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La governance delle società a controllo pubblico: riflessioni a margine della nuova disciplina normativa dei servizi pubblici locali.
di Massimiliano Lombardo 16 settembre 2011
Materia: servizi pubblici / disciplina

 

  

1. Premesse.

L’ennesima riforma dei servizi pubblici locali, dopo la conversione in legge dell’art. 4 del D.L. 13.8.2011 n. 138, offre l’occasione per una breve riflessione sul ruolo della governance pubblica nei processi di efficientamento e razionalizzazione del sistema delle partecipazione pubbliche locali.

Al di là di ogni possibile critica (sia sotto il profilo costituzionale che della estemporaneità) al dettato normativo - che ha visto la reiterazione di una disciplina oggetto di abrogazione referendaria, nell’ambito di una legge recante una manovra finanziaria -, emerge qualche perplessità sull’approccio non organico al tema in questione.   

Si conferma infatti l’errore di bersaglio del dibattito normativo che ha interessato negli ultimi 15 anni il tema dei servizi pubblici locali; dibattito incentrato essenzialmente sulle modalità di affidamento dei predetti servizi, cioè sulla regolamentazione giuridica dell’esternalizzazione attraverso l’accesso al mercato e sulla limitazione dei fenomeni di “autoproduzione”, piuttosto che sul tema centrale della regolazione (pubblica) delle gestioni.

La concorrenzialità e la liberalizzazione rappresentano un punto di arrivo, certamente auspicabile e meritorio, ma che da solo non è sufficiente a garantire il percorso che il settore delle utilities deve in parte ancora compiere.

In modo forse provocatorio, si può anzi sostenere che la modalità di affidamento costituisce un dato neutrale ovvero “accidentale”, rispetto al dato essenziale della capacità di orientare tali gestioni verso il conseguimento di obiettivi di efficienza, economicità e qualità dei servizi, erogati  – attualmente in Italia – in massima parte da società a partecipazione pubblica di dimensione locale, controllate cioè dallo stesso ente affidante[1]: ciò che rappresenta il vero nodo della questione.

In questo quadro stimolare ed attuare una liberalizzazione dei mercati - possibilmente nell’ambito di una vera politica industriale nel settore delle utilities (aspetto questo purtroppo trascurato) - rappresenta un obiettivo che si inserisce in una prospettiva di breve e medio periodo; ma l’urgenza assoluta, l’azione immediata - ed al tempo stesso la più irta di difficoltà - è la trasformazione delle società a controllo pubblico in imprese operanti secondo logiche imprenditoriali.

In altri termini, il tema non è tanto “se”  ovvero “quando” fare le gare (stabilendo per legge “improrogabili” scadenze), quanto piuttosto “come” giungere a farle nelle condizioni migliori per l’interesse pubblico (quindi quali risorse a disposizione, quali condizioni di esercizio, quali investimenti, …).

 

Sarebbe facile dunque dire che l’iper-produzione normativa degli ultimi anni e degli ultimi mesi non ha – pur volendo in bonam partem accipere le rette intenzioni del legislatore - realizzato questi obiettivi né colto nel segno, dal momento che si è concentrata su obblighi  di affidamento con gara (di volta in volta postergati), sullo sfoltimento delle società pubbliche (il cd. “capitalismo municipale” o “socialismo municipale”, curiosa distinzione semantica del medesimo fenomeno secondo i differenti punti di vista) mediante l’eccezionalità dell’affidamento in house (processo, questo, ad alto tasso di resistenza), e sulla parziale cessione delle medesime partecipazioni (il cd. partenariato pubblico privato).

A quest’ultimo riguardo la privatizzazione delle società pubbliche è vista dallo stesso legislatore come una soluzione da incentivare[2]. La partnership con i privati può effettivamente essere considerata come una soluzione idonea a coniugare esigenze di mercato e concorrenza da un lato e conservazione / valorizzazione di assets pubblici dall’altro: con l’avvertenza che il partenariato, specie quello di tipo “istituzionale” come lo presenta (positivamente) la Commissione Europea nella sua comunicazione interpretativa del 5.2.2008[3], e soprattutto se attuato come azione “di secondo livello” (che intervenga cioè dopo un primo processo di efficientamento interno della società pubblica, volto ad accrescerne o quanto meno rendere apprezzabile il valore aziendale ed evitare quella che da più parti si paventa come una svendita delle partecipazioni pubbliche), rappresenta uno strumento duttile ma complesso nella gestione delle procedure di gara e dei successivi conflitti di interesse, esterni – tra soci pubblici e privati – ed interni – visto il duplice ruolo dell’ente pubblico, di affidante e di azionista (conflitti da gestire a livello di patti associativi e di contratto di servizio). Sebbene alcune applicazioni pratiche siano da più parti considerate in termini non del tutto positivi, ciò non mette in discussione la validità in linea di principio dello strumento, naturalmente se, e soltanto se, correttamente istituito e governato.

 

2. Il ruolo della governance pubblica.

Ma, come sopra si accennava, il tema centrale rimane quello della governance: espressione quanto mai ricca di un significato polisenso.

Vale la pena ricordare che, secondo l’originaria accezione economica il concetto di governance – di per sé estraneo al linguaggio giuridico - si riferisce al complesso di meccanismi di controllo e di decisione per la creazione di valore nelle imprese per gli investitori (ovvero azionisti).

Il termine esprime anche un importante significato nella sfera socio-politica (o meglio della sociologia dell’amministrazione), riferendosi ad un processo di intermediazione di interessi di cui sono portatori attori pubblici e attori privati; in definitiva, un modo di perseguire un’azione unitaria da parte di una società complessa, espressione di interessi pluriarticolati, e quindi un percorso attraverso il quale le differenti posizioni di cittadini, imprese, associazioni – o, in generale, di più soggetti sociali – sono tradotte in scelte effettive di politiche.

Sotto questa angolazione la governance si connette, pertanto, all'individuazione delle relazioni, cioè di procedure, che s'instaurano tra soggetti di un'organizzazione complessa, coinvolgendo i processi decisionali concernenti le definizioni delle politiche.

Ed in effetti le giustificazioni esistenziali (più che di ontologia si parla qui di “deontologia”) delle società in house, come evidenziate dalla Corte di Giustizia UE nelle numerose sentenze sul tema, si rinvengono proprio nel perseguimento supremo ed esclusivo dell’interesse pubblico, mediante l’erogazione di servizi di interesse generale (indi della collettività) o di interesse strumentale dello stesso ente pubblico proprietario. In una delle note sentenze della Corte UE (“Stadt Halle”) si afferma esplicitamente che “Il rapporto tra un’autorità pubblica, che sia un’amministrazione aggiudicatrice, ed i suoi servizi sottostà a considerazioni e ad esigenze proprie del perseguimento di obiettivi di interesse pubblico. Per contro, qualunque investimento di capitale privato in un’impresa obbedisce a considerazioni proprie degli interessi privati e persegue obiettivi di natura differente”[4].

Ancor più chiaramente un’altra nota sentenza (“Parking Brixen”[5]) afferma che, affinché sia coerente con il modello in house, l’impresa non deve aver “acquisito una vocazione commerciale che rende precario il controllo” da parte dell’ente pubblico (facendo riferimento, tra l’altro, all’ampliamento dell’oggetto sociale ed all’espansione territoriale dell’attività della società).

Appare evidente una contraddizione interna tra questa chiusura blindata delle società in house (doverosa sotto il profilo di tutela della concorrenza, per non permettere la fruizione di indebiti vantaggi competitivi nelle pubbliche gare), ed il concetto di governance sopra richiamato, come meccanismo di controllo e di decisione per la creazione di valore nelle imprese per gli investitori/azionisti (in questo caso azionista pubblico/ente locale ovvero esponenziale degli interessi collettivi degli utenti).

Va detto che sul piano comunitario è riconosciuto (anche dalla Corte di Giustizia UE) il diritto degli enti pubblici di svolgere attività imprenditoriale e di concorrere nelle procedure ad evidenza pubblica mediante società partecipate:  purché però questo non avvenga attingendo a capitali ottenuti mediante attività svolte in regime di esclusiva e di affidamento diretto.

Non v’è quindi, come di recente ribadito anche dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato[6], a livello di normativa comunitaria un espresso divieto di partecipazione di tali organismi in house alle procedure di appalto: è stato, invero, affermato che il solo fatto che amministrazioni aggiudicatrici ammettano alla partecipazione ad un procedimento di aggiudicazione di un pubblico appalto organismi che beneficiano di sovvenzioni pubbliche non costituisce automaticamente violazione del principio di parità di trattamento (e della concorrenza). Fatte salve naturalmente le limitazioni ed i divieti specificamente espressi da normative di settore.

 

3. I percorsi delle società in house.

Tornando al tema della governance, il percorso di efficienza delle società in house, essendo fortemente limitati i processi di economie di scala (considerate le limitazioni territoriali di operatività), non può dunque che essere condotto nel circuito di produzione interna della società.

Si torna pertanto al ruolo centrale della gestione aziendale delle società in house (genericamente spesso assimilato e ricompreso nel concetto di governance pubblica), ed in particolare alle scelte chiave del management (il quale deve essere dotato delle necessarie qualificazioni di competenza, indipendenza e responsabilità sui risultati).

Ma è altrettanto evidente che una vera trasformazione delle società a controllo pubblico in imprese operanti secondo logiche imprenditoriali, presuppone e richiede il superamento – seppure progressivo - del modello in house, il quale ha come s’è visto caratteristiche antitetiche rispetto alle logiche commerciali e di mercato che ispirano le società di capitali.

All’indomani dell’esito referendario l’Autorità Antitrust[7] ha tenuto a sottolineare, in conformità alle ripetute segnalazioni già effettuate in materia, che “il nuovo quadro normativo non può interpretarsi come una legittimazione del potere politico locale a occupare definitivamente con le aziende municipalizzate tutte le aree economiche, in quanto i principi di buon andamento ed efficacia dell’azione amministrativa non sono stati messi in discussione. A quelle regole si devono attenere le aziende pubbliche. In caso di inefficienze e sprechi la via obbligata resta il ricorso al mercato e vigono ancora le norme del Trattato europeo sulle gare per la scelta del miglior affidatario”.

In questo senso va la normativa generale recentemente approvata con l’approvazione dell’art. 4 della cd. “manovra-bis”) e che riproduce in buona sostanza quanto già previsto precedentemente dall’abrogato art. 23-bis (con la sola rilevante eccezione dei servizi idrici); al di là di possibili critiche al reiterato approccio sistemico, la scelta del mantenimento in house rimane residuale[8].

La governance pubblica locale si esprime attraverso una delibera quadro che, per i settori sottratti alla liberalizzazione, evidenzia le “ragioni della decisione e i benefici” per la comunità locale derivanti dal mantenimento di un regime di esclusiva del servizio (non più i “fallimenti del sistema concorrenziale”, riferimento opportunamente espunto in sede di conversione).

Ma, non v’è dubbio che l’efficienza, efficacia ed economicità dei servizi offerti alla cittadinanza si misura innanzitutto in termini sia di qualità che di costo. E sotto questo profilo, nessuna differenza dovrebbe sussistere (almeno in teoria e secondo i buoni principi) tra l’ipotesi in cui il servizio sia affidato direttamente e quella in cui sia affidato con gara (quella “neutralità” della modalità di affidamento, rispetto all’efficienza delle gestioni, cui si accennava in apertura di questo intervento).

E’ noto – e pertinente ai nostri fini - il dibattito sui “costi standard”. Probabilmente alcune aziende pubbliche, nella loro configurazione attuale, non sarebbero in grado di offrire il servizio secondo un costo standard, ovvero hanno una struttura dei costi che non consente loro di partecipare ad un’offerta di servizi basata su criteri di remunerazione “standard”.

Questo incide – in prospettiva - sulla capacità di queste aziende a concorrere ad eventuali future gare, e di questo tema la governance pubblica, o meglio il management pubblico, dovrebbe farsi carico. Ed incide – nell’immediato presente – sulla qualità ed il costo (complessivo, non unitario) dei servizi, nei casi di perdite di esercizio ripianabili con difficoltà dagli enti azionisti, considerato il quadro ed i vincoli di finanza pubblica. Il che può indurre a scelte (privatizzazione/liberalizzazione) improvvide o obbligate, operate cioè sotto la spinta dell’urgenza  e dell’emergenza, con risultati non all’altezza delle possibilità e delle attese.

 

4. Conclusioni.

Ancora recentemente, l’Autorità Antitrust, nella segnalazione al Parlamento sul DDL. n. 2887 di conversione del D.L. 138/2011[9], ha sottolineato l’opportunità di accompagnare il processo di riforma del settore dei servizi pubblici locali con misure di garanzia dell’efficienza e della qualità della gestione del servizio, e ciò indipendentemente dalla natura pubblica o privata del gestore.

Si propone giustamente, sulla scorta di analoghe esperienze estere, la previsione di un obbligo di pubblicazione, direttamente da parte del gestore o anche a cura dell’ente locale affidatario, di alcune misure di performance (livello qualitativo, prezzo medio per utente, livello degli investimenti effettuati) della gestione del servizio, le quali, pur tenendo conto delle diverse condizioni di fornitura in termini di aree, popolazione e caratteristiche del territorio servito, potrebbero consentire di effettuare delle prime valutazioni di benchmarking delle diverse gestioni. I risultati di questa attività potrebbero poi essere utilizzati a fini normativi, ad esempio stabilendo l’automatica cessazione anticipata dell’affidamento avvenuto in via diretta (e la successiva messa a gara del medesimo), se il gestore non è in grado di realizzare performance paragonabili ai migliori standard disponibili per servizi analoghi.

Questo risultato potrebbe essere concretamente realizzato senza bisogno di alcun nuovo intervento normativo, ma mediante una semplice previsione contrattuale.

Il superamento graduale dell’in house sarebbe dunque basato non su teoriche analisi di mercato ma su concreti risultati aziendali (e di soddisfazione dell’interesse pubblico della collettività/utenza). La gestione pubblica delle società risulterebbe così obbligata a guardare, come un Giano bifronte, contemporaneamente all’interesse pubblico ed a quello privato.

Come insegnava nel secolo scorso un eminente giudice della Corte Suprema USA, Louis Brandeis, la luce del sole è considerata il più potente tra tutti i disinfettanti: questo per affermare che l'attenzione pubblica viene giustamente lodata come il miglior rimedio ai mali sociali e industriali. Si può pacificamente proclamare che l’attenzione (del legislatore in particolare) in questo ambito dei servizi pubblici locali non è di certo mancata; se questo poi abbia o meno costituito un rimedio ai problemi del settore, la risposta pare abbastanza evidente.

Il dibattito dottrinale dovrebbe a questo punto dichiarare i reali propositi che esso persegue: in tal senso, il riferimento non potrebbe che andare alla ineludibile separazione e scioglimento dell’intreccio tra politica e partecipazioni pubbliche locali. Ma questo è un altro tema, ben più arduo da affrontare.



[1]Con la sola rilevante eccezione delle società quotate o risultanti da aggregazioni territoriali, e di una ridotta misura di soggetti imprenditoriali “sostanzialmente” privati, cioè effettivamente riconducibili al capitale privato.

[2] V. art. 5 D.L. 138/2011 (“Norme in materia di società municipalizzate”): “Una quota del Fondo infrastrutture di cui  all'art.  6-quinquies del  decreto-legge  25  giugno  2008,   n.   112,   convertito,   con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133,  nei  limiti  delle disponibilita' in base alla legislazione vigente e  comunque  fino  a 250 milioni di euro per l'anno 2013 e 250 milioni di euro per  l'anno 2014, e' destinata, con decreto del Ministro delle  infrastrutture  e dei trasporti di concerto  con  il  Ministro  dell'economia  e  delle finanze,  ad  investimenti  infrastrutturali  effettuati  dagli  enti territoriali che procedano, rispettivamente,  entro  il  31  dicembre 2012 ed entro il 31 dicembre 2013, alla dismissione di partecipazioni in società esercenti servizi pubblici locali di  rilevanza economica,  diversi  dal  servizio  idrico. Le spese effettuate a valere sulla predetta quota sono escluse dai vincoli del  patto  di stabilità interno. La quota assegnata a  ciascun  ente  territoriale non può essere superiore ai proventi della  dismissione effettuata”.

[3]COMUNICAZIONE INTERPRETATIVA DELLA COMMISSIONE sull'applicazione del diritto comunitario degli appalti pubblici e delle concessioni ai partenariati pubblico-privati istituzionalizzati (PPPI), C(2007)6661 ove si legge che: “Negli ultimi anni si è assistito allo sviluppo, in numerosi settori, del fenomeno dei partenariati pubblico-privati (PPP). La caratteristica di questa forma di cooperazione, generalmente a lungo termine, consiste nel ruolo affidato al partner privato, che partecipa alle varie fasi del progetto (ideazione, esecuzione e gestione), sopporta rischi tradizionalmente sostenuti dal settore pubblico e spesso contribuisce al finanziamento del progetto stesso. Nel diritto comunitario, le autorità pubbliche sono infatti libere di esercitare in proprio un'attività economica o di affidarla a terzi, ad esempio ad entità a capitale misto costituite nell'ambito di un partenariato pubblico-privato. Tuttavia, se un soggetto pubblico decide di far partecipare un soggetto terzo all'esercizio di un'attività economica a condizioni che configurano un appalto pubblico o una concessione, è tenuto a rispettare le disposizioni del diritto comunitario applicabili in materia. L'obiettivo di tali disposizioni è permettere a tutti gli operatori economici interessati di concorrere all'aggiudicazione di appalti pubblici e concessioni a condizioni eque e trasparenti nello spirito del mercato interno europeo, elevando in tal modo la qualità di questo tipo di progetti e riducendone i costi grazie ad una maggiore concorrenza … L'apporto privato alle attività del PPPI consiste, a parte il conferimento di capitali o altri beni, nella partecipazione attiva all'esecuzione dei compiti assegnati all'entità a capitale misto e/o nella gestione di tale entità”.

[4]Corte di giustizia CE, sez. I, 11 gennaio 2005, in C-26/03, (Stadt Halle), la quale afferma anche: “La partecipazione, anche minoritaria, di un’impresa privata al capitale di una società  alla quale partecipi anche l’amministrazione aggiudicatrice esclude in ogni caso che la stessa possa esercitare su tale società un controllo analogo a quello che essa esercita sui propri servizi, con ciò vanificando la possibilità di addivenire ad un affidamento diretto”.

[5]Corte di Giustizia CE, 13 ottobre 2005, C-458/03 (Parking Brixen GmbH - Gemeinde Brixen e Stadtwerke Brixen AG).

[6]Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria 4.8.2011 n. 17.

[7]Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, Parere del 21.7.2011 n. AS857 (Boll. 1.8.2011 n. 28), Servizio "Amico bus" in Sardegna.

[8] Oltre alle valutazioni della cd. “delibera quadro” ed alle stringenti motivazioni richieste per derogare alle modalità “ordinaria” di affidamento (mediante gara a terzi o società mista), la legge prevede un meccanismo premiale sul piano finanziario, ai fini del patto di stabilità, per quegli enti che procedono alla liberalizzazione dei servizi pubblici; l’art. 3, commi 1 e 4 del D.L. 138/2011, dispone infatti che l’adeguamento degli enti territoriali al principio secondo cui l'iniziativa e l'attività economica privata sono libere, imposto al comma 1 dell’art. 4, costituisce elemento di valutazione della “virtuosità” dei predetti enti ai sensi dell'art. 20, comma 3, del D.L. 98/2011, convertito in L. 111/2011, ai fini dell’adeguamento agli obiettivi di finanza pubblica.

[9]Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, Segnalazione al Governo e al Parlamento del 26 agosto 2011, AS864 - “Disegno di legge AS N. 2887 di conversione del decreto legge 13 agosto 2011, n. 138, recante “Ulteriori misure urgenti per la stabilizzazione finanziaria e lo sviluppo”.

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