sono definite   in sede di attuazione di quanto previsto dall’articolo 2, comma 2, lett. h), della legge 5 maggio 2009, n. 42, e successive modificazioni, in materia di bilancio consolidato (…)”, senza alcun riferimento al decreto interministeriale originariamente evocato.  A ben vedere, la norma in parola “depotenzia” il ruolo degli gli enti locali in materia di osservanza del patto di stabilità in quanto si limita a prevedere che questi ultimi vigilino soltanto, senza essere minimamente responsabili per il verificarsi di eventuali scostamenti. Inoltre, l’ultimo comma dell’articolo 5 rinvia a tutto quanto previsto in sede di attuazione “(…) dall’articolo 2, comma 2, lett. h), della legge 5 maggio 2009, n. 42 (legge sul federalismo), e successive modificazioni, in materia di bilancio consolidato (…)” degli enti locali. Proprio il riferimento al bilancio consolidato esprime plasticamente l’errore in cui è incorso il legislatore delegato. Infatti, com’è stato attentamente osservato[4], il bilancio consolidato segue una logica completamente diversa da quella del patto di stabilità ed ha un’estensione tale da investire non solo le aziende controllate ma anche le società. Ne consegue che il riferimento contenuto nell’articolo 5 avrà un’estensione longitudinale ben più ampia non solo della previsione contenuta nell’articolo 23-bis ma anche di quella rinvenibile nell’articolo 18. Tale confusione, inevitabilmente, rischia di riverberarsi sulla liquidazione delle società pubbliche alla luce delle scadenze previste dalla legge n. 122/2010. Perché ciò avvenga, com’è stato attentamente osservato, è indispensabile attenuare l’impatto fiscale e quello sul patto perché diversamente operando i comuni non saranno più in grado di assorbire il debito e i dipendenti delle aziende interessate e nulla verrà cambiato[5]. Il successivo articolo 6 affronta il tema della disciplina applicabile agli acquisti di beni e servizi da parte delle società in house e di quelle miste. La norma fissa un principio di ordine generale: l’applicabilità delle disposizioni contenute nel d.lgs. n. 163/2006 e s. m. e integrazioni. Il comma 2 subordina l’applicazione dell’articolo 32, comma 3, del d.lgs. n. 163/2006, limitatamente alla gestione del servizio per il quale le società di cui al comma 1, lettera c), del medesimo articolo sono state specificamente costituite, alla scelta del socio privato, nel rispetto di quanto previsto dall’articolo 23-bis, comma 2, lettera b). Di assoluto rilievo è il tema trattato dall’articolo 7 del regolamento di attuazione interamente dedicato all’assunzione del personale da parte delle società in house e delle società miste. La questione dell’assunzione del personale viene affrontata dalla legge n. 133/2008 negli articoli 18 e 23-bis, comma 10, lett. a). L’articolo 18 si riferiva al reclutamento del personale delle società a totale partecipazione pubblica che gestiscono servizi pubblici locali (non necessariamente di rilevanza economica). Si indicavano quali criteri guida della selezione i principi contenuti nel comma 3 dell’articolo 35 del d.lgs. n. 165/2001 oltre che quelli di derivazione comunitaria, di trasparenza, di pubblicità ed imparzialità per le altre società pubbliche[6]. L’articolo 23-bis, a sua volta,  faceva espressamente riferimento alle società miste e agli affidamenti in house codificando il meccanismo selettivo costruito sulle procedure di evidenza pubblica quale regola generale. Il testo finale dell’articolo 7, recependo integralmente le osservazioni formulate dal Consiglio di Sato con il parere n. 2415 del 24 maggio 2010, depositato il 14 giugno successivo, prevede che “(…) le società a partecipazione pubblica che gestiscono servizi pubblici locali adottano, con propri provvedimenti, criteri e modalità per il reclutamento del personale e per il conferimento degli incarichi nel rispetto dei principi di cui al comma 3 dell’articolo 35 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 (…)”. I criteri richiamati sono: a) adeguata pubblicità della selezione e modalità di svolgimento che garantiscano l'imparzialità e assicurino economicità e celerità di espletamento, ricorrendo, ove è opportuno, all'ausilio di sistemi automatizzati, diretti anche a realizzare forme di preselezione; b) adozione di meccanismi oggettivi e trasparenti, idonei a verificare il possesso dei requisiti attitudinali e professionali richiesti in relazione alla posizione da ricoprire; c) rispetto delle pari opportunità tra lavoratrici e lavoratori; d) decentramento delle procedure di reclutamento; e) composizione delle commissioni esclusivamente con esperti di provata competenza nelle materie di concorso, scelti tra funzionari delle amministrazioni, docenti ed estranei alle medesime, che non siano componenti dell'organo di direzione politica dell'amministrazione, che non ricoprano cariche politiche e che non siano rappresentanti sindacali o designati dalle confederazioni ed organizzazioni sindacali o dalle associazioni professionali. In sintesi, l’articolo 7 del regolamento di attuazione demanda all’ente pubblico il compito di vigilare sulla corretta individuazione dei criteri e delle modalità di reclutamento del personale senza, tuttavia, essere responsabili in caso di non adeguata vigilanza. In questo senso, la norma rischia una sostanziale disapplicazione appena temperata dall’obbligo per le partecipate di osservare i parametri fissati dal patto di stabilità. L’articolo 8 del regolamento attuativo fissa alcuni divieti ed incompatibilità che colpiscono taluni soggetti. In particolare, il comma 1 dell’articolo 8 prevede che “(…) Gli amministratori, i dirigenti e i responsabili degli uffici o dei servizi dell’ente locale, nonché degli altri organismi che espletano funzioni di stazione appaltante, di regolazione, di indirizzo e di controllo di servizi pubblici locali, non possono svolgere incarichi inerenti la gestione dei servizi affidati da parte dei medesimi soggetti. Il divieto si applica anche nel caso in cui le dette funzioni sono state svolte nei tre anni precedenti il conferimento dell’incarico inerente la gestione dei servizi pubblici locali. Alle società quotate nei mercati regolamentati si applica la disciplina definita dagli organismi di controllo competenti (…)”. Il successivo comma 2 chiarisce che tale divieto opera anche nei confronti del coniuge, dei parenti e degli affini entro il quarto grado dei soggetti indicati nel precedente comma 1, nonché nei confronti di coloro che prestano, o hanno prestato nel triennio precedente, a qualsiasi titolo attività di consulenza o collaborazione in favore degli enti locali o dei soggetti che hanno affidato la gestione del servizio pubblico locale (…)”. I commi da 3 a 5 cristallizzano alcune cause di incompatibilità. In particolare, viene stabilito non possono essere nominati amministratori di società partecipate da enti locali coloro che nei tre anni precedenti alla nomina hanno ricoperto la carica di amministratore, di cui all’articolo 77 del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267, e successive modificazioni, negli enti locali che detengono quote di partecipazione al capitale della stessa società. Inoltre, i componenti della commissione di gara per l’affidamento della gestione di servizi pubblici locali non devono aver svolto né possono svolgere alcun’altra funzione o incarico tecnico o amministrativo relativamente alla gestione del servizio di cui si tratta. Parimenti, coloro che hanno rivestito, nel biennio precedente, la carica di amministratore locale, di cui al comma 3, non possono essere nominati componenti della commissione di gara relativamente a servizi pubblici locali da affidare da parte del medesimo ente locale. I commi da 6 a 8, sempre riguardo la composizione della commissione giudicatrice, prevedono una serie di ulteriori prescrizioni interdittive. Infatti, viene stabilita l’esclusione da futuri incarichi di commissario a carico di quegli amministratori di società partecipate da enti locali che nei tre anni precedenti alla nomina hanno ricoperto la carica di amministratore, di cui all’articolo 77 del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267, e successive modificazioni, negli enti locali che detengono quote di partecipazione al capitale della stessa società. A questo si aggiunga che i componenti della commissione di gara per l’affidamento della gestione di servizi pubblici locali non devono aver svolto né possono svolgere alcun’altra funzione o incarico tecnico o amministrativo relativamente alla gestione del servizio di cui si tratta. Infine, per coloro che hanno rivestito, nel biennio precedente, la carica di amministratore locale, scatta il divieto di nomina a componenti della commissione di gara relativamente a servizi pubblici locali da affidare da parte del medesimo ente locale. Tuttavia, le disposizioni contenute nell’articolo 8 troveranno applicazione soltanto nei confronti delle nomine e degli incarichi da conferire dopo il varo del regolamento di attuazione facendo salve tutte le posizioni pregresse. L’articolo 9 fissa il principio di reciprocità prevedendo che le imprese estere che non appartengono a Stati dell’Ue possono essere ammesse alle procedure competitive ad evidenza pubblica per l’affidamento di servizi pubblici locali a condizione che documentino la possibilità per le imprese italiane di partecipare alle gare indette negli Stati di provenienza per l’affidamento di omologhi servizi. Tanto allo scopo di dare attuazione al principio di parità di trattamento e non discriminazione di matrice comunitaria. Particolarmente significativo, invece, è il successivo articolo 10 che disciplina la cessione dei beni in caso di subentro. La norma, infatti, dispone che “(…) alla scadenza della gestione del servizio pubblico locale o in caso di sua cessazione anticipata, il precedente gestore cede al gestore subentrante i beni strumentali e le loro pertinenze necessari, in quanto non duplicabili a costi socialmente sostenibili, per la prosecuzione del servizio, come individuati, ai sensi dell’articolo 3, comma 3, lettera f)[7], dall’ente affidante, a titolo gratuito e liberi da pesi e gravami (…)”. In sostanza, viene fatto obbligo al precedente gestore di cedere al subentrante tutti i beni e le pertinenze occorrenti per l’utile prosecuzione del servizio senza oneri di vario genere (pesi o gravami). L’obbligo viene mitigato nell’ipotesi in cui i costi di tali beni o accessori non sono stati ancora ammortizzati. In tali casi, il comma 2 dell’articolo 10 prevede che il gestore subentrante corrisponda al precedente gestore un importo pari al valore contabile originario non ancora ammortizzato, al netto di eventuali contributi pubblici direttamente riferibili ai beni stessi. L’importo in parola deve essere indicato nel bando o nella lettera di invito relativi alla gara indetta per il successivo affidamento del servizio pubblico locale a seguito della scadenza o della cessazione anticipata della gestione (comma 3). Il legislatore delegato, inoltre, si preoccupa di fare salvi gli eventuali differenti accordi intervenuti tra le parti prima dell’entrata in vigore del regolamento di attuazione oltre che le disposizioni contenute nelle discipline di settore, anche regionali, prima vigenti. Infine, l’articolo 11 introduce l’istituto della conciliazione quale strumento per risolvere non in via giurisdizionale le controversie che dovessero sorgere tra le parti. La norma assegna ai contratti di servizi o, se previste, alle carte dei servizi la previsione della procedura conciliativa da attivarsi entro trenta giorni dal ricevimento della richiesta. Le modalità di inizio della procedura in discorso sono quelle indicate nell’allegato “A” al testo del regolamento. A chiusura di paragrafo, pare opportuno segnalare come il legislatore, con una tecnica legislativa piuttosto discutibile, abbia demandato al regolamento di attuazione l’abrogazione di norme contenute in fonti primarie o sub primarie. Si pensi ai commi 5, 5-bis, 6, 7, 8, 9, 14, 15-bis, 15-ter, 15-quater del d.lgs. n. 267/2000: norme, queste, tutte abrogate dal regolamento di attuazione.

 

3.      Il regime delle deroghe e delle scadenze

 

L’articolo 23-bis della legge n. 133/2008 e s. m. e integrazioni fissa quale principio generale per l’affidamento della gestione di un servizio pubblico di rilevanza economica quello della gara. Tuttavia, com’è noto, in taluni casi eccezionali è possibile anche procedere all’affidamento in house della gestione del servizio. Il regolamento di attuazione ha aggiunto ulteriori elementi di dettaglio che consentono alla riforma di entrare nella sua fase più strettamente operativa. Riguardo agli affidamenti in house, che costituiscono una deroga alla regola generale della gara, la disciplina di dettaglio ha previsto una serie di prescrizioni particolarmente stringenti, con particolare riferimento al settore idrico, pur confermando la proprietà pubblica dell’acqua. In particolare, per ottenere il parere favorevole dall’Agcom, l’ente affidante non dovrà dimostrare i fallimenti del sistema concorrenziale ma sarà tenuto a rappresentare soltanto specifiche condizioni di efficienza che rendono la gestione in house non distorsiva della concorrenza, ossia comparativamente non svantaggiosa per i cittadini rispetto ad una modalità alternativa di gestione dei servizi pubblici locali. Le condizioni di favor innanzi evocate vanno rinvenute: a) alla chiusura dei bilanci in utile, escludendosi a tal fine qualsiasi trasferimento non riferito a spese per investimenti da parte dell’ente affidante o altro ente pubblico; b) al reinvestimento nel servizio almeno dell’80 per cento degli utili per l’intera durata dell’affidamento; c) all’applicazione di una tariffa media inferiore alla media di settore; d) al raggiungimento di costi operativi medi annui con un’incidenza sulla tariffa che si mantenga al di sotto della media di settore. Soltanto costruendo una proposta su tali argomenti sarà possibile derogare alla regola madre della procedura di evidenza pubblica anche nel settore idrico. Quid juris rispetto alle altre ipotesi di affidamento non rispettose dei parametri comunitari? Com’è noto, l’articolo 15 del d.l. n. 135/2009, convertito con modifiche nella legge n. 166/2009, ha rimodulato i termini del regime transitorio che riguardano le ipotesi in deroga degli affidamenti[8]. Per quanto in questa sede rileva, si osserva che le prime ipotesi di affidamento in house a cessare saranno quelle gestioni di servizi pubblici affidati dagli enti locali direttamente alle proprie società senza rispettare i parametri comunitari costituiti dal “controllo analogo”, dal criterio della “prevalenza” e dall’esercizio di penetranti e condizionanti poteri di indirizzo da parte dell’ente partecipante. Tali affidamenti sono inevitabilmente destinati a finire entro il 31 dicembre 2010. Il discorso cambia nel caso in cui l’affidamento diretto sia avvenuto nel rispetto delle condizioni innanzi richiamate. La scadenza del 31 dicembre 2010 non è perentoria a patto che entro quella data la società a capitale interamente pubblico cambi veste. In altri termini, dovrà essere messa sul mercato una quota non inferiore al 40% del proprio capitale e la scelta del partner privato dovrà avvenire con una gara che consenta anche l’individuazione dei compiti operativi di quest’ultimo. Qualora ciò accada, l’affidamento potrà cessare alla sua scadenza naturale. Il calendario è identico per quanto riguarda le società miste. In questo caso, la scadenza è del 31 dicembre 2010 nell’ipotesi in cui il partner privato non sia stato scelto con gara. Il termine viene differito al 31 dicembre 2011 nell’ipotesi in cui il partner privato sia stato selezionato con gara ma non siano stati definiti i compiti operativi al momento della gara. La scadenza naturale del contratto, infine, è prevista soltanto per quei moduli societari misti in cui il partner privato sia stato selezionato con procedura di evidenza pubblica con contestuale definizione dei propri compiti e funzioni. Per quanto concerne gli affidamenti diretti a società controllate quotate in borsa, la scadenza naturale del contratto è possibile solo nel caso in cui la quota pubblica scenda sotto il 40% entro il 30 giugno 2013 e sotto il 30% entro il 31 dicembre 2015. Il dubbio è se entro le date indicate la vendita della quota pubblica debba considerarsi già effettuata oppure debba essere avviata la sola procedura. Il regolamento, purtroppo, sul punto tace ma è verosimile che per tali date la procedura di “snellimento” debba essere solo iniziata.

 

4.      Le novità introdotte dall’articolo 14, comma 32, della legge n. 122/2010

 

Il d.l. n. 78 contenente “Misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività economica” è stato convertito, con modifiche, nella legge n. 122 del 30 luglio 2010, pubblicata in G.U. n. 176 dello stesso giorno. L’articolato, dettato da una evidente ratio di riduzione della spesa pubblica, contiene una disposizione in materia di società partecipate abbastanza controversa che ha suscitato da subito incertezze sul piano della corretta individuazione dell’ambito applicativo. La norma in questione è l’articolo 14, comma 32. Il testo prevede nella prima parte che “(…) Fermo quanto previsto dall'art. 3, commi 27, 28 e 29, della legge 24 dicembre 2007, n. 244, i comuni con popolazione inferiore a 30.000 abitanti non possono costituire società. Entro il 31 dicembre 2011  i comuni mettono in liquidazione le società già costituite alla data di entrata in vigore del presente decreto, ovvero ne cedono le partecipazioni. La disposizione di cui al presente comma non si applica alle società, con partecipazione paritaria ovvero con partecipazione proporzionale al numero degli abitanti, costituite da più comuni la cui popolazione complessiva superi i 30.000 abitanti; i comuni con popolazione compresa tra 30.000 e 50.000 abitanti possono detenere la partecipazione di una sola società; entro il 31 dicembre 2011 i predetti comuni mettono in liquidazione le altre società già costituite (…)”. La seconda parte del testo, poi, rimanda ad un decreto interministeriale - da emanarsi entro novanta giorni - la fissazione delle modalità attuative. In sostanza, gli enti sono chiamati a liberarsi delle partecipazioni non più consentite entro il 31 dicembre 2011 e viene sensibilmente ridotta la possibilità di costituire nuove società pubbliche. Il divieto colpisce innanzitutto i piccoli comuni fino a 30.000 abitanti (ancorché consorziati), mentre per i comuni da 30.000 a 50.000 abitanti è possibile la detenzione di quote societarie che riguardino un solo soggetto economico. Tuttavia, la norma “salva” le prescrizioni contenute nei commi 27, 28 e 29 dell’articolo 3 della legge n. 244/2007 (finanziaria 2008). La questione posta dall’articolo 14, comma 32, della legge n. 122/2010, riguarda proprio il cosiddetto fuoco applicativo della norma. In altri termini, la domanda è: la disposizione trova o no applicazione nei confronti delle società affidatarie della gestione di servizi pubblici? Com’è noto, l’articolo 2, comma 27, della l. n. 244/2007 consentiva la costituzione di società strettamente necessarie per il perseguimento delle proprie finalità istituzionali e di quelle di interesse generale. Proprio tale precisazione consentirebbe di affermare che i divieti contenuti nell’articolo 14, comma 32, della legge n. 122/2010 non riguarderebbero le società chiamate a gestire servizi pubblici. Ciononostante, si pone il problema, di non poco conto, di individuare quelle società “non strettamente necessarie” al perseguimento di fini istituzionali e di “interesse generale” soggette alla scure della liquidazione. E’ facile gioco osservare che gran parte delle società strumentali, pur perseguendo delle finalità istituzionali, paradossalmente, non sono sempre necessarie. E allora, cosa fare? Esigenze di contenimento della spesa imporrebbero, senza dubbio, di includerle nel divieto introdotto dal comma 32 dell’articolo 14. Tuttavia, il dubbio resta, in attesa del varo del decreto interministeriale atteso entro il 28 ottobre 2010. In definitiva, se le prescrizioni contenute nella norma in commento non trovano applicazione nei confronti delle società che erogano servizi pubblici, è possibile concludere che non vi sia alcuna contraddizione tra i termini di cessazione dei moduli societari previsti dalla legge n. 133/2008 e s. m. e integrazione e quello del 31.12.2011 contenuto nell’articolo 14, comma 32, della legge n. 122/2010, che riguarda le società già costituite al  31 maggio 2010. 

 

4.1. La deliberazione della Corte dei Conti/Puglia n. 76 del 22 luglio 2010 e il problema della costituzione di nuove società pubbliche

 

Il problema dell’individuazione del corretto ambito applicativo dell’articolo 14, comma 32, della legge n. 122/2010 è stato affrontato anche dalla Corte dei Conti, sezione regionale di controllo per la Regione Puglia, con la deliberazione n. 76 del 22 luglio 2010. Il dictum dei giudici contabili precede di otto giorni la legge di conversione (n. 122) del d.l. n. 78/2010, risalente al successivo 30 luglio. I magistrati pugliesi, confermando una propria precedente deliberazione del 2009 (n. 103), hanno correttamente evidenziato come  l’articolo 14, comma 32, “(…) che pone un espresso divieto di costituzione di società partecipate per i Comuni aventi popolazione inferiore a 30.000 abitanti, ha una latitudine molto ampia perché si riferisce a tutte le società partecipate, senza distinguere in alcun modo in relazione al settore di attività in cui operano ovvero alla circostanza che esse abbiano proceduto all’emissione di strumenti finanziari quotati su mercati regolamentati. Tuttavia, il citato comma 32 fa specificatamente salvo l’art. 3, commi 27, 28 e 29 della legge n. 244 del 2007 (L.F. 2008) che, pertanto, rimane in vigore per espresso dettato normativo. Ne consegue che, non ostando l’art. 14, comma 32 cit. alla costituzione di società che integrino i presupposti di cui all’art. 3, comma 27 e ss. della legge finanziaria del 2008, la Sezione non può che confermare il contenuto del precedente parere espresso con propria deliberazione n. 103/2009, con i limiti e le considerazioni ivi indicati (…)”, vale a dire che “(…) la partecipazione societaria potrà comunque essere acquisita anche nel caso di attività non strettamente necessarie al perseguimento dei fini istituzionali dell’Ente qualora si tratti di servizi di interesse generale, che presentino un favorevole impatto sulla collettività locale (…)”[9]. Del resto, sempre gli stessi giudici pugliesi, proprio con la determinazione n. 103/2009, hanno chiarito, a suo tempo, in merito al comma 27 della legge n. 244/2007 che “(…) ad avviso del Collegio, l’inquadramento di una eventuale nuova partecipazione societaria da parte degli Enti locali in una delle tipologie su riportate spetta esclusivamente alle valutazioni discrezionali dell’Ente. L’Organo Consiliare dovrà, quindi, adeguatamente motivare l’acquisizione di una nuova partecipazione societaria evidenziandone i costi ed i benefici in termini di efficienza, efficacia ed economicità di gestione in un’ottica di lungo periodo, specificandone i vantaggi per la collettività (…)”. Dal che ne consegue il carattere assorbente del soddisfacimento dell’interesse generale, tipico delle società erogatrici di servizi pubblici, quale presupposto per la non applicabilità del divieto posto dall’articolo 14, comma 32, della legge n. 122/2010 ai soggetti economici affidatari della gestione di un servizio pubblico locale.

 

5.       La sentenza del T.a.r. Calabria, Sezione di Reggio Calabria, n. 561 del 16 giugno 2010

 

La sentenza del T.a.r. Calabria, Sezione di Reggio Calabria, n. 561 del 16 giugno 2010 ha affrontato un tema particolarmente controverso: quello della interpretazione del comma 9 dell’articolo 23-bis del d.l. n. 112/2008, come modificato dalla novella del 2009 (l. n. 166/09). Com’è noto, la disposizione in discorso stabilisce che “(…) le società, le loro controllate, controllanti e controllate da una medesima controllante, anche non appartenenti a Stati membri dell’Unione europea, che, in Italia o all’estero, gestiscono di fatto o per disposizioni di legge, di atto amministrativo o per contratto servizi pubblici locali in virtù di affidamento diretto, di una procedura non ad evidenza pubblica ovvero ai sensi del comma 2, lettera b), nonché i soggetti cui è affidata la gestione delle reti, degli impianti e delle altre dotazioni patrimoniali degli enti locali, qualora separata dall’attività di erogazione dei servizi, non possono acquisire la gestione di servizi ulteriori ovvero in ambiti territoriali diversi, né svolgere servizi o attività per altri enti pubblici o privati, né direttamente, né tramite loro controllanti o altre società che siano da essi controllate o partecipate, né partecipando a gare. Il divieto di cui al primo periodo opera per tutta la durata della gestione e non si applica alle società quotate in mercati regolamentati e al socio selezionato ai sensi della lettera b) del comma 2. I soggetti affidatari diretti di servizi pubblici locali possono comunque concorrere su tutto il territorio nazionale alla prima gara successiva alla cessazione del servizio, svolta mediante procedura competitiva ad evidenza pubblica, avente ad oggetto i servizi da essi forniti (…)”. Il problema che da subito ha posto la lettura della norma è quello della operatività extraterritoriale delle società miste il cui socio privato sia stato scelto a seguito di una doppia gara, secondo quanto stabilito dalla decisione n. 1/2008 dell’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, poi trasfuso nel comma 2, lett. b), dell’articolo 23-bis del d.l. n. 112/08 e s.m. e integrazioni. Una prima interpretazione della norma propendeva per l’estensione del divieto di extraterritorialità alle società miste, per effetto del richiamo contenuto nel testo di legge al comma 2, lett. b), dell’articolo 23-bis della legge n. 133/08 e s. m.  e integrazioni. Tuttavia, il T.a.r. calabrese, pur riconoscendo l’astratta condivisibilità di tale ricostruzione ermeneutica, ha preferito discostarsene. Il ragionamento svolto dai giudici reggini appare molto convincente e si fonda sull’assoluta simmetria tra la scelta del privato cui affidare la gestione di un servizio pubblico locale mediante gara (comma 2, lett. a), d.l. n. 112/08) e la scelta del partner privato del costituendo modulo societario misto, destinato a divenire “socio operativo”, anch’esso selezionato all’esito di una procedura di evidenza pubblica (comma 2, lett. b), d.l. n. 112/08)[10]. Infatti, secondo il collegio, un’interpretazione restrittiva del comma 9 dell’articolo 23-bis “(…)  seppure consentita dalla lettera della stessa, non può essere condivisa, giacché l’affidamento a società mista costituita con le modalità indicate dal comma 2, lett. b), dell’art. 23-bis si appalesa, ai fini della tutela della concorrenza e del mercato - del tutto equivalente a quello mediante pubblica gara, sicché risulterebbe irragionevole ed immotivata – anche alla luce dei principi dettati dall’Unione europea in materia di partenariato pubblico privato (v. Comunicazione interpretativa della Commissione sull'applicazione del diritto comunitario degli appalti pubblici e delle concessioni ai partenariati pubblico – privati istituzionalizzati (PPPI) 2008/C91/02 in G.U.U.E. del 12 aprile 2008) - l’applicazione nei confronti di società della specie del divieto di partecipazione alle gare bandite per l’affidamento di servizi diversi da quelli in esecuzione. Va dunque preferita l’interpretazione della disposizione – pure consentita dalla sua lettera – nel senso che il divieto in parola si applica solamente alle società che già gestiscono servizi pubblici locali a seguito di affidamento diretto o comunque a seguito di procedura non ad evidenza pubblica, con la precisazione che rientrano nel concetto di evidenza pubblica (“ovvero”) anche le forme previste dal comma 2, lett. b), dell’art. 23- bis., cit. (…)”. Si tratta di un’apertura della giurisprudenza molto importante che si allinea, peraltro, anche alla posizione ufficiale dell’Anci e che pare rispettosa dei principi comunitari di tutela della concorrenza e del divieto di disparità di trattamento. 

 

5.1. Il parere dell’Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici n. 3/2009

 

Il comma 9 dell’articolo 23-bis è stato oggetto di approfondimento anche da parte dell’Autorità di vigilanza sui contratti pubblici con il parere n. 3/2009. L’Authority ha osservato come lo scopo del divieto contenuto nella norma sia quello di impedire che soggetti già titolari di affidamenti diretti e, dunque, di un rapporto privilegiato con l’ente pubblico, possano lucrare delle ulteriori rendite di posizione concorrendo in altri mercati, con chiaro vulnus al principio della libera concorrenza e della parità di trattamento. Secondo l’organo di vigilanza, inoltre, il divieto non troverebbe applicazione non solo nei confronti delle società non affidatarie  in house, rispetto alle quali non è rinvenibile l’esercizio di una penetrante influenza da parte della P.a. sia sugli obiettivi strategici che sulle decisioni societarie, ma anche nei confronti delle società con partecipazione indiretta, atteso il controllo non penetrante esercitato dall’ente locale, in quanto mediato. Più in generale, il parere n. 3/2009 estende il divieto in discorso a tutte le società chiamate ad erogare servizi pubblici di rilevanza economica e, pertanto, anche alle società miste. E’ proprio questo l’aspetto più controverso affrontato dall’Autorità di vigilanza che, come cennato, viene risolto in modo completamente opposto rispetto alla giurisprudenza del T.a.r. Calabria n. 561/2010, passata in rassegna nel paragrafo precedente. Anzi, il divieto di svolgere attività extraterritoriale viene ulteriormente dilatato al punto che l’organo di controllo finisce per disconoscere l’operatività extra moenia  anche ai moduli societari misti indirettamente controllati dall’ente locale che erogano servizi strumentali al perseguimento di fini istituzionali dello stesso, ai sensi della legge n. 248/2006. Sul punto, giova ricordare che la giurisprudenza amministrativa ha cominciato ad elaborare una posizione sensibilmente diversa. Si pensi alla sentenza n. 36/2010 del T.a.r. del Lazio, Sezione di Roma[11], che ha affermato che le società indirettamente partecipate dagli enti locali non sono soggette al divieto di svolgere attività extra moenia previsto dalla legge 248/2006. Se il divieto cade riguardo alle società a capitale interamente pubblico che erogano servizi strumentali ai fini istituzionali della P.a. controllante, a fortiori, il principio dovrebbe valere nei confronti delle società miste, ancorché controllate indirettamente, il cui partner privato sia stato scelto all’esito di una procedura di evidenza pubblica, cioè nel rispetto delle regole a tutela della concorrenza. Del resto, lo stesso legislatore, a meno che non si tratti di una svista, con l’articolo 48 della legge n. 99/2009 ha espunto dal comma 1 dell’articolo 13 della l. n. 248/2006 il termine “esclusivamente”, aprendo la strada alla possibilità che le società strumentali operino non solo nei confronti degli enti costituenti o partecipanti ma anche al di fuori degli angusti ambiti territoriali degli stessi[12].     

 

6.      Considerazioni finali

 

La disciplina dei servizi pubblici locali si conferma, anche all’indomani del varo del regolamento di attuazione n. 168/2010, tutt’altro che immune da incertezze. Diversi i punti controversi finiti sotto la lente di ingrandimento. Si pensi alla soglia dei duecentomila euro, che rappresenta l’asticella al di sotto delle quale non è richiesto il parere dell’Agcom. A tal proposito, sarebbe stato meglio seguire il suggerimento fornito dal Consiglio di Stato che auspicava l’indispensabilità del parere solo per quei comuni con più di cinquantamila abitanti, qualora il valore dell’affidamento fosse superiore ai duecentomila euro annui. La soluzione fornita dal regolamento, infatti, rischia di ingolfare l’attività di controllo dell’Authority che si vedrà recapitare richieste di pareri, anche per affidamenti di servizi di modesta entità, da parte dei piccoli Comuni che costituiscono, notoriamente, l’ossatura dell’apparato amministrativo italiano, con conseguente rischio di scomparsa degli affidamenti in house. Lo stesso assoggettamento al patto di stabilità presenta non poche incertezze. Non è chiaro se le maglie dell’istituto in discorso riguardino le sole società in house, come previsto dalla lett. a) del comma 10 dell’articolo 23-bis ovvero anche le società miste, cui fa riferimento l’articolo 18, comma 2-bis, del d.l. n. 112/08 e s. m. e integrazioni. La risposta dovrebbe essere fornita dall’emanando decreto interministeriale ma, in attesa del varo, il dubbio rimane. A questo si aggiunga che il testo definitivo dell’articolo 5 del regolamento di attuazione ha fortemente contratto l’incidenza del controllo degli enti locali sull’osservanza dei parametri fissati dal patto, dal momento che nella stesura definitiva del testo è scomparso ogni riferimento ad una qualsivoglia forma di responsabilità della parte pubblica chiamata ad esercitare i poteri di controllo. Altra questione aperta resta quella della possibilità o meno per i Comuni con meno di trentamila abitanti di poter costituire delle società pubbliche, a seguito dell’articolo 14, comma 32, della legge n. 122/2010. Come anticipato nel precedente paragrafo 4, l’espresso richiamo all’articolo 3, commi 27, 28 e 29 della legge n. 244/2007, dovrebbe escludere l’applicabilità del divieto in merito alla costituzione di quei moduli societari chiamati a gestire servizi pubblici locali che, per loro stessa natura, sono finalizzati a soddisfare interessi di respiro generale. Il problema irrisolto rimane quello di individuare i soggetti economici che gestiscono servizi strumentali al raggiungimento dei fini istituzionali dell’ente che, tuttavia, non appaiono né necessari, né tampoco soddisfano interessi generali, la cui costituzione dovrebbe essere, pertanto, vietata. Sarebbe auspicabile, quindi, una maggiore chiarezza sul punto da parte del legislatore che, ancora una volta, sembra abdicare alle sue prerogative a beneficio del giudice amministrativo. Infine, la vexata quaestio dell’extraterritorialità delle società miste.  A fronte di una giurisprudenza che appare decisamente orientata ad aprire a tale possibilità, almeno per quanto concerne i moduli societari misti affidatari di un servizio pubblico di rilevanza economica, si assiste al colpevole silenzio del legislatore, capace di formulare una norma, il comma 9 dell’articolo 23-bis, in grado di generare incertezze interpretative come poche. In conclusione, si ha la sensazione che il regolamento di attuazione abbia finito, involontariamente, per amplificare le incongruenze presenti nella disciplina generale, aprendo nuove falle nel complesso universo dei servizi pubblici locali.   

 

*Professore di Organizzazione Aziendale presso l’Università degli studi della Calabria e partner dello studio legale internazionale Cristofano, Guzzo & Associates.

 

 

 

[1] Per una consultazione integrale del testo si rinvia a www.dirittodeiservizipubblici.it.

 

[2]Il comma 1 dell’articolo 4 prevede che “(…) Gli affidamenti di servizi pubblici locali assumono rilevanza ai fini dell’espressione del parere di cui all’articolo 23-bis, comma 4, se il valore economico del servizio oggetto dell’affidamento supera la somma complessiva di 200.000,00 euro annui (…)”.

 

[3] Per alcune considerazioni critiche in merito all’applicabilità del patto di stabilità alla società miste, si rinvia a G. Guzzo, Società miste e affidamenti in house. Nella più recente evoluzione legislativa e giurisprudenziale; Giuffrè Editore; 2009; pagg. 166 e ss.

 

[4] S. Pozzoli, Una soluzione che confonde patto e bilancio; in IlSole24Ore, 2 agosto 2010.

 

[5] S. Pozzoli, Una soluzione che confonde patto e bilancio; op. cit.

 

[6] Sul tema si rinvia a G. Guzzo, Articolo 18 del DL 112 del 25 giugno 2008 e principio di autonomia degli enti locali: dubbi ed incertezze; in www.dirittodeiservizipubblici.it; 2 luglio 2008.

 

[7] La lettera f) del comma 3 dell’articolo 3 del regolamento stabilisce che il bando o la lettera di invito “(…) indica i criteri e le modalità per l’individuazione dei beni di cui all’articolo 10, comma 1, e per la determinazione dell’eventuale importo spettante al gestore al momento della scadenza o della cessazione anticipata della gestione ai sensi dell’articolo 10, comma 2 (…)”;

 

 

[8] Sul punto si rinvia a G. Guzzo, Appalti pubblici. Disciplina, procedura e profili processuali; Giuffré Editore; 2010; pagg. 261-265.

 

[9]  Per una consultazione integrale del testo della determinazione n. 103/2009, si rimanda al sito www.cortedeiconti.it

 

[10] In senso conforme G. Guzzo, Affidamenti in house: controllo analogo, extraterritorialità e lesione di interessi legittimi”, in www.lexitalia.it  n. 7-8/2006; G. Guzzo, Legislazione, Corte di giustizia e società miste: ovverosia come perpetuare il “mito” dell’extraterritorialità e il dubbio “amletico” della cedibilità postuma delle quote societarie”; in Appalti&Contratti, n. 10/2009.

 

[11] Per una consultazione integrale del testo si rimanda al sito www.giustizia-amministrativa.it.

 

[12] Sul punto si rinvia a G. Guzzo, Appalti pubblici. Disciplina, procedura e nuovi profili processuali; Giuffré Editore; 2010; cit.;  pagg. 258-261.

 

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