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Il testo unico in materia di società a partecipazione pubblica e gli emendamenti di Regioni, Upi e Anci
di Roberto Camporesi 20 maggio 2016
Materia: società / partecipazione pubblica

 L’esame del testo unico da parte delle Regioni, Upi e Anci consente di approfondire alcuni argomenti.

Va precisato che le osservazioni e gli emendamenti avanzati dalle rispettive organizzazioni associative sono contenute in documenti diversi fra loro, ma sui punti che di seguito verranno esaminati, la posizione è identica.

Procedendo seguendo l’ordine cronologico degli articoli si rileva quanto segue.

Sul “tipo” di società detenibili viene richiesto di prevedere anche i consorzi nel senso delle società consortili ex art. 2615 ter del codice civile.

Infatti dalla lettura del testo emerge una esclusione: l’art. 1 alla lett. j) qualifica le “società” come gli organismi di cui al titolo V del libro V del codice civile. E l’art. 3 rubricato “Tipi di società in cui è ammessa la partecipazione pubblica” dispone “Le amministrazioni pubbliche possono partecipare esclusivamente a società costituite in forma di società per azioni. Le società consortili sono numerosissime e rappresentano la naturale evoluzione della più importante forma aggregativa: i consorzi fra enti pubblici.”

Viene affacciato un tema che non è chiarito dal testo di legge. Il regime di governance e di controllo delle società è stabilito e applicato indiscriminatamente alle società che svolgono la propria attività sia in affidamento diretto che a seguito di gara. Il caso emblematico sono le società c.d. miste pubbliche – private, che hanno scelto il loro socio con gara a c.d. doppio oggetto e che sono parificate alle società concessionarie vincitori di gara. Non pare adeguato e proporzionato applicare a queste società lo stesso regime delle società in house, che sono attratte per derivazione ed in deroga al codice civile a disposizioni di legge di rango pubblicistico. Ciò potrebbe contrastare proprio con la scelta di fondo operata nel testo unico rappresentata dalla disposizione di cui all’art. 1 (rubricato Oggetto) che prevede che:

Le disposizioni del presente decreto hanno a oggetto la costituzione di società da parte di amministrazioni pubbliche, nonché l’acquisto, il mantenimento e la gestione di partecipazioni da parte di tali amministrazioni, in società a totale o parziale partecipazione pubblica, diretta o indiretta.

Le disposizioni contenute nel presente decreto sono applicate avendo riguardo all’efficiente gestione delle partecipazioni pubbliche, alla tutela e promozione della concorrenza e del mercato, nonché alla razionalizzazione e riduzione della spesa pubblica.

Per tutto quanto non derogato dalle disposizioni del presente decreto, si applicano alle società a partecipazione pubblica le norme sulle società contenute nel codice civile e in leggi speciali.”.

In merito al contenuto dell’oggetto ammesso per società detenibili viene richiesto:

-          di meglio precisare che rientra anche la realizzazione e gestione delle reti, al fine di rendere omogeneo la disposizione con quanto contenuto nell’altro testo unico sui servizi pubblici di interesse economico generale che ripropone un’articola disciplina delle società di capitali, quale forma associata per la detenzione della proprietà di essential facilties. Viene così riproposto, con alcune differenziazioni, la disciplina già prevista dall'art. 113 comma 13 del Tul che la Corte Costituzionale con la sentenza n. 320/2011 aveva ritenuto abrogato;

-          al comma 2 alla lettera d) dell’art. 4 (rubricato “Finalità perseguibili mediante l’acquisizione e la partecipazione delle società pubbliche”)  dopo le parole “gli enti pubblici partecipanti” aggiungere “ovvero per lo svolgimento esternalizzato di funzioni amministrative di loro competenza e pertanto il testo diverrebbe: autoproduzione di beni o servizi strumentali all’ente o agli enti pubblici partecipanti, nel rispetto delle condizioni stabilite dalle direttive europee in materia di contratti pubblici e della relativa disciplina nazionale di recepimento ovvero per lo svolgimento esternalizzato di funzioni amministrative di loro competenza. Si avrebbe pertanto una qualificazione già oggi presente e riconducibile alle c.d società strumentali.

In merito all’ampiezza dell’oggetto sociale delle società ammesse, si osserva che all’art. 4 comma 4 venga eliminata la locuzione “esclusivamente” e che sia specificato che le società possono gestire contemporaneamente le attività ammesse. Si avrebbe pertanto la nuova versione: “Le società a controllo pubblico titolari di affidamenti diretti di contratti pubblici hanno come oggetto sociale una o più delle attività di cui alle lettere a), b), d) ed e) dell’elenco di cui al comma 2. Salvo quanto previsto al successivo articolo 16, tali società operano in via prevalente con gli enti costituenti o partecipanti o affidanti.

Sempre in relazione all’oggetto sociale si rileva che l’art. 16 (rubricato “Società a controllo pubblico titolari di affidamenti diretti di contratti pubblici) dispone:

4. Gli statuti delle società di cui al presente articolo devono prevedere che almeno l’ottanta per cento del loro fatturato sia effettuato nello svolgimento dei compiti a esse affidati dall’ente pubblico o dagli enti pubblici soci e che la produzione ulteriore rispetto al suddetto limite di fatturato sia consentita solo a condizione che la stessa permetta di conseguire economie di scala o altri recuperi di efficienza sul complesso dell’attività principale della società.

5. Il mancato rispetto del limite quantitativo di cui al comma 4 costituisce grave irregolarità ai sensi dell’articolo 2409 (vedi nota 20) del codice civile e dell’articolo 15 del presente decreto.

6. Nel caso di cui al comma 5, la società può sanare l’irregolarità se, entro tre mesi dalla data in cui la stessa si è manifestata, rinunci a una parte dei rapporti di fornitura con soggetti terzi, sciogliendo i relativi rapporti contrattuali, ovvero rinunci agli affidamenti diretti da parte dell’ente o degli enti pubblici soci, sciogliendo i relativi rapporti. In quest’ultimo caso le attività precedentemente affidate alla società controllata devono essere riaffidate, dall’ente o dagli enti pubblici soci, mediante procedure competitive regolate dalla disciplina in materia di contratti pubblici, entro i sei mesi successivi allo scioglimento del rapporto contrattuale. Nelle more dello svolgimento delle procedure di gara i beni o servizi continueranno ad essere forniti dalla stessa società controllata.

7. Nel caso di rinuncia agli affidamenti diretti, di cui al comma 6, la società può continuare la propria attività se e in quanto sussistano i requisiti di cui all’articolo 4. A seguito della cessazione degli affidamenti diretti, perdono efficacia le clausole statutarie e i patti parasociali finalizzati a realizzare i requisiti del controllo analogo, ai sensi del comma 2 del presente articolo.”

Tale previsione rappresenta una limitazione all’esercizio di attività al di fuori dell’attività prevalente che, come noto, rappresenta una caratteristica fondamentale dell’”in house”. Infatti la direttiva comunitaria 2014/23/UE stabilisce appunto che l’attività prevalente debba essere rivolta verso gli enti soci affidanti in house ma non pone alcun limite verso il restante 20%.  La questione attiene, al di là di valutazioni di opportunità, se il legislatore nazionale può rendere più restrittivo il regime in house providing rispetto l’ambito normativo comunitario. Per le associazioni delle Regioni, delle Province e dei Comuni il legislatore italiano non ha questo poteri, così come ritiene anche la Corte Costituzionale con la sentenza n. 199/2012.

Rimanendo all’esame delle società detenibili o meno si rileva una precisa contestazione sulla scelta di introdurre un limite generalizzato in misura pari al milione di euro misurato sul fatturato medio dell’ultimo triennio. In primo luogo si osserva che nella realtà italiana i limiti quantitativi generalizzati su tutto il territorio possono creare delle discriminazioni. In secondo luogo viene proposto una deroga per territori svantaggiati ed in terzo luogo si richiede, in ogni caso, di ridurre l’entità a 500 mila euro.

Passando alle norme del testo unico più a carattere procedimentale si lamenta che per l’acquisizione e costituzione di società di capitali occorre rispettare la procedura di cui all’art. 5 (Oneri di motivazione analitica e obblighi di dismissione) che richiede:

Prima dell’adozione, l’amministrazione che costituisce la società o acquisisce la partecipazione diretta o indiretta invialo schema di atto deliberativo alla sezione della Corte dei conti competente ai sensi del comma 4. La Corte dei conti può formulare rilievi sul rispetto delle disposizioni di cui al comma 1 nonché sulla coerenza con il piano di razionalizzazione previsto dall’articolo 20, ove adottato, entro il termine perentorio di trenta giorni dalla ricezione dell’atto deliberativo. La Sezione può chiedere, per una sola volta, chiarimenti all’amministrazione pubblica interessata, con conseguente interruzione del suddetto termine. L’atto deliberativo deve essere motivato con specifico riferimento ai rilievi formulati dalla Corte dei conti.

Ai fini di quanto previsto dal comma 3, per gli atti delle amministrazioni dello Stato è competente l’ufficio di controllo di legittimità sugli atti; per gli atti delle regioni e degli enti locali, nonché dei loro enti strumentali, delle università o delle altre istituzioni pubbliche di autonomia aventi sede nella regione, è competente la Sezione regionale di controllo; per gli atti degli enti assoggettati a controllo della Corte di conti ai sensi della legge 21 marzo 1958, n. 259, è competente la Sezione del controllo sugli enti medesimi.

Successivamente l’amministrazione invia l’atto deliberativo all’Autorità garante della concorrenza e del mercato, che può utilizzare i poteri di cui all’articolo 21-bis della legge 10 ottobre 1990, n. 287[1].”

In particolare si ravvisa che non è chiara la natura dell’intervento preventivo della Corte dei Conti che appare del tutto al di fuori dei compiti del giudice contabile, che verrebbe ad ingerirsi preventivamente di scelte di carattere gestionale e quindi se ne assumerebbe la relativa responsabilità, inibendo conseguentemente la successiva propria capacità di giudizio in sede giurisdizionale. Inoltre potrebbe dare luogo anche ad un conflitto fra giudice contabile, che formula rilievi preventivi, con il giudice amministrativo chiamato ad esaminare la legittimità dell’atto successivamente. Del tutto condivisibile ricondurre la disposizione ad un obbligo di trasmissione della delibera alla Corte dei Conti: obbligo già previsto dall’art. 3 comma 28 delle legge 244/2007 (legge finanziaria 2008). In ogni caso Anci rileva che la scelta dell’in house non è soggetto a sindacato di merito e quindi non è ravvisabile un intervento preventivo del giudice. La questione della scelta dell’in house in Italia sembra ormai definita su due binari:

-          da un lato non si tratta di una soluzione eccezionale rispetto le altre modalità di produzione di servizi o attività da parte della pubblica amministrazione (cfr per tutti C.d.S  sez. V sent. 1034/2916;

-          dall’altro lato appare una scelta che, afferendo a valutazione politico – amministrative non è sindacabile, nel merito riconducibili a sole valutazioni economiche. In tal senso si segnala la recente sentenza del Tar Liguria, Sez. II, 8/2/2016 n. 120  la cui massima si riporta di seguito: “ la scelta per il modulo di gestione della partecipazione alla società in house è stata giustificata dall'amministrazione comunale non tanto con la convenienza economica in rapporto ai maggiori costi dell'attuale gestione, quanto con la decisiva circostanza che, qualora il comune avesse bandito una procedura ad evidenza pubblica o istituito una propria società mista con socio operativo, tale scelta si sarebbe posta in contrasto con l'approccio unitario prefigurato dalla normativa statale e regionale, che, per i servizi pubblici locali a rete di rilevanza economica, richiede la perimetrazione, da parte delle regioni, di ambiti o bacini territoriali ottimali e omogenei, di dimensioni di norma non inferiori almeno a quella del territorio provinciale, tali da consentire economie di scala e di differenziazione idonee a massimizzare l'efficienza dei servizi, nonché l'istituzione di corrispondenti enti di governo cui demandare le funzioni di organizzazione dei servizi, compreso quello dei rifiuti, anche mediante la scelta della forma di gestione (così l'art. 3-bis del D.L. 13.8.2011, n. 138, conv. in l. 14.9.2011, n. 148; cfr., per la legislazione regionale, la L.R. 24.2.2014, n. 1). In tal senso, l'atto di acquisto di quote della società sottoscritto anche dai comuni contermini in vista dell'affidamento in house alla società stessa del servizio di igiene ambientale, va proprio nel senso auspicato dalla normativa statale e regionale, che, nell'ambito della prossima attuazione degli ambiti territoriali ottimali, ha previsto addirittura un'apposita salvaguardia per le scelte di gestione omogenea fra più comuni già operative (così l'art. 14 c. 6 delle citata L.R. n. 1/2014). Pertanto, le motivazioni poste dal comune - ex art. 34 c. 20 del D.L. 18.10.2012, n. 179 - a fondamento della scelta di affidare alla società in house il servizio di raccolta e trasporto dei rifiuti sono congrue e sufficienti, e non manifestano profili di manifesta illogicità od arbitrarietà.

In tema di governace si osserva che:

-          in tema di trasferimento per vendita delle azioni la disciplina contenuta nell’art. 10 andrebbe precisata prevedendo espressamente il diritto di prelazione al socio privato derogando alla procedura di evidenza pubblica e così superando anche l’attuale disposizione normativa vigente contenuta nell’art. 1 comma 268 bis lett. b della legge 147/2013 e s.m.i che recita:” b) all'alienazione, a condizione che questa avvenga con procedura a evidenza pubblica deliberata non oltre dodici mesi ovvero sia in corso alla data di entrata in vigore della presente disposizione, delle partecipazioni detenute alla data di entrata in vigore della presente disposizione e alla contestuale assegnazione del servizio per cinque anni a decorrere dal 1º gennaio 2014. In caso di società mista, al socio privato detentore di una quota di almeno il 30 per cento alla data di entrata in vigore della presente disposizione deve essere riconosciuto il diritto di prelazione. Ai fini delle imposte sui redditi e dell'imposta regionale sulle attività produttive, le plusvalenze non concorrono alla formazione del reddito e del valore della produzione netta e le minusvalenze sono deducibili nell'esercizio in cui sono realizzate e nei quattro successivi.

-          Il regime transitorio, per le società a controllo pubblico, per la gestione del personale, contenuta nell’art. 26, e che prevede un blocco delle assunzioni fino al 2018 per i contratti a tempo indeterminato, con possibilità di scelta dalla lista degli esuberi dichiarati ai fini della presente norma, andrebbe rivisto imponendo tale procedura vincolata solo per le società in perdita.

-          La nuova disciplina dell’organo amministrativo delle società a controllo pubblico che, di norma dovrebbe essere monocratico, dovrebbe essere applicata al momento del rinnovo degli organi, superando le difficoltà già riscontrate per applicazioni in vigenza degli organi medesimi.

  

di Roberto Camporesi – senior partner Studio Commerciale Associato Boldrini

 



[1] LEGGE 10 ottobre 1990, n. 287 Norme per la tutela della concorrenza e del mercato. Art. 21-bis Poteri dell'Autorità' Garante della concorrenza  e  del  mercato sugli  atti  amministrativi  che  determinano distorsioni  della concorrenza: “1. L'Autorità'  garante  della  concorrenza  e  del  mercato  è  legittimata ad agire  in  giudizio  contro  gli  atti  amministrativi generali,   i   regolamenti   ed   i  provvedimenti   di   qualsiasi amministrazione  pubblica  che  violino  le  norme  a  tutela   della concorrenza e del mercato.   2. L'Autorità garante della concorrenza e del mercato, se  ritiene che una pubblica amministrazione abbia emanato un atto in  violazione delle norme a tutela della concorrenza e del mercato,  emette,  entro sessanta giorni, un parere motivato, nel quale indica gli specifici profili delle violazioni riscontrate. Se la pubblica  amministrazione non si conforma nei sessanta giorni successivi alla comunicazione del parere,  l'Autorità può  presentare,  tramite  l'Avvocatura  dello Stato, il ricorso, entro i successivi trenta giorni.  3. Ai giudizi instaurati  ai  sensi  del  comma  1  si  applica  la disciplina di cui al Libro IV, Titolo V, del  decreto  legislativo  2 luglio 2010, n. 104."

 

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