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Appunti sul d.lvo n. 59/2010 di recepimento della Direttiva servizi e la disciplina della Segnalazione certificata di inizio attività ed i loro effetti sul regime autorizzatorio delle attività economiche di competenza comunale.
di Paolo Vignola 26 ottobre 2010
Materia: comunità europea / servizi

 

 

Sommario: 1. La Direttiva servizi - 1.1. I presupposti - 1.2. L’iter di approvazione e le problematiche rilevanti- 1.3. Gli obiettivi fondamentali; 2. Il Decreto legislativo n. 59/2010 di recepimento della Direttiva servizi - 2.1. L’ambito di applicazione -2.2. Le materie escluse dal campo di applicazione - 2.3. I Principi fondamentali e la Parte prima -2.4. La Parte seconda e la clausola di cedevolezza - 2.5. Le Regioni e l’attuazione dell’Ordinamento comunitario - 2.6. Le carenze normative della Parte seconda - 2.7. I regimi autorizzatori -2.8. Gli aspetti rilevanti della SCIA - 2.9. Conclusioni e prospettive.

 

 

Il Decreto legislativo 26.3.2010, n. 59 - entrato in vigore l’8 maggio scorso - ha recepito nell’ordinamento nazionale la Direttiva CE 2006/123 del 12 dicembre 2006 “relativa ai servizi nel mercato interno”, approvata dal Parlamento e dal Consiglio europeo, più comunemente conosciuta come “Direttiva Bolkestein” (in prosieguo “ Direttiva servizi”).

Tale complessa normativa è il frutto di un lungo e travagliato iter di approvazione e rappresenta un approdo fondamentale, e per certi versi “rivoluzionario”, nel processo di semplificazione e liberalizzazione delle attività economiche.

Obiettivo del presente scritto è quello di mettere in luce, dopo una breve disamina della struttura essenziale della Direttiva servizi, gli effetti del Decreto legislativo di recepimento (in prosieguo “Decreto”) sul sistema autorizzatorio delle attività economiche, con particolare riferimento a quelle di competenza comunale, anche alla luce della L. n. 122/ 2010 che, all’art.49, comma 4–bis, ha introdotto l’istituto della Segnalazione certificata di inizio attività ( SCIA).

 

1. La Direttiva servizi

1.1. I presupposti

La Direttiva servizi, che prende il nome del Commissario europeo della concorrenza e del mercato interno Frits Bolkestein, membro della Commissione Prodi, che ne è stato il proponente, mira alla rimozione degli ostacoli che impediscono o rallentano la libera circolazione dei servizi e la loro libera prestazione negli Stati membri.

L’Europa è partita dalla considerazione che il settore imprenditoriale e professionale dei servizi è il motore della crescita economica del vecchio continente e rappresenta, nella maggior parte degli Stati membri, il 70 % del PIL e dei posti di lavoro.

Numerosi sono gli ostacoli che impediscono lo sviluppo del settore dei servizi, prestati in prevalenza da PMI (acronimo di piccole e medie imprese), fra i quali vengono indicate le procedure amministrative ritenute particolarmente gravose, l’eterogeneità delle regole di disciplina dei servizi che crea incertezza normativa e la carenza di cooperazione fra gli Stati.

I lavori del Consiglio europeo di Lisbona del 2000 avevano posto quale obiettivo principale dell’azione comunitaria proprio il completamento del mercato interno dei servizi, affidando alla Commissione il compito di individuare “entro la fine del 2000 una strategia per la rimozione delle barriere alla circolazione dei servizi”, in attuazione delle prescrizioni del Trattato istitutivo della Comunità Europea che dedica il Titolo III alla libera circolazione dei beni, dei servizi e dei capitali, e che all’art. 49 vieta le“restrizioni alla libera prestazione dei servizi all’interno della Comunità”.

Infatti, il processo di liberalizzazione dello scambio di beni all’interno del sistema comunitario si poteva ritenere già realizzato grazie al decisivo impulso impresso dall’Atto unico europeo e dal Trattato di Maastricht e, segnatamente, dalle pronunce interpretative della Corte di Giustizia europea con le due emblematiche sentenze Dassonville del 13.8.1973 e Cassis de Dijon del 20.2.1979.

La Comunità europea intendeva,quindi, rendere libera anche la circolazione dei servizi, facilitando sia lo stabilimento delle imprese negli Stati membri che le prestazioni a carattere temporaneo.

 

1.2. L’iter di approvazione e le problematiche rilevanti 

Com’è stato ampiamente documentato anche dalle notizie di cronaca, l’iter di approvazione della Direttiva servizi è stato piuttosto lungo e travagliato ed ha provocato forti reazione critiche ed una accesa mobilitazione politica e sindacale.

Il motivo principale di tale avversione era dato dalla previsione del principio del Paese d’origine, che era stato introdotto nella prima versione della proposta di Direttiva e successivamente espunto da quella definitiva, proprio a causa del movimento di opinione contrario che si era venuto a formare.

Secondo questo principio, il prestatore di servizi che si reca in uno Stato membro diverso da quello dove ha il proprio stabilimento (cioè, dove l’attività viene esercitata in via stabile ed a tempo indeterminato) per svolgere temporaneamente la propria attività, dovrebbe essere assoggettato alle sole regole previste nel proprio Paese di stabilimento, per l’appunto, il Paese d’origine, a meno che lo Stato di destinazione non dimostri “la necessità” di imporre proprie norme più restrittive sulla base di un principio di proporzionalità e non discriminazione.

Si tratta della trasposizione nella materia dei servizi dell’analogo principio applicato alla libera circolazione dei beni, espresso nelle citate pronunce della giurisprudenza della Corte di Strasburgo, in forza del quale un bene prodotto e venduto in uno Stato membro, in conformità alla legge nazionale, può essere venduto liberamente in tutti gli Stati della Comunità, ed i singoli Stati non possono imporre restrizioni “all’importazione”, se non dettate da motivi di carattere imperativo.

Ne consegue, quindi, la prevalenza del diritto interno del Paese d’origine del bene rispetto a quello dello Stato di destinazione del bene stesso.

Nel campo dei servizi si temeva, invece, che l’applicazione di questa regola provocasse il realizzarsi di una situazione di dumping sociale fra gli Stati membri, in ragione della disomogeneità delle misure di protezione sociale applicate nelle singole realtà statuali, con particolare riguardo ai Paesi di recente ingresso nella Comunità, per cui imprese stabilite in Nazioni con un basso costo del lavoro, dove si applicano regole della sicurezza e misure di prevenzione sociale attenuate, potevano offrire servizi a costi inferiori rispetto a quelli comunemente praticati nello Stato dove la prestazione veniva eseguita, creando un’ evidente situazione di squilibrio sociale e di concorrenza sleale.

La Direttiva servizi risolve il problema sollevato, stabilendo che “La presente direttiva non pregiudica la legislazione del lavoro, e segnatamente le disposizioni giuridiche e contrattuali che disciplinano le condizioni di occupazione, le condizioni di lavoro, compresa la salute e la sicurezza sul posto di lavoro, e il rapporto tra datori di lavoro e lavoratori, che gli stati membri applicano in conformità  del diritto nazionale che rispetta il diritto comunitario. Parimenti, la presente direttiva non incide sulla normativa degli Stati membri in materia di sicurezza sociale” (art. 1, punto 6).  

Il Decreto, a sua volta, si preoccupa di imporre l’applicazione a favore dei dipendenti di imprese stabilite in altri Stati membri, che sono temporaneamente distaccati nel territorio nazionale, pari condizioni di lavoro rispetto a praticate per i lavoratori di imprese italiane che operano nel medesimo ambito territoriale (art. 23).

 

1.3 Gli obiettivi fondamentali

Gli obiettivi fondamentali che la Comunità europea si propone di realizzare con la Direttiva servizi sono i seguenti:

-          la crescita economica ed occupazionale dell’Unione europea;

-          l’eliminazione degli ostacoli giuridici ed amministrativi alla libera circolazione e alla libera prestazione di servizi all’interno della Comunità;

-          il rafforzamento dei diritti dei consumatori in quanto utenti dei servizi;

-          la cooperazione amministrativa e la mutua assistenza fra le Autorità degli Stati membri, ritenute essenziali ai fini del corretto ed efficace funzionamento del mercato interno.

 

2. Il Decreto legislativo n. 59/2010 di recepimento della Direttiva servizi

2.1. L’ambito di applicazione

All’ art.1, comma 1, il Decreto stabilisce il suo ambito di applicazione che riguarda: 

“… qualunque attività economica, di carattere imprenditoriale o professionale, svolta senza vincolo di subordinazione, diretta allo scambio di beni o alla fornitura di altra prestazione anche a carattere intellettuale”.

Risulta all’evidenza la portata ampia della norma e la sua massima estensibilità a tutti i campi dei servizi e delle forniture di prestazioni di qualunque natura.

Inoltre, all’art. 8, comma 1, lett. a), viene anche proposta una definizione della nozione di “servizio” che viene inteso come “ Qualsiasi prestazione anche carattere intellettuale svolta in forma imprenditoriale o professionale, fornita senza vincolo di subordinazione e normalmente fornita dietro retribuzione; i servizi non economici non costituiscono servizi a sensi del presente decreto.

I contenuti di quest’ultima definizione appaiono del tutto tautologici e poco significativi rispetto alla prima norma. L’unico elemento di novità consiste nel chiarimento che il Decreto non riguarda i servizi privi di rilevanza economica.

Il pensiero và all’attività di enti che non perseguono finalità di lucro, quali il volontario, le onlus, etc.; ed infatti, l’art. 3, esclude dal campo di applicazione proprio i servizi sociali “ forniti (…) da associazioni che perseguono scopi caritatevoli”, oltrechè da amministrazioni pubbliche o da prestatori da esse incaricati.

L’ambito di applicazione del decreto è, quindi, da ricondurre ai servizi prestati da soggetti imprenditori che svolgono l’attività ai sensi dell’art. 2082 C.C.,  dove l’economicità è l’elemento che caratterizza l’organizzazione diretta alla produzione dello scambio di beni e servizi, ovvero, da soggetti che svolgono attività in forma professionale, ai sensi degli artt. 2229 ss C.C..

 

2. 2. Le materie escluse dal campo di applicazione

Gli articoli da 2 a 7 forniscono una lunga elencazione di attività di servizi sottratte ope legis all’applicazione del Decreto.

Fra quelle che interessano più da vicino l’ambito delle attività economiche di competenza comunale – tralasciando quelle connesse con l’esercizio di pubblici poteri ( art. 2, comma 1, lett. a) - rilevano:

1)      servizi di interesse generale assicurati alla collettività in regime di esclusiva da soggetti pubblici o da soggetti privati, ancorché scelti con procedura di evidenza pubblica, che operino in luogo e sotto controllo di un soggetto pubblico (art. 2, comma 1, lett. c);

2)      i servizi di trasporto aereo, marittimo,  ferroviario e su strada, inclusi i servizi di trasporto urbano, taxi, ambulanza, portuali, di noleggio auto con conducente (1);

3)      servizi sanitari e farmaceutici;

4)      giochi d’azzardo e fortuna comprese le lotterie, le scommesse e le attività delle case da gioco, nonché alla rete di acquisizione del reddito;

5)      servizi privati di sicurezza;

6)      servizi forniti dai notai.

Nel rinviare alla lettura delle singoli disposizioni in argomento, vale la pena di soffermarsi sull’art.2, comma 3, che riconosce al Ministro delle politiche comunitarie ed ai Ministri interessati un “potere ricognitivo” delle attività di servizi escluse dall’applicazione del Decreto, attraverso la periodica adozione di uno o più decreti interministeriali.

Con questa norma all’Autorità amministrativa centrale è attribuito il potere di escludere dal campo di applicazione del Decreto interi settori di attività economiche e condizionare l’effettiva estensione del recepimento della Direttiva servizi, in assenza di controllo Parlamentare o di altri Organi terzi, in quanto i decreti ministeriali o interministeriali sono atti di natura meramente amministrativi ai quali non può essere riconosciuta neppure natura regolamentare e quindi la qualità di fonte normativa di secondo grado.

 

2.3. I Principi fondamentali e la Parte prima

Per comprendere appieno la struttura del Decreto e la relazione intercorrente fra la Parte prima (artt.1- 43) e la Parte seconda del provvedimento ( artt.  44 – 83) è necessario analizzare l’art. 1, commi 2, 3 e 4, unitamente all’art. 84 ( Clausola di cedevolezza).

L’art. 1, commi 2, 3 e 4, stabilisce quanto segue:

(comma 2)“ Le disposizioni della Parte  prima del presente decreto sono adottate ai sensi dell'articolo 117, comma 2, lettere e) ed m), della Costituzione, al fine di garantire la liberta' di concorrenza secondo condizioni di pari opportunità e il  corretto ed uniforme funzionamento del mercato, nonche' per assicurare ai consumatori finali un livello minimo e uniforme di condizioni di accessibilita' ai servizi sul territorio nazionale”.

(comma 3)Relativamente  alle  regioni  a  statuto speciale e alle province autonome  di  Trento  e  di  Bolzano,  i  principi  desumibili  dalle disposizioni   di   cui   alla   Parte  prima  del  presente  decreto costituiscono  norme  fondamentali di riforma economico-sociale della Repubblica e principi dell'ordinamento giuridico dello Stato”.

(comma 4) Relativamente  alle materie oggetto di competenza concorrente, le regioni  e  le province autonome di Trento e di Bolzano esercitano la potesta'  normativa  nel rispetto dei principi fondamentali contenuti nelle norme del presente decreto.”

Con il primo comma il Legislatore delegato chiarisce che le norme della Prima parte del Decreto sono espressione della competenza legislativa esclusiva che l’art. 117, comma 2, Cost. riserva allo Stato.

Ed, infatti, la norma  richiama:

-          la tutela della concorrenza ( lett. e)

-          la determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale ( lett. m),

con il corollario che la finalità del Decreto è quella:

-          di garantire la libertà di concorrenza (lett. e), secondo condizioni di pari opportunità ed il corretto ed uniforme funzionamento del mercato,

nonché 

-          di assicurare ai consumatori finali un livello minimo e uniforme di condizioni di accessibilità ai servizi sul territorio.

Trattandosi di materie di competenza esclusiva dello Stato, evidentemente viene escluso ogni spazio di intervento derogatorio da parte delle Regioni in sede di recepimento della Direttiva servizi.

Il secondo comma richiama le “norme fondamentali di riforma - economico sociale della Repubblica ed principi dell’Ordinamento giuridico dello Stato”, al fine di porre un limite in ordine all’intervento delle Regioni a statuto speciale e delle Province autonome di Trento e Bolzano (2).

Con il terzo comma il Legislatore delegato adempie alla disposizione di cui all’art. 117, comma 3, ultimo capoverso, Cost. che stabilisce che nelle materie di competenza concorrente lo Stato fissa i principi fondamentali cui le stesse Regioni devono attenersi.

Ne consegue, che la disciplina della Parte prima del Decreto risulta assolutamente inderogabile dalla legislazione regionale, vuoi perché si tratta di regole, come abbiamo visto, espressione della competenza esclusiva statale in materia di concorrenza e di determinazione dei livelli inderogabili (…), vuoi perché introduce principi fondamentali nella legislazione concorrente, oppure, perché riguarda norme fondamentali di riforma-economico (…) per le Regioni a statuto speciale e le Province autonome di Trento e Bolzano.

Fra i principi e le norme inderogabili ricavabili dalla Parte prima del Decreto, i più rilevanti ai fini della diretta incidenza sulla disciplina delle attività economiche sono:

-           il principio secondo il quale l’acceso e l’esercizio di attività di servizi costituiscono espressione della libertà di iniziativa economica e non possono essere sottoposti a limitazioni non giustificate o discriminatorie (art. 10, comma 1);

-           le norme sui “regimi autorizzatori” ( art. 14 ss);

-           il divieto (fra i “requisiti vietati” di cui all’art. 11) che l’esercizio di una attività sia sottoposto al rispetto di una verifica di natura economica che subordini il rilascio del titolo autorizzatorio all’esistenza di un bisogno economico o di una domanda di mercato, con salvezza dei soli requisiti di programmazione che non perseguono obiettivi economici ma dettati esclusivamente da motivi imperativi di carattere generale (art. 11, comma 1, lett. e);

-          la limitazione del numero dei titoli autorizzatori solo se sussiste un motivo imperativo di interesse generale o per ragioni correlate alla scarsità delle risorse naturali o alle capacità tecniche disponibili (art. 14, comma 3);

-          le norme sulla semplificazione amministrativa - sportello unico (art. 25);

-          le norme sugli gli obblighi posti in capo alle imprese di servizio di informazione a favore dell’utenza (art. 28 ss).

 

2.4. La Parte seconda e la clausola di cedevolezza

Nella Parte seconda il Legislatore delegato si è occupato di adeguare alla normativa comunitaria alcuni aspetti della disciplina sia di attività professionali ( Titolo primo - artt. 44 – 63) che di attività economiche (Titolo secondo - artt. 64- 83).

Per quanto riguarda l’ambito delle attività economiche, l’intervento statale risulta poco significativo e parziale perché riguarda soltanto alcuni settori (come vedremo meglio nel successivo par. 2.6.). Esso si riferisce a:

-         somministrazione alimenti e bevande (art. 64)

-         esercizi di vicinato (art. 65)

-         spacci interni (art. 66)

-         apparecchi automatici (art. 67)

-         vendita per corrispondenza, televisione o altri sistemi di comunicazione (art. 68)

-         vendita presso il domicilio del consumatore (art. 69)

-         commercio al dettaglio su aree pubbliche (art. 70)

-         attività di acconciatore (art. 77)

-         attività di estetista (art. 78)

-         attività di tintolavanderia (art. 79)

-         strutture turistico ricettive (art. 83).

Le norme contenute nella Parte seconda sono cedevoli, ai sensi dell’art. 84 del Decreto, rubricato, per l’appunto, “Clausola di cedevolezza”, nel senso che rappresentano una disciplina transitoria che dovrà lasciare progressivamente spazio alla legislazione regionale di attuazione che verrà di volta in volta emanata.

La norma, infatti, così recita:

In relazione  a quanto disposto dall'articolo 117, quinto comma, della  Costituzione  e fatto salvo quanto previsto dagli articoli 16, comma  3,  e  10,  comma 3, della legge 4 febbraio 2005, n. 11, nella misura in cui incidono su materie di competenza esclusiva regionale e su  materie  di competenza concorrente, le disposizioni del presente decreto si applicano fino alla data di entrata in vigore della normativa di attuazione della direttiva 2006/123/CE, adottata da ciascuna regione e provincia autonoma nel rispetto dei vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario e dei principi fondamentali desumibili dal presente decreto”.

Quindi, la Parte seconda contiene le norme statali di settore conformi al dettato della Direttiva servizi che possono essere applicate esclusivamente nella fase transitoria, in attesa che le Regioni provvedano a emanare norme legislative di recepimento in quanto la disciplina del commercio, della somministrazione alimenti e bevande, delle attività recettive e delle attività artigianali è riservate alla competenza legislativa esclusiva delle Regioni, ai sensi dell’art. 117, comma 4, Cost. (mentre per le attività professionali l’intervento del legislatore regionale è concorrente con quello statale, ex art. 117, comma 3, Cost.).

Pertanto, le norme di questa Parte del Decreto costituiscono, allo stato, l’unico riferimento normativo per gli imprenditori, i professionisti, le associazioni di categoria e le Amministrazioni pubbliche competenti.

Come abbiamo detto al precedente par. 2.3, la normativa regionale, a sua volta, dovrà svilupparsi entro i confini delimitati dai principi e dalle norme inderogabili espresse nella Parte Prima del Decreto.

L’art. 84 sembra assumere il carattere di norma di chiusura del sistema - con probabile funzione di salvaguardia - perché diretto a mettere al riparo lo Stato italiano da un’eventuale responsabilità verso la Comunità europea per mancata attuazione della Direttiva servizi nei tempi previsti.

Infatti, la Direttiva, secondo quanto stabilito dal suo art. 44, doveva essere recepita entro il 28 dicembre 2009, decorsi cioè 3 anni dalla entrata in vigore (28/12/ 2006).

Il quadro normativo troverà piena completezza quando le singole Regioni avranno adottato i provvedimenti legislativi di attuazione del dettato comunitario.

In punto, è interessante evidenziare che il Legislatore delegato non ha tenuto conto delle indicazioni espresse dalla Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le  Regioni e le Province autonome di Trento e Bolzano che aveva chiesto, con il parere 27.10.2010 (3) (citato alla nota n. 2) di inserire nell’articolato una clausola di salvaguardia della disciplina regionale in vigore e conforme alla Direttiva CE, del seguente tenore Art. … (Clausola di salvaguardia) E' fatta salva la disciplina prevista dalle regioni e dalle province autonome di Trento e Bolzano nelle materie di cui all'articolo 117, commi terzo e quarto, della Costituzione, adottata in attuazione della direttiva 123/2006/CE o comunque ad essa conforme".

 

2.5. Le Regioni e l’attuazione dell’Ordinamento comunitario 

Salvo la Regione Emilia Romagna (4), non risulta che le altre abbiano finora provveduto a dare attuazione alla Direttiva comunitaria.

Al riguardo, non solo và chiarito che le Regioni possono provvedere al recepimento delle Direttive europee in via diretta, ma che le stesse Regioni sono tenute al rispetto dei vincoli di derivazione comunitaria, ai sensi dell’art.117, primo 1, Cost., che così stabilisce “ La potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto delle Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali”.

Com’è stato autorevolmente sostenuto, la Costituzione ha introdotto nell’Ordinamento nazionale una garanzia costituzionale all’osservanza degli obblighi di origine comunitaria, fissando un vincolo alla potestà legislativa, sia statale che regionale, che deriva non da una specifica “fonte di obblighi ma dall’ordinamento comunitario tot court (5)”.

Ne consegue, che la legislazione regionale deve essere conforme agli obblighi di fonte comunitaria e le Regioni sono tenute ad osservare i vincoli comunitari pena l’illegittimità sia delle norme di legge difformi, ma anche dei provvedimenti amministrativi adottati in applicazione di norme regionali non adeguate all’ordinamento comunitario che risulteranno, pertanto, viziati per “illegittimità comunitaria indiretta”(6).

Ma non solo. Vale senza dubbio anche il riferimento all’art. 1, comma 1, della L. n. 241/1990, secondo il quale “ L’attività amministrativa persegue i fini determinati dalla legge ed è retta (…) dai principi dell’ordinamento comunitario”.

Alcune Regioni hanno emanato circolari dirette a fornire indicazioni interpretative in materia.

Se, da un lato, la semplice circolare non può essere considerata idoneo provvedimento di recepimento, perché l’attuazione dell’ordinamento comunitario non può che derivare dalla legge, dall’altra, và ricordata la giurisprudenza sulla natura giuridica delle stesse circolari e, segnatamente, ex plurimis, per quanto attiene alle conseguenze sul piano amministrativo, ciò che ha statuito la Sezione V del Consiglio di Stato che ha affermato “Una circolare della PA non ha alcuna idoneità a determinare effetto nei confronti dei soggetti estranei all’Amministrazione.” (Cons. Stato, Sez. V, 19.9.2008, n. 4524).

In argomento, si rinvia anche alla lettura della pronuncia delle Sezioni Unite della Cassazione, che così si è espressa riguardo alla natura della circolare tributaria ”La circolare con la quale l'Agenzia delle entrate interpreti una norma tributaria, anche qualora contenga una direttiva agli uffici gerarchicamente subordinati, esprime esclusivamente un parere dell'amministrazione non vincolante per il contribuente (oltre che per gli uffici, per la stessa autorità che l'ha emanata e per il giudice); conseguentemente, la circolare non è impugnabile nè innanzi al giudice amministrativo, non essendo un atto generale di imposizione, nè innanzi al giudice tributario, non essendo atto di esercizio di potestà impositiva, e sussiste il difetto assoluto di giurisdizione in ordine ad essa”. (Cass. Sez. Unite, 2.11.2007, n. 23031).

 

2.6. Le carenze normative della Parte seconda

Nel precedente par. 2.4 abbiamo visto che le norme della Parte seconda costituiscono l’unica disciplina in vigore nel settore economico dei servizi nel periodo transitorio in virtù della clausola di cedevolezza, e che l’intervento del Legislatore statale è parziale e lacunoso.

Infatti, alcuni settori merceologici del commercio, ove si concentrano forse i maggiori interessi degli investitori, non vengono neppure presi in considerazione dal Decreto.

Il riferimento è al settore della distribuzione di giornali e riviste ed a quello della distribuzione commerciale di grande e media dimensione (medie e grandi strutture di vendita, centri commerciali e “aggregati commerciali” diversamente disciplinati dalla legislazione regionale). 

Si tratta di tipologie di attività economiche per le quali sia la normativa statale (D.Lgs. n. 114/1998) che le legislazioni regionali hanno fissato dei limiti di accesso, dei “parametri”, all’apertura, al trasferimento di sede, all’ampliamento di superficie, concepiti probabilmente in termini non più perfettamente coerenti con il dettato europeo.

Il mancato intervento statale in materia, anche se solo in via transitoria, ed il non tempestivo recepimento/ adeguamento regionale ha creato indubbiamente un vuoto normativo i cui effetti non sono allo stato del tutto prevedibili.

 

2.7. I regimi autorizzatori

Il Decreto introduce il concetto di “regime autorizzatorio” che è definito come:

qualsiasi procedura che obbliga un prestatore o un destinatario a rivolgersi ad un’autorità competente allo scopo di ottenere un provvedimento formale o un provvedimento implicito relativo all’accesso ad un’attività di servizio o al suo esercizio; ai fini del presente decreto non costituisce regime autorizzatorio la dichiarazione di inizio attività di cui all’art.19, comma 2, secondo periodo.” (art. 8, c. 1, lett. f).

L’art 14, comma 1, del Decreto stabilisce anche che “ (…) regimi autorizzatori possono essere istituiti o mantenuti solo se giustificati da motivi imperativi di interesse generale, nel rispetto del principio di non discriminazione, di proporzionalità, nonché delle disposizioni di cui al presente titolo”.

A sua volta, l’art. 17, comma 2, così recita “Qualora sussiste un motivo imperativo di interesse generale, può essere imposto che il procedimento si concluda con l’adozione di un provvedimento espresso”.

Dalla lettura combinata delle citate disposizioni risulta che il regime autorizzatorio consiste nell’imporre ad un soggetto, che intende esercitare un’attività di servizi, l’onere di richiedere ad una Pubblica Amministrazione il rilascio di un provvedimento formale (espresso) o implicito (tacito).

La novità di assoluta rilevanza è rappresentata dal fatto che i regimi autorizzatori non costituiscono più la regola, ma l’eccezione - un’ipotesi del tutto residuale - in quanto possono essere istituiti o mantenuti solo se giustificati da motivi imperativi di interesse generale (7), nel rispetto dei principi di non discriminazione, di proporzionalità, nonché delle disposizioni di principio espresse dal Decreto.

L’argomento è di ampia portata perché il Decreto opera un capovolgimento dei principi finora applicati che imponevano, per l’esercizio di un’attività regolamentata, il rilascio di un titolo autorizzatorio, in via ordinaria e di regola espresso.

Con il nuovo sistema viene introdotta una sostanziale liberalizzazione del sistema auorizzatorio, così strutturata:

-         l’esercizio di un’attività di servizi non richiede più, di regola, la mediazione di un titolo autorizzatorio e, quindi, l’interposizione dell’Autorità amministrativa, ma è libero;

-         l’applicazione di un regime autorizzatorio è giustificata solo se ricorrono motivi imperativi di interesse generale;

-         il procedimento autorizzatorio si concluderà normalmente con un provvedimento tacito, perché l’imposizione di un provvedimento espresso richiede la verifica della sussistenza di ulteriori motivi imperativi.

Per concludere sull’argomento, và ricordato che l’art. 8, comma 1, lett. f) stabilisce:

 “ (…) ai fini del presente decreto non costituisce regime autorizzatorio la dichiarazione di inizio attività di cui all art.19, comma 2, secondo periodo,

ed il successivo art. 17, comma 1, così recita:

Ai fini del rilascio del titolo autorizzatorio riguardante l’accesso e l’esercizio delle attività di servizi di cui al presente decreto si segue il procedimento di cui all’art. 19, comma 2, primo periodo, della legge 7 agosto 1990, n, 241, ovvero, se così previsto, di cui all’art. 20 della medesima legge n. 241 del 1990”;

Le disposizioni riportate evidenziano chiaramente che il Legislatore delegato al momento della redazione del Decreto aveva in mente le seguenti due tipologie di DIA:

-          la DIA ad efficacia differita, che riguarda le attività che possono iniziare decorsi trenta giorni dalla presentazione (art. 19, comma 1, primo periodo, L.n. 241/1990);

-          la DIA ad efficacia immediata, che riguarda le attività che rientrano nella disciplina della Direttiva servizi e che possono iniziare sin dal momento della presentazione (art. 19, comma 1, secondo periodo).

Il riferimento è al testo dell’art. 19, così come novellato dall’art. 85, comma 1, del Decreto, che si esprime nei seguenti termini:

L'attivita' oggetto della dichiarazione puo' essere iniziata decorsi trenta giorni dalla data di presentazione della dichiarazione all'amministrazione competente; contestualmente all'inizio dell'attivita', l'interessato ne da' comunicazione all'amministrazione competente. Nel caso in cui la dichiarazione di inizio attivita' abbia ad oggetto l'esercizio di attivita' di cui al decreto legislativo di attuazione della direttiva 2006/123/CE, l'attivita', ove non diversamente previsto, puo' essere iniziata dalla data della presentazione  della  dichiarazione all'amministrazione competente"(8). Se, da un lato, l’indagine interpretativa sul significato correlato delle due disposizioni non è oggettivamente del tutto agevole, dall’altra, allo stato, risulta probabilmente priva di riscontro pratico - salvo quanto verrà detto nel successivo par. 2.9 - a seguito dell’entrata in vigore dell’art.49, comma 4-bis, L. n. 122/2010, che ha riscritto integralmente l’art. 19 L. n. 241/1990, abrogando il regime della DIA, che è stato sostituito dal nuovo istituto della Segnalazione certificata di inizio attività (SCIA).

 

2.8. Gli aspetti rilevanti della SCIA

Com’è stato detto al precedente par. 2.7, l’istituto della DIA è stato integralmente sostituito da quello della SCIA, che è concepita dalla novella legislativa:

-          come un atto ad efficacia immediata, “L’attività oggetto della segnalazione può essere iniziata dalla data della presentazione della segnalazione all’amministrazione competente” ( art. 19, comma 2);

-          di generale ed ampia applicazione, perché non più limitato alle sole attività economiche oggetto della Direttiva servizi, come la DIA, ma esteso a qualunque attività imprenditoriale senza alcuna distinzione tipologica (il sottoriportato comma 1 dell’art. 19, si riferisce, per l’appunto, all’esercizio di attività “attività imprenditoriale, commerciale o artigianale”.

A sua volta, l’art. 4 –ter, L. n. 112 /2010 ha stabilito che:

Le espressioni segnalazione certificata di inizio attività” e “Scia” “sostituiscono, rispettivamente, quelle di “dichiarazione di inizio attività” e “Dia” ovunque ricorrano anche come parte di un’espressione più ampia, e la disciplina di cui al comma 4-bis sostituisce direttamente quella di dichiarazione di inizio attività recata da ogni normativa statale e regionale”,

mentre, il citato comma 1, art. 19, così si esprime:

(comma 1) “Ogni atto di autorizzazione, licenza, concessione non costitutiva, permesso o nulla osta comunque denominato, (…) richieste per l’esercizio di attività imprenditoriale, commerciale o artigianale il cui rilascio dipenda esclusivamente dall’accertamento di requisiti e presupposti richiesti dalla legge o da atti amministrativi a contenuto generale (…) e' sostituito da una segnalazione dell'interessato, con la sola esclusione dei casi in cui sussistano vincoli ambientali, paesaggistici o culturali (…)”.

In sintesi, la SCIA non solo sostituisce la DIA in qualunque disposizione di legge statale o regionale sia essa prevista ( art. 4-ter), ma sostituisce anche il provvedimento autorizzatorio espresso, perché l’atto autorizzatorio “e' sostituito“ dalla SCIA.

 

2.9. Conclusioni 

Se il percorso appena descritto è corretto, si può pervenire alle seguenti conclusioni.

Chiarito che il principio fondamentale è quello della libertà di intrapresa economica per le attività che rientrano nel campo di applicazione del Decreto, attività che possono essere iniziate, di regola,  senza necessità di ottenere dalla Pubblica amministrazione il rilascio di un provvedimento autorizzatorio.

L’imposizione di un regime autorizzatorio diventa quindi un’ipotesi del tutto residuale, percorribile solo ricorrendo un fondato motivo imperativo di interesse generale che ne giustifica l’applicazione.

Una volta previsto un regime autorizzatorio, il sistema ordinario è rappresentato dalla SCIA che è applicabile anche se la legge richiede il rilascio di un’autorizzazione espressa o formale, perché la SCIA “ sostituisce” ogni atto di autorizzazione, licenza concessione non costitutiva, etc.

A questo punto, però, rimane aperto un interrogativo in relazione a quanto stabilito dall’art. 8, comma 1, lett. f), citato al precedente par. 2.7, che esclude la DIA ad efficacia immediata dai regimi autorizzatori.

Se la DIA ad efficacia immediata non è un regime autorizzatorio, ai sensi di tale ultima disposizione, e la SCIA è anch’essa un atto ad efficacia immediata, che sostituisce la DIA, ex art. 4-ter L. n. 122/2010, in qualunque contesto normativo essa sia inserita o richiamata, allora, si può affermare che le attività economiche, che rientrano nel campo di applicazione del Decreto, sono soggette ad un regime formalmente privatizzato che riconosce al soggetto privato la capacità di porre in essere atti, la SCIA, per l’appunto, idonei a legittimare l’esercizio dell’attività d’impresa di fronte alla stessa Pubblica amministrazione ed ai terzi.

Mentre, alla Pubblica amministrazione è riservata la gestione della fase successiva alla presentazione dell’atto privato, la fase del controllo ex post.

A ben vedere, non si tratta di concetti del tutto nuovi, basti fare solo cenno alla regolamentazione dei Centri di assistenza tecnica (CAT), (9), già previsti dal Decreto di riforma del commercio (D.Lgs. n. 114/ 1998), e ripresi dalle legislazioni regionali in materia, ovvero, dei Centri di Assistenza Fiscale (CAF), (10), regolamentazione che riconosce ai soggetti privati gestori l’esercizio di funzioni amministrative. 

La materia del coinvolgimento dei privati nell’esercizio di funzioni pubbliche le complesse problematiche connesse all’applicazione in concreto di principi, anche di rango di rango costituzionale, come quello di “sussidiarietà orizzontale”, ovvero, di istituti quali l’avvalimento e la delega di funzioni pubbliche e, sotto un diverso punto di vista, il tema della garanzia di terzietà e qualità certificabile del privato coinvolto in questo processo.

In questa sede, interessa evidenziare che il Legislatore sta imprimendo al descritto quadro normativo una forte accelerazione, che potrebbe portare ad una significativa e rapida evoluzione della fisionomia del rapporto fra la Pubblica amministrazione e l’impresa, in grado di modificare il ruolo di questi soggetti nella governance del processo di sviluppo economico.

Appare, pertanto, utile richiamare la necessità che la Pubblica amministrazione, e segnatamente le amministrazioni comunali, compiano uno sforzo diretto a “ridisegnare” la propria mission, definendo strategie di politica organizzativa atte, da un lato, a garantire l’efficace assolvimento del compito del controllo ex post, che diventa centrale nell’azione di tutela dell’interesse pubblico, e, dall’altra, ad intraprendere percorsi innovativi per dare nuovo impulso alla competenza di gestione dello sviluppo economico del proprio territorio, riconosciuta all’ente locale dall’art 13 TUEL.

 

Belluno, 18 ottobre 2010

 
 

Dott. Paolo Vignola – Funzionario Responsabile del Servizio Attività Economiche - Sportello Impresa del Comune di Belluno



(1) Ci domandiamo se l’esclusione riguardi anche il settore del noleggio con conducente a mezzo autobus. La risposta può essere positiva in relazione al fatto che tutto il settore dei trasporti, e segnatamente quello di persone, sembra essere sottratto all’applicazione del Decreto.

(2) La Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome di Trento e Bolzano, con il parere 27.1.2010aveva chiesto la soppressione di tale disposizione con la seguente motivazione “in quanto l’obbligo del rispetto delle norme fondamentali delle riforme economiche e sociali della Repubblica, previsto in tutti gli statuti speciali per la potestà legislativa primaria, è escluso dalla Corte costituzionale qualora le aree di potestà legislativa esclusiva di quelle Regioni e delle Province autonome vengano a coincidere con aree ora attribuite alla potestà residuale delle Regioni a statuto ordinario”. Parere espresso ai sensi dell’art. 41, comma 1, della Legge comunitaria 2008 (Legge 7 luglio 2009, n. 88)- norma con la quale il Governo veniva delegato all’attuazione della Direttiva servizi.

(3) Dal preambolo del Decreto risulta infatti che il parere della Conferenza è giunto in ritardo: “Considerato che la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le province autonome di Trento e  di Bolzano non ha reso il parere di competenza nel previsto termine”.

(4) Legge Regionale Emilia – Romagna, 12 febbraio 2010, n. 4 recante “Norme per l’attuazione della direttiva 2006/123/ce relativa ai servizi nel mercato interno e altre norme per l’adeguamento all’ordinamento comunitario – legge comunitaria regionale per il 2010”.

(5)A.. Pajno, “I riflessi dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario come limite alla potestà legislativa nel nuovo titolo V della Costituzione”, in www.giustizia-amministrativa.it.

(6) N. Pignatelli, “L’illegittimità “comunitaria” dell’atto amministrativo”, in www.giustizia-amministrativa.it, che contiene un approfondimento della complessa questione dei rapporti fra atto amministrativo e ordinamento comunitario e conseguente potere del giudice. 

(7)I motivi imperativi di interesse generale , ai sensi dell’art.8, comma 1, lett. h) del Decreto, sono “le ragioni di pubblico interesse, tra le  quali l’ordine pubblico, la sicurezza pubblica, l’incolumità pubblica, la sanità pubblica, la sicurezza stradale, la tutela dei lavoratori (omissis) la tutela ambientale, incluso l’ambiente urbano, la conservazione del patrimonio nazionale storico e artistico (omissis)”.   

(8)La DIA differenziata era già stata introdotta dalla Legge n. 69/2009, che al comma 2 della art. 19 L. n.241/1990, che così stabiliva: “l’attività oggetto della dichiarazione può essere iniziata decorsi trenta giorni dalla data di presentazione della dichiarazione all’amministrazione competente”, aveva aggiunto il seguente periodo: “ nel caso in cui la dichiarazione di inizio attività abbia ad oggetto l’esercizio di attività di impianti produttivi di beni e di servizi e di prestazioni di servizi di cui alla direttiva 200671237206 del Parlamento e del Consiglio, del 12 dicembre 2006, compresi gli atti che dispongono l’iscrizione in albi o ruoli o registri ad efficacia abilitante o comunque a tale fine eventualmente richiesta, l’attività può essere iniziata dalla data di presentazione della dichiarazione all’amministrazione competente”.

(9)P. Vignola, “Assistenza tecnica”, in AA.VV., Rivista Amministrativa RI - Regione Veneto, Commento alla Legge regionale Veneto sul commercio del 9.8.1999, n. 37, 137.

(10) “Rapporto Confartigianato per la semplificazione”, luglio 2006, 15.

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