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Liberalizzazione e "pubblicizzazione" dei servizi pubblici locali nel D.L. 1/2012
di Massimiliano Lombardo e Francesca Scura 13 febbraio 2012
Materia: servizi pubblici / disciplina

 

“Luci” ed “ombre” si alternano nel recente D.L. 1/2012 (cd “Decreto Liberalizzazioni”) che, all’art. 25, rubricato “Promozione della concorrenza nei servizi pubblici locali”, modifica ed integra l’art. 4 del D.L. 138/2011, convertito nella L. 148/2011, recante la disciplina dell’affidamento e gestione dei servizi pubblici locali di rilevanza economica.

Appaiono, per un verso, fedeli ai conclamati obiettivi di promozione della concorrenza e riduzione dei monopoli pubblici le nuove misure volte al potenziamento dei poteri dell’Antitrust in ordine alla cd. “delibera quadro” (la formulazione dell’art. 4, comma 3, cit. stabilisce – per i comuni con popolazione superiore ai 10.000 abitanti – la sottoposizione obbligatoria della verifica e del relativo schema, ivi previsti, al parere preventivo dell’AGCM); la riduzione della “soglia di legittimità” dell’affidamento in house da 900.000 a 200.000 euro annui (art. 4, comma 13, cit.); l’inclusione del servizio di trasporto ferroviario regionale nell’ambito applicativo della disciplina generale in esame[1]; il riferimento, quale contenuto obbligatorio del bando di gara e metro di valutazione dell'offerta, a parametri volti all’efficientamento e al conseguimento di “economie di gestione” (art. 4, comma 11, lett. b-bis, cit.); la previsione – in linea con quanto auspicato dall’AGCM (AS n. 901/2012) - di obblighi di trasparenza per i gestori in ordine ai dati necessari al fine della redazione dei bandi (art.  25, commi 4  e 5, D.L. 1/2012).

Incidono significativamente, inoltre, sulla gestione dei servizi pubblici locali a rilevanza economica nonché sulla “virtuosità” degli enti affidanti – sebbene non riguardino direttamente il testo dell’art. 4 cit. – le disposizioni contenute nell’art. 3-bis, che il Decreto Liberalizzazioni ha inserito nel D.L. 138/2011, relative all’organizzazione obbligatoria del servizio in ambiti o bacini territoriali ottimali e omogenei, individuati in riferimento a dimensioni comunque non inferiori a quella provinciale e tali da consentire economie di scala e di differenziazione idonee a massimizzare l'efficienza del servizio.  

Per altro verso, tuttavia, incombono come ombre sul disegno liberalizzatore perseguito dal legislatore - fino al punto da limitarne la coerenza complessiva -  le modifiche apportate dall’art. 25 del Decreto in esame alla disciplina del regime transitorio di cui al citato art. 4, comma 32, avente ad oggetto gli affidamenti in essere che non siano conformi alle nuove prescrizioni normative.

Come noto il legislatore, a distanza di pochi mesi dalla caducazione per via referendaria dell’art. 23-bis del D.L. 112/2008 s.m.i., ha riprodotto quasi integralmente la disciplina ivi contenuta, anche per quanto attiene al rigoroso regime transitorio ivi previsto. Si conferma, dunque, la previsione della cessazione ex lege degli affidamenti difformi rispetto al nuovo regime, senza possibilità di proroghe – se non “tecniche”[2] -  né necessità di provvedimento apposito da parte dell’ente affidante[3] (art. 4 cit., comma 32). Tale previsione può dirsi, anzi, rafforzata per effetto dell’introduzione, con l’art. 9 L. 183/2011, della cd. “clausola di prevalenza” della disciplina generale sulle norme settoriali incompatibili e del ricorso ai poteri sostitutivi ex art. 120, comma 2, della Costituzione in caso di inosservanza (art. 4 cit., commi 34 e 32-bis).

In tale contesto il Decreto Liberalizzazioni, all’art. 25, ha disposto:

1) l’ulteriore slittamento del termine di cessazione degli affidamenti “non conformi” dal 31.3.2012 al 31.12.2012 in via generale e residuale (art. 4, comma 32, lett. a), e dal 30.6.2012 al 31.3.2013 per gli affidamenti a società miste che non siano rispettosi dei requisiti della gara cd. “a doppio oggetto” (art. 4, comma 32, lett. b);

2) la previsione, ad integrazione del comma 32, lett. a) dell’art. 4 cit., secondo cui “In deroga, l'affidamento per la gestione «in house» può avvenire a favore di azienda risultante dalla integrazione operativa, perfezionata entro il termine del 31 dicembre 2012, di preesistenti gestioni dirette o in house tale da configurare un unico gestore del servizio a livello di ambito o di bacino territoriale ottimale ai sensi dell'articolo 3-bis.". In tal caso il contratto di servizio dovrà prevedere indicazioni puntuali riguardanti il livello di qualità del servizio reso, il prezzo medio per utente, il livello di investimenti programmati ed effettuati e obiettivi di performance (redditività, qualità, efficienza). La valutazione dell'efficacia e dell'efficienza della gestione e il rispetto delle condizioni previste nel contratto di servizio sono sottoposti a verifica annuale da parte dell'Autorità di regolazione di settore. La durata dell'affidamento in house all'azienda risultante dall'integrazione non può essere in ogni caso superiore a tre anni;” (art. 25, comma 1, n. 6, Decreto Liberalizzazioni).

Se pure la previsione di cui al punto 1) potrebbe apparire ragionevole, tenuto conto della particolare complessità del previsto procedimento di determinazione degli ambiti o bacini ottimali di cui sopra (da compiersi entro il 30.6.2012) e dell’adozione della citata “delibera quadro” da parte degli enti affidanti (da compiersi entro un anno dall’entrata in vigore della norma), desta particolare perplessità la previsione della deroga di cui al punto 2.

Invero, la disposizione in parola, che consentirebbe alle imprese preesistenti (titolari di gestioni dirette o in house) di beneficiare ex lege di un nuovo affidamento, avente durata massima pari a 3 anni, a condizione che le stesse si aggreghino, entro il 31.12.2012, in un’unica azienda operante come “gestore unico” nel bacino o ambito considerato:

- da un lato, fa riferimento ad un nuovo affidamento qualificato come «in house» che, nell’accezione strettamente formale del termine, potrebbe essere effettuato solo in favore di società a totale partecipazione pubblica aventi determinate caratteristiche (così come individuate dalla nota giurisprudenza comunitaria e nazionale in materia, nonché coerentemente allo stesso art. 4, comma 13, D.L. 138/2011 cit. ed agli orientamenti dell’AGCM)[4];

- dall’altro, estende espressamente il proprio ambito applicativo anche alle “gestioni dirette”.

La formulazione letterale della norma rischia di prolungare una asimmetrica restrizione del mercato, in contrasto con gli obiettivi pro-concorrenziali perseguiti dal Decreto.

Si rileva in primo luogo una possibile contraddizione sul piano della ratio. Difatti delle due l’una: o si ammette che volontà del legislatore sia quella di differenziare il trattamento delle (sole) “società” in house (in linea al più con il carattere derogatorio che caratterizza il regime di tali società) e allora non vi è motivo di includere nella previsione normativa anche le “gestioni dirette” (che altro sono rispetto all’in house); oppure, deve riconoscersi che la norma in questione intenda favorire le aggregazioni dimensionali tra imprese operanti in regime di esclusiva senza gara, ma con benefici limitati alle sole imprese pubbliche ([5]).

Così intesa, la disposizione risulterebbe però potenzialmente discriminatoria e per tale via contrastante con i principi “cardine” dell’ordinamento comunitario di indifferenza del regime proprietario e di parità di trattamento tra le imprese pubbliche e quelle private[6].

Senza dire che la norma, così intesa, risulterebbe non operante in quei contesti territoriali caratterizzati dalla compresenza, all’interno del medesimo bacino, di operatori pubblici e privati, tutti in regime di affidamento diretto.

Invero, se lo scopo ultimo della norma è quello di incrementare il volume dimensionale delle imprese che attualmente gestiscono servizi in affidamento diretto, indipendentemente dalla composizione azionaria, contestualmente ad un ampliamento dei bacini territoriali omogenei, una discriminazione in base alla proprietà del capitale può apparire non del tutto giustificata.

Una possibile chiave interpretativa potrebbe essere quella di attribuire all’espressione “gestioni dirette” il significato suo proprio di diritto amministrativo generale, riferita, cioè, alle gestioni “in economia” dell’ente locale (in tal caso, non vi sarebbero soggetti “terzi”, in concorrenza tra loro, la cui parità andrebbe garantita): si ha motivo, tuttavia, di dubitare che questa limitazione sia coerente con la effettiva ratio legis, in disparte ogni considerazione circa le difficoltà operative e procedimentali di un’aggregazione tra gestioni “in economia” (facenti capo direttamente al bilancio ed al patrimonio dell’ente locale) e società in house al fine della costituzione di un’unica “azienda”.

Appare invece ragionevole propendere per la generale estensione della previsione derogatoria in questione nei confronti di tutti gli operatori in regime di affidamento diretto, a prescindere dalla proprietà (pubblica o privata) del capitale[7].

Al riguardo, si evidenzia che, in materia di TPL, il Regolamento (CE) 1370/2007 definisce l’«aggiudicazione diretta» in senso ampio, quale “aggiudicazione di un contratto di servizio pubblico a un determinato operatore di servizio pubblico senza che sia previamente esperita una procedura di gara” (art. 2, lett. h, “Definizioni”); ed altresì definisce l’«operatore di servizio pubblico» come “un’impresa o un gruppo di imprese di diritto pubblico o privato che fornisce servizi di trasporto pubblico di passeggeri o qualsiasi ente pubblico che presta servizi di trasporto pubblico di passeggeri” (art. 2, lett. d).

Si potrebbe quindi sostenere che, nell’ambito delle predette “gestioni dirette”, siano ricompresi tutti gli operatori di servizio pubblico (a capitale pubblico o privato) in regime di affidamento diretto[8]. La circostanza, tuttavia, che il beneficio dell’estensione dell’affidamento in caso di aggregazione sia formalmente qualificato dalla norma come  in house”, e non già – come qui proposto – in “aggiudicazione diretta” (secondo la terminologia comunitaria adottata anche dal Regolamento 1370/2007) si collega all’opportunità di una modifica chiarificatrice del testo vigente dell’art. 25, comma 1, n. 6 del Decreto Liberalizzazioni, in maniera tale da sostituire la locuzione “l’affidamento per la gestione “in house”” con la locuzione “l’affidamento diretto”; sostituire la locuzione “preesistenti gestioni dirette o in house” con la locuzione “preesistenti gestioni in affidamento diretto o in house”; espungere la locuzione “in house” dall’ultimo periodo del comma in esame.

La considerazione secondo cui, in tal modo, si potrebbe configurare un’ipotesi di affidamento diretto (non in house) difforme da quanto disposto dall’art. 4 (in base al quale l’unico affidamento diretto ammissibile – e sempre in via di deroga – appare essere quello in house) potrebbe essere agevolmente superata dalla necessità di coerenza con la ratio legis (creazione di operatori aventi dimensione di bacino mediante aggregazione di gestioni preesistenti) oltre che di evitare discriminazioni ingiustificate tra gli operatori nella fase transitoria (l’art. 25, comma 1, n. 6, cit., come detto, tratta delle modifiche da apportare al comma 32 dell’art. 4 cit., che riguarda il periodo transitorio – non già la fase “a regime” - ed è in relazione a tale fase transitoria che esso prevede la possibilità di aggregazione e di affidamento ex novo) [9].

L’incentivo all’aggregazione, infatti, come previsto dall’art. 25, comma 1, n. 6, cit., presuppone necessariamente che le imprese si aggreghino in maniera “tale da configurare un unico gestore del servizio a livello di ambito o di bacino territoriale ottimale” ai sensi dell’art. 3-bis D.L. 138/2011 s.m.i..

La compresenza di operatori privati, in determinate specificità territoriali, potrebbe costituire un ostacolo alla realizzazione del disegno normativo, che mediante il chiarimento di cui sopra sarebbe rimosso.

Del resto, la determinazione degli ambiti o bacini dovrebbe essere funzionale prioritariamente ad esigenze di efficienza e creazione di economie di scala, perseguibile (nel disegno normativo in commento) mediante l’aggregazione dei preesistenti gestori entro quei perimetri in cui gli stessi possano candidarsi a concorrere per il ruolo di “gestori unici”[10].  

La spinta all’aggregazione dei gestori deve essere chiaramente volta alla maggiore efficienza, grazie all’esistenza di economie di scala che, all’aumentare della dimensione aziendale, determinino una riduzione dei costi unitari, nonché alla maggiore competitività delle aziende coinvolte, essenziale in un contesto concorrenziale caratterizzato dalla presenza di grandi player internazionali [11].

Offre spunti interessanti, al riguardo, quanto osservato – con riferimento alla L. Reg. Lazio n. 31/2008 (Finanziaria 2009) dall’AGCM, secondo cui “l’individuazione concreta della dimensione e delle caratteristiche di uno o più lotti presuppone l'analisi delle condizioni proprie delle reti di trasporto pubblico locale nei diversi ambiti territoriali, nonché la valutazione, da parte dell’amministrazione locale, degli elementi tecnici ed economici concernenti la produzione dei servizi, con particolare riguardo alle economie di scala e di gamma, e alle eventuali esigenze di coordinamento fra i diversi gestori dei servizi, che assumono speciale rilievo nel caso di un affidamento che ha ad oggetto l’intero territorio regionale[12].

Il chiarimento normativo sopra prospettato restituirebbe coerenza sistematica al disegno di liberalizzazione perseguito dal D.L. 1/2012, onde consentire un processo aggregazione ed integrazione reale tra tutti gli operatori economici (pubblici e privati) presenti nei singoli territori, che tenga conto delle specificità regionali, evitando il rischio di un consolidamento dei monopoli esistenti[13] e creando le graduali condizioni di apertura ad un mercato dei servizi pubblici locali contendibile anche da imprese nazionali e locali di dimensioni adeguate ai bacini che si andranno a creare.

 

 

 

 



[1] Con riguardo al trasporto pubblico regionale ferroviario, tuttavia, si prevede un’ampia “clausola di salvezza”: “sono fatti salvi, fino alla scadenza naturale dei primi sei anni di validità, gli affidamenti e i contratti di servizio già deliberati o sottoscritti in conformità all'articolo 5 del regolamento CE n. 1370/2007 del Parlamento Europeo e del Consiglio, del 23 ottobre 2007 ed in conformità all'articolo 61 della legge 23 luglio 2009, n. 99.” (art. 4, comma 34, cit., come modificato dal D.L. 1/2012).

[2] Con il comma 32-ter dell’art. 4, comma introdotto dall’art. 25 del D.L. 1/2012, trova espresso e specifico riconoscimento normativo la prassi della prosecuzione dell’affidamento fondata sulla esigenza di garantire “la necessaria continuità nell'erogazione dei servizi pubblici locali di rilevanza economica”, “il rispetto degli obblighi di servizio pubblico e degli standard minimi del servizio pubblico locale” a prescindere dall’esistenza di specifiche previsioni contrattuali o legislative in merito nonché dal “titolo” in base al quale si gestisce il servizio. Tale possibilità non impedisce la cessazione automatica degli affidamenti di cui al comma 32 dell’art. 4 cit. ma può di fatto prolungarne la durata “anche oltre le scadenze ivi previste” e “fino al subentro del nuovo gestore e comunque, in caso di liberalizzazione del settore, fino all'apertura del mercato alla concorrenza”. Eccessivamente rigido pare, tuttavia, il limite secondo cui la prosecuzione de qua deve avvenire “alle condizioni di cui ai rispettivi contratti di servizio e dagli altri atti che regolano il rapporto…. Nessun indennizzo o compenso aggiuntivo può essere ad alcun titolo preteso in relazione a quanto previsto nel presente articolo”, se inteso nel senso che nessuna revisione del corrispettivo potrebbe essere ammessa, anche al mutare delle condizioni di erogazione del servizio.

[3] Di fatto, tuttavia, all’ente affidante si chiede di agire, quanto meno in via di mera presa d’atto dell’avvenuta cessazione degli affidamenti, posto che il successivo comma 32-bis “sanziona” l’inerzia dell’ente medesimo tramite la previsione dell’esercizio di poteri sostitutivi da parte del Prefetto. Questione a parte è poi quella se il ricorso ai predetti poteri sostitutivi sia in linea con i presupposti di legittimità  previsti al riguardo dall’art. 120 della Costituzione.

[4] Nel caso delle concessioni di servizi di trasporto pubblico locale, il Regolamento CE 1370/2007 (art. 5, par. 2) ammette che l’affidamento in house possa avvenire anche in favore di società miste pubblico-private. Tale normativa settoriale è, tuttavia, “recessiva” – poiché incompatibile - rispetto alla “prevalente” normativa nazionale di cui all’art. 4 cit., che, al comma 13, ammette l’in house solo in favore di società al 100% pubbliche (testualmente “capitale interamente pubblico”). Tale “prevalenza” opera in virtù dell’espressa clausola nuovamente introdotta dal legislatore italiano (v. art. 4, comma 34, come modificato dall’art. 9  L. 183/2011).

[5] Non tutte le imprese pubbliche affidatarie dirette possiedono poi i requisiti formali per la qualificazione “in house”, nell’accezione rigorosa richiesta dalla normativa e giurisprudenza comunitaria. Cfr., sul punto, AVCP, Deliberazione n. 16, Adunanza del 24 Marzo 2010, Procedimento volto ad accertare l'osservanza della normativa per l'affidamento del servizio idrico integrato. Indagine relativa alle gestioni affidate a società interamente pubbliche.

[6] Sul punto, si vedano:

- il Regolamento CE 1370/2007 cit. (Considerando n. 20) nel senso che “Quando l’autorità pubblica decide di affidare a un terzo un servizio d’interesse generale, la scelta dell’operatore di servizio pubblico deve avvenire nell’osservanza della normativa comunitaria in tema di appalti pubblici e di concessioni, quale risulta dagli articoli da 43 a 49 del Trattato, nonché nell’osservanza dei principi di trasparenza e di parità di trattamento”;

- la Direttiva 80/723/CEE della Commissione del 25 giugno 1980, relativa alla trasparenza delle relazioni finanziarie fra gli Stati Membri e le loro imprese pubbliche ai sensi della quale “poiché il trattato CEE lascia del tutto impregiudicato il regime di proprietà negli Stati membri, deve essere assicurata la parità di trattamento tra le imprese pubbliche e le imprese private;

- la Segnalazione AGCM al Governo e al Parlamento, del 26 agosto 2011, AS864, “Disegno di legge AS N. 2887 di conversione del decreto legge 13 agosto 2011, n. 138, recante “Ulteriori misure urgenti per la stabilizzazione finanziaria e lo sviluppo, in cui “l’Autorità sottolinea l’opportunità di accompagnare il processo di riforma del settore dei servizi pubblici locali con misure di garanzia dell’efficienza e della qualità della gestione del servizio, e ciò indipendentemente dalla natura pubblica o privata del gestore”.

[7] Soluzione ammissibile in linea con la natura eccezionale e transitoria della norma, e la sua finalità orientata essenzialmente alla creazione, mediante aggregazione, di operatori “di bacino”; dal punto di vista comunitario, la soluzione non è da ritenersi avversata in linea di principio, considerato il favore manifestato in ambito UE ai cd. PPP (Partenariati Pubblico Privato).

[8] Del pari, l’art. 4 D.L. 138/2011 s.m.i., al comma 33, in tema di divieto di attività extra moenia, fa riferimento agli “affidatari diretti” in senso ampio, comprendendovi anche gli affidamenti diretti in favore di soggetti privati.

[9]In varie leggi regionali si ravvisa un deciso favor verso l’aggregazione tra operatori nel settore del TPL. Per un precedente in tal senso, ad esempio, cfr. L. reg. 18/2006 della regione Calabria ai sensi della quale “La ulteriore proroga dell'affidamento al 31 dicembre 2008 è subordinata al soddisfacimento entro il 2006 di una delle seguenti condizioni:  (…)

b) si sia dato luogo ad un nuovo soggetto societario mediante fusione di almeno due società affidatarie nella Regione di servizi di trasporto pubblico locale ovvero alla costituzione di una società consortile, di cui siano soci almeno due società affidatarie di servizi di trasporto pubblico locale nella Regione ovvero in bacini di traffico uniti da contiguità territoriale. Il nuovo soggetto deve risultare affidatario di una maggiore quantità di servizi di trasporto pubblico locale secondo un piano industriale unitario, da sottoporre all'approvazione regionale, fondato sui seguenti parametri di congruità e obiettivi di razionalizzazione:

1. raggiungimento della maggiore integrazione possibile tra le diverse modalità di trasporto, conseguendo più elevati risultati di efficacia e di efficienza corrispondenti alle esigenze della collettività;

2. eliminazione della frammentazione aziendale con riduzione del numero dei vettori e costituzione di soggetti a maggiore capacità produttiva secondo un programma di esercizio che preveda una produzione di almeno 2.000.000 bus*km annui. L'obiettivo del limite di produzione minima non si applica per i programmi di esercizio prevalentemente di tipologia urbana;

3. salvaguardia dei livelli occupazionali rinvenienti dai servizi preesistenti e garanzia sull'applicazione della contrattazione collettiva nazionale degli autoferrotranvieri di primo e secondo livello ove esistenti e sul riconoscimento dello stato giuridico normativo di cui al R.D. 8 gennaio 1931, n. 148 e del codice civile;”.

[10] Con riguardo, ad esempio, al settore del TPL, la disposizione in commento potrebbe avere effetti paralizzanti di forte chiusura del mercato per i soggetti privati in quelle regioni (si pensi al Lazio) caratterizzate dalla prevalenza di forti monopoli pubblici. In altre regioni (si pensi alla Calabria, dove non sussistono affidamenti di TPL in house e le società pubbliche non sono tali da poter configurarsi come “gestore unico” di ambito o bacino), la norma resterebbe praticamente priva di applicazione ove interpretata come riguardante esclusivamente le suddette società pubbliche o in house. 

[11] Cfr. Gragnani S., Gare regionali e gestori unici: una scelta efficiente? – Presentazione dei risultati, 25.5.2011.

[12] Cfr. AGCM, segnalazione del 27 aprile 2009AS519, “LEGGE FINANZIARIA REGIONALE DEL LAZIO – SERVIZIO DI TRASPORTO PUBBLICO LOCALE SU STRADA”, in cui tra l’altro l’AGCM evidenzia che “la decisione di procedere alla individuazione di un lotto unico non appare neutra rispetto alle dinamiche competitive che possono presentarsi sul mercato, in quanto la scelta del numero dei lotti in base al quale suddividere il servizio e le caratteristiche degli stessi possono avere rilevanti implicazioni concorrenziali sulla struttura del mercato interessato da un eventuale bando di gara, in termini di numerosità e caratteristiche degli operatori.

(…)

Pertanto, l’Autorità auspica che la decisione di individuare un unico lotto per l’affidamento del servizio di TPL in ambito regionale venga effettuata solo dopo aver attentamente verificato che i vantaggi derivanti da tale configurazione del servizio più che compensino i costi concorrenziali derivanti dall’impatto negativo di tale previsione sul numero dei potenziali affidatari del servizio stesso.”.

La tendenza a favorire l’aggregazione attraverso la creazione di gestori unici, selezionati tramite gare da svolgersi su grandi lotti, è già peraltro presente nel modello toscano di TPL che, con la L. n. 65/2010 (Legge Finanziaria 2011, artt. 82 ss.), ha identificato l’ambito territoriale ottimale con l’intero territorio regionale, in vista della gara unica comprendente l’intera rete dei servizi di trasporto pubblico, regionale e locale.

[13] Si pensi ai monopoli esistenti nel campo dell’igiene urbana o nel settore del TPL, dove le aziende pubbliche affidatarie senza gara coprono circa l’80% del mercato nazionale.

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